L’ISLANDESE DI FRONTE ALLA NATURA In un angolo remoto della Terra, un viaggiatore islandese in fuga dalla Natura si trova davanti a una donna enorme che comincia a interrogarlo, incuriosita nel vedere un uomo in quei luoghi inospitali. L’Islandese scopre che quella donna è la Natura e le racconta la propria vita. L’obiettivo dell’Islandese è sempre stato quello di vivere «una vita tranquilla» tenendosi «lontano dai patimenti».. Dopo aver capito che un simile desiderio è irrealizzabile, ha deciso di fuggire dalla società alla ricerca di un altro luogo favorevole alla vita. Ma la Natura combatte costantemente contro l’uomo: il clima, le catastrofi naturali, gli animali feroci rendono invivibili tutte quelle zone della Terra che non sono già abitate. La Natura dimostra in altri modi la sua avversità verso l’uomo. Prima di tutto, lo ha dotato di un desiderio costante di raggiungere il piacere: ma questo si rivelerà nociva, perché il piacere diminuisce le forze e danneggia il corpo. Poi, infligge anche all’uomo le malattie e non vengono compensati da periodi di grande piacere. Bisogna concludere che la vita stessa è un male. UN «CIRCUITO DI PRODUZIONE E DISTRUZIONE» La Natura rivela di essere indifferente alla specie umana: siccome l’uomo non ha alcun posto privilegiato nel cosmo, lei non si rende conto di quando gli giovi o lo danneggi. La vita serve soltanto a riprodurre la vita: è un «circuito di produzione e distruzione» senza altro scopo che il mantenimento di se stesso. L’Islandese all’ora chiede a chi possa giovare questo circolo di sofferenza. La domanda è destinata a rimanere senza risposta, il racconto termina qui: secondo alcuni, il viaggiatore venne sbranato da due leoni; secondo altri fu sommerso da una tempesta di sabbia e si tramutò in mummia. L’UOMO PRIMITIVO E LO STATO DI NATURA Nella prima fase del pensiero leopardiano la Natura viene considerata come una madre benevola: quando gli uomini sono nello stato di natura, cioè in quello stato primitivo, non civilizzato ,possono raggiungere una condizione di felicità. Ciò accade perché la Natura li ha dotati di una capacità che ci ha predisposti a nutrire illusioni. Le illusioni sono quegli ideali per i quali gli uomini possono compiere azioni eroiche e virtuose, anche a rischio della propria vita: la gloria, l’onore, la virtù, la patria, il sapere. Le illusioni vengono chiamate da Leopardi anche fantasmi, e cioè mere apparenze: e il nome stesso indica che esse non hanno una consistenza oggettiva, ma solo soggettiva, ovvero che sono soltanto proiezioni di idee e desideri individuali. In altre parole: siccome tutti gli uomini credono alla gloria, allora la gloria ha una sua reale presenza nel mondo. Attraverso le illusioni gli uomini raggiungono il piacere: «Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni» (Zibaldone, pensiero non datato). L’UOMO CIVILIZZATO E LA RAGIONE Nella fase giovanile del pensiero di Leopardi la ragione e la scienza hanno un ruolo negativo, perché grazie alle loro conquiste l’uomo abbandona il suo stato primitivo, ingenuamente naturale: Leopardi distingue dunque due stadi di utilizzo della ragione: il primo stadio è quello dell’uomo allo stato di natura, dell’uomo in quanto animale. Lo stadio successivo è determinato da un uso più intenso, più sistematico della ragione, che non accetta più le idee “naturali” ma le indaga, le sottopone a esame e le trova infondate. Questo secondo stadio distrugge le illusioni, ed è perciò nocivo alla vita dell’uomo. In un altro passo dello Zibaldone, Leopardi dice esplicitamente che la ragione distrugge e soffoca la capacità di immaginare perché, attraverso l’indagine scientifica, accerta la verità: Gli uomini civilizzati, dunque, conservano solo nella loro fanciullezza quella potente capacità immaginativa che è propria dell’uomo allo stato primitivo. Nonostante ciò, anche l’uomo civilizzato può conservare la speranza di nutrire LA NATURA MATRIGNA Nei primi anni Venti dell’Ottocento le idee leopardiane iniziano a cambiare. Il Dialogo della Natura e di un Islandese, datato maggio 1824, spiega la nuova concezione della Natura, che non è più madre pietosa bensì matrigna. È una madre ostile che mette al mondo gli uomini e le altre specie viventi con il solo scopo di propagare la vita. Questo meccanismo che si autoalimenta non ha né uno scopo né un significato: esso esiste e basta. La ragione è lo strumento che fa conoscere queste tristi verità all’uomo; ma è anche la facoltà che consente di non nutrire speranze insensate o illusioni sciocche. LA RICERCA DEL PIACERE E IL «VIVER QUIETO» Nel Dialogo, accanto al tema principale ne troviamo altri due a esso collegati. Il primo è il tema del piacere. , gli uomini cercano in continuazione la felicità e i piaceri: ma questa ricerca non raggiunge mai un risultato soddisfacente, anche perché i piaceri provocano la decadenza fisica dell’uomo. Il secondo tema è l’ozio. L’assenza di occupazioni e di fatiche fisiche non dà tranquillità: il «viver quieto» è differente dal «vivere ozioso». Il problema dell’ozio si lega, dunque, a quello della noia, che viene sviluppato nel Canto notturno LA SINTASSI E IL LESSICO Il Dialogo vero e proprio è racchiuso fra due paragrafi narrativi. Quello iniziale racconta la situazione e introduce il personaggio dell’Islandese. Quello conclusivo interrompe bruscamente il dialogo, proprio quando la Natura dovrebbe rispondere alla domanda suprema: «a chi giova cotesta vita»? NEGAZIONE E PRIVAZIONE Abbiamo visto che gli obiettivi che l’Islandese desidera raggiungere nella propria vita non sono affatto ambiziosi; sono anzi obiettivi minimi: evitare i danni provenienti dall’esterno ed evitare di offendere gli altri. Sono obiettivi negativi: non subire, non dare molestia. Questo elemento del contenuto ha un suo “sintomo” formale: la frequenza dell’avverbio non è altissima, tanto da essere la caratteristica più evidente dello stile del brano. La figura retorica che si costruisce attraverso la negazione è la litote, e di fatto nel Dialogo di litoti se ne incontrano molte. Ne diamo qui solo i primi cinque esempi (nel complesso sono più di cinquanta): «maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere»; «piaceri che non dilettano»; «beni che non giovano»; «non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del mondo». L’avverbio non viene utilizzato di frequente anche in contesti in cui è meno significativo, come se l’espressione di qualsiasi concetto debba essere resa attraverso una negazione. Anche qui proponiamo cinque esempi: «luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno»; «non finta ma viva»; «La Natura?» / «Non altri»; «non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza»; «di non poco momento». Infine, non sono rari i vocaboli che indicano privazione: «disperato dei piaceri»; «tenermi lontano dai patimenti»; «astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali»; «è vano a pensare»; «riducendomi in solitudine»; «[vita] spogliata di qualunque altro desiderio e speranza»; «privo di ogni speranza».