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Temi e aspetti fondamentali
Sintesi del contenuto. L’apertura del dialogo ci presenta l’Islandese approdato all’interno del continente
africano nel suo incessante peregrinare per sfuggire alle persecuzioni della Natura, ma proprio qui egli si
imbatte in colei che con ogni forza aveva cercato di fuggire. All’Islandese che con minuzia ossessiva le
illustra le pene e i travagli di ogni giorno, l’impossibilità di raggiungere la felicità, anche se solo per pochi
attimi, e l’accusa di essere unica responsabile dell’umana felicità, la Natura, imperturbabile, risponde che
nei suoi ordini e nelle sue operazioni “ha intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità”
e che “la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione”. Unico suo compito è
quello di garantire l’eternità di tale processo, del quale gli uomini e le creature tutte sono puri strumenti, e
il patimento è necessità fisiologica. Poco dopo l’Islandese scomparirà, divorato da due leoni affamati o,
forse sepolto dalla sabbia, e la sua morte misteriosa sarà uno fra gli innumerevoli eventi che assicurano il
perpetuo fluire della vita dell’universo.
Perché l’Islandese? A cosa si deve la scelta di un personaggio così anomalo come protagonista del
dialogo? Perché Leopardi affida proprio a lui e non a un filosofo di professione o a un personaggio
famoso (come avviene in altre operette) la sua riflessione sull’infelicità cosmica? Le ragioni sono
sostanzialmente due: a) la scelta del protagonista si deve alle difficili condizioni naturali nelle quali vivono
gli abitanti dell’Islanda, minacciati insieme dal gelo e dai vulcani; b) per descrivere l’esperienza umana,
Leopardi non ha scelto un personaggio importante (un filosofo, un artista, uno scienziato), come accade in
altre operette. Ha invece preferito introdurre un protagonista comune, un uomo definito solo attraverso la
propria nazionalità (l’Islanda) e chiamato a rappresentare un punto di vista medio, obiettivo, fondato sulla
verità dell’esperienza diretta. Ciò rientra nella concezione leopardiana della filosofia, ritenuta un bisogno
esistenziale e non una professione specialistica e serve d’altra parte a dare più forza alle conclusioni
filosofiche del finale. Esse infatti appaiono come la conseguenza necessaria delle esperienze narrate nel
corso del dialogo. È in qualche modo una tecnica simile a quella cui Leopardi ricorrerà nel Cantico notturno
di un pastore errante dell’Asia, a cui affiderà al punto di vista “ingenuo” e diretto del pastore le domande
intorno al significato dell’esistenza.
1.L’atteggiamento di Leopardi nei confronti della natura
Le posizioni di Leopardi nei confronti della natura sono due, entrambe strettamente connesse a un tema
cardine della riflessione leopardiana, quello dell’infelicità umana. In una prima fase, che coincide con gli
anni tra il 1817 e il 1821, l’infelictà non dipende dalla natura, che è considerata un’entità positiva
e benefica, non tanto perché essa assegni all’uomo una condizione realmente felice, ma perché
produce solide e generose illusioni, che rendono l’uomo capace di virtù e di grandezza. La civiltà
umana (quella che Leopardi chiama “arte”, cioè il progresso tecnologico-scientifico) ha però
distrutto le illusioni che rendevano la vita sopportabile e l’abbellivano, e ha mostrato agli occhi
dell’uomo l’arido vero della sua condizione sulla terra. L’uomo non era destinato a essere felice
sulla terra, ma le illusioni lo proteggevano dal rendersene conto, e potevano fargli credere che la
felicità fosse comunque raggiungibile, e sul punto di essere raggiunta: la civiltà ha distrutto le
illusioni e ha abbandonato l’uomo a un’infelicità sempre più consapevole e insopportabile.
L’infelicità non è dunque un dato costitutivo, esistenziale, ma storico: gli antichi erano ancora
capaci di grandi illusioni, mentre i moderni le hanno perdute quasi completamente. Si parla perciò
in questa fase del pensiero leopardiano, di pessimismo storico, perché l’infelicità umana è ritenuta
il frutto di una condizione storica di cui la natura non ha colpe.
In una seconda fase, che coincide con gli anni tra il 1823 e il 1827, gli anni in cui Leopardi si dedica
alla composizione delle Operette morali, abbandonando la poesia per la riflessione filosofica, la
meditazione sull’impossibilità per l’uomo di raggiungere il piacere o felicità perché questo è per sua
natura infinito (la cosiddetta teoria del piacere) porta Leopardi a ridefinire il concetto stesso di
natura. La responsabilità dell’infelicità umana è ora fatta ricadere interamente sulla natura, che
infonde negli uomini il bisogno di felicità e l’aspirazione a un piacere assoluto, senza poter poi in
alcun modo soddisfare tale bisogno, anzi, facendo della vita umana un insieme di delusioni,
sofferenze e di noia, con l’unico scopo di procedere verso la morte. Non sono dunque più le
condizioni storiche a essere indicate quale causa dell’infelicità, ma le condizioni esistenziali
dell’uomo. Si parla perciò in questa fase di pessimismo cosmico. Infatti, è la vita stessa, nella sua
organizzazione universale, a essere orientata solamente alla perpetuazione dell’esistenza, senza
che il desiderio di piacere degli individui venga tenuto in alcuna considerazione. Tale concezione è
alla base della visione della natura e dell’esistenza umana che si riflette nel Dialogo della Natura e
di un Islandese.
2.L’infelicità umana
L’infelicità non è più la conseguenza dell’impossibilità di soddisfare un piacere infinito, non ha cioè cause
psicologiche, bensì oggettive e materiali, che coincidono con le leggi stesse del mondo fisico il cui fine ultimo
non è quello dell’uomo. Morte, dolore, distruzione, le malattie non sono errori accidentali di una natura pur
sempre provvidenziale e benigna, ma anelli di un meccanismo spietato, elementi di un ordine che persegue
unicamente la sua stessa conservazione. L’infelicità non è dunque conseguenza dell’allontanamento
dell’uomo dalla natura mediante la ragione, non è dovuta a ragioni storiche, ma assume una dimensione
cosmica: sono le stesse leggi che regolano il funzionamento della natura-macchina a determinare l’infelicità
di tutti i suoi esseri, non solo l’uomo (pensa ai due leoni macilenti del finale).
3.L’illusione dell’antropocentrismo
Le sofferenze degli esseri viventi, tormentati da fattori del tutto fisici e psicologici (i pericoli esterni, la
malattia, la vecchiaia) non nasce dunque da un intento di crudeltà né da un errore di funzionamento: è
invece intrinseca alla vita dell’universo e indispensabile alla sua stessa conservazione. Svanisce, di
conseguenza, ogni ipotesi di antropocentrismo, ogni pretesa di considerare l’uomo come fine ultimo del
creato, mentre ne costituisce in realtà solo una parte trascurabile. Abbandonando definitivamente la
concezione, che gli deriva da Rousseau, per cui sarebbero stati la ragione e il progresso ad allontanare
l’uomo dalla condizione originaria di felicità, Leopardi vede da ora in poi la Natura come unica responsabile
dei mali dell’uomo: indifferente e ostile alle esigenze dei viventi, essa è espressione di quel sistema
meccanicistico che è l’universo, ciclo inesorabile di creazione e distruzione, entro il quale il dolore è gratuita
necessità fisiologica. A nessuna creatura vivente è possibile evitare la fatica del vivere, ma ciò più conta, è
impossibile soprattutto comprendere e spiegare razionalmente «l’arcano miserabile e spaventoso
dell’esistenza universale». È un’infelicità essenziale e immodificabile, ontologica (fa parte dell’essenza
stessa dell’universo).
4. Una vana ricerca di senso. L’Islandese, portatore dell’ideologia leopardiana appare come una versione
metafisica e dolente del viaggiatore settecentesco, ma il suo peregrinare è l’emblema dello stesso percorso
filosofico leopardiano: il poeta-filosofo recanatese, partendo da un personale patimento, indaga le ragioni
del dolore umano; prima attribuisce la colpa agli uomini stessi per essersi distaccati dalla Natura in nome
del progresso (insoddisfatti di ciò che la Natura offriva loro, gli uomini hanno iniziato a modificare la natura
stessa con la tecnica e il progresso alterando irrimediabilmente l’antico rapporto di simbiosi e armonia), poi
accusa la Natura stessa di infliggere atroci sofferenze alle proprie creature, infine prende atto del nulla
universale. Alla fine del dialogo l’ultima domanda dell’Islandese pone il problema del senso della vita
umana: a chi piace o a chi giova – si chiede il viaggiatore – cotesta vita infelicissima dell’universo? Il doppio
finale, amaramente ironico, spegne nel silenzio questo profondo interrogativo, confermando il cieco
meccanicismo che domina l’universo. Le domande si senso che l’Islandese rivolge alla Natura non possono
avere nessuna risposta positiva, cioè soddisfacente, ma solo una risposta nei fatti, che confermano
spietatamente la logica materiale del circuito di produzione e distruzione: che a uccidere l’islandese siano i
due leoni famelici o sia la tempesta di sabbia, in ogni caso si tratta di un evento naturale. In questo modo,
la conclusione dell’operetta ribadisce la descrizione e la diagnosi dell’Islandese, nonché la legge enunciata
dalla Natura. La ricerca di senso da parte dell’uomo resta sospesa, tanto più acuta quanto meno è possibile
soddisfarla.
Materialismo leopardiano e materialismo illuminista
Sotto questo aspetto il materialismo leopardiano si distingue dal materialismo e dal meccanicismo
settecenteschi. Per dare una risposta alla sua ricerca di senso, Leopardi non è disposto a rinunciare alla
prospettiva materialistica per abbracciare – come molti intellettuali dell’epoca – l’ideologia cristiana-
cattolica (per es. Manzoni) o alla filosofia idealista (che è la filosofia del Romanticismo) che identificano il
senso ultimo di tutte le cose in una dimensione spirituale che trascende la materia e l’umano. Leopardi
sceglie la via del materialismo perché è radicata nell’esperienza e non a caso è proprio dall’esperienza di
vita individuale che scaturisce tutta la riflessione in forma di insistente domanda alla Natura che accomuna
l’Islandese e il pastore del Cantico notturno. Tuttavia, le leggi materiali non rappresentano agli occhi di
Leopardi un significato, una spiegazione sufficiente: al contrario, la natura gli appare dominata
dall’insensatezza e dall’indifferenza. All’uomo resta solo la possibilità di denunciare, come fa l’Islandese, la
verità dolorosa che conosce, e gettare verso di essa la sfida delle proprie domande di significato (ancora,
come nel Canto notturno).
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