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Dispensa Fisica 2

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FISICA 2
INGEGNERIA EEI
©2017 VINCENZO FIORENTINI
@ D I P. F I S I C A , U N I C A G L I A R I
VERSION: 2018/05/22, 16:57:29
Indice
1
Elettrostatica
2
Conduzione e circuiti DC
3
Magnetismo
4
Induzione elettromagnetica
5
Oscillazioni e circuiti in corrente alternata
6
Equazioni di Maxwell e onde EM
7
Ottica
8
Bibliografia
1
37
59
1
3
85
119
99
1. Elettrostatica
Il protagonista centrale dell’elettromagnetismo è la carica elettrica.
La carica elettrica può essere considerata una proprietà della materia
che genera una forza (detta elettrostatica, e indirettamente altre forze
derivate come quella magnetica). Un’altra analoga proprietà dellla
materia è la massa, che genera (o media, come a volte si dice) la
forza di gravità. La massa, ricordiamo, ha sempre segno positivo
e genera su altre masse una forza sempre attrattiva inversamente
proporzionale al quadrato della distanza (r è la distanza tra i centri
di massa delle masse 1 e 2),
Fg = − G
m1 m2
= m1 g,
r2
dove G è una costante e la seconda uguaglianza vale nelle vicinanze
di un grande corpo massivo come la Terra; la gravità è l’unica forza
proporzionale alla massa e quindi l’equazione del moto di Newton
diventa
m1 g = m1 a ⇒ a = g,
cioè l’accelerazione, e quindi la dinamica, di un corpo in un campo di
forza gravitazionale non dipende dalla sua massa.
La carica è invece funzionalmente di due tipi: positiva o negativa
(o di tre tipi, se contiamo come indipendente la carica nulla). Dati
questi due tipi di carica, la forza tra due cariche, discussa di seguito,
risulta essere sia attrattiva che repulsiva (o eventualmente nulla).
Come vedremo, cariche dello stesso segno si respingono, cariche
di segno opposto si attraggono. La carica complessiva di un corpo
risulta dalla sovrapposizione delle cariche dei costituenti elementari:
per i nostri scopi, la materia è costituita da atomi, a loro volta formati
da nuclei, carichi positivamente e di dimensioni lineari dell’ordine di
10−14 m, e da elettroni, particelle a tutti gli effetti puntiformi che però
vivono delocalizzati (per via della loro natura quantistica) su una
regione di dimensioni lineari dell’ordine di alcuni Å (1 Å=10−10 m).
Gli elettroni sono i portatori elementari di carica negativa, e hanno
2
una carica pari a –e, con
e = 1.602 × 10−19 C
l’unità elementare di carica. Con ‘C’ si indica il Coulomb, l’unità
di carica del Sistema Internazionale. I portatori di carica positiva
sono sono i protoni (p+ ), che hanno carica +e, e sno legati nei nuclei
atomici insieme ai neutroni (n, di carica zero, e che interagiscono con
p e altri n tramite la forza nucleare forte, che è responsabile della
stabilità del nucleo). Dunque un atomo, che di norma è costituito da
p+ e e− carica pari a un multiplo intero di e, e più spesso che no pari
a zero.
Chiaramente, la carica di corpi sia microscopici che macroscopici
costituiti da moltissimi atomi legati insieme è sempre un multiplo
intero di e, e può essere nulla – anzi, lo è quasi sempre. In particolare,
con alta probabilità, la carica complessiva dell’universo è zero. Questo
annullarsi della carica totale nella gran parte delle situazioni pratiche
risulta da una compensazione di miriadi di cariche elementari. Altro
punto da ricordare è che la carica si conserva. Qualunque sistema
chiuso ha, cioè, carica costante. Inoltre la la carica è un invariante
relativistico, cioè non cambia nel passare da un sistema di riferimento
a un altro per trasformazione di coordinate.
L’intensità di legame tra atomi diversi, e quindi la formazione di
molecole e in generale sistemi funzionali importanti per praticamente
tutti i fenomeni chimici e biologici, è determinata dalla forza tra
cariche. A livello microscopico, la dinamica è quella quantistica, ma
rimane il fatto che la scala di energia coinvolta è determinata dalla
forza elettrica.
Riassumendo:
1. La carica è quantizzata: q=ne, con n intero.
2. La carica è conservata.
3. La carica è un invariante relativistico: non cambia per trasformazioni di coordinate.
4. La carica dei costituenti elementari (ad esempio, n, p+ , e− ) può
essere nulla, positiva o negativa.
5. La carica netta di corpi macroscopici è solitamente vicina a zero; la
carica dell’universo è probabilmente zero.
6. La stabilità degli atomi, e quindi della materia ordinaria, inclusa
quella vivente, è determinata dall’intensità della forza tra cariche
(oltre che dalla meccanica quantistica).
1.1 Forza e campo elettrico
È un fatto sperimentale che una carica puntiforme q1 (cioè di cui
possiamo trascurare l’estensione e la forma) esercita su una carica
puntiforme q0 a distanza r una forza, detta di Coulomb,
Fc = k e
q0 q1
r̂
r2
(1.1)
fisica 2
inversamente proporzionale al quadrato della distanza e diretta (per
convenzione) lungo la direzione 1→0 individuata dal versore r̂ (Figura
1.1).
La stessa forza agisce, con direzione opposta, su q1 ad opera di q0
(come anche richiesto dal principio di azione e reazione di Newton).
Questo è una specie di assioma empirico alla base dell’intera teoria. La
costante di proporzionalità, detta costante elettrostatica o di Coulomb,
vale
k e ' 8.99 × 109 Nm2 /C2
3
Figura 1.1: Forza di Coulomb.
nel Sistema Internazionale. Definita così la costante k, la forza è in
N, come deve essere. k e è in relazione con la costante dielettrica del
vuoto ε 0 =9×10−12 C2 /m2 N (il perchè del nome diventerà chiaro nel
contesto della capacità elettrica), tramite
ke =
1
.
4πε 0
Come prima possiamo scrivere una equazione del moto tipo Newton,
ma in questo caso, ad esempio per la carica q0 con massa m0 , si ha
Fc = k e
q0 q1
r̂ = m0 a
r2
⇒
a=
q0 q1
k e r̂,
m0 r 2
(1.2)
che dipende ora dal rapporto carica/massa.
Per la forza elettrica vale il principio di sovrapposizione, ovvero la
forza totale esercitata da più cariche su una carica data è la somma, o
sovrapposizione lineare, delle singole forze. Data una carica q0 posta
in r0 e altre N cariche q1 , q2 , ... q N in posizioni r1 , r2 ,... r N , la forza su
q0 è
F0
= F10 + F20 + ... + F N0
q q
q q
q q
= k e 02 1 r̂10 + k e 02 2 r̂20 + ... + k e 02 N r̂ N0
r10
r20
r N0
N
qi
r̂
2 i0
i =1 ri0
= k e q0 ∑
N
= k e q0 ∑
i =1
qi
r̂
|ri − r0 |2 i0
= q0 E ( r0 ) ≡ q0 E ( r ),
(1.3)
come rappresentato in Figure 1.2. La distanza ri0 è la distanza euclidea
tra le due particelle 0 e i, cioè
y
y
2
ri0
= |ri − r0 |2 = (rix − r0x )2 + (ri − r0 )2 + (riz − r0z )2 ,
(1.4)
dove i vettori posizione sono definiti, in componenti, come (ad
esempio)
y
r0 = (r0x , r0 , r0z ).
Nell’ultima uguaglianza di Eq.1.3 abbiamo definito il campo elettrico,
cioè la forza specifica per unità di carica, che ha unità N/C (newton/coulomb). Anche se apparentemente marginale, questa modifica è
significativa. Il campo dipende dalla posizione generica (che infatti
abbiamo indicato con r invece che r0 ) di una carica di prova. La carica
Figura 1.2: Sovrapposizione di forze di
Coulomb.
4
Figura 1.3: Dato un punto di applicazione, le componenti di un vettore ne
definiscono l’orientazione.
0 qui sopra ha svolto il ruolo di carica di prova, e la sua posizione
specifica è incidentale. In generale, noto il campo elettrico, che come
vedremo può essere ottenuto a partire dalla distribuzione delle altre
cariche (cariche generatrici), si può calcolare la forza agente su una
qualsiasi particella o distribuzione che decidessimo di porre nella
regione dove esiste il campo stesso.
Il campo elettrico deve il suo nome al fatto di essere un campo
vettoriale. Un campo vettoriale è definito come un vettore associato
ad ogni punto dello spazio. Il campo E è un vettore il cui punto
iniziale è posto in un punto dello spazio, identificato con il vettore
r che congiunge l’origine degli assi di riferimento con il punto in
questione. Come sappiamo, un vettore è un oggetto matematico a N
componenti in uno spazio a N dimensioni. Può essere visto come la
distanza orientata tra due punti qualunque (Fig.1.3).
Esistono molti altri tipi di campi. Ai nostri fini, si tratterà sempre,
in pratica, di funzioni scalari o vettoriali della posizione, ovvero ad
ogni punto dello spazio è associato un numero (uno scalare, appunto)
o tre numeri (le componenti di un vettore) come in Figura 1.4. Il punto
nello spazio può essere identificato da tre numeri (le tre coordinate
nello spazio tridimensionale), o anche due o uno, nel caso di spazio
bidimensionale (un piano) o unidimensionale (una linea). Esempi:
la temperatura al suolo in una carta meteorologica, che è un campo
scalare bidimensionale, cioè associa un numero, la temperatura, a
un punto in uno spazio bidimensionale (il terreno); il vento in una
carta meteorologica è un campo vettoriale bidimensionale, perchè
associa un vettore (con una direzione e un modulo: il vento è aria
che si muove con una certa velocità in una certa direzione) a un
punto sul terreno; l’altitudine in funzione della posizione in una carta
topografica, che è un campo scalare bidimensionale, perchè a ogni
punto sul piano associa un numero; la temperatura in una stanza, che
è un campo scalare, ma tridimensionale (dipende da tre coordinate: e
fa tendenzialmente più caldo vicino ai radiatori e vicino al soffitto);
etc.
1.2 Linee di campo
Figura 1.4: Campi scalare e vettoriale 2D
e 3D (dall’alto in basso).
Benchè il campo elettrico possa essere rappresentato dalla sua incarnazione vettoriale, c’è un modo più comodo di vederlo: le linee di
campo. In sostanza, si immagina di disegnare delle linee che partano
dal punto di origine del campo (oppure che ritornino su se stesse,
del caso del campo magnetico) e proseguano senza intersecarsi in
modo che i vettori del campo siano ad esse tangenti. Per una carica
puntiforme (Figura 1.5) il campo è radiale (cioè varia solo con la
coordinata r, la distanza dalla carica sorgente) e cala in intensità come
1/r2 . Le linee di campo costruite come prescritto hanno localmente
una densità proporzionale alla intensità del campo; ovvero, per un
certa porzione di spazio di dato volume che immaginiamo di muovere
da un punto all’altro, il numero di linee di campo varia proporzionalmente all’intensità: molte linee, molto campo. Altra cosa da notare
fisica 2
5
è che le linee di campo elettrico “iniziano” dalle cariche positive e
terminano in quelle negative. Questo indica, come già sappiamo, che
il campo è generato dalle cariche stesse, e riflette la natura centrale
della forza di Coulomb.
1.3 Campo generato da distribuzioni di carica: sovrapposizione
Il campo elettrico, tra le altre cose, fornisce in ogni punto la forza
che agisce su una carica prescindendo dalla distribuzione che lo ha
generato. Ma per far ciò, il campo va calcolato, appunto, a partire
dalla distribuzione di carica. Per far ciò si usano il principio di
sovrapposizione, discusso in questa Sezione, oppure la legge di Gauss,
Sez.1.9.
1.3.1 Modelli di corpi carichi
Otterremo ora il campo generato da una distribuzione di carica, che
immaginiamo essere una sovrapposizione di cariche infinitesime dq,
contenute in volumetti infinitesimi dV, ognuna delle quali viene assimilata a una carica puntiforme. L’artificio delle cariche infinitesime
serve a esprimere la sovrapposizione di contributi di campo con i
metodi del calcolo integrale. La carica infinitesima si può esprimere
come
dq = ρ dV,
(1.5)
dove ρ è una densità di carica (C/m3 ) e dV un differenziale di volume
(m3 ). In due dimensioni
dq = σ dA,
dove σ è una densità areale di carica (C/m2 ) e dA un differenziale di
area (cioè una area infinitesima). In una dimensione,
dq = λ dx,
dove λ è una densità lineare di carica. Gli elementi di lunghezza, area
o volume sono espressi in funzione di opportune coordinate. Ad esempio usando coordinate cartesiane o sferiche si ottiene l’espressione
del volume infinitesimo
dV = dx dy dz = r2 sin θ dr dθ dφ,
e questo è tutto quel che ci servirà. Qualunque libro di analisi o
wikipedia possono soccorrervi in caso di necessità.
1.3.2 Campo dal principio di sovrapposizione
In questa visione, il campo dipende dalla densità di carica tramite
la posizione e il valore delle cariche infinitesime che la compongono
(Figura 1.6). Mettendoci per esempio in tre dimensioni, e data l’espressione del campo di una carica puntiforme, una carica infinitesima dq
Figura 1.5: Vettori e linee di campo.
Il numero di linee (indicate dalle intersezioni con linee ortogonali, qui cerchi data la simmetria sferica) comprese
in un dato settore di spazio quantifica
l’intensità.
6
posta in posizione r0 genera un campo infinitesimo nella posizione r
dato da
dq
ρ(r0 )dV 0
dE(r) = k e
=
k
,
e
| r − r 0 |2
| r − r 0 |2
r’
Figura 1.6: Carica, campo.
dove dV 0 è un volumetto della coordinata r0 e il denominatore è quello
di Eq.1.4. Il trucco delle cariche infinitesime risulta comodo perchè si
può usare il calcolo integrale per sommare tutti i contributi e ottenere
il campo:
Z
ρ(r0 )dV 0
E(r) = k e
.
(1.6)
| r − r 0 |2
L’integrale si estende a un volume opportuno, che dovrà essere tale
da contenere la carica che genera il campo. Come si vede, la posizione
r0 =(x 0 , y0 , z0 ) è quella dell’elemento di carica che genera il campo, e la
posizione r=(x, y, z) è quella in cui si vuole ottenere il campo. Che
l’integrazione in pratica si possa fare in pratica, si intuisce esplicitando
tutto in cordinate cartesiane:
E( x, y, z) = k e
Z
dx 0
Z
dy0
Z
dz0
ρ( x 0 , y0 , z0 )
,
( x − x 0 )2 + ( y − y 0 )2 + ( z − z 0 )2
che è un integrale triplo in x 0 , etc., e dipende parametricamente da x,
etc., ed è quindi una funzione di (x,y,z)=r. Potrà certamente essere
un integrale difficile o anche impossibile da fare, ma ha un significato
chiaro.
1.3.3
Esempio: campo di una sbarretta, sull’asse
Consideriamo (Figura 1.7) una carica distribuita su un segmento
[0,L] dell’asse x con densità di carica λ>0 uniforme e costante. Il
primo punto in cui calcoliamo il campo elettrico è sulla retta stessa,
in posizione a, al di fuori della regione carica. Essendo λ positiva,
il vettore campo sarà orientato via dalla distribuzione di carica, cioè
come +x̂ a destra e − x̂ a sinistra della carica. Per calcolare il suo
modulo, notiamo che il complicato integrale di prima diventa un
semplice integrale unidimensionale, e precisamente
E( a) = k e λ
Figura 1.7: Schema della sbarretta carica
vista da un punto lungo il suo asse.
Z L
0
dx
.
( a − x )2
Di nuovo, a non è una variabile di integrazione, ma funziona da
parametro fisso, esattamente come r (cioè x, y, z) in Eq.1.6. Ad a
corrisponde un certo campo, ma spostandoci in un a diverso il campo
in generale cambia. Cercando in rete o sulle tavole, si trova
E( a)
=
=
L
dx
1
1
1
ke λ
= ke λ
= ke λ
−
(a − x) 0
( a − L) a
0 ( a − x )2
λL
1
1
1
1
ke
−
= ke Q
−
(1.7)
L ( a − L)
a
L( a − L)
La
Z L
dim
che (indicando = una uguaglianza dimensionale) è dimensionaldim
mente corretto: E = k e ×(carica/lunghezza2 ). Come si vede, il campo
è sempre positivo in modulo per gli a ammissibili, cioè a> L e a<0.
fisica 2
7
Quindi una carica di prova positiva subirebbe una forza repulsiva
sia per a> L (verso grandi x positivi), sia per a<0 (verso grandi x
negativi), come ci aspetteremmo avvicinandola a una carica positiva
su una linea.
Se L tende a zero, cioè la sbarretta scompare, il campo in Eq.1.7
si annulla. Se invece facciamo il limite L→0 mantenendo costante
la carica Q=λL costante, cioè schiacciando la sbarretta in un punto,
abbiamo
1
Lλ a − a + L
QL
1
E( a) = k e λ
= ke
= ke
−
( a − L) a
L a( a − L)
La( a − L)
Q
Q
' ke ,
= ke 2
a − La L→0 a2
cioè si ritrova il campo di una carica puntiforme.
1.3.4 Esempio: campo di una sbarretta, fuori asse
Poniamoci ora a distanza a dalla sbarretta, in un punto P che scegliamo sulla perpendicolare al centro della sbarretta stessa, per sfruttare
la simmetria. (Si veda Fig. 1.8 per la discussione che segue.) Il problema non è unidimensionale in sè: lo è solo la densità generatrice.
Assumiamo per comodità che la perpendicolare che scegliamo incroci
la sbarretta in x=0, e la sbarretta sia lunga L. La densità di carica è
λ, e l’elementino di sbarretta dx è posto in x e ha carica dq=λ dx. Il
raggio r congiungente il punto P con x forma un angolo θ con l’asse
della sbarretta. Abbiamo una simmetria “a specchio” attraverso il
centro della sbarretta: sommando tutti i contributi da destra e da
sinistra la componente del campo elettrico lungo x si annulla. Rimane
quindi solo la componente y. Notiamo che nulla cambia ruotando
tutto il sistema intorno all’asse x, cioè si ha simmetria cilindrica intorno all’asse stesso. Il campo ha quindi solo componente radiale,
che dipende solo dalla distanza a del nostro punto dal centro della
sbarretta.
√
La distanza tra dq e il punto è r= a2 + x2 , e inoltre la componente
y è la proiezione sull’asse y del vettore, quindi va moltiplicata per il
seno di θ; il contributo di dq al campo è quindi, tenendo conto che le
componenti lungo x si annullano,
dE = ŷ k e
λ dx
sin θ
+ x2
a2
trascurando da subito le componenti x che si elidono tutte integrando.
Naturalmente, per la menzionata simmetria cilindrica, ŷ potrebbe
essere qualunque vettore nel piano ortogonale alla (e bisecante la)
sbarretta. Dunque per il modulo del campo abbiamo
E = ke λ
Z L/2
dx sin θ
− L/2
a2 + x 2
√
e poichè r sin θ=a, e r= a2 + x2 ,
E( a) = k e λ
Z L/2
− L/2
a dx
= ke λ a
( a2 + x 2 ) r
Z L/2
− L/2
dx
( a2 + x2 )3/2
Figura 1.8: Campo fuori dall’asse della
sbarretta
8
che è un integrale definito unidimensionale nella variabile x, e dipendente parametricamente dalla variabile a. Il campo è perciò funzione
della variabile a, cioè la distanza del nostro punto dalla sbarretta.
Integrando,
E( a) = k e λaŷ
x
a2 ( a2 + x2 )1/2
L/2
− L/2
k e λL
ŷ.
= √
a a2 + L2 /4
Nel caso in cui la sbarretta diventi un filo indefinitamente esteso, cioè
L→∞, si ha che
E( a)
k e λLŷ
=
p
=
L2 /4)
=
k e λLŷ
p
+
aL ( a/L)2 + 1/4)
k e λŷ
2k e λ
p
'
ŷ
2
a ( a/L) + 1/4) L→∞ a
a
a2
(1.8)
(Questo risultato è rilevante in Sezione 6.7.) Se come prima facciamo
il limite L→0 tenendo Lλ=Q costante, si ha di nuovo che
E( a)
=
=
k e λŷ
k e λLŷ
= p
( a/L)2 + 1/4)
aL ( a/L)2 + 1/4)
k Qŷ
Q
√ e
' ke 2 ,
2
2
L
→
0
a
a a + L /4
a
p
e troviamo di nuovo il campo della carica puntiforme. Passiamo ora
alla legge di Gauss, che permette di ottenere il campo molto più
facilmente in quei casi in cui la simmetria lo permetta.
1.4 Campo generato da distribuzioni di carica: legge di Gauss
Figura 1.9: Campo vettoriale orientato
rispetto all’area.
Una maniera semplice, dove applicabile, di ottenere il campo è la
cosiddetta legge di Gauss, che è equivalente alla legge di Coulomb.
Prima di enunciarla e utilizzarla, possiamo renderla plausibile con
una analogia fluidodinamica: una carica positiva puntiforme è l’analogo di una fontana che emette acqua, la quale fluisce via dalla
fontana sempre più debolmente in funzione della distanza; una carica
negativa è invece uno scarico che riceve il flusso d’acqua. L’intensità
della sorgente (la portata del condotto da cui esce l’acqua) determina direttamente il flusso di acqua verso l’esterno. Per misurarlo,
possiamo prendere un secchio di capienza e area nota, riempirlo e
dalla misura del peso dell’acqua (ad esempio) dedurre la portata. Per
essere precisi, se vogliamo misurare in modo completo la sorgente
dobbiamo immaginare un secchio “sferico" che la contenga tutta; se
mettiamo il secchio di traverso, in modo che l’acqua non ci entri, non
misureremo niente; e infine, se mettiamo il nostro secchio sferico
attorno al vuoto invece che attorno alla sorgente, misureremo zero
flusso d’acqua netto. È plausibile, dunque, che il flusso (FIgura 1.9)
di un certo vettore (la velocità dell’acqua per la densità, nel nostro
esempio) sia direttamente proporzionale all’intensità della sorgente
e che quindi questa sia in relazione con il flusso. Nel nostro caso
elettrostatico, la sorgente del campo elettrico è la carica, e il flusso del
campo è ad essa proporzionale. Questo in sostanza è il messaggio
fisica 2
9
della legge di Gauss, che, specifichiamolo, è fisicamente equivalente
alla legge di Coulomb e alla prima equazione di Maxwell discussa
oltre.
La legge di Gauss afferma che
I
S
E · dA =
Q
1
=
ε0
ε0
Z
V
dr ρ(r),
(1.9)
dove gli integrali si intendono calcolato su una superficie chiusa S e
sul volume V in essa contenuto; ρ è la densità di carica che definizione
fornisce Q se integrata sul volume V. Il primo membro è il cosiddetto
flusso del vettore E attraverso la superficie S (Figura 1.10 e 1.11); il
secondo membro è la carica contenuta nella superficie (gaussiana) S.
Spieghiamo meglio gli ingredienti di questa espressione. S è una
superficie arbitraria nello spazio (oppure una linea, se lo spazio è a
due dimensioni; oppure un punto, se lo spazio è unidimensionale);
E=(Ex , Ey , Ez ) è un vettore le cui componenti variano, in generale, da
punto a punto nello spazio; l’elemento orientato di area è un vettore
dA=dA n̂=dx dy n̂ di modulo uguale all’area di un elementino di
superficie di lati infinitesimi dx e dy e direzione identificata da un
versore n̂=(n x , ny , nz ) che è definito come ortogonale in ogni dato
punto alla superficie S e che punta verso l’esterno di S.
Il prodotto scalare dentro l’integrale è perciò
Figura 1.10: Area orientata; casi di
contributo al flusso.
E · dA = dA n̂ · E = dx dy( Ex n x + Ey ny + Ez nz ).
Questa è una funzione delle coordinate e può essere sommata su tutti
i punti della superficie S. L’integrale è appunto la somma di infiniti
elementini infinitesimi. Se insistessimo sull’uso di elementi finiti di
area, avremmo una somma del tipo
∑ E · ∆Ai = QS /ε 0 ,
i
dove gli elementi ∆A di area orientata sono definiti come prima, solo
che sono finiti e non infinitesimi. La cosa chiave da notare è che i
contributi al flusso dipendono dall’orientazione relativa del campo e
della superficie; se il campo è ortogonale alla superficie e diretto verso
l’esterno, E·n̂ è positivo e quindi il contributo è positivo e massimo;
se invece il campo è diretto verso l’interno, è negativo e massimo;
se E è parallelo alla superficie scelta, cioè ortogonale a n̂, E·n̂=0 e il
contributo è nullo; e così via per tutte le possibilità intermedie. Il
flusso totale è la somma di tutti i contributi.
In realtà non calcoleremo mai veramente l’integrale; sfruttando
la simmetria, ci metteremo invece in condizione di asserire che il
campo elettrico è costante in modulo e ha direzione nota su una
superficie opportuna, e ridurremo l’integrale al solo calcolo dell’area.
Naturalmente questo è possibile solo in casi specifici, ad esempio di
simmetria sferica o cilindrica.
1.4.1 Simmetria sferica: carica puntiforme
Consideriamo una carica puntiforme e scegliamo come superficie
S una sfera di raggio r centrata su di essa. Il sistema è sferico, e
Figura 1.11: Flusso totale e contributi.
10
sappiamo già che il campo punta radialmente (lungo il versore r̂)
verso l’esterno a partire dal punto dove siede la carica, e a ogni data
distanza dalla carica il modulo E del campo è costante. Si ha allora
I
S
E · dA = E
I
S
r̂ · dA = E
I
S
r̂ · n̂ dA = E
I
S
dA = 4πr2 E.
La seconda eguaglianza usa la definizione di elementino di area orientata; la terza uguaglianza usa il fatto che r̂ che n̂ sono ortogonali in
ogni punto alla superficie della sfera e sono quindi paralleli (l’angolo
tra di essi è zero), e il loro prodotto scalare è r̂·n̂=|r̂||n̂| cos α=1×1×1
=1. La quarta eguaglianza dice semplicemente che la somma (integrale) di tutti gli elementini infinitesimi di area della sfera danno l’area
della sfera stessa. Da Eq.1.9,
4πr2 E = Q/ε 0 ⇒ E =
Q
Q
= ke 2 ,
4πε 0 r2
r
di nuovo il campo della carica puntiforme già visto in precedenza.
1.4.2
Figura 1.12: Filo e superficie gaussiana
relativa.
Simmetria cilindrica: filo
Consideriamo un filo indefinitamente esteso di densità di carica lineare λ. Scegliamo come superficie gaussiana (Figura 1.12) un cilindro
il cui asse coincide con il filo, di altezza ` e raggio r. La simmetria è
cilindrica, perciò il campo è uguale su tutti i punti superficie laterale
del cilindro, e punta in direzione ortogonale al filo e quindi alla superficie laterale stessa. Le superfici terminali in alto e in basso non
contribuiscono alcun flusso, dato che su di esse E è ortogonale alla
normale alla superficie e quindi E · dA=0. Per la legge di Gauss si ha
I
S
E · dA = 2π r ` E = λ`/ε 0 = Q/ε 0 ,
e quindi
λ
λ
= 2k e
(1.10)
2πε 0 r
r
come visto in precedenza, e con molto maggiore difficoltà, con il
principio di sovrapposizione.
E=
1.4.3
Simmetria sferica: sfera uniformemente carica
Consideriamo ora una sfera carica di raggio R. La densità di carica
sia ρ, costante, per r ≤ R e zero per r > R. Scegliamo una superficie
gaussiana sferica di raggio r > R. Essendo il sistema sferico il campo
elettrico è costante ovunque sulla superficie di una generica sfera
concentrica con la sfera carica, e punta verso l’esterno (supponiamo
che ρ sia positiva). Dunque si ha
ε 0 E 4πr2 =
I
Vr
ρ dV =
I
VR
ρ dV = ρVR = Q,
dove si è indicato che l’integrale sul volume Vr della sfera gaussiana e
su quello VR della sfera carica coincidono, poichè ρ=0 fuori dal raggio
R. Quindi
Q
E=
,
4πε 0 r2
fisica 2
esattamente come una carica puntiforme, e all’interno dipend edalla
densità, inparticolare essendo lineare per densità costante (Figura
1.13). Risulta che ogni sistema sferico ha questa proprietà: il campo
all’esterno di una superficie che comprenda tutta la distribuzione di
carica è lo stesso di quello di una carica puntiforme posta al centro
del sistema stesso. In assenza di carica, non c’è campo. Questo torna
anche con la rappresentazione del campo in forma di linee di campo,
che originano dalla carica positiva ed entrano nella carica negativa.
La legge di Gauss ci permette anche di valutare il campo all’interno
della sfera carica. Se scegliamo infatti una sfera di raggio r minore di
R abbiamo
I
r 3
Vr
ε 0 E 4πr2 =
ρ dV = ρVr = Q
=Q
,
VR
R
Vr
il che mostra la carica che conta è solo quella all’interno della sfera
gaussiana di raggio r, ora interna a quella carica di raggio R. Dunque
E=
Qr
,
4πε 0 R3
ovvero un campo che aumenta linearmente dall’origine al confine
interno della sfera.
1.4.4 Simmetria sferica: guscio
Altro esempio sferico è il guscio, da immaginare come una sfera cava
con carica Q sulla superficie. e scegliamo una sfera gaussiana di
raggio maggiore di quello del guscio,
ε 0 E 4πr2 = Q ⇒ E =
Q
,
4πε 0 r2
e ritroviamo, come atteso per tutti i sistemi sferici, il campo della
carica puntiforme. Se scegliamo una sfera gaussiana di raggio minore
di quello del guscio, al suo interno non c’è nessuna densità di carica,
quindi
ε 0 E 4πr2 = 0 ⇒ E = 0.
Dunque fuori da un guscio sferico il campo è quello di una carica
puntiforme, e al suo interno il campo è nullo. Quest’ultimo fatto
rimane vero in tutti i casi in cui la carica si localizza alla superficie
di un corpo, il che tipicamente avviene per corpi conduttori, come
discutiamo più oltre; si tratta del fenomeno della gabbia di Faraday.
1.4.5 Simmetria sferica: sfera carica con densità non costante
Consideriamo ora una distribuzione di carica sferica, ma di densità
non omogenea. La legge di Gauss permette di calcolare il campo come
per gli altri casi sferici, ma in questo caso la carica contenuta nella
superficie gaussiana va calcolata esplicitamente. Infatti, la carica al
secondo membro di Eq.1.9 si può riscrivere come la somma (integrale)
di cariche infinitesime espresse come in precedenza (Eq.1.5)
QS =
I
VS
ρ dV
(1.11)
11
Figura 1.13: Campo di una sfera
uniformemente carica.
12
dove l’integrale è sul volume compreso nella superficie S. La legge di
Gauss si può quindi riscrivere
I
S
E · dA =
1
ε0
I
VS
ρ dV
(1.12)
Questo permette di studiare il campo elettrico generato da distribuzioni di carica diverse da cariche puntiformi, anche complicate, purchè
dotate di sufficiente simmetria. La densità che scegliamo è
ρ ( r ) = ρ (r ) = ρ0
r α
r≤R
R
=0
r > R,
(1.13)
dove ρ0 è una costante e α un intero non negativo. Per α=0 ritroveremo
il caso della sfera uniformemente carica. Come indicato, ρ è funzione
della sola distanza r dal centro della sfera, perchè deve essere sferica,
e cioè uguale (per un dato r) in qualunque direzione, e quindi non
può dipendere dagli angoli. Per fare l’integrale al secondo membro
della legge di Gauss, conviene scegliere le coordinate polari sferiche
(r, θ,φ) rappresentate in Fig.1.14. Il differenziale di volume in queste
coordinate risulta esere
dV = r2 dr sin θ dθ dφ
il cubetto svasato in (r, θ, φ). Esplicitando le dipendenza dalle coordinate, e scegliendo una superficie gaussiana sferica di raggio r g ≥ R si
ha
Figura 1.14: Coordinate polari sferiche.
Q
=
I
V
= 4π
ρ(r) dV =
Z rg
0
Z rg
0
dr r2 ρ(r )
dr r2 ρ(r ) = 4πρ0
Z π
Z R
0
0
dθ sin θ
dr r2
Z 2π
r α
R
0
=
dφ
4πρ0
Rα
Z R
0
dr r2+α
poichè i due integrali sugli angoli valgono 2 e 2π rispettivamente,
come si può verificare facilmente, e ρ non dipende che da r. L’integrale
su r ha limite superiore R dato che la funzione ρ è zero per r > R. È
un semplice integrale di una potenza,
Q
Z R
=
4πρ0
Rα
=
4πR3
ρ .
(3 + α ) 0
0
dr r2+α =
4πρ0 h 3+α i R
4πρ0
=
r
R 3+ α
(3 + α ) R α
(3 + α ) R α
0
Dunque la carica è un po’ minore di quella di una sfera omogeneamente carica, come ci si aspetta dal fatto che (r/R)α <1 per r < R. Il
campo si ottiene (indicando ora il raggio della sfera gaussiana con r)
dalla legge di Gauss,
4πr2 E =
4πR3
ρ0
ε 0 (3 + α )
e quindi
E=
4πR3 ρ0
Q
= ke 2 .
4πε 0 (3 + α)r2
r
fisica 2
13
Dunque se la sfera gaussiana comprende tutta la sfera carica il campo
è di nuovo quello di una carica puntiforme, pari a quella della sfera
carica e posta al centro della sfera stessa. Questo, è ormai evidente, è
un risultato generale per tutti i sistemi sferici.
Se ora ci poniamo all’interno della sfera carica, cioè scegliamo
r g ≤ R, l’integrale fatto qui sopra diventa
Qg
4πρ0
Rα
=
Z rg
0
4πρ0
r 3+ α
(3 + α ) R α g
=
4πρ0 h 3+α ir g
r
(3 + α ) R α
0
r 3+ α
3
3
+
α
rg
4πR
g
=
ρ0
=Q
(3 + α )
R
R
dr r2+α =
ovvero la carica compresa nella sfera gaussiana è una certa frazione
della carica totale, e ambedue (la carica totale e la frazione) dipendono
da α. Ora perciò il campo elettrico in r=r g , e quindi a un generico r
dentro la sfera carica, è
E=
k e r 3+ α
ke
Q
=
Q
.
g
R
r2
r2
Se scegliamo α=0, otteniamo di nuovo il campo lineare all’interno
della sfera omogenea:
r
E = ke Q 3 .
R
Notiamo che se α=0, la carica Q è di nuovo ρ0 per il volume della
sfera come detto in precedenza. Se α è molto grande la funzione
(r/R)α è pressochè zero fino vicinissimo a r ∼ R, dove sale velocissimamente a 1 (p.es. per α=50 e r/R=0.9, (r/R)50 '0.005; ma per
r/R=0.99, (r/R)50 '0.6). Quindi per grande α il nostro sistema diventa
asintoticamente simile a un guscio.
1.4.6 Simmetria cilindrica: piano carico
Studiamo ora il campo elettrico generato da un piano carico (con
densità di carica σ) indefinitamente esteso, con il che si intende che
i bordi del piano sono abbastanza lontani dalla regione di nostro
interesse da non influenzare il campo apprezzabilmente. È chiaro
che per simmetria in ogni punto di fronte al piano, il campo punta
lungo la normale al piano stesso, dato che tutti i contributi nella
direzione trasversa alla normale si cancellano (ovviamente se il piano
fosse limitato questo sarebbe vero solo approssimativamente, e con
non troppo buona approssimazione per piani di piccola dimensione
laterale). Assumiamo per il momento che il materiale di cui è fatto
il piano sia isolante. Da Fig.1.16, considerata la simmetria di cui si
diceva, si vede che possiamo applicare la legge di Gauss usando come
superficie gaussiana un cilindro di raggio r con l’asse ortogonale al
piano. Il flusso del campo riguarda solo le due superfici terminali del
cilindro, che sono cerchi, e la carica è quella compresa nel cilindro
stesso; risulta dunque
I
ε0
S
E · dA = 2πr2 E = Q = σπr2
⇒
E=
σ
,
2ε 0
Figura 1.15: La funzione (x/R)α per
diversi valori di α.
14
Figura 1.16: Campo di un piano carico.
Figura 1.17: Campo di una coppia di
piani carichi.
cioè che un piano di carica genera dai due lati un campo uniforme e
costante, e sempre uguale anche a grandi distanze (purchè, naturalmente, dei piani si possano ancora trascurare i bordi). Il campo punta
via dal piano o verso il piano stesso a seconda del segno, positivo o
negativo rispettivamente, della densità di carica areale.
Se consideriamo due piani paralleli con carica uguale e di segno
opposto (Fig.1.17), da quanto appena discusso si vede subito che, tra
i due piani, il campo del piano positivo e quello del piano negativo
sono paralleli alla normale ai piani x̂, e sono inoltre paralleli tra loro,
dato il cambio di segno di quello del piatto negativo. All’esterno della
regione tra i piani, i campi sono invece opposti e si cancellano. Ne
risulta che il campo tra due piani carichi è pari a
σ
E = x̂
ε0
con x̂ il versore che va dal piano positivo al negativo.
Nel caso dei conduttori la situazione è diversa. Daremo più
dettagli nella Sezione successiva, ma in sintesi il campo elettrico
all’interno di un conduttore è zero, e quindi la carica libera nei
conduttori deve disporsi sulla superficie; il campo elettrico che essa
genera all’esterno è localmente ortogonale alla superficie (se non lo
fosse, la circuitazione del campo non potrebbe essere zero). Dunque,
un conduttore potrà avere solo carica sulla superficie. Applicando la
legge di Gauss esattamente come nel caso della lamina sottile isolante,
ma considerando invece una lastra spessa abbastanza da caricarsi da
un solo lato, e osservando che il campo da un lato della superficie
–quello all’interno della lastra– è nullo, si ottiene che davanti alla
superficie carica
σ
E = x̂
ε0
con x̂ la normale alla superficie. La stessa carica, cioè, produce un
flusso del campo solo da una superficie (invece di due) e il campo è
appunto il doppio di prima. Il risultato per le due lamine affacciate
rimane invece identico a prima, se le lamine sono abbastanza sottili
da “avere solo superficie”. Supporremo che questo sia sempre il caso
nelle applicazioni quali i condensatori.
1.4.7
E in due dimensioni ?
È interessante chiedersi come si realizzerebbe la legge di Gauss in
uno spazio 2D. Matematicamente, in D dimensioni il flusso si calcola
attraverso una superficie di dimensione D–1, cioè per D=2 il flusso
è attraverso una linea che contenga (quella che supponiamo per ora
essere) una carica, w. Con gli stessi argomenti di simmetria usati
prima, la legge di Gauss direbbe
I
L
E · dl = E
I
L
r̂ · dl =
I
L
r̂ · n̂ dl =
I
L
dl = 2πrE,
dove la superficie è ora una linea, e la sua ’area’ è la lunghezza del
cerchio. Ne risulta il campo
w
w
2πrE = w/ε 0 ⇒ E =
= 2k e ,
2πε 0 r
r
fisica 2
un comportamento alquanto diverso che in tre dimensioni. Come
vedremo in Sez.1.8.4, a questo campo corrisponde un potenziale
logaritmico, invece che proporzionale a 1/r come per una carica
puntiforme in 3D. Questo argomento (matematicamente corretto) è
confermato dal calcolo numerico: in Figura 1.18, il potenziale di un
“dipolo" in 2D ottenuto numericamente si confronta molto bene con
un potenziale logaritmico, molto meno (anzi, per niente) con uno 1/r
(il caso del dipolo permette di confrontare i potenziali lontani dal
bordo, dove quello numerico è posto a zero).
Naturalmente c’è un problema di dimensioni fisiche: vogliamo che
F=qE sia una forza in N, e che l’energia potenziale sia effettivamente
un’energia. Una possibile soluzione è asserire che le dimensioni della
costante ε 0 sono Nm/C2 invece che Nm2 /C2 ; ma modificare una
costante caratteristica delle unità di misura non è consigliabile in
linea di principio, e inoltre causerebbe problemi dimensionali in D 6=2.
L’altra possibilità, più ragionevole, è asserire che w non è una carica,
ma una densità di carica lineare. In questa ipotesi, infatti, il campo è
proprio quello (Eq.1.10) di un filo di densità lineare w che attraversi
ortogonalmente, à la Flatland, il nostro spazio 2D.
1.5 Legge di Gauss e prima equazione di Maxwell
La legge di Gauss come formulata qui sopra è equivalente alla espressione di Coulomb per l’interazione tra cariche. Questo è un fatto
empirico. I risultati ottenuti con Gauss, peraltro, sono identici a quelli
ottenuti con il principio di sovrapposizione (vedi sopra). Dove è
possibile applicarla, la legge di Gauss è però molto più veloce e facile
da usare.
Un limite pratico della legge di Gauss, Eq. 1.9, è che stiamo cercando di estrarre E dal suo integrale. Normalmente l’integrazione,
in quanto operazione di media, diminuisce l’informazione sull’integrando. Gauss è perciò utile solo in casi simmetrici, e non in generale.
Esiste un’altra versione (detta differenziale) della stessa legge che
permette di ottenere le componenti di E ovunque date opportune
condizioni al contorno.
Un teorema di calcolo differenziale vettoriale, detto “della divergenza”, che enunciamo senza dimostrazione, asserisce che per un
vettore generico u
I
S
u · dA =
I
VS
[div u] dV.
(1.14)
L’espressione “div u” indica l’azione su u di un operatore, detto
divergenza, definito come
div u =
∂uy
∂u x
∂uz
+
+
.
∂x
∂y
∂z
(1.15)
(Con, ad esempio, ∂ f /∂y indichiamo la derivata parziale rispetto a y di
una funzione di più variabili f (x, y, ...): è la stessa cosa di una derivata
normale rispetto ad y calcolata però tenendo fisse le altre eventuali
15
Figura 1.18: Potenziale calcolato integrando numericamente l’equazione
di Poisson in 2D, confrontato con la
versione 1/r e quella logaritmica.
16
variabili.) Un operatore è una “macchina” matematica che prende
una quantità (scalare o vettoriale) e la trasforma in un’altra (scalare o
vettoriale). La divergenza trasforma, come si vede, un vettore in uno
scalare. Ora notiamo che le Eq.1.12 e 1.14 sono identiche ponendo
u=E,
I
S
E · dA =
1
ε0
I
VS
ρ dV ⇐⇒
I
S
u · dA =
I
VS
[div u] dV,
se vale (cfr. secondo membro della seconda equazione)
div E =
ρ
.
ε0
(1.16)
Esplicitamente, in coordinate cartesiane,
ρ( x, y, z)
∂Ex ( x, y, z) ∂Ey ( x, y, z) ∂Ez ( x, y, z)
+
+
=
.
∂x
∂y
∂z
ε0
Siccome ρ è una funzione data, da questa equazione differenziale è
possibile ottenere, sotto opportune condizioni, le componenti di E in
casi anche non simmetrici, eventualmente con soluzione numerica. In
sintesi,
I
I
ρ
1
div E = ;
(1.17)
E · dA =
ρ dV
ε0
ε 0 VS
S
è la prima equazione di Maxwell, appunto la prima di quattro equazioni che descrivono tutti i fenomeni elettromagnetici, in forma differenziale (Eq.1.16) e integrale (Eq.1.12). Una formulazione equivalente
è quella che conduce all’equazione di Laplace-Poisson, discussa in
Sez.1.8.1, per il potenziale elettrico, che ora introduciamo.
1.6 Energia potenziale e potenziale elettrico
Le forze sono tipicamente associate al lavoro che compiono spostando
una massa, dato dal prodotto scalare del vettore forza e del vettore
spostamento. L’azione delle forze può mettere un corpo in condizione
di svolgere a sua volta un lavoro, dotandolo di energia potenziale: ad
esempio, un maglio che viene sollevato ha molta energia potenziale
che è pronto a usare per cadere a deformare una lastra d’acciaio. Le
forze elettriche non fanno eccezione, considerato che i corpi carichi,
microscopici o macroscopici, in natura sono tutti dotati di massa.
È quindi utile, come si capirà meglio in seguito, definire l’energia
potenziale di una carica nel campo di forze di Coulomb di altre
cariche, e il potenziale elettrico associato a un campo elettrico. Come
vedremo la relazione tra energia e potenziale è strettamente analoga
a quella tra forza e campo.
Consideriamo una carica puntiforme Q fissa, e una carica di prova
q0 nel punto iniziale i di una traiettoria di moto a distanza ri . Ci chiediamo qual’è l’energia acquistata da q0 se la portiamo, effettuando
un lavoro contro la forza elettrostatica (scegliamo ambedue le cariche
positive per semplicità), al punto finale f a distanza r f . Essendo il
sistema sferico scegliamo una traiettoria lungo un raggio che congiunge le cariche. L’energia acquistata dal sistema è il lavoro (con
fisica 2
segno cambiato) da noi effettuato contro la forza elettrica. L’elemento
differenziale di percorso è opposto al versore del raggio proveniente
da Q, che è anche la direzione della forza elettrica: d~`=–r̂ dr.
∆U
= −
Z f
i
= −
Z f
i
=
F · d~` =
Z f
F · r̂ dr
i
Fc · r̂ dr = −k e Qq0
r f
1
k e Qq0
= k e Qq0
r ri
Z r
f dr
r2
!
1
1
−
.
rf
ri
ri
(1.18)
Ovviamente, questa è una differenza di energia, come dev’essere in
generale. Tuttavia, se supponiamo che ri →∞, cioè assumiamo come
configurazione di riferimento le due cariche a grandissima distanza
mutua e quindi non interagenti, otteniamo (chiamando r il punto di
arrivo r f ) una energia potenziale “assoluta”
Q
.
r
U = k e q0
Notiamo che se le cariche sono di segno concorde, l’energia aumenta
quando esse si avvicinano; se sono discordi, l’energia scende se si
avvicinano, in accordo con il fatto che la forza elettrica è attrattiva in
quel caso.
L’energia che abbiamo calcolato è formalmente un singolo valore
scalare, relativo alla specifica carica q0 e alla specifica posizione r f .
In analogia a quanto fatto per forza e campo elettrici, anche qui
possiamo astrarre dalla carica di prova, e definire il potenziale elettrico
semplicemente come
V = U/q0 ,
e immaginando di conoscere o poter calcolare il suo valore in tutti i
punti r dello spazio. In questa visione, V è un campo scalare generato
da Q che fornisce l’energia elettrostatica di una particella di qualunque carica posta in un punto generico nello spazio, in stretta analogia
con il campo elettrico (vettoriale) che fornisce la forza su ogni particella di data carica in un dato punto. Si intuisce, e vedremo degli esempi,
che anche qui possiamo usare un principio di sovrapposizione come
nel caso del campo elettrico.
Essendoci una relazione tra forza ed energia, c’è ovviamente anche
una relazione tra campo elettrico e potenziale. Abbiamo visto poco fa
che
Z
U f − Ui = −
f
i
Fc · dr,
quindi, essendo Fc /q0 =E e U/q0 =V, abbiamo anche
Vf − Vi = −
Z f
i
E · dr
(1.19)
o meglio ancora, dimenticando la natura iniziale e finale dei punti i e
f,
VA − VB =
Z B
A
E · dr,
(1.20)
17
18
che è mnemonicamente più comodo (niente segni, niente carica di
prova). Chiaramente, se i punti A e B coincidono, ovvero se il percorso
L su cui si integra è chiuso, si ha
I
L
Figura 1.19: Linee equipotenziali.
E · dr = 0.
(1.21)
Questo integrale chiuso è detto circuitazione. L’affermazione che la
circuitazione del campo elettrico è nulla costituisce la seconda equazione di Maxwell in forma integrale. L’annullarsi della circuitazione
di un campo, come in meccanica, indica che il campo è conservativo.
Indica anche che il campo è laminare, ovvero “fluisce”, e non ha
componenti “rotazionali”. Questo asserto può essere formulato in
forma differenziale, analogamente alla prima equazione di Maxwell,
come mostreremo tra poco.
Figura 1.20: Linee equipotenziali e
campo elettrico di diverse distribuzioni
1.7 Linee equipotenziali
Figura 1.21: Vista 3D del potenziale di
un dipolo elettrico.
Figura 1.22: Schema di variazione del
potenziale.
Vista la Sezione precedente, il campo elettrico è conservativo, cioè
l’integrale di percorso del campo elettrico tra due punti distinti non
dipende dal percorso, ma solo dai punti iniziale e finale, analogamente alla energia potenziale in un campo di forze gravitazionale, per
esempio. Questa indipendenza dal percorso deriva dal fatto che i
contributi infinitesimi E·dr dipendono dall’orientazione relativa di
E e dello spostamento, e possono essere positivi o negativi se lo
spostamento è concorde o discorde con E, oppure nulli se E e lo
spostamento sono ortogonali (Figura 1.19). Se ora ci muoviamo lungo
una linea tale che tutti i contributini E·dr sono nulli, l’integrale di
percorso e quindi la differenza di potenziale tra qualunque punto
della linea è zero, quindi il potenziale non cambia: si tratta perciò di
una linea equipotenziale; per costruzione il campo elettrico è ovunque
ortogonale alla linea equipotenziale (o più precisamente, ortogonale
al vettore spostamento localmente tangente la linea equipotenziale).
Costruendo queste linee per diversi valori del potenziale, si può mappare una specie di “paesaggio energetico” per una carica di prova
che vi si trovi (Fig.1.6 e 1.21). A regioni piatte corrisponde campo
elettrico piccolo o nullo, a regioni con forte variazione corrisponde
campo elettrico grande.
Dalla definizione di linea equipotenziale come ortogonale al campo elettrico, si intuisce (pensiamo a un sentiero alpino che si snodi
in piano, cioè orizzontalmente, e ortogonale alle pendici della montagna) che il campo deve indicare una direzione di massima pendenza
del potenziale. Inoltre, essendo il potenziale (o una sua differenza)
l’integrale del campo elettrico, il campo stesso sarà verosimilmente
legato a una derivata del potenziale. Queste due considerazioni si
possono formalizzare, e producono una forma utile per ottenere il
campo dato il potenziale. Supponiamo di avere una differenza di
potenziale infinitesima dV=Vf −Vi tra due punti i e f separati da una
distanza ds. Possiamo scrivere questa differenza come uno sviluppo
fisica 2
in serie al primo ordine
dV =
∂V
∂V
∂V
dx +
dy +
dz.
∂x
∂y
∂z
(1.22)
D’altra parte, dV è pure esprimibile come un contributo infinitesimo
all’integrale di percorso del campo elettrico (Eq.1.20). Siccome il
differenziale di percorso può essere scritto
ds = x̂ dx + ŷ dy + ẑ dz
e, per definizione,
Figura 1.23: Gradiente.
E = x̂Ex + ŷEy + ẑEz ,
l’elementino è
dV = −E · ds = −E · (x̂ dx + ŷ dy + ẑ dz) = − Ex dx − Ey dy − Ez dz.
Confrontando con Eq.1.22 abbiamo dunque che
E
∂V
∂V
∂V
− ŷ
− ẑ
∂x
∂y
∂z
∂
∂
∂
−[x̂ + ŷ + ẑ ] V ≡ −grad V ≡ −∇V
∂x
∂y
∂z
Figura 1.24: Gradiente-2.
= −x̂
=
(1.23)
dove abbiamo definito l’operatore gradiente. Il campo elettrico è
perciò (meno) il gradiente del potenziale elettrico, precisamente come
la forza di gravità lo è del potenziale gravitazionale – e in effetti,
ogni forza per il proprio potenziale. Questo operatore gradiente si
scrive anche come indicato dall’ultima equaglianza in Eq.1.23 come
“nabla vi”. Il nome “nabla” viene dal greco antico per “arpa” e dalla
somiglianza grafica.
L’associazione del gradiente e del potenziale come pendenza locale
di un paesaggio è visualizzata in Figura 1.23 e 1.24 (ricordiamo che i
vettori sono il gradiente, mentre il campo è il gradiente con il segno
negativo). In sostanza, a livello visuale, il potenziale generato da una
carica viene visto come una “montagna” da una carica di prova di
segno concorde. Questa carica può essere fatta “salire” a costo di
un lavoro, oppure può “discendere” acquistando energia cinetica; la
forza elettrica sulla carica di prova è repulsiva , e il campo elettrico
indica la direzione di discesa in massima pendenza dalla montagna
di potenziale. Se le cariche sono discordi, invece, la forza sulla carica
di prova è attrattiva, e il potenziale è visto come un “imbuto” della
stessa forma della montagna, ma ora rovesciata; il campo elettrico
indica ora la direzione di discesa di massima pendenza dentro il
potenziale attrattivo. (Un po’ come l’Inferno e il Purgatorio danteschi,
topologicamente l’uno complementare all’altro.)
Come esempio semplice del calcolo del campo elettrico a partire dal potenziale consideriamo di nuovo la carica puntiforme. Il
potenziale è
Q
V (r ) = k e .
r
Potremmo usare coordinate cartesiane, ma sarebbe molto scomodo.
Usiamo invece coordinate sferiche; i versori delle coordinate sferiche
19
20
sono r̂, θ̂, φ̂, e il gradiente è
−E = ∇V =
∂V
∂V
r̂ + [...] θ̂ + [...] φ̂ =
r̂.
∂r
∂r
I complicati termini che abbiamo omesso nelle parentesi sono proporzionali alle derivate rispetto a θ e φ, e quindi sono zero dato che V
dipende solo da r. Facendo la derivata, si ha che
E = ke
Q
r̂,
r2
come già sapevamo. L’unità di misura del potenziale é il Volt (in
onore di Alessandro Volta), ed essendo le dimensioni quelle di [energia]/[carica], 1 V = 1 J/C. Poichè abbiamo visto che le dimensioni
fisiche del potenziale sono anche [campo]×[distanza], possiamo misurare il campo elettrico in Volt/metro (V/m), che è l’unità più usata
in pratica.
Supposto dato il potenziale V in ogni punto, Eq.1.23 ci fornisce
direttamente il campo elettrico. Risulta che, analogamente al campo,
il potenziale può essere calcolato a partire dalla densità di carica.
Dunque date le cariche possiamo ottenere il potenziale e da esso il
campo.
1.8 Calcolo del potenziale
Come accennato, si può ottenere il potenziale in varie maniere.
1.8.1
Potenziale dalla carica, caso generale (versione differenziale)
Unendo la prima equazione di Maxwell, Eq.1.17, e la definizione di
campo elettrico, Eq.1.23, si ha
ρ/ε 0 = div E = −div gradV = −∇ · ∇V.
Ricordando la definizione dell’operatore ∇, pure in Eq.1.23, si ha
∇ · ∇ ≡ ∇2 = (
∂2
∂2
∂2
+ 2 + 2 ),
2
∂x
∂y
∂x
e quindi
∂2 V
∂2 V
∂2 V
+ 2 + 2 = −ρ/ε 0
2
∂x
∂y
∂x
(1.24)
che è l’equazione di Poisson. Una soluzione, che fornisce direttamente il potenziale in ogni punto di un dato dominio, è data in
forma integrale da Eq.1.26, che deriveremo nella Sezione successiva.
L’equazione è comunque risolvibile anche direttamente sotto appropriate condizioni al contorno. Come esempio, consideriamo un caso
unidimensionale [comparirà qui un calcolo esplicito per un caso 1D].
1.8.2
Potenziale ed energia dalla carica, caso generale (versione
integrale)
Un altro modo di calcolare il potenziale è usare il principio di sovrapposizione in analogia a quanto fatto con il campo elettrico. (Questa è
fisica 2
una versione integrale dell’equazione di Poisson appena vista.) Dato
che la complessità del calcolo è analoga, a volte è conveniente ottenere
il potenziale piuttosto che il campo.
Come fatto per il campo, supponiamo sia data una densità di
carica ρ0 (r0 )=ρ(x 0 ,y0 ,z0 ) localizzata in una certa regione di spazio. In un
volumetto infinitesimo in r0 sarà localizzata una carica dq0 =ρ0 (x 0 ,y0 ,z0 )
dx 0 dy0 dz0 , che possiamo considerare puntiforme. Ci poniamo nel
punto r=(x,y,z) e notiamo che, in base a quanto discusso in precedenza
per la carica puntiforme, il potenziale ivi generato da dq è
dV ( x, y, z)
dq0
ρ0 (r0 )dr0
= ke
(1.25)
0
|r − r |
|r − r0 |
ρ0 ( x 0 , y0 , z0 ) dx 0 dy0 dz0
ke
|r − r0 |
ρ0 ( x 0 , y0 , z0 ) dx 0 dy0 dz0
ke p
.
( x − x 0 )2 + ( y − y 0 )2 + ( z − z 0 )2
= ke
=
=
Integrando ora su tutti gli elementini di carica si ottiene
V ( x, y, z) = k e
Z
dx 0
Z
dy0
Z
dz0 p
ρ0 ( x 0 , y0 , z0 )
( x − x 0 )2 + ( y − y 0 )2 + ( z − z 0 )2
,
o più sinteticamente
V (r) = k e
Z
dr0
ρ0 (r0 )
|r − r0 |
(1.26)
che chiaramente raccoglie tutti i contributi dai punti r0 dove è sita
la densità di carica e genera il potenziale nel punto r. Espressioni
analoghe e più semplici possono essere scritte per il caso a 1 o 2
dimensioni. In generale, per quanto ci riguarda, useremo questa
espressione solo occasionalmente, ma concettualmente il suo uso non
è più difficile di quello della espressione per il campo elettrico che
abbiamo visto in precedenza.
L’idea appena sviluppata può essere usata utilmente per ottenere
l’energia elettrostatica di due sistemi di carica descritti da due qualsiasi densità di carica ρ0 e ρ. L’energia elettrostatica di due cariche
puntiformi è semplicemente il potenziale generato da una delle due
cariche moltiplicato per la seconda carica. Per distribuzioni di carica
generali, possiamo usare l’espressione Eq.1.25 del potenziale generato
in r dalla densità di carica ρ0 (r0 ) posta in r0 , moltiplicarla per la carica
ρ(r) dr presente nel volumetto dr posto in r, e ottenere
dU = dq dV = k e
dq0 dq
ρ0 (r0 )ρ(r) dr0 dr
=
k
.
e
|r − r0 |
|r − r0 |
Essendo il prodotto di due differenziali di carica, dU è un doppio
differenziale, e l’energia si ottiene con una doppia integrazione, sia
su r0 che su r:
U = ke
ZZ
dr0 dr
ρ0 (r0 )ρ(r)
=
|r − r0 |
Z
dr ρ(r) V (r).
Questo U è un singolo numero, che quantifica l’energia totale elettrostatica di interazione delle due cariche, che è peraltro (come mostra
21
22
il terzo membro) lo stesso dell’energia della carica di densità ρ nel
potenziale V generato da ρ0 (e viceversa). Questa energia è nota nel
contesto della teoria quantistica molecolare come energia di Hartree.
1.8.3
Potenziale dalla carica: filo
Come esempio di calcolo del potenziale dalla carica, consideriamo un
filo finito, carico con densità di carica lineare λ che si estende da − L a
L lungo x, e supponiamo che il punto dove calcoliamo il potenziale sia
ortogonale al centro del filo finito, che assumiamo avere coordinata
x=0. Dunque si ha dipendenza solo da y come in precedenza. La
somma dei contributi infinitesimi della carica è come al solito
V
=
=
Z L
dx
Z L
dx
+ y2 )1/2
−L r
h
i
k e λ ln ( x2 + y2 )1/2 + x − ln y |−LL
"
#
p
L + L2 + y2
p
k e λ ln
.
− L + L2 + y2
= ke λ
= ke λ
− L ( x2
Lo stesso risultato si può ottenere, come ora mostriamo, a partire dal
campo elettrico.
1.8.4
Potenziale dal campo elettrico: potenziale di un filo carico
Dalla discussione precedente, la differenza di potenziale è ovviamente
ottenibile dall’integrale del campo elettrico. Nel caso del filo si ha simmetria cilindrica, e come noto il campo elettrico punta ortogonalmente
al filo. Dal campo del filo, il potenziale si ottiene come
V1 − V2 =
Z y2
y1
E dy = 2k e λ
Z y2
dy
y1
y
= 2k e λ ln (
y2
).
y1
Se y1 =y2 , la differenza di potenziale è zero. Tuttavia, se vado da
un punto 1 a un punto 2 a maggiore distanza del filo, il potenziale
aumenta. Questo è naturalmente dovuto al fatto che il filo è infinito e
così, quindi, la sua carica. Il calcolo, un po’ più complicato, per il filo
finito di lunghezza L fornisce
"
#
p
L + L2 + y2
p
V (y) = k e λ ln
,
− L + L2 + y2
che tende logaritmicamente a zero a grande y, come atteso per una
carica finita.
1.8.5
Figura 1.25: Campo e potenziale tra una
coppia di piani carichi.
Potenziale dal campo elettrico: potenziale di un piano carico
Come riassunto in Fig.1.25, il potenziale tra due piatti piani e paralleli
si ottiene banalmente dall’integrale di percorso del campo. Il campo
è costante tra i due piatti, e quindi il potenziale scende linearmente
dal piatto positivo a quello negativo. All’esterno il campo è nullo,
quindi il potenziale è costante. Attraverso il sistema di piatti, che
supponiamo essere a distanza mutua h, la differenza di potenziale è
σ
δV = h.
ε0
fisica 2
23
Questo risultato ha immediata applicazione, ad esempio, nei capacitori.
1.8.6 Potenziale dal principio di sovrapposizione: dipolo
Altro caso semplice in cui possiamo utilizzare il principio di sovrapposizione per ottenere il potenziale e da esso il campo è quello del dipolo
elettrico. Il dipolo è costituito da una coppia di cariche opposte ma
con lo stesso modulo q, poste a distanza mutua d. La quantità “dipolo
elettrico” di un sistema qualunque è, per estensione, un vettore
p = qd
dove d ha modulo d e punta convenzionalmente dalla carica negativa
a quella positiva. Il potenziale del dipolo è la somma di quelli delle
due cariche costituenti. Supponendo che rp e rn siano le distanze del
punto r dove calcoliamo il potenziale dalle cariche positiva e negativa,
rispettivamente, abbiamo
rn − rp
1
1
V (r ) = k e q
−
= ke q
.
rp
rn
rp rn
Se supponiamo ora che r d, chiamato θ l’angolo tra la direzione
congiungente il centro del dipolo e il suo asse, si ha
rn − rp ' d cos θ e rp rn ' r2 .
Allora
V (r ) = k e q
rn − rp
rp rn
' ke q
d cos θ
p cos θ
p · r̂
= ke
= ke 2 .
2
2
r
r
r
Il campo elettrico può essere ottenuto da questo potenziale con un
po’ di fatica, e risulta essere
ke
[3( p · r ) r − p ] .
r3
Il dipolo elettrico è importante perchè molto più comune del monopolo (la carica netta); ad esempio la molecola d’acqua non è carica,
ma è dipolare, e così moltissime specie molecolari. Inoltre, il dipolo
interagisce con un campo elettrico (Fig.1.26): il campo “tira” le due
cariche opposte in direzioni opposte e quindi fa ruotare il dipolo.
(Uno sketch di potenziale e campo del dipolo è mostrato in Sezione
1.7.)
La posizione di equilibrio è chiaramente quella parallela al campo.
Se l’angolo tra il campo esterno e il dipolo è θ, il momento torcente è
E(r) =
M = p × E = p E sin θ ẑ.
ll momento torcente (quindi la sorgente di campo elettrico) fa un
lavoro per portare p alla posizione di equilibrio; questo lavoro cambiato di segno è l’energia potenziale conferita al dipolo. Inversamente,
e più semplicemente, si può considerare il lavoro fatto idealmente
dal dipolo contro il momento torcente per aumentare l’angolo da
Figura 1.26: Dipolo in campo elettrico
24
quello di equilibrio a un altro arbitrario, che dà direttamente l’energia
potenziale
U=
Z θ
0
M dθ 0 =
Z θ
0
E p sin θ 0 dθ 0 = E p (1 − cos θ ).
Se θ=0 si ha un minimo, se θ=π si ha un massimo. Il primo caso
corrisponde al dipolo orientato parallelo al campo, e il secondo al
dipolo orientato antiparallelo: in quel caso la carica positiva si affaccia
verso le cariche generatrici positive, il che è chiaramente svantaggioso energeticamente. Se scegliamo lo zero dell’energia trascurando
la costante Ep, che non dipende dall’angolo, abbiamo una energia
potenziale
U = − E p cos θ = −p · E.
1.9 Seconda equazione di Maxwell
Come la prima equazione è stata ottenuta dalla legge di Gauss, si può
formulare la seconda equazione di Maxwell in forma differenziale
parallelamente alla legge delle circuitazione, grazie a un teorema di
calcolo differenziale vettoriale che dice che il flusso del rotore di un
vettore attraverso una superficie è pari alla circuitazione del vettore
stesso su una linea che delimita la superficie. Per il campo elettrico
questo si scrive
I
S
rot E · dA =
I
L
E · dr.
(1.27)
Il rotore è un operatore che si applica a un vettore e produce un
altro vettore; il rotore di un campo vettoriale, perciò, è un vettore, e
precisamente
∇ × E = rot E = x̂(
Figura 1.27: Campi senza rotore (alto) e
con rotore (basso).
∂Ey
∂Ey
∂Ez
∂Ex
∂Ez
∂Ex
−
) + ŷ(
−
) + ẑ(
−
),
∂y
∂z
∂z
∂x
∂x
∂y
una specie di derivata “rotazionale” del vettore in questione. Nonostante l’aspetto da robot d’acciaio, nei casi che ci riguardano è molto
semplice da usare. Ad esempio i campi mostrati qui a lato hanno
rotore, rispettivamente, nullo e proporzionale a –ẑ. Eq. 1.27 dice che
la circuitazione del vettore è pari al flusso del suo rotore. Come si
vede a occhio, nella figura in basso il vettore circola lungo la linea
e ha rotore parallelo a −ẑ (obbedendo la regola della vite di cui si
parlerà a proposito del campo magnetico), e quindi con flusso nonzero attraverso l’area delimitata dalla linea. In quella in alto, invece,
la circolazione del vettore sui diversi settori di linea si compensa,
annullandosi; nel contempo il rotore è nullo e quindi il suo flusso è
pure zero.
Se ora ricordiamo Eq.1.21, che dice che la circuitazione di E si
annulla, allora per Eq.1.27 anche il rotore di E si annulla. Alternativamente possiamo osservare che il campo è il gradiente del potenziale
e che il rotore di qualunque vettore può essere scritto
rot E = ∇ × E.
fisica 2
25
Allora
rot E = ∇ × E = −∇ × ∇ V = 0
perchè ∇ è un vettore, e il prodotto vettoriale di un vettore per sé
stesso è zero. Detto diversamente, il rotore di un gradiente è sempre
zero. Nel linguaggio della fluidodinamica, un gradiente è sempre
laminare e il rotore di un campo laminare è nullo, perchè il campo
laminare fluisce (come in un fiume in pianura) senza “arrotolarsi”
(come avviene invece in regioni turbolente). Otteniamo dunque la
seconda equazione di Maxwell per l’elettrostatica
rot E = 0;
I
L
E · dr = 0
(1.28)
Questa versione, va notato, non è quella finale: non si applica infatti
in presenza di campi magnetici variabili nel tempo, a causa di effetti
di induzione elettromagnetica che discuteremo.
1.10 Capacità
La definizione di potenziale elettrico conduce naturalmente a quella
di capacità elettrica di un conduttore. La capacità quantifica la carica
immagazzinabile in sistemi di conduttori sottoposti a una differenza
di potenziale il potenziale V. Gli elementi circuitali dotati di capacità
si chiamano condensatori e sono parte essenziale di tutti i circuiti
elettrici. Preliminarmente alla definizione e calcolo della capacità,
discutiamo i materiali conduttori.
1.10.1
Figura 1.28: Induzione di carica in un
conduttore.
Conduttori
Sappiamo intuitivamente che i conduttori sono materiali (tipicamente metalli) in cui, pur essendo mantenuta la neutralità complessiva,
alcune cariche sono sostanzialmente libere di muoversi in risposta
all’azione di un campo elettrico, o, che è lo stesso, attraverso una
differenza di potenziale (da potenziale grande a potenziale piccolo), e
trasformano la loro energia potenziale in energia cinetica e muovendosi ad alta velocità. Diciamo in questi casi che fluisce una corrente
(la definiremo meglio poi). Viceversa, negli isolanti la corrente non
fluisce: le cariche sono essenzialmente legati ai nuclei e ne risulta al
più una polarizzazione, ovvero uno spostamento relativo (piccolo)
della carica negativa elettronica rispetto alla carica positiva nucleare.
In un conduttore, in presenza di un campo elettrico, la carica
libera si muove verso le superfici per schermarlo. Ne risultano cariche
nette non nulle alle superfici. In presenza di una carica positiva entro
un metallo, gli elettroni le si avvicinano per compensarla, lasciando
alla superficie carica positiva nella stessa quantità. In ognuno di
questi casi, il campo elettrico all’interno di un conduttore è zero
(alla fine dei transienti necessari all’azione di schermo). Dunque,
per esempio grazie alla legge di Gauss, all’interno di una cavità
metallica non può essere presente una carica netta. Inoltre, dato che
il campo elettrico deve avere circuitazione nulla, la carica non può
Figura 1.29: Schermo di carica in
un conduttore: il campo nella zona
ombreggiata è zero.
26
essere nemmeno disomogenea: detto diversamente, anche i multipoli
superiori al monopolo (la carica), cioè il dipolo, il quadrupolo, etc.
vengono schermati dalla carica libera. Tra le varie conseguenze,
c’è il fatto che un conduttore contenente una carica di qualunque
forma e posizione possiede una carica sulla superficie esterna, e
la sua distribuzione dipende solo dalla superficie del conduttore (e
in particolare dalla sua curvatura locale). Un conduttore sferico
con una certa carica in un punto interno qualunque ha la stessa
carica in valore assoluto e segno distribuita con densità costante
sulla sua superficie, e il campo visto all’esterno è quello di una
carica puntiforme, indipendentemente dalla forma e disposizione
della carica all’interno. È il caso di precisare che in un metallo l’effetto
di schermo avviene su distanze finite, cioè la perturbazione indotta
dalla carica (e quindi il capo da essa prodotto) si propaga per una
certa distanza dalla carica stessa. Questo è un effetto trascurabile per
i nostri scopi attuali, ma potenzialmente importante nella descrizione
dettagliata di difetti, superfici, e interfacce tra materiali.
1.10.2
Definizione di capacità
Come appena visto, il campo elettrico all’interno di un conduttore è
nullo e dunque il potenziale è costante. La superficie di un conduttore
è perciò una superficie equipotenziale. Ne segue che la carica aggiunta
a un conduttore deve disporsi alla superficie (in modo eventualmente
dipendente dalla forma). La carica alla superficie è
Q=
I
S
σ dA
e dunque il potenziale alla superficie, per definizione, è
V = kq
I
S
σ dA
= costante.
r
Dunque è evidente che, se la carica aumenta, Q→mQ, il potenziale
aumenta dello stesso fattore, V →mV, e il rapporto tra i due non
cambia. Questo rapporto si dice capacità
C=
Q
,
V
e quantifica la carica immagazzinabile dal conduttore sotto il potenziale V; essa non dipende dalla carica ma solo (come vedremo tra
poco) dalla forma del conduttore. L’unità di capacità è il Farad (in
onore di Michael Faraday). Siccome 1 F= 1 Coulomb/Volt, la capacità
di 1 F è gigantesca. Misure tipiche di capacità sono dell’ordine del
nanoFarad (1 nF= 10−9 F).
1.10.3
Capacità di una sfera; “potere delle punte”
Come detto in precedenza, il potenziale sulla superficie di una sfera
di carica Q e raggio R è costante e pari a
V0 =
Q
.
4πε 0 R
fisica 2
27
Dunque, da C=Q/V, la sua capacità è
Csfera = 4πε 0 R.
Questo esemplifica una proprietà generale: la capacità ha dimensioni
[ε 0 ]×[lunghezza]. In linea con quanto detto del Farad come unità,
notiamo che se R=0.1 m, risulta che C=1 pF=10−12 F. Anche una sfera
enorme come la Terra (un decente conduttore, essendo per gran parte
acqua salata, sali idrati, etc.) ha una capacità comunque non enorme:
R=7×106 ci fornisce C=1 mF (10−3 F).
Rimanendo in tema, studiamo il fenomeno noto come “potere
delle punte”, cioè la tendenza di conduttori appuntiti a scaricarsi (o
attrarre carica) più facilmente, come ad esempio gli accendini elettrici
o il parafulmine. Mettiamo a contatto due sfere conduttrici S1 e S2 . Il
potenziale delle due è lo stesso,
V1 = V2 =
Q1
Q2
=
,
4πε 0 R1
4πε 0 R2
dove Q1 e Q2 sono le rispettive cariche. Dunque
Q
Q2
= 1
R2
R1
cioè, essendo Q=Q1 +Q2 la carica totale,
Q2 = Q1
R
R1
R2
R2
= ( Q − Q2 ) 2 → Q2 =
Q; Q1 =
Q.
R1
R1
R1 + R2
R1 + R2
Dunque la densità di carica (ad esempio) sulla sfera S2 è
σ2 =
R1 Q2
4πR22
e analogamente σ1 '1/R21 . La densità di carica è perciò inversamente proporzionale al quadrato del raggio di curvatura della superficie (che
sarebbe il raggio del cosidetto cerchio osculatore). Una superficie
molto curva ha raggio di curvatura piccolo, e quindi densità di carica
locale grande. Questo indica che oggetti “a punta”, cioè appunto
con curvatura grande (raggio piccolo), hanno una grande densità
di carica locale. Per ottenere il campo elettrico nelle vicinanze di
oggetti a punta, possiamo immaginare di avvicinarci alla superficie
(molto curva) tanto da vederla come localmente piatta. Invochiamo
poi il fatto che per una superficie carica E∼σ: il campo prodotto da
una superficie molto curva è molto grande perchè è molto grande la
densità di carica locale, a parità di carica totale.
Il parafulmine (Figura 1.30) funziona appunto in base a questo
principio; in presenza di forti cariche al suolo che si contrappongono
a quelle nelle nubi, si ha un grande campo elettrico, ma questo è di
solito insufficiente a causare la rottura dielettrica in aria (che avviene
per ionizzazione degli atomi componenti, prevalentemente azoto, e
quindi richiede alti campi per iniziare); inoltre, idealizzando il sistema
nubi-suolo come due piatti carichi, non c’è un punto privilegiato in
cui la scarica possa avvenire. Una punta, invece, agisce da “hot spot”,
Figura 1.30: Schema del parafulmine.
28
e il campo vicino ad essa può eccedere il limite di rottura dielettrica
dell’aria (circa 3×106 V/m) e far partire una scarica (il fulmine).
Stesso principio per l’accendino elettrico, che produce una scarica ad
arco tra due punte usando una tensione che sarebbe insufficiente se
applicata tra due elettrodi piatti.
1.10.4
Condensatori a piatti piani e paralleli
Un condensatore è costituito da due conduttori ugualmente carichi,
ma con carica di segno opposto. Il caso più semplice è quello di
piatti piani e paralleli. Due piatti conduttori di spessore trascurabile
mutuamente affacciati sono assunti essere dotati di carica Q e − Q.
Sappiamo che il campo tra i piatti è costante e pari a σ/ε 0 , e quindi la
caduta di potenziale è
∆V = Eh =
σ
σA
Q h
h=
h=
.
ε0
ε0 A
ε0 A
Per definizione la capacità è dunque
C=
ε A
ε A
Q
=Q 0 = 0 ,
∆V
Qh
h
che come si vede ha di nuovo le dimensioni corrette e dipende da
parametri di forma dei conduttori coinvolti. La capacità è grande
per piatti molto vicini e di grande area. I capacitori a cilindretto che
si comprano nei negozi sono grandi fogli metallici separati da un
sottile strato di un dielettrico plastico (discuteremo tra poco l’effetto
del materiale sulle proprietà del condensatore).
1.10.5
Condensatore cilindrico
Il condensatore cilindrico ha due poli cilindrici concentrici, uno positivo e uno negativo, di lunghezza ` e densità lineare di carica λ.
Guardando il sistema lungo l’asse, possiamo usare la legge di Gauss
nella regione tra i due cilindri, e troviamo che
2π ` rE =
`λ
λ
⇒ E=
r̂
ε0
2πε 0 r
Il potenziale viene dall’integrale di percorso del campo ed è
Figura 1.31: Condensatore cilindrico.
Vi − Ve =
Z R2
R1
E · dr =
λ
2πε 0
Z R2
dr
R1
r
=
λ
R2
ln
,
2πε 0
R1
con R2 > R1 i raggi del cilindro esterno e interno rispettivamente.
Dunque la capacità è
C=
Q
2πε 0
2πε 0 `
= `λ
=
,
R
R2
2
∆V
λ ln R
ln R
1
1
con le solite dimensioni e dipendenza da parametri geometrici. R1
è il raggio esterno del cilindro interno e R2 è il raggio interno del
cilindro esterno, quindi R2 > R1 , e il logaritmo è positivo. Come si
vede la capacità è proporzionale a `, che è di fatto la lunghezza
della sovrapposizione tra il cilindro interno e quello esterno, e quindi
può essere variata sfilando e riinfilando il cilindro interno in quello
esterno.
fisica 2
1.10.6
29
Condensatore sferico
Il condensatore sferici ha due poli sferici concentrici di carica Q in
modulo; quello interno (che assumiamo essere carico positivamente)
è di raggio R1 e quello esterno di raggio R2 > R1 . La differenza di
potenziale (positiva) ottenuta come integrale di cammino del campo
elettrico dlla sfera interna a quella esterna (che si può ottenere dal
teorema di Gauss per la sfera interna) è
Figura 1.32: Condensatore sferico.
Vi − Ve
=
=
Z R2
dr
Q
1
1
Q
=
−
(
)
4πε 0 R1 r2
4πε 0 R1
R2
Q R2 − R1
Q
= ,
4πε 0 R1 R2
C
da cui la capacità
C=
4πε 0 R1 R2
,
R2 − R1
che è positiva e con le solite dimensioni e dipendenza da parametri
geometrici. Nel caso limite in cui le due sfere sono quasi uguali ma
non proprio, cioè R1 ∼ R2 ≡ R e h=R2 –R1 , la capacità è
C=
4πε 0 R1 R2
ε A
4πε 0 R2
'
= 0
R2 − R1
h
h
che è la stessa del condensatore piano e parallelo. In sostanza, in
questo limite, le due sfere possono essere considerate localmente
piane ai fini della capacità.
1.10.7
Condensatori in serie e in parallelo
I condensatori possono essere collegati ad altri conduttori (cioè, infine,
a un circuito) in serie o in parallelo (Figura 1.33). Nel caso parallelo,
la quantità fissa è il potenziale ai capi del blocco di capacitori. Ogni
condensatore del blocco ha carica qi e capacità Ci . La carica totale è
Figura 1.33: Condensatori in serie e
parallelo.
Q = q1 + q2 + ... = C1 V + C2 V + ... = Ctot V,
e quindi la capacità totale del blocco di condensatori in parallelo è la
somma delle singole capacità
Ctot = C1 + C2 + ...
o detto diversamente, le capacità in parallelo si sommano direttamente.
Nel caso in serie, la quantità di riferimento è la carica. Questo si può
vedere “creando” un capacitore all’interno di un altro capacitore come
in Figura 1.34. La differenza di potenziale ai capi di ogni condensatore
è diversa. Specificamente, per esempio per due condensatori,
V = VC − VA = VC − VB + VB − VA =
Q
Q
Q
+
=
C1
C2
Ctot
e quindi
1
1
1
=
+ ,
Ctot
C1
C2
ovvero le capacità in serie si sommano inversamente.
Figura 1.34: Carica conservata nei
condensatori in serie.
30
1.10.8
Energia immagazzinata in un condensatore
Un condensatore è in sostanza un separatore di carica; l’oggetto nel
suo complesso rimane neutro, ma una certa quantità di carica, per
esempio, negativa è stata trasferita da un piatto all’altro attraverso
un conduttore esterno, lasciando il primo carico positivamente. Così
facendo si produce una differenza di potenziale, e dunque l’operazione richiede un lavoro: per definizione di potenziale, il trasferimento
di una piccola carica dq0 attraverso una differenza di potenziale V 0
corrisponde a un lavoro infinitesimo
dW = V 0 dq0 =
q0 0
dq ,
C
dove q0 è la carica sul piatto e V 0 il potenziale in un datomomento del
processo di carica. Quindi l’energia per trasferire una carica totale q è
W=
Z q 0
q
0
C
"
0
dq =
2
q0
2C
#q
=
0
q2
CV 2
qV
=
=
.
2C
2
2
Queste tre espressioni sono equivalenti e intercambiabili. Ne esiste
una quarta che si ottiene usando la formula qui sopra per il caso a
piatti piani e paralleli:
W=
CV 2
ε A
= 0 E2 h2 .
2
2h
Poichè Ah è il volume del condensatore, la densità di energia u=W/(Ah)
è
ε 0 E2
u=
.
2
Questa è una espressione del tutto generale, come vedremo in seguito,
e applicabile perfino al caso delle onde elettromagnetiche. Per confortarci sul fatto che la formula generale si applichi anche in casi diversi
da quello in cui è stata derivata, possiamo usarla in un caso in cui
il campo non sia costante e mostrare che si riottiene una delle altre
espressioni. Consideriamo un condensatore sferico, dove il campo
non è costante, e dobbiamo integrarlo nel volume. Usiamo coordinate
sferiche, cosicchè la parte angolare fornisce la costante 4π:
W
=
=
2
Z R2 Z
ε0
ε0
q
E2 dV = 4π
r2 dr =
2
2
4πε 0 r2
R1
Z R2
q q
dr
q q
1
1
qV
=
−
=
, (1.29)
2 4πε 0 R1 r2
2 4πε 0 R1
R2
2
dove l’ultima espressione è una di quelle trovate poco fa.
1.11 Condensatori con dielettrico
Possiamo variare la capacità nei condensatori modificando il mezzo
che li permea. Fin qui abbiamo supposto che i condensatori fossero
vuoti, o pieni d’aria (largamente la stessa cosa). In questo caso, cui
fisica 2
associamo il pedice “0”, il campo elettrico e la caduta di potenziale
attraverso il capacitore sono
E0 =
σ0
ε0
⇒ V0 =
q0
= E0 h.
C0
Immaginiamo di interporre tra le armature uno strato di metallo
di spessore s, abbastanza spesso da avere un interno e abbastanza
sottile da lasciare delle regioni di vuoto da ambedue i lati. La carica
sulle armature induce carica di segno opposto sulle due superfici del
metallo, al cui interno il campo è zero. La caduta di potenziale entro
il metallo è quindi zero, mentre all’esterno rimane proporzionale al
campo, che è invariato essendo uguali le cariche sulle armature, e allo
spessore della regione di vuoto. Dunque
V = E0 (h − s),
ovvero la caduta di potenziale complessiva è ridotta dalla presenza
del metallo (specificamente, dalla risposta dei suoi elettroni, che si
spostano alle superfici per schermare il campo esterno). Siccome
posizionare il metallo in modo corretto è impossibile, si ricorre a
un mezzo isolante di spessore uguale a quello del condensatore. Ci
attendiamo (e giustificheremo in seguito) che la risposta elettronica di
questo mezzo, seppur minore di quella del metallo, riduca la caduta
di potenziale di un certo fattore
Vκ =
dove
κ=
V0
.
κ
V0
≥1
Vd
è detta permeabilità, o costante, dielettrica relativa, e il mezzo è detto
dielettrico.
Useremo il pedice “κ” per distinguere le quantità del condensatore
con dielettrico da quelle del condensatore vuoto. Questo mezzo non
ha carica libera, ma solo carica polarizzabile: la carica elettronica
(negativa) e quella carica nucleare (positiva) rimangono legate, e
possono solo spostarsi leggermente in direzioni opposte in risposta al
campo elettrico.
Ora entro il condensatore, il cui spessore non è cambiato, il campo
è pure ridotto a
Eκ =
Vκ
V
E
σ
σ
= 0 = 0 = 0 ≡ 0
h
κh
κ
ε0κ
ε
dove abbiamo definito implicitamente la costante dielettrica assoluta
ε = ε 0 κ,
che ha le stesse dimensioni di ε 0 . Naturalmente la capacità è aumentata, perchè il potenziale Vκ = V0 /κ è minore, ma la carica sulle
armature è sempre la stessa:
Cκ =
q0
q
= κ 0 = κC0 ≥ C0 .
Vκ
V0
31
32
Tutte le relazioni viste in precedenza, dunque, valgono ancora sostituendo la costante dielettrica del mezzo a quella del vuoto.
A proposito dell’energia immagazzinata, ci sono due situazioni
distinte. Se inseriamo il dielettrico in un condensatore carico sconnesso da fonti esterne, come abbiamo visto, il potenziale scende di un
fattore κ e la capacità aumenta dello stesso fattore, e quindi
W0 =
C0 V02
2
⇒ Wκ =
Cκ V02
C0 V02
Cκ Vκ2
W
=
=
= 0,
2
2
2κ
κ
2κ
cioè l’energia immagazzinata diminuisce di un fattore κ. Questo
concorda con la conservazione dell’energia in un sistema isolato,
perchè parte dell’energia iniziale viene usata (vedremo tra poco) per
“pagare" la polarizzazione del dielettrico, e ovviamente con il fatto
che la carica totale è fissa e uguale a Q0 =C0 V0 .
Se invece manteniamo con un generatore esterno una tensione
fissa V0 sul condensatore mentre vi infiliamo il dielettrico, l’energia
immagazzinata è
W=
C0 V02
2
⇒W=
Cκ V02
,
2
cioè aumenta di un fattore κ. Infatti, mantenere il potenziale fisso
significa aumentare la carica sui piatti (dove la porta il generatore,
spendendo energia) da Q0 =C0 V0 a Qκ =Cκ V0 .
1.11.1
Origine di κ: polarizzazione e campo schermato
Chiaramente, la variazione di carica, campo elettrico, e potenziale è
dovuta alla presenza del dielettrico, e dunque a qualche sua proprietà
intrinseca, che abbiamo riassunto nella costante κ. La differenza dei
campi elettrici nei casi con e senza dielettrico è
δE = E0 − Eκ =
σ0
σ
κ − 1 σ0
− 0 =
ε0
κε 0
κ ε0
e quindi
Eκ = E0 − δE =
Figura 1.35: Polarizzazione indotta.
σ0 − σp
σ0
κ − 1 σ0
1 χ −
=
σ0 − σ0 =
,
ε0
κ ε0
ε0
κ
ε0
dove abbiamo definito la suscettività dielettrica χ. Dunque il campo
in presenza di dielettrico è generato dalla carica originale σ0 ridotta
da un’altra carica σp =σ0 (χ/κ) nel dielettrico dalla stessa σ0 . Questa
carica è dovuta alla sola risposta possibile del dielettrico, cioè la
polarizzazione (Figura 1.35). Il campo elettrico applicato al dielettrico
induce un dipolo netto all’interno del materiale; questo è quantificato
dalla polarizzazione
P = ε 0 χ E.
P=|P| è un dipolo per unità di volume, e quindi [carica]/[area], e si
misura in C/m2 . In un pezzo di materiale finito la polarizzazione (più
rigorosamente, la differenza di polarizzazione tra esterno e interno:
ma qui all’esterno c’è il vuoto, che non è polarizzabile) equivale a un
dipolo attraverso il pezzo di materiale stesso, composto dalle cariche
fisica 2
di superficie, e che quindi non esisterebbe se non ci fossero le superfici.
La carica areale σp si può quindi identificare con la carica areale del
dipolo creato dalla polarizzazione degli atomi del dielettrico, e quindi
in sostanza
σp = P
(hanno anche le stesse unità). Si istituisce così un collegamento tra la
carica indotta e il meccanismo microscopico della polarizzazione. Ma
chi è il campo che induce P ? Il campo nudo, quello schermato, una
via di mezzo ? Riprendendo le relazioni tra i campi osserviamo che
E=
σ0 − σp
P
ε χE
= E0 −
= E0 − 0
= E0 − χ E
ε0
ε0
ε0
e dunque, usando la definizione di χ, si ottiene
E=
E0
κ
e
χ
E0 .
κ
Queste relazioni dicono che il campo polarizzante è il campo schermato, e che dunque il campo esterno polarizza (tramite χ) ed è,
al contempo, schermato (tramite κ) dal dielettrico, producendo come risultato finale la carica di polarizzazione σp . I due effetti sono,
comprensibilmente, inscindibili essendo il campo esterno a fornire
l’energia per polarizzare il dielettrico, risultandone quindi ridotto.
σp = ε 0
1.11.2
Polarizzazione, campo elettrico, e campo di spostamento D
Va notato che il caso che abbiamo discusso è piuttosto particolare,
dato che riguarda la carica di polarizzazione alla superficie del dielettrico entro il condensatore. In generale, la comparsa della carica
di polarizzazione è legata alla variazione spaziale di polarizzazione;
nel caso discusso sopra, essa è P all’interno e zero all’esterno del
dielettrico, e la variazione ∆P≡ P è appunto uguale alla densità di
carica. In generale, in mezzi dove la polarizzazione è disomogenea,
questo si esprime dicendo che
div P = −ρpol ,
che si riduce al risultato trovato prima nel caso speciale di una
superficie tra dielettrico e vuoto.
Notiamo anche che esiste una formulazione delle equazioni di
Maxwell dell’elettrostatica nella materia, che include la polarizzazione P della materia stessa in un nuovo campo detto spostamento
dielettrico,
D = ε 0 E + P.
La legge di Gauss in forma di prima equazione di Maxwell è
div D = ρlibera ,
dove la densità di carica è quella delle sole cariche libere, ricordando
che la densità totale ρ=ρlibera +ρpol , l’ultima essendo la carica associata
33
34
alla polarizzazione di cui si è discusso sopra (che è appunto inclusa
nella definizione di D). In particolare si ha, ricordando la relazione
tra P e ρpol qui sopra,
div D = div (ε 0 E + P) = ρlibera = ρ − ρpol = ρ + div P
e quindi combinando il secondo e l’ultimo membro
div E =
ρ
,
ε0
cioè si riottiene l’equazione di Maxwell-Gauss per il campo E.
1.11.3
Figura 1.36: Polarizzazione vs campo o
deformazione in materiali piroelettrici,
dielettrici e ferroelettrici.
Dielettrici e altri animali
Il tipo di materiale che abbiamo appena discusso si chiama dielettrico e, come detto, è un isolante polarizzabile da un campo elettrico
applicato, nel quale la polarizzazione è a) lineare in (cioè proporzionale a) E, b) è nulla in assenza di campo. P in funzione di E si può
quindi rappresentare come una retta passante per l’origine, come in
Figura 1.36; la pendenza misura la suscettività dielettrica, che abbiamo incontrato poco fa. Questo è probabilmente il tipo di risposta
di polarizzazione più comune, ma esistono non pochi materiali con
proprietà di polarizzazione diverse. In essenza, questi materiali sono
polarizzati semi-permanentemente in modo spontaneo (ferroelettrici,
piroelettrici) o per deformazione (piezoelettrici). In ambedue i casi
è la simmetria della struttura microscopica (di equilibrio nei primi
due casi, sotto sforzo nel terzo) a rendere possibile l’esistenza della
polarizzazione: specificamente, l’inversione non è una operazione
di simmetria in questi materiali. L’inversione è l’operazione Î per
cui Î[x,y,x]=[–x,–y,–z]). Se il sistema è invariante sotto questa trasformazione, qualunque vettore polare come P deve potersi trasformare
nel proprio opposto mantenendosi invariato, e quindi il solo valore
possibile delle sue componenti è zero.
I piezoelettrici sono isolanti che sviluppano una polarizzazione se
sottoposti a deformazione o sforzo meccanico; su superfici opposte del
materiale si generano cariche di segno opposto e quindi una differenza
di potenziale (esempio classico, il solito accendigas menzionato in
Sezione 1.10.3). Il coefficiente di proporzionalità tra polarizzazione, e
quindi tensione, generata ai capi del materiale e sforzo meccanico o
deformazione si chiama coefficiente piezoelettrico diretto (ne esistono
quindi due tipi). Esiste poi l’effetto piezoelettrico inverso: il materiale
si deforma se applichiamo una tensione ai suoi capi. In questo
caso il coefficiente si chiama piezoelettrico inverso. Poichè lo sforzo
meccanico e le deformazioni non sono scalari, ma tensori, dunque
risulta che i coefficienti piezoelettrici d sono tensori. Precisamente
sono di rango tre (cioè matrici a tre indici), perchè trasformano un
tensore di rango 2 (lo sforzo S) in uno di rango 1 (vettore), come nella
relazione diretta
←
→←
→
P= d S ,
fisica 2
35
oppure come nell’effetto inverso, il vettore campo elettrico nel tensore
e delle deformazioni (rango 2):
←
→
←
→
e = d E.
I materiali piroelettrici e ferroelettrici sono caratterizzati dall’avere
una polarizzazione non nulla a campo nullo e, soprattutto, permanente (almeno in ampi intervalli di temperatura). I piroelettrici devono il
loro nome alla variazione della loro polarizzazione permanente con la
temperatura (πυρoς: fuoco in greco), ma la loro proprietà più interessante è quella di avere, in molti casi, una struttura atomica tale che la
loro polarizzazione non è invertibile, diversamente dai ferroelettrici.
Nella massima parte dei casi, la polarizzazione non scompare ad alta
temperatura o sotto pressione, come capita nei ferroelettrici. Una
classe famosa di piroelettrici sono i cosidetti nitruri III-V, utilizzati
prevalentemente nella produzione di unità di illuminazione LED (e
per i quali è stato dato il premio Nobel per la fisica 2014), oltre che
di transistor di alta potenza e alta frequenza: questi ultimi sono resi
possibili proprio dalla loro polarizzazione. La loro relazione P vs E
è lineare, ma parte da un valore non nullo di P. I piroelettrici sono
anche piezoelettrici, cioè la polarizzazione cambia se il materiale è
sottoposto a sforzi.
I ferroelettrici sono materiali che hanno una polarizzazione permanente (entro certi intervalli di condizioni esterne) invertibile (o in
generale riorientabile). L’esistenza della polarizzazione è dovuta alla
distorsione cooperativa della struttura microscopica; semplificando,
tutti gli atomi di un dato tipo nella unità elementare che forma il
cristallo del materiale in questione effettuano cooperativamente e
spontaneamente uno spostamento che genera un dipolo microscopico.
Un tipico caso è lo spostamento del sottoreticolo del Ti nel materiale
BaTiO3 , come mostrato in Figura 1.37. L’invertibilità della polarizzazione è dovuta al fatto che esistono diverse direzioni possibili in
cui gli atomi possono distorcersi (in Figura, le direzioni sono sei, e
puntano verso le facce del cubo); essi ne scelgono a caso una specifica, ma con un campo elettrico possiamo forzarli a cambiare idea.
È interessante notare che la teoria più semplice della ferroelettricità
è strettamente applicabile anche al ferromagnetismo (Sezione 3.10).
Questo viene in parte dal fatto che in ambedue i casi ad ordinarsi
sono dei dipoli (elettrici qui, magnetici nel magnetismo).
Figura 1.37: Distorsione atomica che genera un dipolo in una cella primitiva del
ferroelettrico BaTiO3 .
2. Conduzione e circuiti DC
2.1 Moto di carica e conduzione
Finora abbiamo parlato quasi esclusivamente di situazioni statiche.
Tuttavia la presenza di campi elettrici e di differenze di potenziale,
ossia di forze e di dislivelli di energia potenziale, implica che le
cariche verranno messe in moto. Il moto della carica nel tempo è
quantificato dalla corrente, cioè dalla quantità di carica che transita
per un dato punto nello spazio (ad esempio attraverso una superficie)
divisa il tempo in cui lo fa. Il moto di cariche, ad esempio in un
conduttore, è ostacolato da diversi fattori microscopici, in assenza
dei quali succederebbero cose alquanto strane, che invece non si
osservano; un campo elettrico costante, ad esempio, produce una
forza costante e quindi una accelerazione costante, e di conseguenza
una velocità che aumenta indefinitamente nel tempo: ci si potrebbe
dunque aspettare un aumento indefinito della corrente, il che non
avviene (per fortuna).
La corrente stazionaria tipica dei circuiti elettrici di uso corrente
è uno stato di equilibrio dinamico tra l’azione delle forze elettriche
(o differenze di potenziale) che cercano di tenere in moto i portatori
di carica (di solito, gli elettroni) ed i meccanismi microscopici con
cui il materiale si oppone al moto degli elettroni stessi (ad esempio,
vibrazioni dei nuclei attorno alle loro posizioni di equilibrio, difetti di
vario tipo, non-cristallinità, etc.). La corrente è
I=
dq
,
dt
e la sua unità di misura è l’Ampere, 1 A= 1 C/s. Un A è una corrente
grande ma non inusuale, mentre sappiamo che un C è una carica
enorme; il motivo di questa apparente inconsistenza è che 1 s è un
tempo molto grande sulla scala del moto della carica nei conduttori.
(Una corrente di 1 A può essere prodotta infatti anche da 1 nC che
transita tra due punti in 1 nsec.)
38
Poichè il moto della carica è causato dalla differenza di potenziale
(anche detta tensione) tra due punti nello spazio, è verosimile che la
corrente sia ad essa proporzionale. Le costanti di proporzionalità
sono definite implicitamente dalla relazione nota come legge di Ohm,
I=
V
= GV,
R
dove R è nota come resistenza e G come conduttanza. A parità
di tensione V, grande resistenza implica piccola corrente; grande
conduttanza, grande corrente. Poichè, come vedremo, resistenza
e conduttanza sono dipendenti dalla forma del conduttore, è utile
conoscere la resistività ρ e la conduttività σ, che sono due versioni
delle stesse quantità definite solo in dipendenza dal materiale che
compone il conduttore, e non dalla sua forma e dimensioni.
Dato un campo elettrico costante in modulo e fisso in direzione, eventuali portatori di carica positivi avanzeranno nella direzione
+
del campo con una certa velocità v+
d = vd v̂ detta di drift (deriva).
(I portatori positivi possono essere ad esempio ioni nei cosiddetti
conduttori ionici, oppure cosiddette buche o lacune, cioè stati quantici corrispondenti all’assenza di elettroni e con massa negativa.) I
portatori negativi sono elettroni (il caso più frequente) e hanno una
−
velocità v−
d =–vd v̂ opposta alla prima. Moltiplicando le velocità per le
cariche elementari e, −e rispettivamente e per la densità di volume
dei portatori di ciascun segno, possiamo costruire la quantità
−
+
−
j = n+ ev+
d − n− evd = e ( n+ vd + n− vd ) v̂
che come si vede ha le dimensioni di una densità areale di corrente,
ed è appunto la densità di corrente, cioè la corrente che attraversa
una superficie diviso l’area di quest’ultima. La corrente può essere
calcolata come flusso di j
I=
Z
S
j · dA,
attraverso una superficie S che potrebbe essere la sezione di un filo
conduttore. Per esempio, la velocità di drift nel rame è vd '10−4 m/s
fornisce una corrente di 8 A in un filo di rame (Cu) di 4 mm2 di
sezione (circa 2 mm di diametro).
La velocità di drift vd , pur grande su scala microscopica (circa un
milione di distanze interatomiche cristalline al secondo), è minuscola
rispetto alla velocità media degli elettroni nel metallo vF '1010 vd .
Il punto è che gli elettroni si muovono con velocità simili a vF , ma
casuali, e che quindi si cancellano tutte; solo l’azione del campo
elettrico fornisce loro una (piccola) velocità netta vd .
Val la pena di notare che se la corrente attraverso un conduttore
è stazionaria, la carica netta entrante o uscente da una certa regione
di conduttore deve essere zero. Se la corrente è stazionaria e il
conduttore ha una sezione variabile, si ha
Z
S1
jin · dA1 +
Z
S2
jout · dA2 = 0
fisica 2
poichè il flusso deve essere lo stesso sia in entrata attraverso A1 che in
uscita attraverso A2 . Sotto le stesse condizioni stazionarie, la corrente
che fluisce attraverso una superficie S è uguale alla carica che esce
dal volume V in essa racchiuso,
I+
dQ
=
dt
Z
S
j · dA +
∂
∂t
Z
V
ρdV = 0,
con Q la carica contenuta nel volume V. Usando il teorema della
divergenza, si ottiene l’equazione di continuità,
div j = −
∂ρ
,
∂t
valida anche per fluidi incomprimibili e altre situazioni analoghe.
2.1.1 Connessione alle proprietà microscopiche: modello di Drude
Per connettere la velocità di drift a proprietà dello specifico conduttore, usiamo è il modello di Drude: gli elettroni sono particelle classiche
che urtano contro gli atomi posti sul reticolo cristallino in media
ogni τ secondi, il tempo di vita medio (in un dato stato: l’elettrone
non viene annichilato, ma cambia stato di moto). La velocità di un
elettrone dopo un certo urto i varia sotto l’azione del campo elettrico
come
eEτ
v i ⇒ v i +1 = v i −
,
m
nel tempo τ prima del successivo urto i+1. Qui m è la massa dell’elettrone; ricordiamo che per definizione di campo elettrico, eE è
una forza, quindi eE/m è una accelerazione, ed eEτ/m una velocità.
Una media su un grande numero N di elettroni ci fornisce la velocità
media di drift
1
eEτ
eEτ
∑ v i +1
∑ vi
=
−
N
=−
≡ vd ,
N
N
N
m
m
dato che dopo un urto, per esempio all’istante i, le velocità elettroniche
sono orientate casualmente. Ora, omettendo i pedici per semplicità
(dato che parliamo comunque di elettroni), la densità di corrente
elettronica è
2 ne τ
eEτ
j = −nev−
=
−
ne
−
=
E = σE,
d
m
m
che definisce la conduttività
σ=
ne2 τ
,
m
che risulta dunque grande per grande densità elettronica e grande
vita media tra urti successivi. (Questo risultato vale anche nel caso
di modelli quantistici abbastanza sofisticati.) Dalla conduttività si
ottiene la resistività come
1
ρ= ,
σ
per cui possiamo anche scrivere
j = σE
E = ρ j.
39
40
Per completezza, notiamo che qui sopra conduttività e resistività son
state trattate come scalari (numeri); tuttavia, un vettore può essere
trasformato in un altro vettore anche moltiplicando una matrice per
un vettore, e dunque ρ e σ possono essere oggetti descrivibili da una
matrice, detti tensori. In questo caso, non infrequente nei materiali
reali, esse hanno componenti che descrivono la corrente, per esempio,
in direzione x dovuta ad un campo in direzione y. Per esempio, dato
(inventato!) un certo tensore di conduttività


σxx σxy 0
↔


σ =  σyx σyy 0  ,
0
0 σzz
otteniamo


jx

 ↔
j =  jy  = σ E
jz

=
=
σxx σxy 0

 σyx σyy 0
0
0 σzz

σxx Ex + σxy Ey

 σyx Ex + σyy Ey
σzz Ez


Ex


  Ey 
Ez


,
(2.1)
cioè, ad esempio, la corrente lungo x dipende, cioè può essere
prodotta, anche dal campo lungo y.
2.1.2
Connessione tra resistività e resistenza, e legge di Ohm
Deriviamo ora la resistenza di un conduttore a partire dal modello microscopico, e di seguito la potenza erogata al (e dissipata nel)
conduttore in funzione della resistenza stessa. Consideriamo il conduttore come un cilindro omogeneo di sezione A e lunghezza `
connesso a un generatore di tensione (una batteria) che mantiene una
differenza di potenziale fissa ai suoi estremi. Poichè la d.d.p rimane
fissa (non ci importa come) si ha un campo elettrico che spinge la
carica attraverso il tubo stesso, e specificamente, essendo
I = jA =
Figura 2.1: Filo conduttore.
AE
,
ρ
il campo è
ρI
.
A
Questo potrebbe sembrare, ma non è, in contrasto con il fatto che il
campo in conduttore deve essere nullo in una situazione d’equilibrio
statico: qui l’equilibrio è dinamico, e i portatori sono “fotografati”
proprio nell’atto di spostarsi per schermare la differenza di potenziale
(ddp); poichè il potenziale esterno è tenuto costante la loro sisifea
azione di schermo deve continuare permanentemente, mentre il generatore di tensione rimuove e inietta carica, rispettivamente, dai due
lati del conduttore. La ddp tra gli estremi del conduttore è
E=
V1 − V2 =
Z 2
1
E · ds = E` =
ρ` I
≡ RI
A
fisica 2
e quindi
V = IR (legge di Ohm).
(2.2)
La resistenza del conduttore è dunque definita come
R=
ρ`
,
A
(2.3)
e dipende quindi dalla sua forma e dalle sue dimensioni, oltre che
(attraverso ρ) dalle proprietà microscopiche del materiale che lo
compone. Analogamente, la conduttanza è
G=
1
A
Aσ
=
=
R
`ρ
`
In ambedue i casi l’idea è che un conduttore corto di grande sezione
“conduce di più” la carica in moto o “resiste di meno” al suo passaggio,
e viceversa per un conduttore lungo e stretto. Dalla legge di Ohm,
le dimensioni fisiche della resistenza sono Volt/Ampere e l’unità è
l’ohm,
1 Ω = 1V/1A.
La resistività si misura, date le relazioni viste, in Ω· m e la conduttività
in Siemens=(Ω·m)−1 . I valori di resistività tipici dei materiali per
applicazioni elettriche vanno da 1.7×10−8 Ω·m per il rame (ottimo
conduttore) a 7×1017 Ω·m per il vetro di silice (ottimo isolante). Gli
isolanti come quest’ultimo, in realtà, sostanzialmente non trasportano
nessuna corrente anche sotto grandi differenze di potenziale, a causa
delle loro proprietà elettroniche (discusse sotto).
2.1.3 Potenza ed effetto Joule
Possiamo ora calcolare l’energia per unità di tempo trasferita dalla
forza elettrica al singolo portatore che si muova a velocità pari a quella
di drift, e da questa la potenza istantanea erogata a un conduttore di
resistività ρ e tenuto sotto un campo E. Ricordiamo che P è uguale al
prodotto forza per velocità
P = F · v = eE · vd .
(2.4)
Moltiplicando per la densità dei portatori otteniamo una densità
volumica di potenza
p = nevd · E = j · E = σE2 = ρj2 ,
(2.5)
dove i quadrati sono come al solito moduli quadrati di vettori. Quindi,
un semplice modello dinamico microscopico ci fornisce una relazione
tra quantità microscopiche e una espressione dell’energia da fornire
al conduttore per sostenervi un certo stato di conduzione.
La potenza dissipata in una porzione infinitesima di lunghezza
dh di un conduttore lineare è
dP = p dV = pA dh = ρj2 A dh = ρ
I2
dh,
A
usando la densità volumica di potenza, Eq.2.5, calcolata poco fa
e la definizione di densità di corrente. Integrando sulla lunghezza,
41
42
assunto che il materiale sia omogeneo e l’area sezionale A sia costante,
si ha
Z
ρ` 2
I2 `
dh =
I = RI 2 .
P=ρ
A 0
A
D’altra parte, poichè il lavoro fatto sulla carica infinitesima dq dal
potenziale V attraverso il conduttore è il loro prodotto, abbiamo la
forma più generale
dW = Vdq = V Idt ⇒ P =
dW
= V I.
dt
Se vale la legge di Ohm V=RI, questa forma della potenza è equivalente a quella vista sopra:
P = V I = RI 2 .
Dunque, un conduttore dotato di resistenza consumerà l’energia
erogata dal generatore di differenza di potenziale dissipandola in
radiazione visibile o termica. Questo è l’effetto Joule. A seconda
dell’applicazione, potrà essere desiderabile minimizzare la resistenza
e quindi la potenza dissipata e quindi il calore prodotto dalla corrente
(caso tipico: circuiti elettronici nei computer ad alte prestazioni)
oppure massimizzarla (sia pure in modo controllato), come nel caso
delle lampadine a incandescenza o delle stufe elettriche.
2.1.4
Esempi di effetto Joule: lampadine e stufe
Consideriamo ad esempio una lampadina ad incandescenza. Il filamento che si riscalda è rinchiuso in un’ampolla di vetro contenente
gas inerte a bassissima pressione. Questo accorgimento rallenta la
sublimazione del metallo, che dopo un tempo variabile inevitabilmente porta all’assottigliamento e alla rottura del filamento, e previene
altre reazioni chimiche di superficie che possono accelerare la rottura.
Supponiamo che la potenza nominale desiderata sia P=110 W; essendo la tensione di rete V=220 V, la corrente è I=0.5 A (da P=V I) e per
la legge di Ohm dev’essere R=440 Ω; questo si realizza scegliendo il
materiale (e quindi la resistività), la lunghezza, lo spessore, il numero
di avvolgimenti, etc. La corrente che transita nel filamento vi rilascia
110 J per secondo. Ricordando la definizione di capacità termica,
Cv =
∆Q
,
∆T
e usando la legge di Dulong-Petit (Cv =25 J K−1 mol−1 nei metalli a
temperature alte) la temperatura del filamento aumenterà di
∆T =
Figura 2.2: Spettro di emissione del
corpo nero a diverse temperature.
∆Q
110 J
=
−
Cv
25 J K 1 mol−1 m
(2.6)
dove m è il numero di moli del materiale che viene riscaldato. Se il
filamento è di tungsteno (peso atomico 74) e pesa 1 grammo, dalla
definizione di mole (un peso in grammi pari al peso atomico dell’elemento) otteniamo che il filamento è 1/74 di mole. Si ottiene perciò
che la temperatura aumenta di ∆T=325 K ogni secondo. Dunque in
fisica 2
43
pochi secondi T raggiungerà valori dell’ordine di migliaia di K. In
assenza di un meccanismo di dissipazione del calore il filamento si
scioglierebbe velocemente (la T di fusione del tungsteno è 2800 K);
ma il filamento, appunto, dissipa l’energia sotto forma di radiazione
elettromagnetica, sia termica (infrarossa) che visibile. Per un opportuno design del filamento, la temperatura si equilibra a circa 2500
K; analizzando lo spettro del corpo nero (Figura 2.2) si vede che la
gran parte della radiazione è infrarossa, cioè calore, e solo qualche
percento è visibile.
Altro uso dell’effetto Joule è il riscaldamento. Una stufetta a
2000 W di potenza ha una corrente di massima I=10 A e R=22 Ω.
Di nuovo è necessario un sistema di regolazione della dissipazione
dell’energia per contenere l’aumento di T sotto la temperatura di
fusione, e preferibilmente anche a temperature a cui l’emissione di
radiazione sia quasi solo infrarossa (dato che da una stufetta si vuole
calore, e non un fanale in faccia). Tipicamente questo si ottiene tramite
ventilazione, che ha anche il vantaggio di spostare per convezione
l’aria riscaldata dalle immediate vicinanze dell’elemento riscaldante.
(Notiamo che la resistività in un metallo aumenta linearmente con
la temperatura, come si dimostra facilmente con il modello di Drude,
Sez.2.1.6; quindi alla T di esercizio la R è maggiore che a bassa T.
La corrente, quindi, cala a T alte; questo riduce T e quindi di nuovo
riduce R. L’effetto di T su R ha quindi un feedback negativo che
rende non catastrofica la variazione, che va tuttavia tenuta in conto.)
2.1.5 Esempi di effetto Joule: linee ad alta tensione
L’espressione della potenza dissipata chiarisce il motivo per cui le
linee ad alta tensione sono, appunto, ad alta tensione. Le linee
di trasmissione su traliccio o sotterranee sono infatti mantenute a
tensioni molto più elevate di quelle normalmente utilizzate in casa,
fino a 800 kV in certi casi. Il motivo è abbastanza semplice.
Quello che si vuole fare è portare una certa potenza elettrica P a
una certa destinazione. La tensione generata alla centrale viene alzata
tramite trasformatori (di cui si parlerà in seguito) a valori dell’ordine
di 400-800 kV; giunta a destinazione, essa viene poi trasformata a una
tensione appropriata nella cabina di destinazione (circa 20 kV); infine
un trasformatore finale nelle case porta la tensione a 220 V. (Notiamo
che la tensione alternata è una scelta naturale in questo contesto
dato che viene facilmente generata e trasformata.) Essendo P=IV,
la corrente è piccola se V è grande, ed è perciò piccola la potenza
persa per effetto Joule nel cavo di trasmissione. La potenza persa per
dissipazione sul cavo di trasporto (di resistenza Rloss ) è appunto
Ploss = IV = I 2 Rloss =
P2
R ,
V 2 loss
e dunque, quadraticamente, cala con la tensione e aumenta con la
potenza richiesta. Anche la perdita frazionale
Ploss
PRloss
=
P
V2
Figura 2.3: Linee di trasmissione a
tensione variabile (media-alta-media).
44
aumenta con la potenza P erogata; in situazioni di alto consumo
istantaneo (ore di punta di uffici, fabbriche, trasporti, etc.) la perdita
è quindi maggiore. In effetti questo è uno dei motivi (molto più
della riduzione dei consumi) per cercare di invogliare gli utenti a
“spalmare” il loro consumo su fasce orarie meno affollate. Come
esempio numerico consideriamo la delivery di P=100 kW a una cabina
locale (circa la potenza di picco di 30 utenze a fornitura normale da 3
kW di picco) su una linea lunga 100 km=105 m con una tensione di
500 kV. Supponiamo che il cavo di trasporto abbia resistività 10−5 Ω
m, raggio 5 cm=0.05 m e quindi area circa 0.01 m2 . Abbiamo quindi
Rloss =
e
10−5 Ω m 105 m
= 100 Ω
0.01 m2
Ploss
1
(100 kW)2
100 Ω
=
= 4%,
2
P
100 kW
(500 kV)
che è una stima plausibile di una perdita tipica.
2.1.6
Tipi di materiali nel contesto della conduzione
Le proprietà di conduzione dei materiali sono determinate dalla meccanica quantistica. Gli elettroni si propagano sostanzialmente come
onde all’interno di un cristallo, e come spesso accade alle onde in
un mezzo, hanno bande di stop e bande passanti: ovvero, a certe
energie si propagano e ad altre no. Le energie corrispondenti a propagazione (“permesse”) si dicono “bande” e quelle corrispondendi
a non-propagazione (“proibite”) si dicono “gap”. Per un materiale non-magnetico, ogni banda può ospitare un numero massimo di
elettroni che, pur dipendendo dal tipo di atomi del cristallo e dalla
loro disposizione, è sempre pari. Dunque, in assenza di campi perturbanti esterni, un materiale con un numero dispari di elettroni per
atomo (o per unità di formula, nel caso di un composto) finirà per
occupare solo parte degli stati di una banda. Parliamo allora di stato
metallico, in cui è energeticamente facile promuovere un elettrone da
uno stato all’altro e quindi farlo muovere nel materiale, conducendo
così della corrente. Esempi di materiali di questo tipo sono i metalli
alluminio (Al), rame (Cu), oro (Au) che sono tutti eccellenti conduttori. (Fanno eccezione certe classi di materiali magnetici con proprietà
relativamente esotiche, i cosiddetti isolanti di Mott).
Il comportamento caratteristico della resistività in un metallo in
funzione della temperatura (intorno a temperatura ambiente),
Figura 2.4: Modello geometrico per il
tempo di rilassamento.
ρ ' T,
si può spiegare con un semplice argomento geometrico (Fig.2.4) generalmente applicabile. Il moto di un elettrone tra un urto e il successivo
definisce un volumetto cilindrico V=`S=v τ S che contiene, per costruzione, un singolo atomo su cui l’elettrone urta. L’area S è identificata
come la sezione d’urto dell’atomo, cioè all’incirca l’area che esso occupa oscillando. Detta ni =N/V la densità atomica, essendo qui N=1
fisica 2
45
e V=v τ S, si ha ni =1/(v τ S), e quindi
τ=
1
.
vSni
L’atomo è visto come un oscillatore armonico classico, e quindi ha
energia potenziale proporzionale al quadrato dell’elongazione, e quindi a S; per il teorema del viriale l’energia cinetica è uguale a quella
potenziale, e poichè l’energia cinetica, per il teorema di equipartizione
classica dell’energia, è
k T
h Ecin i = B
2
(per un moto unidimensionale; k B è la costante di Boltzmann), si
conclude che S∼T. Poichè v è indipendente dalla temperatura per
gli elettroni (cui non si applica il teorema di equipartizione), ed ni
è costante, si ha τ ∼1/T, e quindi, in accordo con l’esperimento,
ρ=1/σ '1/τ 'T.
Se un materiale ha un numero pari di elettroni per atomo o per
formula, invece, le bande risultano completamente occupate o completamente vuote. [Fanno eccezione i metalli divalenti, la cui resistività
minima è comunque maggiore dei metalli tipici (per berillio, un fattore 2 più del rame) e aumenta con la massa, fino a 20 volte quella
del rame per il bario.] Per far muovere gli elettroni in questi sistemi,
è necessario promuoverli da una banda all’altra attraverso il un gap
che le separa. La larghezza del gap varia da materiale a materiale,
all’incirca da 0.1 eV a 10 eV e oltre; si parla di isolanti o semiconduttori, convenzionalmente, per gap sopra o sotto i 2 eV circa (ma non
c’è una distinzione netta).
La promozione di un elettrone attraverso questi gap è normalmente prodotta termicamente, ed ha una probabilità proporzionale
a exp (− Eg /k B T ), con Eg il gap e k B T l’energia termica. Dunque
la densità ha la stessa dipendenza, e con essa la conduttività, che
dipende direttamente dalla densità. Dunque la conduttività diminuisce esponenzialmente con 1/T, cioè cala a temperature piccole e
aumenta a temperature grandi. Possiamo fare una stima rozza per
un materiale con gap, relativamente piccolo, di 0.5 eV a temperatura
ambiente (k B T '0.025 eV): la probabilità è 10−9 , e supponendo che
siano disponibili complessivamente 1028 elettroni per m3 nella banda occupata, gli elettroni che finiscono nella banda superiore (dove
potrebbero muoversi liberamente) sono 1019 m−3 , che corrispondono
a una densità di carica dell’ordine di 1 C/m3 ; per una velocità di
drift tipica di 10−5 m/s, la densità di corrente è 10−5 A m−2 , che
per un filo tipico, di sezione 0.5 mm e quindi area 0.78×10−6 m2 ,
corrisponde a una corrente piccolissima, 8 pA.
Un’ultima categoria cui vale la pena di accennare sono i superconduttori. Si tratta di metalli perfettamente normali a temperatura
ambiente come Al, Nb, Pb, Na, Hg (il primo a essere scoperto nel
1911) che sotto una certa temperatura acquisiscono due importanti
proprietà concomitanti. La prima (effetto Meissner) è che divengono
perfetti diamagneti, e di conseguenza espellono completamente il
campo magnetico eventualmente presente al loro interno, causando
Figura 2.5: Conduttività di vari tipi di
materiali in funzione della temperatura.
Figura 2.6: Levitazione magnetica di un
superconduttore.
46
Figura 2.7: Resistività di un superconduttore vicino alla transizione.
interessanti fenomeni di levitazione magnetica (Figura 2.6. La seconda, che ci interessa qui, è che sotto la temperatura critica la resistività
nella fase superconduttrice cade a zero entro l’errore sperimentale (Figura 2.7); una corrente iniettata in un anello superconduttore rimane,
dopo che la ddp viene rimossa, invariata per sempre – o comunque
finchè si ha la pazienza di stare a guardare.
La prima e meglio compresa classe di superconduttori è nota come
BCS (da J. Bardeen, L. Cooper e R. Schrieffer, che ne hanno formulato
la descrizione, vincendo il Nobel nel 1972; per John Bardeen, fu il
secondo Nobel per la fisica dopo quello per l’invenzione del transistor,
1956). La conduzione perfetta nei BCS è dovuta alla formazione,
mediata dall’accoppiamento degli elettroni con le vibrazioni reticolari,
di stati legati a due elettroni detti coppie di Cooper. Queste sono
bosoni e non sono soggette al principio di Pauli ("una particella in
ogni stato quantico"; contrariamente agli elettroni che, avendo spin
1/2, sono fermioni e obbediscono il principio) e, risulta, possono
muoversi senza urti con sè stessi e con il reticolo. Le temperature
critiche dei BCS sono di solito molto basse (il record attuale è del
composto MgB2 con 39 K) e comunque al di sotto della temperatura
dell’azoto liquido, con le relative difficoltà di utilizzo pratico.
Una recente (2015) eccezione sembra essere il composto H2 S, superconduttore a 200 K sotto 1.5 Mbar di pressione. Benchè inutilizzabile
in pratica (dovendo vivere dentro una cella speciale nota come cella a
incudine di diamante) questo composto potrebbe indicare una strada
per ottenere alta temperatura critica nella classe BCS.
Altri superconduttori basati su ossidi magnetici, scoperti a partire
dal 1986, hanno infranto sistematicamente la barriera dell’azoto liquido; il record di temperatura critica a pressione ambiente è 134 K nel
composto HgBa2 Ca2 Cu3 O8 . Il funzionamento di questi materiali è
ancora non ben compreso.
2.2 Forza elettromotrice e generatori di tensione
Figura 2.8: Forza elettromotrice, cadute
di potenziale, e circuitazione nulla.
Abbiamo menzionato varie volte i generatori di tensione. Cerchiamo di analizzare le loro proprietà e il loro funzionamento. Dalle
equazioni di Maxwell, in generale, sappiamo che la circuitazione del
campo elettrostatico lungo un conduttore chiuso –ad esempio un filo
contenente una resistenza– è nulla, e quindi tale è la differenza di
potenziale (ddp) tra ogni coppia di punti; in particolare ai capi della
resistenza la ddp è zero e quindi dalla legge di Ohm, non fluisce
nessuna corrente.
La funzione del generatore è appunto produrre una differenza di
potenziale (ddp) tra i due punti del circuito tra i quali viene inserito.
In presenza del generatore, compare una ddp ai capi del resistore
e quindi fluisce una corrente. L’integrale di cammino del campo
elettrico attraverso il generatore è non nullo, ed è uguale alla ddp,
anche nota come forza elettromotrice
E=
Z +
−
E · ds.
fisica 2
È il generatore di tensione a far sì che E sia non nulla, ed è una
fonte di energia per il circuito, dato che la carica nel conduttore in
contatto con il polo positivo del generatore è ora dotata di energia potenziale maggiore di quella al polo negativo. L’integrale di cammino
complessivo del campo elettrico sul circuito è nullo,
I
E · ds = 0,
come deve essere per la seconda equazione di Maxwell. Questo
succede perchè si hanno opportune cadute di potenziale (schema in
Figura 2.8) sugli altri elementi nel circuito: con ciò si intende che
il potenziale si riduce passando attraverso l’elemento, e l’energia
prodotta dal generatore viene dissipata (resistori), o eventualmente
accumulata (condensatori).
2.2.1 Resistenza interna ed esterna: effetti negativi sulla potenza
erogata, e altri guai
I generatori di tensione sono spesso assunti non avere resistenza interna (generatori ideali), ma hanno in generale una resistenza interna
diversa da zero (generatori reali). La competizione della resistenza
interna e della resistenza del carico esterno (il circuito) ha diverse conseguenze. Di norma, si descrive esplicitamente la resistenza interna r
come una resistenza in serie al carico R. I connettori tra resistenze e
generatore sono assunti avere resistenza (o capacità) trascurabile, e
quindi non dissipare (o accumulare) energia.
La forza elettromotrice nominale E di un generatore reale è in
generale diversa dalla ddp V effettivamente fornita all’esterno del
generatore (ad esempio ai capi del carico R). In particolare la fem
cade sia sul carico che sulla resistenza interna, e quindi per la legge
di Ohm
E
E = ( R + r ) I, I =
(R + r)
mentre sul carico esterno
V = RI =
RE
< E.
R+r
Ne segue che la potenza totale generata dalla f.e.m. non viene erogata
in toto al carico R; la potenza dissipata totale è
P = E I = I 2 (R + r) =
E2
(r + R )
e quella sul carico è
Pcarico = RI 2 =
RE 2
,
(r + R )2
L’efficienza del generatore è allora
η=
Pcarico
R
1
=
=
,
P
R+r
1 + r/R
che tende a 1 per R→∞, limite nel quale, però, la potenza Pcarico tende
comunque a zero.
47
48
La potenza sul carico, quella totale, e quella (ottenibile per differenza) sulla resistenza interna r sono mostrate in Figura 2.9. Come
già accennato, la potenza tende a diventare tutta utile a grande R, ma
tende anche a zero. Il massimo della potenza sul carico si ha per r=R.
Figura 2.9: Potenza totale e sulle
resistenze (di carico e interna) del
generatore.
Infatti il massimo della potenza in funzione del carico si ha per
(r − R )
dP
( R + r ) − 2( R + r ) R
= E2
=0 ⇒
= E2
4
dR
( R + r )3
(R + r)
R = r.
In questa condizione la corrente è
I=
E
2r
e la potenza totale è quindi
Ptot,max = (r + R) I 2 ≡ (r + R)
E2
E2
E2
= 2r 2 =
.
2
2r
(r + R )
4r
La potenza massima su R (che è uguale a r in questo caso) è
PR,max = R
E2
E2
=
,
2
4r
(r + R )
cioè esattamente metà del totale – e questo nel caso migliore.
Da questa breve discussione, si intuisce che un caso –diciamo così–
interessante è quello in cui il generatore è cortocircuitato, ovvero se il
polo positivo e quello negativo sono connessi con un conduttore di
resistenza trascurabile, ponendo così di fatto R=0. In questo caso la
corrente è massima,
Imax = E /r,
e fluisce sull’unico carico disponibile, cioè quello interno al generatore.
È massima anche la potenza,
Pmax = E 2 /r,
che si dissipa sul generatore stesso. Per una batteria da 9 V, che
ha resistenza interna relativamente alta (diciamo r=2 Ω), in corto
fisica 2
49
circuito la corrente che circola all’interno della batteria è 4.5 A e la
potenza risulta 40 W, non elevatissima, ma sufficiente a scaldare e
probabilmente a rovinare la batteria stessa.
Caso molto più serio quello del corto circuito di una batteria da
autotrazione, che ha E =12 o 24 V, ma una resistenza interna molto
minore al fine di potere erogare una corrente grande per avviare
motori etc. Prendiamo r=0.05 Ω, nel qual caso la corrente massima è
Imax =
24
A = 480 A (!)
0.05
che è grande, e corrisponde a una potenza dissipata P=E Imax =11
kW. Ad ogni secondo perciò vengono forniti 11 kJ al liquido interno
della batteria, e questo causa un aumento di temperatura (vedi p.es.
Eq.2.6). Supponendo che ci sia 1 kg di liquido con capacità termica
di 1 kJ/(K kg), la variazione di temperatura è circa 11 K/s. Se siamo
a temperatura ambiente (293 K=20 C), per portare l’acido alla sua
temperatura di ebollizione (65 C circa) basteranno pochi secondi:
t=
V
Figura 2.10: Occhio alle batterie grosse !
65 − 20 K
' 4 s.
11 K/s
L’acido vaporizzato andrà poi rapidamente in pressione (a seconda
della chiusura della batteria) causando la rottura o l’esplosione del
contenitore.
Data la grande corrente di corto circuito, un filo sottile che connetta gli elettrodi si fonderebbe pressochè all’istante; un pezzo di
conduttore massivo come una chiave inglese, invece, resisterebbe. Di
più, non è inverosimile che succeda che la temperatura degli elettrodi
raggiunga il punto di fusione del metallo (tipicamente, piombo, che
fonde a 300 C, quindi dopo una trentina di secondi), con il risultato
che la chiave può saldarsi agli elettrodi. . . Morale: evitiamo di ravanare intorno a batterie da camion con chiavi inglesi senza stare molto
attenti.
2.2.2 Funzionamento di una semplice batteria
Chiaramente, un generatore deve funzionare da “pompa elettrica” che
porta carica (per esempio) positiva da potenziale basso a potenziale
alto. Analizziamo come funziona una batteria zinco-rame (Zn-Cu), riferendoci alla Figura 2.11. Le due vasche contengono rispettivamente
solfato di zinco (ZnSO4 ) e di rame (CuSO4 ) in soluzione, cioè in un
opportuno solvente nuotano ioni Zn++ e SO4− − in una vasca e Cu++
e SO4− − nell’altra (chiamiamole “vasca Zn” e “vasca Cu”). Nelle
soluzioni sono immersi degli elettrodi di Zn e Cu rispettivamente,
connessi tra loro tramite un carico.
Per ragioni di energetica atomica, la ionizzazione dello Zn da
neutro a doppio positivo è meno costosa di quella del Cu, specificamente 2630 kJ/mol vs 2703 kJ/mol; cioè, se trasferisco due elettroni
dallo Zn al Cu guadagno 73 J/mol. Questo trasferimento avviene
attraverso il collegamento elettrico esterno tra i due elettrodi: uno Zn
dell’elettrodo perde i suoi elettroni e si stacca dall’elettrodo entrando
Figura 2.11: Pila rame-zinco (di Daniell).
50
Figura 2.12: Pila ’patata’.
nella soluzione, e all’elettrodo opposto il Cu ionizzato della soluzione
si attacca all’elettrodo acquistando i due elettroni. Quindi nella vasca
Cu, la concentrazione di Cu ionizzato cala, e aumenta quella di Zn
ionizzato nella vasca Zn. Per chiudere il circuito, mantenendo la
neutralità delle due vasche, gli ioni SO4− − si spostano dalla soluzione
contenente Cu a quella contenente Zn attraverso un cosiddetto ponte
elettrolitico. Durante il funzionamento della batteria, perciò, la concentrazione di sale soluto nella vasca di Zn aumenta, e diminuisce
in quella di Cu. Il Cu si appiccica all’elettrodo di Cu, e l’elettrodo di
Zn perde atomi verso la soluzione, cioè si corrode. Nel frattempo, gli
elettroni fluiscono da Zn a Cu, e quindi la corrente fluisce da Cu a
Zn: il polo positivo della batteria è perciò quello Cu.
Quando tutto il Cu+ + presente in soluzione si è appiccicato all’elettrodo, e tutto il corrispondente SO4− − è passato nella vasca Zn
attraverso il ponte, la vasca Cu contiene solo il solvente, e il processo
si ferma. Notiamo che anche l’elettrodo di Zn si è consumato ed è aumentata la concentrazione della soluzione di ZnSO4 . A seconda delle
caratteristiche costruttive della batteria, il processo limitante potrebbe
essere uno qualunque dei tre: potrebbe finire prima il Cu in soluzione,
oppure potrebbe finire l’elettrodo di Zn, oppure (meno probabile)
la soluzione di ZnSO4 potrebbe diventare satura e precipitare sale
nella vasca Zn e sull’elettrodo. Naturalmente, le vasche potrebbero
essere rimpiazzate da due regioni di un oggetto contenente acqua e
sali come una patata.
In linea di principio, la nostra batteria si potrebbe ricaricare applicando una tensione inversa, che porti elettroni in senso inverso da Cu
a Zn: lo Zn in soluzione riacquista gli elettroni, si riattacca all’elettrodo Zn; il Cu si stacca dall’elettrodo Cu entrando nella soluzione dove,
nel contempo, gli SO4− − si ritrasferiscono dalla vasca Zn a quella Cu.
Notiamo infine che scegliendo un diverso sale potremmo coinvolgere
la singola ionizzazione, p.es. Cu→Cu+ invece della doppia ionizzazione; in questo caso il meccanismo non funzionerebbe come spiegato,
perchè la prima ionizzazione del Cu è minore di quella dello Zn: al
più, si potrebbe immaginare un meccanismo inverso in cui l’elettrodo
di Cu si corrode e quello di Zn si accresce, e il polo positivo sarebbe
quello di Zn.)
2.3 Circuiti in corrente continua
Abbiamo discusso la resistenza dal punto di vista microscopico, e
dedotto il fatto che a) la tensione diminuisce attraverso capi di un elemento dotato di resistenza (resistore o resistenza) proporzionalmente
a corrente e resistenza (legge di Ohm), e che b) il flusso di corrente
produce l’effetto Joule (notiamo che l’individuare il resistore come
portatore di resistenza non esclude che i condensatori o altri elementi
che discuteremo, gli induttori, abbiano anche una resistenza). Ora
possiamo iniziare a discutere i circuiti. L’idea generale è che data la
configurazione di resistori e generatori di tensione (ed eventualmente
capacitori) possiamo calcolare in funzione della configurazione stessa,
fisica 2
51
e di conseguenza modificare, le correnti che fluiscono nelle diverse
parti del circuito stesso.
2.3.1 Resistori in serie e parallelo
I resistori possono essere collegati a un circuito in serie o in parallelo
(Figura). Nel caso in serie l’elemento comune è la corrente, che è
la stessa nei vari elementi in serie. Se consideriamo n resistori in
serie, sul primo ci sarà una caduta di potenziale IR1 , sul secondo una
caduta IR2 , e così via fino all’n-esimo. La somma delle n cadute è la
forza elettromotrice del generatore e quindi
E = V1 + V2 + ...Vn = I ( R1 + R2 + ...Rn ) = IRser
tot
e quindi le resistenze in serie si sommano direttamente:
Rser
tot = R1 + R2 + ... + Rn .
La potenza dissipata (per due resistori per semplicità) è
2
P = R1 I 2 + R2 I 2 = ( R1 + R2 ) I 2 = Rser
tot I =
(V1 + V2 )2
V2
= tot .
R1 + R2
Rtot
Nel caso in parallelo, la quantità fissa è invece la differenza di potenziale V ai capi del blocco di resistori, mentre la corrente totale I
si dividerà in correnti parziali I1 , I2 , etc. nei vari rami paralleli di
resistenza R1 , R2 , etc. a seconda dei valori delle resistenze. Si ha in
altre parole che
V = R1 I1 = R2 I2 = R3 I3 = ....
e
I = I1 + I2 + ...In ,
e quindi
I=
V
V
V
+
+
+ ... = V
R1
R2
R3
1
1
1
+
+
+ ...
R1
R2
R3
=
V
par .
Rtot
Si ottiene perciò che
1
1
1
1
+
+
+ ...,
par =
R1
R2
R3
Rtot
ovvero che le resistenze in parallelo si sommano inversamente. La
potenza totale (per esempio, per un sistema a due rami paralleli) è
P = R1 I12 + R2 I22 =
V2
V2
V2
+
= par ,
R1
R2
Rtot
che conferma il risultato appena ottenuto e indica che la potenza
dissipata si partiziona sulle diverse resistenze a seconda della corrente
che effettivamente vi fluisce.
Figura 2.13: Resistori in serie e parallelo.
52
2.3.2
Blocchi di serie/parallelo
da completare – È abbastanza facile, se a volte tedioso, ottenere la
resistenza equivalente a un qualunque blocco combinato di resistori
in serie o parallelo, come ad esempio schematizzato in Figura ??.
Occasionalmente va fatta attenzione a quali terminali di un gruppo
di resistori vengono connessi, perchè la scelta influenza la resistenza
equivalente, come ad esempio nel caso in Figura ??. Esempi semplici
di serie e parallelo sono il galvanometro usato come voltmetro e come
amperometro con shunt, e il ponte di Weathstone.
2.4 Kirchhoff
maglia
Figura 2.14: Definizioni.
La disposizione in serie e in parallelo è spesso sufficiente a risolvere problemi circuitali semplici (per risolvere intendiamo ottenere la
corrente e la potenza dissipata nei vari elementi, date le forze elettromotrici dei generatori e le resistenze). In generale però è necessario
ricorrere a relazioni più generali dette regole di Kirchhoff.
Queste relazioni derivano in sostanza dalla conservazione della
carica e dall’annullarsi della circuitazione del campo elettrico. Preliminarmente osserviamo che è necessario usarle in quei circuiti in cui
si presentino più conduttori con resistenze e forze elettromotrici e non
riconducibili a blocchi serie e parallelo. In figura 2.14 è rappresentata
un simile circuito. Le sezioni chiuse come quella sulla destra si chiamano maglie. I tratti di conduttore contenenti resistenze, f.e.m., o altri
elementi si chiamano rami. I punti di incontro dei rami si chiamano
nodi. La relazione tra il numero di nodi N, il numero di rami R e il
numero di maglie M è
M = R − N + 1.
In ogni maglia circolerà una corrente, in generale diversa da tutte
altre. In figura, si nota che R=6, N=4, e quindi M=3, come in effetti
è chiaramente il caso. Usando le regole di Kirchhoff, otterremo M
equazioni in M incognite che determineranno appunto le M correnti
nelle M maglie.
Notiamo di passaggio che solo i tratti con elementi circuitali vanno
contati come rami; i tratti senza elementi, che sappiamo essere assunti
essere perfetti conduttori, possono essere rimossi (come schematizzato
in Figura 2.15) e la relazione tra M, N, e R resta valida.
Figura 2.15: Irrilevanza delle maglie
senza elementi.
Figura 2.16: Origine della convenzione sul segno delle fem nelle regole di
Kirchhoff.
2.4.1
K-1
La prima regola “conta” tutte le forze elettromotrici e le cadute di
potenziale attraverso i resistori etc in base alla legge di Ohm in un dato
circuito. In questo modo si stabiliscono –come prima, ma per casi più
complessi– delle relazioni tra correnti, potenziali, e resistenze delle
diverse maglie. Naturalmente è importante prima di tutto contare le
tensioni consistentemente e con i segni giusti.
Consideriamo un circuito aperto come in figura 2.16. Assumiamo
che la corrente I fluisca da sinistra a destra (da A verso B). Vogliamo
fisica 2
ottenere la caduta di potenziale tra gli estremi A e B. Tra A e C il
potenziale scende, e per la legge di Ohm
VA − VC = IR1 .
Similmente tra D ed E si ha
VD − VE = IR2 .
Le due f.e.m. andranno, chiaramente, contate con segno mutuamente
opposto. Il generatore 2 è disposto in modo tale da ridurre il potenziale transitando da E a B, cioè è concorde ai segni delle cadute di
potenziale tra A e C, e tra D ed E. Dunque
VE − VB = E2 .
Il generatore 1 fa invece aumentare il potenziale tra C e D (cioè, in
direzione della corrente); il suo segno deve essere negativo, dato che
abbiamo preso tutte le riduzioni di potenziale negli altri tratti come
positive:
VC − VD = −E1 .
Sommando le quattro equazioni otteniamo
VA − VB = E2 − E1 + I ( R1 + R2 ),
cioè, portando tutti i potenziali al primo membro e i carichi al secondo,
VA − VB − E2 + E1 = I ( R1 + R2 ) = IR T ,
con RT la resistenza totale equivalente del tratto di circuito. Come
si vede ogni f.e.m. viene sommata convenzionalmente con il segno
positivo se la corrente entra dal polo negativo ed esce dal positivo, e
viceversa con segno negativo se la corrente entra dal polo positivo.
Questo è in accordo con il fatto che sotto l’azione del generatore la
corrente deve “uscire” dal polo positivo. Se abbiamo molte f.e.m. sarà
VA − VB + ∑k Ek = IR T .
(2.7)
con la convenzione appena menzionata sui segni. Questa equazione
è spesso utile per dedurre il potenziale tra due punti specifici, ad
esempio in circuiti con condensatori, o per determinare la tensione
equivalente di cui al teorema di Thevenin (Sez.2.4.4). Se i punti A e B
coincidono, cioè il tratto di circuito in questione è chiuso –come una
generica maglia di un circuito complesso– abbiamo
∑k Ek = IRT .
(2.8)
Nel caso di una singola maglia chiusa, questa equazione è equivalente
alla legge di Ohm ed è banale. Se abbiamo più maglie con rami
comuni, avremo una equazione per ogni singola maglia, e siccome
alcuni rami sono condivisi tra maglie, in essi circoleranno le correnti
di ambedue le maglie (una loro combinazione). Dunque le equazioni
in questione saranno accoppiate, nel senso che la corrente di una data
53
54
maglia figurerà anche nelle equazioni per altre maglie. Per questo
è essenziale scegliere il verso di circolazione di tutte le correnti e
mantenerlo in modo consistente. Se alla fine si ottenessero correnti
negative, significherebbe semplicemente che il verso di circolazione
è opposto a quello assunto inizialmente. Questo approccio è anche
noto come metodo delle correnti di maglia.
2.4.2
Figura 2.17: Seconda regola di Kirchhoff
per dedurre correnti non-indipendenti.
K-2
La seconda regola dice molto semplicemente che le correnti che
entrano ed escono da un nodo devono sommare a zero. Questa è una
conseguenza della conservazione della carica (tanta carica entra, tanta
ne deve uscire). Dunque
∑k Ik = 0,
∀ nodo,
(2.9)
dove le correnti sono sommate con segno positivo se entrano nel nodo
o con segno negativo se ne escono. Spesso non è necessario usare
esplicitamente questa regola per trovare le correnti indipendenti, dato
che dalla prima regola si ottiene già un sistema lineare risolvibile.
Tuttavia, essa può semplificare i calcoli eliminando una corrente a
favore delle altre; ad esempio se I1 +I2 –I3 =0 in un certo nodo (come
in Figura 2.17), si può sostituire I1 =–I2 +I3 nel sistema determinato
dalla prima regola. Altra applicazione è alla corrente su un ramo
comune a due maglie, che può essere ottenuta come la differenza delle
due correnti nelle maglie prese con il segno dato dalla circolazione,
oppure equivalentemente dalla seconda regola applicata a un nodo
di quel ramo.
2.4.3
Figura 2.18: Circuito a due maglie non
riconducibile a serie-parallelo, e quindi
da risolvere con Kirchhoff.
Esempio
Come esempio, consideriamo due maglie X e Y come in figura 2.19.
Scriviamo la prima regola per le due maglie. Assumiamo che le
correnti IX e IY circolino in senso orario in ambedue le maglie. Le due
f.e.m. vanno allora contate positive nelle due equazioni. Le cadute di
potenziale sui carichi dovute a IX sono IX R A e IX R B ; ma in R B circola
anche la corrente IY in verso contrario a IX e quindi va aggiunta la
caduta –IY R B . Allo stesso modo si procede per la maglia Y. Possiamo
scrivere Eq.2.14 per le due maglie come
( R A + R B ) IX − R B IY
= E1
maglia X
( RC + R B ) IY − R B IX
= E2
maglia Y
ottenendo un sistema lineare in due incognite IX e IY , le cui equazioni
sono, come si vede, accoppiate (le incognite compaiono in tutte e
due le equazioni). Risolvendo il sistema, si ottengono le due correnti
e si può ad esempio ottenere la potenza dissipata su dati elementi.
La soluzione dei sistemi può essere complicata, anche se risulta
semplificata se si specificano i valori di resistenze e f.e.m. Rimane
però tediosa e costosa per circuiti a molte maglie, che implicano
fisica 2
55
sistemi lineari grandi. Notiamo infatti che risolvere il sistema è
equivalente a risolvere il problema matriciale
ÃI = E,
con à la matrice dei coefficienti che moltiplicano le correnti, I il
vettore (incognito) delle correnti ed E quello noto delle f.e.m.; i metodi tipici (sostituzione, eliminazione di Gauss, regola di Cramer,
decomposizione LU) hanno tutti un costo dell’ordine di N 3 per N
equazioni.
Per l’esempio qui sopra (supposto R B =5 Ω, R A =15 Ω, RC =25 Ω,
E1 =10 V, e E2 =30 V), risolviamo per sostituzione, ottenendo IX =0.28 A
ed IY =0.88 A (senso orario di circolazione, ricordiamo). Se volessimo
sapere le potenze su RC o R A , ad esempio, questo è tutto quel che
serve. Per ottenere invece la potenza su R B (e in generale sui rami
condivisi), possiamo usare la seconda regola per ottenere la corrente
sul ramo di interesse; al nodo superiore, IX +IY +IB =0.28–0.88+IB =0
(perchè IY esce dal nodo) e quindi IB =0.6 A, ovvero entrante nel nodo
dal ramo di R B ; la potenza dissipata su R B è perciò R B IB2 =1.8 W
(peraltro, la potenza non dipenderebbe dal segno di IB ). La stessa
cosa poteva ottenersi allo stesso modo considerando direttamente i
versi di circolazione e i valori. Ricordiamo comunque che correnti
ottenute come IB non sono correnti indipendenti, ma derivate.
2.4.4 Teorema di Thevenin
Un altro approccio abbastanza abbordabile in pratica si basa sul
cosiddetto teorema di Thevenin. Si è visto che blocchi di resistori
in combinazioni di serie o parallelo possono essere rimpiazzati (nel
circuito o nel suo modello) da una opportuna resistenza equivalente.
Questo concetto si estendere a una qualunque rete di resistori e f.e.m.,
che può essere rimpiazzata da una singola f.e.m. in serie a una singola
resistenza, in base al teorema di Thevenin, che afferma che
Una rete complessa di f.e.m. e resistenze equivale a un singolo generatore di
f.e.m., uguale alla ddp tra i due punti A e B dove la rete si collega all’esterno,
in serie a una singola resistenza, pari a quella che si misurerebbe tra A e B se i
generatori fossero rimpiazzati dalle proprie resistenze esterne (eventualmente
nulle).
Operativamente, ai punti A e B la fem può essere misurata con un
voltmetro, e la resistenza si deduce da una misura di corrente "di
corto circuito", cioè usando un amperometro tra A e B. Il calcolo della
resistenza equivalente si riconduce a una combinazione di blocchi
serie-parallelo; la f.e.m. deve essere valutata, in generale, tramite
Kirchhoff.
2.5 Circuito RC
La presenza di condensatori, oltre che di resistori, in un circuito altera
la situazione drasticamente. In particolare, si osservano fenomeni
transienti di carica e scarica quando il circuito è posto sotto tensione
Figura 2.19: Seconda regola per ottenere
la corrente IB .
56
Figura 2.20: Circuito RC.
esterna: il condensatore si carica progressivamente tramite la corrente
che fluisce anche attraverso i resistori, dando luogo così a transienti
(che cessano a tempi sufficientemente lunghi) di tensione e corrente.
Una volta completata la carica, la corrente non può più transitare
attraverso il condensatore, che quindi agisce come un tratto di circuito
aperto – così come all’inizio della carica si comportava come un tratto
di conduttore perfetto. Infine, quando viene rimossa la tensione
esterna, il condensatore carico agisce da generatore di tensione sul
resto del circuito. man mano che il condensatore si scarica, la tensione
diminuisce fino a sparire, e quindi anche in fase di scarica ci sono
fenomeni transienti.
2.5.1
Carica
Consideriamo il circuito in figura 2.20, inzialmente aperto. Chiudendo l’interruttore, la corrente fluisce attraverso i due elementi e in
particolare carica positivamente i piatti del condensatore. La carica
sul capacitore passa nel tempo dal valore iniziale q(0)=0 a quello finale q(tmax )=q0 =C E , il massimo valore possibile dettato dalla capacità.
Dopo di ciò non si ha più corrente nel circuito.
In un momento generico tra l’inizio e la fine della carica, la f.e.m.
è uguale alle cadute di potenziali sui due carichi
E = VR + VC = RI +
q0
,
C
dove la carica q0 sta cambiando nel tempo. Per la definizione di
corrente come derivata temporale della carica, possiamo riscrivere
R
dq0
q0
=
E
−
,
dt0
C
ovvero
RCdq0 = (E C − q0 ) dt0 ⇒
dt0
dq0
=
.
RC
E C − q0
Integrando fino a un tempo generico e alla corrispondente carica,
Z t
dt0
0
si ha
−
RC
=
Z q
0
dq0
E C − q0
t
q − EC
q
= log (q0 − E C )|0 = log
RC
−E C
e quindi esponenziando i due membri e riarrangiando
q − E C = −E C exp (−t/RC )
e quindi
q
= E C (1 − exp (−t/RC ))
= q0 (1 − exp (−t/RC )) = q0 (1 − exp(−t/τRC )).
Dunque la carica sul condensatore aumenta esponenzialmente da
zero al suo valore massimo (Figura 2.21).
Figura 2.21: Carica nel circuito RC.
fisica 2
57
Il tempo caratteristico su cui questo avviene è
τRC = RC,
il che è sensato perchè se R è grande l’energia dissipata su di essa è
maggiore, e quindi il resistore compete maggiormente con la carica
del condensatore, e viceversa se C è grande il tempo necessario alla
carica deve aumentare a parità di E e di proprietà dei conduttori nel
dim
circuito. Chiaramente τRC =RC = (V/I)×(q/V)=q/I ha le dimensioni
di un tempo.
Come la carica, anche la corrente, la tensione e le quantità collegate
variano nel tempo. La corrente (Figura 2.22) è
I=
Figura 2.22: Corrente nel circuito RC.
E
dq
= exp (−t/RC ),
dt
R
che cala a zero esponenzialmente man mano che il capacitore si carica.
La tensione sul capacitore, per definizione, è
VC = E − VR = E (1 − exp (−t/RC )),
e quindi tutta la f.e.m. cade sul condensatore a tempi lunghi; quella
sul resistore, infatti, è
VR = E exp (−t/RC ).
Per parametri plausibili del circuito, il tempo di decadimento è di
norma piccolo. Per R=100 Ω, anche una capacità cospicua di C=1
µF dà τRC =0.1 ms. Occorre appena specificare che τRC è il tempo in
cui la corrente e la tensione calano di un fattore e−1 ∼0.3; per ridurle
a qualche percento, serve un tempo dell’ordine 4τRC , per il quale il
fattore esponenziale è appunto e−4 =1/e4 =0.018. La potenza totale
E2
PT = E I =
exp (−t/RC )
R
cala a zero con la corrente alla fine del processo di carica. La confrontiamo in Figura 2.23 con le altre due componenti, sulla resistenza e
sulla capacità: la potenza dissipata sulla resistenza è
PR = RI 2 = VR I =
E2
exp (−2t/RC )
R
e quella sulla capacità è
PC
= VC I = E (1 − exp (−t/RC )) ×
=
E
exp (−t/RC )
R
E2
[exp (−t/RC ) − exp (−2t/RC )] = PT − PR , (2.10)
R
non sorprendentemente data la conservazione dell’energia. Dalla potenza possiamo calcolare l’energia totale accumulata nel condensatore
e quella dissipata nel resistore. Integrando la potenza totale si ha
W
=
Z ∞
0
dt PT =
= − RC
E2
R
Z ∞
0
t
dt e− RC
E2 − t ∞
e RC |0 = E 2 C.
R
(2.11)
Figura 2.23: Potenza e sue componenti
durante la carica del circuito RC.
58
L’energia dissipata nel resistore
Z ∞
2t
E 2C
E2 ∞
WR =
dt PR =
dt e− RC =
,
(2.12)
R 0
2
0
è uguale a quella accumulata con il processo di carica nel condensatore,
Z ∞
Z
Z ∞
E 2C
E 2C
=
.
2
2
0
0
In sostanza, metà dell’energia fornita al circuito per caricare il capacitore viene inevitabilmente dissipata. (Notiamo di passaggio che
l’espressione dell’energia del condensatore è la stessa che avevamo
derivato discutendo la capacità.)
WC =
2.5.2
dt PC =
dt PT − PR = E 2 C −
Scarica
Il processo di scarica del condensatore in assenza di tensione esterna
è alimentato dall’energia ivi accumulata. La tensione ai capi del
condensatore, che inizialmente è V0 =q0 /C, alimenta la corrente nel
resistore. Come prima, tranne che la f.e.m. è ora zero,
E = 0 = VR + VC = RI +
Quindi
R
ovvero
q0
,
C
dq0
q
=− ,
dt0
C
dt0
dq0
=− 0 ,
RC
q
e integrando
Z t
dt0
0
RC
=−
Z q
dq0
0
q0
si ha
q = q0 exp (−t/RC ).
La tensione
VC =
q
q
= 0 exp (−t/RC ),
C
C
e la corrente
q0
exp (−t/RC )
RC
calano ambedue esponenzialmente con lo stesso tempo caratteristico
del processo di carica. La potenza dissipata nella resistenza è
I=
V02
exp (−2t/RC )
R
e l’energia dissipata (gli integrali sono gli stessi di prima) risulta
P = RI 2 =
V02 RC
V2C
= 0 ,
R 2
2
cioè, appunto, l’energia immagazzinata nel condensatore tramite il
processo di carica.
WR =
2.5.3
Esempi
Qui qualche esempio di circuiti, usando K, Th, s-p, e situazioni di
regime o carica RC.
3. Magnetismo
È un fatto empirico che due fili percorsi da corrente esercitano una
forza mutua (anche se si interpone tra di essi un conduttore nonmagnetico), e che, analogamente, due particelle in moto con diverse
velocità esercitano mutuamente una forza. L’origine di queste forze, e
del campo magnetico che definiamo per calcolarle, è riassunta nella
frase di A. Einstein “Le forze magnetiche sono in ultima analisi forze
elettriche tra cariche in moto”. Due oggetti neutri in cui siano in
moto delle cariche (come ad esempio due fili conduttori) esercitano
mutuamente una forza che è essenzialmente la forza elettrica tra le
particelle in moto nei due rispettivi sistemi di riferimento inerziali,
una volta che si tenga conto della trasformazione di coordinate tra
i due sistemi in moto. In questo senso, il magnetismo è un effetto
elettrico relativistico, cioè legato alla descrizione dei sistemi in moto
relativo fornita dalla teoria della relatività speciale di Einstein (il cui
lavoro originale si intitola infatti “Sull’elettrodinamica dei corpi in
movimento”). Una spiegazione esauriente, seppure molto impegnativa, è fornita nel volume 2, capitolo 5, della “Fisica di Berkeley”; in
Sezione 6.7 ne vedremo una semplificata.
Risulta inoltre che pressochè tutte le proprietà magnetiche dei
materiali sono effetti quantistici, dato che in fisica classica la magnetizzazione deve essere per forza nulla (teorema di Bohr-van Leuween).
Esempi sono l’esistenza di momenti magnetici microscopici (la magnetizzazione permanente delle calamite, ad esempio), e la proprietà
principe del campo magnetico, cioè quella di non avere sorgenti
monopolari, cioè “cariche magnetiche".
Sorprendentemente, il campo magnetico, che viene “inventato"
per descrivere l’interazione tra cariche in moto, risulta avere alla fine
una propria esistenza a pari dignità con il campo elettrico: esempio
principe le onde elettromagnetiche (Sez.6.3), che consistono essenzialmente di campi oscillanti che si rigenerano mutuamente nel tempo.
Anche l’interazione di momenti magnetici con il campo magnetico
60
prescinde completamente dalla sorgente che generato gli uni e l’altro.
Quindi è forse più corretto dire che se la sua origine è quella discussa,
il campo magnetico è almeno tanto importante e fondamentale quanto
quello elettrico.
3.1 Campo magnetico
Calcolare le forze tra cariche in moto in maniera diretta è estremamente macchinoso e scomodo; è possibile invece farlo in modo conciso
e completo introducendo un nuovo campo, detto campo magnetico
B, che è generato da cariche in moto e che agisce solo su cariche in
moto, e che in sostanza mima l’azione mutua “elettrica+relativistica”
(oltre che, ove rilevante, “quantistica") delle cariche in moto.
Il campo magnetico può essere generato da una corrente, ma
anche da un magnete permanente. Analizzando il secondo caso in
dettaglio con la teoria quantistica, si scopre che anche il campo di un
magnete deriva dal moto di cariche, e che l’interazione apparente tra
i poli di due magneti è di fatto il risultato l’interazione tra cariche
microscopiche in moto dentro di essi. Questa forza a volte viene
espressa come
F ∼ M1 M2 /r2 ,
Figura 3.1:
calamita.
Decostruzione di una
Figura 3.2: Le linee di campo magnetico
sono continue, e il loro flusso netto è
nullo attraverso qualunque superficie.
a suggerire, come nel caso elettrostatico, l’esistenza di “cariche” M
corrispondenti ai poli (convenzionalmente "Nord" e "Sud") di una
calamita. Ora empiricamente sappiamo che un magnete ha un polo
N e uno S coesistenti, e ha tutto l’aspetto di un dipolo. Se cerchiamo
di dividere questo dipolo (Figura 3.1) in ipotetiche cariche N e S
tagliando a metà la calamita, otteniamo ancora un dipolo. Questo
rimane vero fino al livello microscopico: spezzettando la calamita
negli atomi costituenti osserviamo che gli atomi stessi sono la sede del
dipolo magnetico elementare del magnete, e non si osservano cariche
magnetiche separabili. Il dipolo è infatti generato dal momento
angolare degli elettroni in orbita intorno al nucleo, quindi in ultima
analisi dal moto di cariche. Se anche eliminiamo questa circolazione
degli elettroni (ad esempio, separandoli dall’atomo stesso), un dipolo
magnetico sopravvive: quello intrinseco di spin dell’elettrone stesso,
che è un puro momento angolare quantistico senza analogo classico,
e certamente non divisibile in ipotetiche singole cariche magnetiche.
In sostanza, i monopoli (cariche) magnetici non esistono.
Non esistendo cariche magnetiche, nessuna superficie comunque
scelta può contenerne alcuna. Applicando una legge del tipo di quella
di Gauss al campo magnetico otteniamo perciò
I
S
B · dA = 0,
cioè non c’è flusso netto di campo attraverso una superficie chiusa:
le linee di campo sono continue (Figura 3.2). Quelle del campo
elettrico, per esempio, non lo sono, dato che “originano” dalle, o
terminano nelle cariche elettriche. Tramite il teorema della divergenza
già usato nel contesto della legge di Gauss per il campo elettrico si
fisica 2
61
ottiene banalmente la versione differenziale, e quindi infine la terza
equazione di Maxwell:
div B = 0;
I
S
B · dA = 0.
(3.1)
Una conseguenza è che il flusso attraverso una superficie aperta
S A limitata da una linea C è indipendente da S A , dato che possiamo
costruire una superficie chiusa SC (attraverso cui il flusso è zero)
combinando S A con qualunque superficie aperta S0A . Dunque il flusso
attraverso una data linea C potrà essere calcolato scegliendo la più
comoda delle superfici possibili che si appoggino su C. Un campo che
soddisfi questa equazione (sempre valida in ambito elettromagnetico)
è detto solenoidale. In sostanza è un campo che, al contrario del
campo elettrostatico (che è irrotazionale e laminare, come detto in
precedenza), non fluisce ma “ruota” solamente (essenzialmente, deve
avvitarsi su se stesso perchè le linee di campo siano chiuse). In Figura
3.3, è appunto mostrato un campo con solo rotore (circuitazione
lungo la linea, e quindi flusso attraverso l’area delimitata dalla linea)
e non divergenza (cioè flusso attraverso la linea). Di questo campo, si
intuisce a vista, sarà verosimilmente non nulla la circuitazione
I
L
Figura 3.3: Campo solenoidale puro,
senza divergenza. Un campo magnetico
è di questo tipo.
B · ds 6= 0
e il suo valore sarà legato alla sorgente del campo stesso (che vedremo essere la corrente e che in questa Figura sarebbe nell’origine).
In Figura 3.4, invece, è mostrato un campo che ha sia rotore (circuitazione lungo la linea) che divergenza (flusso attraverso la linea).
Notiamo infine che un campo vettoriale generico può essere sempre
espresso come somma di una componente solenoidale e una laminare,
sotto ragionevoli condizioni (più un termine armonico: teorema di
Helmholtz, vedi Figura 3.5).
3.2 Forza di Lorentz
L’azione principe del campo magnetico è determinare la forza di
Lorentz. Una particella di massa m e carica q in moto con velocità v
in un campo magnetico risulta soggetta a una forza, detta di appunto
di Lorentz,
F = qv × B
(3.2)
Ci occuperemo in seguito di come il campo possa essere generato.
Dal modulo F=qvB, possiamo dedurre le unità del campo magnetico
nel S.I.:
C
Figura 3.4: Campo con rotore e divergenza ambedue non nulli. Un campo
magnetico non si comporta così.
m dim
Nm
J
Js
Vs
dim N
B = N ⇒ B =
=
=
=
=
.
s
Am
A m2
A m2
C m2
m2
Dunque 1 T = 1 V s/m2 . I campi magnetici tipici sulla terra sono piccoli; il campo terrestre è pari a 1 Gauss = 10−4 T. I campi massimi che
si ottengono in laboratorio in modo non distruttivo sono dell’ordine
delle decine di Tesla al più. Per confronto, in oggetti astronomici tipo
pulsar o stelle di neutroni, i campi posso essere anche 108 T.
Figura 3.5: Teorema di Helmholtz.
62
Essendo un prodotto vettoriale di v e B, la forza è ortogonale ad
ambedue, il che definisce la sua direzione. Il verso è determinato dalla
regola della vite (Figura 3.6) : è il verso di avanzamento di una vite
normale che giri in modo da portare v su B attraverso l’angolo minimo
tra essi compreso. Altra regola analoga è quella della mano destra:
se v punta parallela alle dita eccettuato il pollice e si piegano le dita
stesse in direzione di B, la F punta lungo il pollice. Ovviamente se q
cambia segno la forza si inverte. La forza ovviamente è proporzionale
a sin θ, l’angolo compreso tra v e B, e quindi massima se i due
sono ortogonali e zero se sono paralleli. Inoltre, la forza è sempre
diretta trasversalmente alla velocità della particella. Questo ha una
importante conseguenza, e cioè che la forza non fa nessun lavoro utile
nella direzione del moto,
W=
Z B
A
F · ds = 0
essendo ds parallelo a v. (Ricordiamo che nel caso di forze elettriche
questo succede solo su linee equipotenziali.) Una differenza importante tra campo magnetico e campo elettrico è dunque che le linee di
forza e di campo coincidono geometricamente per il campo elettrico,
mentre linee di forza e di campo sono ortogonali nel caso magnetico.
Altra annotazione utile è che la forza in campo elettrico e magnetico
in generale è
F = q (E + v × B) .
Chiaramente la relazione tra le dimensioni fisiche del campo magnedim
Figura 3.6: Regola della vite e regola
della mano destra.
tico ed elettrico nel nostro sistema di unità è del tipo E = vB. In
particolare risulta che E=cB con c la velocità della luce, e dunque la
componente elettrica della forza è molto maggiore di quella magnetica per velocità normali, cioè non prossime a quella della luce: il
rapporto tra forza elettrica e magnetica è dell’ordine
Fe
qE
qcB
c
=
=
= ,
Fm
qvB
qvB
v
Figura 3.7: Spira e momento magnetico.
cioè tipicamente molto grande: nel rame, c/vdrift '1013 , c/vFermi '200.
Vedremo esplicitamente nel caso delle onde elettromagnetiche che
E=Bc.
Una quantità collegata importante è il flusso Φ=BA di campo
magnetico B attraverso un area A, che si misura in Weber: 1 Wb =1
T m2 = 1 V s. Un’altra quantità rilevante è il momento magnetico,
che è legato al moto rotatorio locale di una carica. Un definizione
fenomenologica si basa su una spira (filo circolare, come in Figura)
percorsa da corrente I, e che comprende un’area A. Il momento può
essere definito come
m = I A n̂,
con n̂ un versore normale alla spira. Il verso di circolazione della
corrente è in relazione con n̂ tramite la regola della vite. Le unità di
momento magnetico sono A m2 = J/T. Risulta naturale definire una
fisica 2
63
energia potenziale (appunto in J) di un momento magnetico in un
campo magnetico come
U p = −m · B,
di cui si discute ulteriormente qui sotto. I momenti magnetici microscopici associati alla circolazione degli elettroni attorno agli atomi
sono piccoli, dell’ordine di 10−24 A m2 o J/T, quindi si può stimare
che la forza su un cubetto di 1023 atomi o circa 0.01 m di lato in un
campo di 1 T è circa 10−2 N. More about that later.
3.2.1 Moto circolare in B
Essendo la forza magnetica (e quindi l’accelerazione, ovvero la variazione della velocità) trasversale alla velocità in ogni punto della
traiettoria, l’effetto del campo magnetico è di curvare trasversalmente
la traiettoria istantanea precisamente come una forza centripeta (Figura 3.8). Supponendo per semplicità che v⊥B e che il campo sia
uniforme, è evidente che si realizza un moto circolare uniforme, per
cui
mv2
F = qvB = ma =
r
e quindi
p
mv
=
,
r=
qB
qB
cioè il raggio è tanto minore quanto maggiore il campo. Inoltre la
frequenza angolare del moto, detta di ciclotrone, è
ω = 2π f =
v
qB
=
r
m
e aumenta con il campo. In forma vettoriale,
~ =−
ω
q
B
m
e quindi
~ × v = −v × ω
~.
v×B = ω
Il periodo del moto è
T=
2π
2πm
=
.
ω
qB
Da queste espressioni è chiaro che si può usare il campo magnetico
per selezionare, a seconda dei casi, le particelle per velocità o per
massa o per carica.
Se l’angolo velocità-campo non è π/2, come supposto sopra, si
ottiene una traiettoria elicoidale (Figura 3.9), dato che solo la componente ortogonale a B fornisce una forza di Lorentz. Supponiamo che
B=Bŷ, e che (θ è contato dall’asse x)
v = v⊥ x̂ + vk ŷ = v(x̂ cos θ + ŷ sin θ ).
La forza è
F = qv × B = q(v⊥ x̂ + vk ŷ) × Bŷ = qBv⊥ x̂ × ŷ = qBv⊥ ẑ = ẑqBv cos θ
Figura 3.8: Forza magnetica e moto
circolare.
64
e ne risulta un moto circolare nel piano xz (perpendicolare a B) con
r=
mv cos θ
mv⊥
=
,
qB
qB
mentre la particella avanza con velocità v sin θ lungo y. Il moto
complessivamente è quindi una spirale orientata lungo y.
Se ne può calcolare il passo, che è la distanza percorsa della
particella nella direzione di avanzamento in un periodo di rotazione.
Ricordiamo che la frequenza di rotazione è legata alla componente
della velocità normale al campo: ωr=v⊥ , e quindi T=2πr/v⊥ ; dunque
P = Tvk = 2πrvk /v⊥ = 2πr tan θ.
Figura 3.9: Geometria schematica per
la traiettoria elicoidale di una particella
carica in campo magnetico.
Nel caso limite θ=0, si ha tan θ=0 e quindi P=0, cioè ricadiamo nel
caso già discusso, con sola rotazione e nessun avanzamento, nel
qual caso il raggio dell’orbita è massimo. Nell’altro caso limite in
cui θ →π/2, si ha tan θ →∞, cioè P→∞ e r →0: la spirale si allunga
all’infinito, stringendosi fino ad avere raggio zero. Detto diversamente,
la particella con velocità parallela al campo non viene deviata.
3.2.2
Forza magnetica su una corrente
Partendo dalla forza di Lorentz possiamo costruire l’espressione per
la forza esercitata da una corrente su una carica in moto, e quindi tra
correnti. In un filo di sezione A percorso da una corrente stazionaria
portata da elettroni, con densità n (numero/volume), carica –e, massa
m, e velocità di drift vd , la densità di corrente è
j = −nevd .
Sia inoltre ds lo spostamento infinitesimo nella direzione della corrente. Se il filo è immerso in un campo magnetico, ogni elettrone è
soggetto alla forza di Lorentz
F = −evd × B.
Usiamo il solito trucco della sovrapposizione di contributi infinitesimi.
L’elementino ds di lunghezza contiene n A ds elettroni ed è quindi
soggetto alla forza elementare
Figura 3.10: Forza su un filo.
dF = nA(ds)F = −( A ds) nevd × B = ( A ds) j × B = Ids × B
(legge elementare di Laplace). Una corrente in un tratto infinitesimo
di filo è difficile da immaginare, ma è utile per ottenere la forza su un
tratto finito PQ di filo:
F=I
Z Q
P
ds × B
Se il campo è uniforme, cioè uguale ovunque,
Z Q F=I
ds × B.
P
(3.3)
(3.4)
fisica 2
65
L’integrale è semplicemente la somma dei vettorini infinitesimi ds,
cioè il vettore ~` congiungente P e Q (cioè la distanza diretta PQ, non
la lunghezza del filo in extenso: comprensibilmente, se il filo si arrotola
su sè stesso le componenti della forza si cancellano tutte). Dunque
F = I~` × B.
(3.5)
Ne segue che, in un campo uniforme, a) la forza sul filo non dipende
dalla sua forma o estensione totale, ma solo dalla distanza tra gli
estremi; b) la forza su un filo chiuso è nulla.
3.2.3 Momenti torcenti su correnti
In un campo uniforme la forza su un filo percorso da corrente è nulla.
Tuttavia un filo percorso da corrente posto in un campo magnetico
può subire momenti torcenti ("coppie"). Vedremo in seguito che, per
converso, applicando un momento torcente a una spira, cioè facendola
ruotare dentro un campo magnetico, si può generare una corrente.
Figura 3.11: Spira in campo magnetico
uniforme.
Riferendoci alla spira rettangolare di lati corti 1 e 2 di lunghezza
a e lati lunghi 3 e 4 di lunghezza b e con asse attraverso i lati 3 e 4
in Fig.3.11 (centro), notiamo dapprima che sul lato 4 e sul lato 3 si
esercitano forze uguali e opposte, che si cancellano poichè assumiamo
che la spira sia indeformabile. In ogni caso, il centro di massa della
spira resta fermo. Le forze sul lato 1 e sul lato 2 (Fig.3.11, destra)
assunta la circolazione antioraria di I sono pari in modulo a IaB e
puntano verso l’esterno della spira ortogonalmente al campo. Esse
sono uguali e opposte, ma applicate su assi diversi (Fig.3.11, sinistra),
e quindi non si cancellano (tranne che nel caso in cui la normale alla
spira sia parallela al campo magnetico). Di nuovo non c’è forza netta,
ma il momento delle due forze è
π
M = Fb cos ( − θ ) = IabB sin θ.
2
Se ricordiamo ora la definizione di momento magnetico
m = I An̂,
vediamo che il momento torcente è
M = m × B = I An̂ × B,
66
Figura 3.12: Momento torcente di
una spira in campo magnetico (vista
dall’alto).
che punta lungo l’asse di rotazione della spira, analogamente a qualunque caso di moto rotatorio. Il momento è nullo se mkB, cioè se
θ=0 oppure π; nel primo caso, si ha equilibrio stabile, nel secondo
caso si ha equilibrio instabile (basta che θ si scosti leggermente da π
per far partire la rotazione della spira).
Quando la normale, oscillando, attraversa la direzione del campo,
M cambia segno (Figura 3.12), cioè la spira viene nuovamente attratta
verso l’equilibrio; ne deriva una oscillazione che per piccoli θ intorno
alla posizione d’equilibrio è armonica. Possiamo definire una energia
potenziale
U p = −m · B = −|m| B cos θ = − I AB cos θ
che è minima a θ=0 (stabile) e massima a θ=π (instabile), e con cui
riotteniamo
M=−
dU p
= −|m| B sin θ ' −|m| Bθ
dθ
l’ultima eguaglianza essendo valida nel limite di piccoli angoli. Per
la definizione di momento torcente nella dinamica dei corpi rigidi (L
è il momento angolare, I il momento di inerzia, e ω=θ̇ la velocità di
rotazione), questo fornisce
M≡
dL
≡ I ω̇ = −|m| Bθ
dt
ovvero
|m| B
θ=0
I
che è l’equazione di un oscillatore armonico con costante di forza di
richiamo proporzionale al momento magnetico e al campo, e "massa"
data dal momento d’inerzia della spira, la cui frequenza è
r
1
|m| B
f =
.
2π
I
θ̈ +
La spira quindi è meccanicamente equivalente (trascurando attriti,
aria etc.) a un momento magnetico. Meccanismo simile è quello
dell’ago di una bussola immerso nel campo terrestre.
3.2.4
Generalizzazione a campi non uniformi
È possibile una semplice ed elegante generalizzazione che permette
di calcolare le forze (a corrente costante) su fili o spire deformabili o
in campi non uniformi. Riconsideriamo l’energia potenziale
U p = −m · B.
e ricordiamo l’espressione del momento magnetico). Se la spira si
deforma in campo uniforme, abbiamo
dU p = −dm · B = − IB · dA = − IdΦ,
o se la spira è rigida ed è il campo a cambiare
dU p = −m · dB = − IdB · A = − IdΦ.
fisica 2
67
In entrambe i casi la variazione di energia è associata alla variazione
di flusso del campo attraverso una superficie appoggiata sul circuito C
(la spira). Dato che il flusso del campo magnetico dipende solo da C,
non è importante quale sia la superficie specifica, e quindi integrando
si ha
Z
Up = − I
A
dΦ = − IΦ B .
Se ora muoviamo la spira mantenendo I costante, il flusso varia e di
conseguenza varia l’energia potenziale. Il lavoro infinitesimo fatto per
muovere la spira è l’opposto della variazione dU p ,
dW = −dU p = IdΦ
Per esempio per una traslazione lungo x, il lavoro è
dW = Fx dx
ma è anche, al primo ordine,
dW =
∂Φ
dx;
∂x
dunque
Fx =
∂Φ
∂x
o in forma vettoriale (ricordando il campo elettrico vs potenziale)
F = I ∇Φ = −∇U p
cioè il gradiente del flusso. Se il campo è uniforme, la variazione di
flusso è sempre nulla, e quindi la forza è nulla. Supponendo che la
spira sia rigida, in un campo non uniforme agirà su di essa una forza
proporzionalmente maggiore laddove il campo varia rapidamente
nello spazio, e la forza si annullerà in una situazione di variazione di
flusso nulla. La spira si muoverà verso regioni dove il flusso aumenta,
e il massimo flusso corrisponderà alla minima energia potenziale (la
spira in posizione A o in posizione B in Figura 3.13 si muoverà come
indicato finendo in equilibrio in E). Una spira non rigida, invece, si
deformerà finchè possibile (e poi si muoverà) per aumentare il flusso
concatenato. In questo quadro generale rientra anche, in particolare,
la spira chiusa in campo uniforme discussa sopra. Infatti
dW = −dU p = I
∂Φ
dθ = Mθ dθ
∂θ
e quindi, essendo
Φ = AB cos θ,
il momento meccanico è
Mθ = I
∂Φ
= − I AB sin θ
∂θ
come trovato in precedenza. Ovviamente l’espressione in funzione
del flusso semplifica notevolmente i calcoli in campo non uniforme.
Figura 3.13: Una spira in campo nonuniforme si muove in modo da raggiungere la situazione di massimo flusso (‘E’
sta per ‘equilibrio’).
68
3.2.5
Esempio: filo in equilibrio in campo magnetico e gravitazionale
Consideriamo un filo rettilineo di densità di massa λ=m/L=46 g/m
percorso da una corrente di 28 A. Quanto deve valere un campo B
assunto, ortogonale alla corrente, per sostenere il filo in un campo
gravitazionale ? Ovviamente dobbiamo eguagliare le forze magnetica
gravitazionale Fm =ILB e Fg =mg; quindi
ILB = λLg ⇒ B = λ g/I = 0.046 · 9.8/28 = 1.6 × 10−2 T,
circa 160 volte il campo terrestre. Notiamo che la corrente deve
essere ortogonale al campo, ma specificamente come in Figura. Se
fosse opposta, la forza sarebbe negativa e quindi concorde con quella
gravitazionale.
3.2.6
Esempio: momento di un pacchetto di spire
Consideriamo un pacchetto di N=250 spire di area 2.5×10−4 m2 e
percorse da I=100 µA, in equilibrio stabile in un campo B=0.85 T
diretto lungo l’asse delle spire. Qual’è il verso della corrente ? Qual’è
il lavoro necessario a ruotare il pacchetto di π/2 ? Per la prima
domanda, si nota che il campo e il momento magnetico delle spire
devono essere concordi; per la regola della vite, la corrente deve
perciò circolare in senso orario guardando nella direzione del campo
(se circolasse al contrario, il momento magnetico sarebbeopposto al
campo e l’equilibrio sarebbe instabile). Per la seconda domanda,
notiamo che il lavoro è pari alla differenza di energia potenziale tra
stato finale e stato iniziale
W = U p (π/2) − U p (0) = −mB cos π/2 + mB cos 0 = mB.
Il momento è
m = N I A = 250 · 2.5 × 10−4 × 100 × 10−6 = 2.5 × 10−6 ,
quindi
W = mB = (2.5)2 × 10−6 · 0.85 = 5.4 µJ.
3.2.7
Esempio: "motore" magnetico
Consideriamo (Figura) un conduttore quadrato di lato b con tre lati
fissi e il quarto mobile lungo l’asse x (sia x la coordinata del quarto
lato). Se ipotizziamo che la corrente circoli in senso orario e il campo
B entri nel piano del conduttore, si vede che la forza è diretta lungo x̂:
F = IBbx̂.
Figura 3.14:
magnetico"
Schema di "motore
Alternativamente notiamo che il flusso del campo Φ=AB=bxB è
positivo e aumenta con x. Dunque l’espressione della forza è
F = ∇Φ = x̂
dΦ
dx
= IBb x̂ = IBbx̂
dx
dx
come trovato sopra. La corrente quindi subisce una forza magnetica che accelera il settore mobile del circuito (una specie di motore
magnetico).
fisica 2
69
3.2.8 Esempio: bilancia magnetica
Consideriamo un circuito planare quadrato di lato b appeso a un
braccio di una bilancia e con un lato immerso in un campo magnetico
uscente dal piano, e con corrente circolante in senso antiorario. Sia I=1
A, b=5 cm=0.05 m e la massa del contrappeso sia m=0.5 g=5×10−4 kg.
Quanto deve valere il campo B perchè il sistema sia in equilibrio ?
(O, detto diversamente, dedurre il campo "pesando" il circuito immerso nel campo.) Per definizione, la forza punta verso il basso in
Figura e ha modulo F=IBb; la forza di gravità sul contrappeso agisce
sul circuito, tramite le tensioni nei bracci (assunti indeformabili), in
direzione opposta ad F. La condizione di equilibrio è
Figura 3.15:
magnetica"
Schema di "bilancia
Ftot = mg − IbB = 0
e quindi
B=
mg
5 × 10−4 · 9.8
=
' 0.1 T.
Ib
1 · 5 × 10−4
3.2.9 Esempio: forza nulla su un loop chiuso
Consideriamo un conduttore semicircolare nel piano zx, di raggio R
e chiuso da un settore coincidente con un diametro. Sia il circuito nel
piano zx e sia percorso da corrente in senso antiorario. Sia inoltre
B=Bŷ. La forza sul diametro orientato (nel verso della corrente) PQx̂,
è
Fup = 2R IB x̂ × ŷ = 2R IB ẑ.
Sul settore semicircolare possiamo usare uno spostamento
ds = −dx x̂ + dz ẑ.
La forza elementare è
dF = Ids × B = − IBdx (x̂ × ŷ) + IBẑ × ŷ = − IBdx ẑ + IBdz x̂.
Figura 3.16: Loop chiuso e forza nulla.
Integrando in x il primo termine fornisce
Fdown = − BI ẑ
Z R/2
− R/2
dx = −2RBI ẑ,
mentre il secondo si annulla, dato che la coordinata z è uguale nei
punti di partenza e arrivo:
Z 0
0
dz = 0.
Infine
F = Fup + Fdown = 0,
come atteso. Dato che sia il campo che l’area del circuito non cambiano, l’espressione della forza come gradiente del flusso dà lo stesso
risultato senza nessun calcolo.
70
3.2.10 Esempio: traiettoria elicoidale in campo magnetico
Consideriamo un elettrone con energia cinetica 22 eV che entra in
un campo magnetico uniforme di 4.5×10−4 T in modo tale che la
sua velocità formi un angolo θ=65◦ con il campo (schematicamente
come in Figura 3.9). Non essendo la velocità ortogonale o parallela
al campo, la traiettoria sarà elicoidale. Il passo dell’elica percorsa
dall’elettrone è la lunghezza percorsa nella direzione parallela al
campo in un periodo di rotazione di ciclotrone T=2πm/qB, ovvero
p = vk T.
Ci serve quindi la velocità proiettata sulla direzione del campo. Essendo l’energia cinetica K=mv2 /2= 22 eV=22×1.6×10−19 J, considerata
la massa dell’elettrone m=9×10−31 kg, si ottiene |v|=2.8×106 m/s, e
quindi vk =|v| cos θ=1.2×106 . Dunque si ha che
p
= 2vk π
m
9 × 10−31
= 2 · 1.2 × 106 · 3.141592 ·
qB
1.6 × 10−19 · 4.5 × 10−4
= 9.4 × 10−2 m = 9.4 cm.
L’elica è disposta, per costruzione, lungo la direzione del campo.
3.3 Sorgenti del campo magnetico
Sveliamo subito l’arcano: le correnti sono esse stesse sorgenti di
campo magnetico. La legge di Biot-Savart (che si può derivare, Sez.)
dalle equazioni di Maxwell) fornisce il campo magnetico generato da
una porzione di filo percorso da corrente. L’espressione è complessa
e difficile da usare in generale.
Come al solito, l’idea è usare il principio di sovrapposizione di
contributi infinitesimi, che in questo caso sono del tipo
dB(r) =
Figura 3.17: Legge di Biot-Savart: campo
magnetico generato da correnti.
µ0 I
µ0 I
ds × ŵ =
ds `ˆ × ŵ,
4π w2
4π w2
dove `ˆ è il versore dello spostamento dentro il filo, ŵ il versore congiungente l’elementino infinitesimo di lunghezza ds con il punto r, w
la distanza di r dall’elementino, e µ0 =4π ×10−7 T m/A è la cosiddetta
permeabilità magnetica del vuoto, analoga alla costante dielettrica e0
nel contesto elettrostatico. La costante µ0 , detta permeabilità magnetica del vuoto, ha le dimensioni di una densità lineare di induttanza
(vedere Sezione 4.3). Per un circuito chiuso finito, il campo generato
è
I
µ0
`ˆ × ŵ
B(r) =
I ds
,
(3.6)
4π
w2
o più in generale
B(r) =
µ0
4π
I
dV
j × ŵ
,
w2
dove si è usato il fatto che
Ids = j dA ds = j dV.
fisica 2
71
3.4 Campo di una carica in moto
Una singola carica in moto corrisponde a una corrente, e perciò
genera essa stessa un campo magnetico. La densità di corrente per N
particelle nel volume V è
j = −nev
e quindi
dB =
µ0 v × ŵ
dV.
nq
4π
w2
Poichè solo n dipende dal volume, e integrata sul volume dà il numero
di particelle N, si ha che
B=
µ0 v × ŵ
q
.
4π
w2
Se ricordiamo che il campo elettrico di una carica singola è
E=
q
ŵ
4πε 0 w2
(qui w è la distanza dalla carica e quindi fa la funzione di r nella
formulazione dell’elettrostatica) si vede che
B=
v×E
µ0 v × r̂
= µ0 ε 0 v × E =
,
q
4π w2
c2
dove c, come vedremo più avanti (Sezione 6.4), è la velocità della luce.
!!!!!!!Questa espressione vale nel limite non-relativistico (v/c piccolo).
Figura 3.18: Geometria per il campo del
filo indefinito.
3.5 Campo generato da un filo indefinito
Consideriamo (Figura 3.18) un filo di lunghezza indefinita e percorso
da una corrente I. Sia ŝ la direzione della corrente, e R̂ una generica
direzione ortogonale al filo (tutte queste direzioni sono equivalenti,
essendo il sistema a simmetria cilindrica). Come ora mostriamo, il
campo magnetico generato dalla corrente è
B=
µ0 I
ŝ × R̂,
2πR
(3.7)
ovvero la direzione del campo giace nel piano ortogonale al filo, e il
suo verso è determinato da quello della corrente tramite la regola della
vite. Per quanto riguarda il modulo, notiamo che ogni elementino ds
contribuisce un campo infinitesimo
dB =
µ0 sin θ ds
I
4π
r2
dove θ è l’angolo tra la direzione della corrente e la congiungente
l’elementino con il punto dove calcoliamo il campo, e r la distanza tra
i due. Il campo sarebbe dunque
B=
µ0
I
4π
Z ∞
sin θ ds
−∞
r2
.
72
Notiamo intanto che, detta R la distanza radiale dal filo, si ha
r2 = s2 + R2 , R = r sin (π − θ ) = r sin θ ⇒ sin θ = √
R
s2 + R2
Inoltre, essendo il filo indefinitamente lungo, c’è simmetria speculare rispetto al piano che abbiamo scelto, e possiamo integrare sul
semiasse reale (moltiplicando per 2). Dunque sostituendo si ha, come
anticipato,
B=
µ0
IR
2π
Z ∞
0
ds
µ
= 0IR
2π
(s2 + R2 )3/2
R2
√
s
s2
+
R2
∞
=
0
µ0 I
.
2πR
3.6 Interazioni tra correnti
Figura 3.19: Interazione attrattiva (repulsiva) tra correnti concordi (discordi).
Grazie al risultato appena ottenuto, possiamo studiare l’interazione
tra correnti mediata dal campo magnetico.
Infatti, una corrente genera un campo, ed è al tempo stesso soggetta alle forze magnetiche generate da altre correnti. Consideriamo
(Figura 3.19) due fili paralleli di lunghezza L (lunghezza cui attribuiremo carattere vettoriale tramite un vettore L concorde con il verso
della corrente), percorsi da correnti I1 e I2 , e la cui minima distanza
sia d. Il campo generato dal filo 1 è a simmetria cilindrica intorno al
filo stesso e vale
µ0 I1
B1 =
2π d
nella posizione del filo 2. Il filo 2 è quindi soggetto ad una forza
F2 = I2 L × B = I2 L B d̂ =
µ0 I1 I2 L
d̂ 21
2π d
per la solita regola della vite; d̂ 21 è il versore corrispondente alla
distanza d che punta dal filo 2 al filo 1. Si vede dunque che la forza
è attrattiva se I1 e I2 hanno lo stesso segno, repulsiva altrimenti.
Perciò, correnti concordi si attraggono, correnti discordi si respingono
(mnemonicamente, il contrario delle cariche). Partendo dall’azione
del filo 2 sul filo 1, si ottiene F1 =–F2 come da principio di azione e
reazione, e il modulo della forza è lo stesso.
3.7 Esempio: filo annulare
Figura 3.20: Geometria per calcolare il
campo al centro della spira.
Determiniamo ora il campo generato da un filo annulare, cioè una
spira. Ci limitiamo per ora al centro del filo.
Consideriamo un settore circolare (Figura 3.20); R è il raggio del
cerchio, R̂ il versore radiale dal filo al centro del cerchio, θ l’angolo
sotteso dal settore. Se la corrente I circola in senso antiorario, per la
regola della vite il campo al centro del filo dovrebbe puntare lungo z
(fuori dal piano). Questo sarà sicuramente il caso per un filo chiuso.
Consideriamo perciò la sola componente z. Dalla legge di Biot-Savart
dBz =
µ0 sin (π/2) ds
µ ds
µ dθ
I
= 0I 2 = 0I
4π
4π R
4π R
R2
fisica 2
73
dato che l’angolo tra il vettore spostamento tangente al filo e il versore
del raggio è sempre π/2, e ds=R dθ per piccoli angoli. Dunque, se il
settore sottende un angolo θ0 ,
Bz =
µ0 I
4π R
Z θ0
0
dθ =
µ0 I
θ0 .
4π R
Se il filo è un cerchio intero e chiuso, θ0 =2π. Inoltre qualsiasi componente nel piano si compensa nel caso del filo chiuso, quindi il campo
al centro ha la sola componente z, e il modulo di B al centro della
spira circolare è
µ0 I
B=
.
(3.8)
2R
Come per il filo, il campo decresce inversamente con la distanza.
3.8 Solenoide
Il campo della spira circolare ci permette di calcolare (con difficoltà) il
campo all’interno di un solenoide, cioè una serie di N spire percorse
in serie da una corrente I, connesse e strettamente impacchettate
lungo una certa direzione (Figure 3.21,3.22,3.23). Risulta che il campo
all’interno del solenoide, nel limite di L R, con L la lunghezza e R il
raggio, è
B = µ0 I n ẑ
(3.9)
con ẑ l’asse del solenoide e n=N/L la densità lineare di spire. All’esterno del solenoide il campo ha una componente nulla lungo la
direzione dell’asse del solenoide, e una non nulla trasversale all’asse
(discussa in Sez.3.9.2). Iniziamo con il campo di una singola spira, in
un punto lungo l’asse della spira stessa (Figura 3.21) posto ad altezza
d sopra il piano della spira. Di nuovo, il campo sull’asse ha sola
componente z.
Come al solito dalla legge di Biot-Savart, con l̂ e r̂ i versori lungo
la spira e sulla congiungente la spira e il punto sull’asse, il contributo
infinitesimo da una porzione ds della spira è
dB =
µ0 I ds
l̂ × r̂,
4π r2
che punta in una direzione che fa un angolo α con l’asse della spira
uguale a quello che r̂ fa con il piano. La componente z è
dBz =
µ
R
µ0 ds
µ0 ds R
I
I
= 0 I ds 2
cos α =
4π r2
4π r2 r
4π
( R + d2 )3/2
essendo r cos α=R e R2 +d2 =r2 . Integrando in ds lungo la spira, si
ottiene
B
=
=
Bz =
µ0 I
R
2
4π ( R + d2 )3/2
µ0 I R2
2( R2 + d2 )3/2
Z
ds =
µ0 I
R
2πR
2
4π ( R + d2 )3/2
(3.10)
per il campo sull’asse di una singola spira (notiamo che per d→0 si
riottiene il risultato per il centro della spira). Come prima, la spira è
Figura 3.21: Geometria per il campo
lungo l’asse della spira.
Figura 3.22: Schema del campo di una
spira e di spire sovrapposte (solenoide).
Il campo all’esterno tende ad annullarsi (i contributi dei due lati opposti si
cancellano) tanto più quanto R è piccolo.
74
circolare e le componenti in piano si cancellano, e il campo coincide
con la sua componente z.
Per ottenere il modulo del campo del solenoide (la sua direzione
coincide con ẑ), dobbiamo sommare i contributi di tutte le spire
(qualitativamente come in Figura 3.22 e più in dettaglio in Figura
3.23). Contiamo perciò le spire tramite una densità lineare n m−1 ,
cosicchè ci sono n dz spire nell’intervallino di lunghezza dz lungo
l’asse ẑ del solenoide. Esse generano un contributo al campo
dB =
Figura 3.23: Geometria per il calcolo del
campo nel solenoide.
2( R2
µ0 I R2
n dz.
+ (z − d)2 )3/2
Il solenoide si estende da − L/2 a L/2, e così la posizione z delle spire
che stiamo contando; d è l’altezza del nostro punto rispetto al piano
z=0; quindi la sua altezza relativa alla quota del piano della spira
(cioè z) è z–d. Il segno è irrilevante, dato che compare al quadrato
(per la simmetria speculare). Integrando in z sulla lunghezza L del
solenoide, cioè da –L/2 a L/2, si ottiene
µ0 I n
B(d) =
2
L/2 + d
p
R2 + ( L/2 + d)2
+p
L/2 − d
!
R2 + ( L/2 − d)2
per il campo nella posizione d lungo l’asse del solenoide. Se il solenoide è molto più lungo che largo, cioè L R, possiamo fare il limite
R→0; la parentesi fa 2 e quindi
B = µ0 I n,
Figura 3.24: Campo longitudinale nel
solenoide in funzione dell’aspect ratio.
che naturalmente non dipende da L, R, o d.
Quanto al campo all’esterno del solenoide, la situazione è meno
intuitiva. La componente di campo trasversa al solenoide è essenzialmente il campo prodotto da una corrente I che scorra lungo ẑ
(Sez.3.9.2). Per la componente parallela al solenoide, possiamo notare
che i campi generati da ogni coppia di porzioni infinitesime di spira
diametralmente opposte (e percorse quindi da correnti opposte) si
compongono all’interno e si cancellano all’esterno del solenoide (Figura 3.24). Questa cancellazione è esatta per un solenoide ideale; ma
se L/R è finito, il campo all’esterno non è esattamente nullo. Come
approssimazione zero, ci poniamo a distanza r1 da una spira del
solenoide (in un piano che la contenga) e quindi a r1 +R dall’altro lato
della stessa spira: il campo parallelo all’asse generato in r1 dai due
settori di filo dai due lati della spira è
B∼
1
1
R
−
= 2
r1
r1 + R
r1 + r1 R
che va a zero linearmente se R→0 (il solenoide diventa sempre più
stretto), e come 1/r12 se r1 →∞ (ci allontaniamo dal solenoide), quindi
più rapidamente del campo ortogonale al solenoide. Non c’è dipendenza da L perchè questo argomento ipersemplificato non considera
i contributi di altre spire e le loro relative direzioni.
fisica 2
75
3.9 Legge di Ampere
Come si è visto, in linea di principio il campo magnetico generato
da una corrente può essere calcolato dalla legge di Biot-Savart, ma
in pratica il calcolo è perlopiù molto difficile o impossibile. Una
strada alternativa è la legge di Ampere. Come abbiamo visto, B è
un campo solenoidale che circola intorno a un punto “sorgente", e
la sua circuitazione è attesa essere non nulla. Dalla nostra analisi di
Biot-Savart, ci aspettiamo che la sorgente sia legata a, o semplicemente
sia, la corrente. La legge di Ampere formalizza questa intuizione:
I
C
B · ds = µ0 I,
dove I è la corrente netta concatenata dalla linea C e l’integrale di
percorso (la circuitazione) del campo è fatta su C, che è detta linea
amperiana, per analogia con la superficie gaussiana della legge di
Gauss dell’elettrostatica. È una equazione analoga a quella della
circuitazione del campo elettrico (seconda equazione di Maxwell), ed
è una formulazione parziale della quarta equazione di Maxwell.
Per corrente netta si intende la somma delle correnti che entrano ed
escono dal circuito (Figura 3.25); correnti che entrano e poi ri-escono
da C danno contributo nullo. Poichè
I=
Z
S
j · dA,
ricordando il teorema di Stokes discusso a proposito di Eq.1.28, si
può formulare una versione differenziale. In sintesi, si ha la quarta
equazione di Maxwell,
rot B = µ0 j;
I
C
B · ds = µ0 I
Figura 3.25: Correnti concatenate per la
legge di Ampere.
(3.11)
Questa equazione, come la seconda (quella per la circuitazione del
campo elettrico), è incompleta, e non si applica, in particolare, se
si hanno campi elettrici variabili nel tempo, a causa di effetti di
induzione elettromagnetica che discuteremo.
3.9.1 Esempi: filo, filo spesso, solenoide, toroide
Usando la legge di Ampere in casi di simmetria sufficientemente
favorevole, è possibile ottenere il campo generato da correnti in modo
semplice. Per il filo rettilineo, scegliamo una linea amperiana circolare
C di raggio R il cui centro coincida con il filo; per simmetria, il campo
avrà lo stesso valore e la stessa orientazione in ogni punto della linea,
e quindi la stessa proiezione sul vettore spostamento lungo il cerchio;
inoltre da Biot-Savart ricordiamo che vettori spostamento, corrente e
campo sono mutuamente ortogonali. Quindi
I
C
B · ds = B
I
C
ds = 2πR B = µ0 I ⇒ B =
µ0 I
2πR
come visto in precedenza. È anche possibile ottenere (Figura 3.26) il
campo all’interno di un filo con una corrente omogenea (cioè con j
Figura 3.26: Campo magnetico dentro e
fuori da un filo di raggio R e con densità
di corrente costante.
76
uguale ovunque dentro il filo) scegliendo una linea amperiana interna
di raggio r, e valutando la corrente che effettivamente fluisce al suo
interno (la densità di corrente è fissa, e quindi se l’area cambia, cambia
pure la corrente). Ne risulta che
I
C
B · ds = 2πR B = µ0 IC = µ0 I
πr2
πR2
e quindi
µ0 I
r
2πR2
che è lineare in r, similmente al campo elettrico dentro una sfera
carica.
Altro caso facile è il solenoide (Figura 3.27), usando una linea amperiana quadrata di lato h. Il lato esterno non contribuisce dato che
(nel caso ideale) B=0 fuori dal solenoide; i lati perpendicolari all’asse
non contribuiscono, dato che B=0 nella porzione esterna e B⊥ds nella
porzione interna. Nel lato tutto interno al solenoide, il contributo alla
circuitazione è semplicemente Bh, e B è costante essendo il solenoide
indefinitamente lungo. La corrente netta concatenata con la linea è il
numero di spire concatenate moltiplicato la corrente I. Dunque
B=
Figura 3.27: Linea amperiana per il
calcolo del campo nel solenoide.
Bh = µ0 N I = µ0 nhI ⇒ B = µ0 nI
Un caso non ovvio per Biot-Savart che si risolve invece facilmente
con la legge di Ampere è quello del campo del toroide, il quale è
in sostanza un solenoide ripiegato a ciambella. Scegliamo una linea
amperiana circolare di raggio r all’interno del toro.
Di nuovo, per simmetria il campo sarà ortogonale al raggio locale e
uguale ovunque sulla linea. La circuitazione di B è 2πrB e la corrente
totale è N I, con N il numero (finito) di spire del toroide. Dunque
Figura 3.28: Linea amperiana e campo
in un toroide.
B=
µ0 I N
,
2πr
che non è costante all’interno del toroide ma diminuisce allontanandosi dal centro. All’esterno il campo è nullo dato che qualunque linea
amperiana comprende una corrente netta nulla. Infine, notiamo che
definendo una densità lineare n=N/2πr, si riottiene B = µ0 In, il che
conferma l’identificazione approssimata del toroide con un solenoide
acciambellato: approssimata perchè la densità, e quindi il campo,
sono costanti ad r fisso, ma cambiano con r.
3.9.2
Campo esterno al solenoide: componente trasversa
Altra cosa interessante facilmente ottenibile dalla legge di Ampere
è il confronto tra campo interno ed esterno al solenoide. Come si è
visto, il campo interno al solenoide è uniforme e parallelo all’asse.
All’esterno, il campo parallelo all’asse è nullo, ma esiste un campo
non nullo trasverso, cioè ortogonale all’asse. Che debba essere così
è ovvio se ci allontaniamo idealmente dal solenoide e osserviamo
che da grande distanza esso è indistinguibile da un filo percorso da
corrente (Figura 3.29).
Figura 3.29: Solenoide: campo esterno e
interno.
fisica 2
Per simmetria cilindrica, il campo trasverso è uguale ovunque su
una linea amperiana circolare di raggio r e ortogonale all’asse del
solenoide, ed è ad essa tangente. Per simmetria cilindrica e per la
legge di Ampere, dato che la linea contiene tutto il solenoide,
I
C
Bt · ds = 2πr Bt = µ0 I ⇒ Bt =
µ0 I
,
2πr
come atteso. Ora è possibile confrontare il campo esterno e quello interno. A parte l’avere direzioni ortogonali, il primo risulta tipicamente
molto più debole. Definiamo una lunghezza D tale da contenere una
singola spira del solenoide, cioè D=1/n. Allora
Bt
µ I 1
1
D
= 0
=
=
.
Bi
2πr µ0 In
2πrn
2πr
Se n=5000 m−1 (ossia 5 spire per millimetro) e quindi D=2×10−4 m,
e se ci poniamo in r=2 cm=0.02 m, si ha
Bt
D
=
= 1.6 × 10−3 .
Bi
2πr
3.10 Magnetismo nella materia e il campo H
Abbiamo analizzato alcuni meccanismi magnetici nel vuoto, ad esempio l’interazione tra correnti poste nel vuoto o di singoli momenti
magnetici o correnti con il campo magnetico. All’interno di mezzi
contenenti un grande numero di momenti magnetici, le cose possono cambiare significativamente. Abbiamo visto che un momento
magnetico in presenza di campo magnetico tende ad allinearsi con
la sua direzione. Il momento, abbiamo visto, è assimilabile a una
corrente circolante attorno a una certa area – ad esempio, la corrente
in una spira. Questo concetto continua largamente a valere in ambito
atomico, e quindi nei materiali; in molte specie atomiche (ma non
tutte) esiste l’equivalente di corrente circolante non nulla, e quindi un
momento magnetico. Abbiamo visto in precedenza che l’energia di
un dipolo in un campo magnetico è
U p = −m · B,
dunque i momenti (dove esistono) tendono ad allinearsi con un campo esterno (un sistema del genere si chiama paramagnete). In certi
casi posso interagire tra loro (producendo in sostanza un campo efficace) allineandosi tutti spontaneamente in una specifica direzione
(ferromagneti), o in maniera ordinata ma con direzioni alternate (antiferromagneti). Atomi privi di momento magnetico possono comunque
svilupparne uno in presenza di campo magnetico, e tale momento si
oppone al campo (diamagneti).
Per capire l’origine microscopica del magnetismo può essere utile
un esempio esplicito. Consideriamo un atomo di idrogeno, descritto
come un protone fermo nell’origine e un elettrone (carica −e, massa
me ) che gli orbita intorno a distanza r con una velocità tangenziale
77
78
v. La corrente circolante è la carica dell’elettrone diviso il periodo di
rotazione T=2πr/v
e
ev
I=− =−
.
T
2πr
Il momento, pari ad area per corrente, è
ev evr
=−
.
m = AI = πr2 −
2πr
2
La velocità si ottiene notando (vedi sotto per ulteriore discussione)
che il momento angolare è quantizzato:
L = me vr = h̄ ⇒ v =
h̄
.
me r
con h=6.63×10−34 J·s e h̄=h/2π la costante di Planck e la sua versione
ridotta. Dunque, sostituendo, si ha che
m=−
evr
er h̄
eh̄
=−
=−
≡ −µ B
2
2 me r
2me
che definisce il magnetone di Bohr µ B =9.274×10−24 Am2 , usato come
unità di momento magnetico nel contesto atomico, molecolare, e
dei materiali. Come si vede, data la carica negativa, il momento
magnetico è antiparallelo al momento angolare.
Vale la pena di precisare che la quantizzazione del momento angolare è, come si intuisce, un concetto di meccanica quantistica. Il
problema dell’elettrodinamica di particelle cariche orbitanti, ben noto
già nel XIX secolo, è che un oggetto orbitante è soggetto in ogni istante
all’accelerazione centripeta, e si può mostrare (lo faremo in forma
edulcorata nel seguito) che una carica accelerata emette radiazione
elettromagnetica, perdendo energia: l’elettrone in moto classico attorno al protone descrive una traiettoria a spirale e cade, in brevissimo
tempo, sul protone stesso. Gli atomi non possono dunque essere
stabili in meccanica classica. La prima (imperfetta, ma corretta nel
nostro caso) soluzione fu di Niels Bohr, che postulò delle orbite classiche sulle quali, però, il momento angolare sia quantizzato, cioè possa
avere solo valori interi in unità della costante di Planck (e quindi il
momento magnetico sia un numero intero di magnetoni). L’assunzione di Bohr deriva dall’idea di de Broglie che su scala microscopica
la particella sia in realtà un’onda la cui lunghezza d’onda è legata al
suo momento cinematico p=me v:
p=
h
.
λ
Perchè l’orbita possa ospitare esattamente un numero intero n (nel
nostro caso n=1) di lunghezze d’onda, deve valere
λ = 2πr ⇒ 2πrme v = h ⇒ me vr = h̄,
che è appunto la condizione di quantizzazione che abbiamo usato in
precedenza.
Oltre ad allinearsi, i momenti magnetici in campo magnetico sono
soggetti a precessione. Questo fenomeno è alla base, ad esempio, della
fisica 2
tomografia a risonanza magnetica. Il momento magnetico atomico è
legato al momento angolare netto totale degli elettroni dentro l’atomo
(che è in sostanza lo stesso di una corrente circolante):
m = γL,
con γ il rapporto giromagnetico. Abbiamo visto in precedenza che il
momento torcente sul momento è
M = m×B ≡
dL
,
dt
e quindi
dm
= γm × B.
dt
Questo dice che la variazione di m è ortogonale sia a m che a B e
quindi m non varia in modulo, ma ruota, cioè precede, intorno a
B, analogamente a una trottola o a un giroscopio posto in campo
gravitazionale.
Al di là della descrizione microscopica, il magnetismo "collettivo"
nella materia può essere descritto in termini di campi, in analogia
all’ultima parte della Sez.1.11.1 per il caso elettrico. La comparsa
(indotta dal campo o spontanea) di momenti magnetici può essere descritta tramite il campo di magnetizzazione, ciòe il momento
magnetico totale per unità di volume
M = Ω −1 ∑ m i ,
i
dove la somma corre su tutti i momenti. Per sistemi macroscopici e
ragionevolmente omogenei, questo campo vettoriale può considerato
continuo e analitico (quasi) ovunque come il campo elettrico o quello
magnetico B. In presenza di magnetizzazione, è necessario introdurre
un nuovo campo H, legato al campo B da
B = µ0 ( H + M ).
Confrontando con Sez.1.11.1, B è a rigore l’analogo di D. Nello spazio
vuoto, dove M=0, i due campi sono mutuamente proporzionali:
B = µ0 H,
come peraltro gli analoghi campi elettrici. Nella maggior parte dei
materiali (quelli cosidetti lineari), la magnetizzazione è lineare nel
campo:
M = χm H,
dove χm è la suscettività magnetica. A questa va sommata l’eventuale
magnetizzazione spontanea (ad esempio, in sistemi ordinati ferromagnetici), che però qui supponiamo essere nulla. La relazione B–H è
quindi pure lineare,
B = µ0 (1 + χm )H = µ0 µr H = µH
dove abbiamo introdotto la permeabilità magnetica relativa µr =(1+χm )
e quella assoluta µ. Nella gran parte dei casi che ci riguardano, e in
79
80
generale quando la suscettività è abbastanza piccola, è corretto (e più
comodo) usare B. Tuttavia questo non si applica se la magnetizzazione
o la suscettività sono grandi. Ci sono due punti importanti. Il primo
è che, come detto, i campi esterni (diciamo Ba e Ha ) sono uguali nel
vuoto, ma il campo risultante all’interno di un corpo magnetizzato
o magnetizzabile può essere molto diverso, e in particolare dipende
dalla forma dell’oggetto. Nel caso semplice di un corpo ellissoidale
posto in un campo Ha , risulta che il campo all’interno dell’oggetto è
Hi = H a − NM
e quindi
Bi = µ0 (Hi + M) = B a + µ0 (1 − N )M.
Per una sfera N=1/3. Come i campi magnetici, M è un campo
solenoidale (linee chiuse) e quindi influenza il campo sia all’interno
(come appena detto) che, significativamente, all’esterno dell’oggetto.
Il secondo punto interessante riguarda la misura della suscettività.
Vorremmo misurare la risposta della magnetizzazione all’interno del
materiale,
χm = M/Hi ,
ma in realtà misuriamo la risposta al campo applicato,
χmis = M/H a ,
con le adulterazioni conseguenti. Le due suscettività non sono infatti
uguali, ma sono legate da
χmis =
M
χm
M/Hi
=
=
.
Hi + NM
1 + NM/Hi
1 + Nχm
Se χm 1, le due sono pressochè uguali, ma altrimenti possono essere
molto diverse.
Vogliamo ora esaminare il comportamento della suscettività in
funzione della temperatura in materiali con diversi tipi di risposta o
ordine magnetico. Risulta che tale comportamento è una firma del
tipo di ordine e di risposta magnetica. Calcoliamo esplicitamente
quella di un semplice modello di paramagnete, cioè un sistema di momenti magnetici non interagenti, e mostriamo che il suo andamento è
inversamente proporzionale alla temperatura,
χ'
1
,
T
come risultato della competizione dell’accoppiamento dei momenti
con il campo magnetico con l’agitazione termica. Consideriamo un
gas di N atomi di idrogeno non interagenti (ragionevole per un gas
diluito). Il momento angolare di ogni atomo è allora il solo momento
angolare intrinseco elettronico, lo spin, che ha due valori s=±h̄/2. Il
momento magnetico per atomo ha perciò due possibili valori,
m± = ±γe µ B /2 = ±µ B
dove abbiamo considerato che il fattore giromagnetico γe è pari a 2
per effetti relativistici. (Il momento magnetico del protone è 650 volte
fisica 2
81
minore di quello elettronico, e lo trascuriamo.) In presenza di un
campo magnetico le due possibili energie di ognuno degli elettroni
sono
E± = ±µ B B.
Calcoliamo la magnetizzazione media per atomo come valore medio
del momento degli elettroni in contatto con un bagno termico di
temperatura T tramite la media termica, cioè come somma normalizzata dei momenti moltiplicati per il fattore statistico di Boltzmann
(esponenziale del rapporto energia/temperatura):
M=
∑i mi exp (−mi B/kT )
,
∑i exp (−mi B/kT )
dove la somma è su tutti gli stati permessi. Siccome i momenti
hanno solo due valori possibili mi =±µ B , l’espressione si semplifica
drasticamente:
−µ B B exp (µ B B/kT ) + µ B exp (−µ B B/kT )
µB B
.
M=
= µ B tanh
exp (µ B B/kT ) + exp (−µ B B/kT )
kT
Posto per comodità y=µ B B/kT e la magnetizzazione di saturazione
(quella massima) Ms =µ B , si ha
lim
y →0
M
M
= 0 e lim
= 1,
y → ∞ Ms
Ms
come mostrato in Figura 3.30.
Nel limite di piccolo campo (cioè y→0), possiamo approssimare il
campo H con il campo B, e usare lo sviluppo in serie delle tangente
iperbolica
tanh (y) ' y + o (y3 ),
Figura 3.30: Comportamento del momento magnetico in funzione del rapporto energia magnetica / energia
termica.
ottenendo l’approssimazione
M ' Ms y = Ms µ B B/kT.
Dalla definizione, la suscettività è
χ=
µ0 µ2B
M
µ M
' 0 '
.
H
B
kT
Questa è un caso particolare della legge fenomenologica di CurieWeiss
1
χ∝
T−θ
dove θ è una temperatura caratteristica del tipo di ordine. Come si è
appena visto, θ=0 per il paramagnete, e si può mostrare che θ >0 per
un ferromagnete e θ <0 per un antiferromagnete. La suscettività ha
perciò l’andamento mostrato in Figura 3.31. Per i due stati ordinati,
θ coincide per il ferromagnete con la (e per l’antiferromagnete con
l’opposto della) temperatura critica di transizione tra stato ordinato e
disordinato. Le temperature critiche si chiamano, rispettivamente, di
Curie e di Néel. Va ricordato che esiste un tipo di paramagnetismo,
detto di Pauli, proprio dei buoni metalli, la cui suscettività è positiva
Figura 3.31: Suscettività di paramagnete,
ferromagnete e antiferromagnete vs. T.
82
Figura 3.32: Suscettività di paramagnete,
ferromagnete e antiferromagnete vs. T.
e non dipende da T; questo è essenzialmente il caso di un gas quantistico di elettroni che obbediscono alla statistica di Fermi; i momenti
magnetici discussi in precedenza, che sono localizzati spazialmente,
sono descrivibili come il limite non degenere del gas di elettroni.
Il fatto che la suscettività sia maggiore di quella del vuoto è alla
base di diverse applicazioni, ad esempio a dispositivi elettromeccanici
e a trasformatori. In aggiunta ai paramagneti e ai ferro- e antiferromagneti, esistono molti materiali diamagnetici, la cui suscettività è
negativa, piccola, e indipendente dalla temperatura. In questi sistemi,
le specie atomiche non hanno momento magnetico, e quindi la risposta paramagnetica è nulla: il diamagnetismo, dovuto ad un effetto
quantistico che dipende quadraticamente dal campo magnetico, è
molto più debole.
La teoria delle transizioni di fase tra stati ordinati e disordinati
è piuttosto complessa e non la tratteremo. Ci basti ricordare che ci
sono essenzialmente due tipi generali di ordine, quello ferromagnetico e quello antiferromagnetico. Nel primo caso, i momenti sono
tutti allineati e la magnetizzazione è non nulla, mentre nel secondo i
momenti sono ordinati in sottogruppi di momenti opposti, e la magnetizzazione è nulla come risultato della somma di magnetizazioni
non nulle opposte. (Esistono anche cosidetti ferrimagneti, che sono
antiferromagneti dove le magnetizzazioni non sono perfettamente
compensate.) Le strutture magnetiche in queste fasi ordinate sono
in generale molto varie e complicate. A titolo di esempio, in Figura
3.32, vediamo la densità elettronica di maggioranza (spin positivo) e
minoranza (spin negativo) nel monossido di rame (CuO). Le nuvole
elettroniche coincidono in sostanza con gli atomi di Cu. La struttura
è un antiferromagnete di tipo A, cioè è formata da piani ferromagnetici, impilati a coppie con segno alternato, così da compensarsi
producendo una magnetizzazione complessivamente nulla.
3.11 Potenziali per il magnetismo ? Il potenziale vettore
Anche se la simmetria dell’elettromagnetismo rispetto ai campi elettrico e magnetico è solo parziale, è legittimo chiedersi se sia possibile,
e utile, definire un qualche tipo di potenziale da cui derivare il campo
magnetico. Questo potenziale deve, come prima cosa, garantire la
validità della terza equazione di Maxwell, ovvero la solenoidalità di
B. Ricordando la definizione degli operatori divergenza e rotore, è
facile dimostrare che, per qualunque vettore u,
div (rot u) = ∇ · (∇ × u) = 0
dato che, ad esempio, la componente x del rotore non dipende da x (o
anche che banalmente il prodotto vettoriale in parentesi è ortogonale
all’operatore vettoriale ∇ e quindi il suo prodotto scalare con ∇ è
nullo). Se quindi definiamo un potenziale vettore A tale che
B = rot A = ∇ × A,
fisica 2
si ha ∇ · B = 0 come richiesto. Dimensionalmente, [B]=[L− 1][A], ovvero le dimensioni di A sono Tesla·m, o Wb/m (il Wb, o Weber, è l’unità
di flusso magnetico). Inserendo la definizione appena formulata nella
legge di Ampere
rot B = µJ
si ottiene
∇ × (∇ × A) = rot rot A = µJ.
Usiamo ora, senza dimostrarla, l’identità vettoriale
rot rot A = grad div A − div grad A = grad div A − ∇2 A.
Abbiamo dunque
grad div A − ∇2 A = µ J.
Ora, risulta che esiste una certa libertà nella scelta di A: la cosidetta
liberta di gauge (o di scala). Specificamente, se aggiungiamo ad A una
funzione che abbia rotore nullo (un gradiente, ad esempio), il campo
B resterà invariato. La più semplice scelta della gauge è quella detta
di Coulomb,
div A = 0.
In questo caso, la legge di Ampere diventa infine
∇2 A = −µJ,
(3.12)
che notiamo essere strettamente analoga, per una sorgente data dalla
densità di corrente J, all’equazione di Poisson, Eq.1.24, per il potenziale elettrostatico con sorgente data dalla carica. Ogni componente
di A può essere ottenuta come il potenziale dall’equazione di Poisson
discussa in precedenza (Eq.1.26), e risulta ad esempio
A x (r) =
µ
4π
Z
Jx
dr0 .
|r − r0 |
A(r) =
µ
4π
Z
J
dr0 .
|r − r0 |
e quindi
Dato A, si ottiene facilmente B; questa strada è analoga a, ma spesso
molto più semplice della legge di Biot-Savart, che si può derivare
formalmente calcolando B=∇×A: usando la relazione
∇×
J(r0 )
J(r0 ) × (r − r0 )
=
,
|r − r0 |
| r − r 0 |3
otteniamo
B(r) =
µ0
4π
Z
J(r0 ) × (r − r0 ) 0
dr ,
| r − r 0 |3
o per un filo molto sottile
B(r) =
µ0 I
4π
Z
ˆ r0 ) × (r − r0 )
d`(
,
| r − r 0 |3
che sono (con notazione diversa) le Eq.3.6 e 3.3.
83
84
Questa non è l’unica applicazione del potenziale vettore. Oltre
a essere importante quando la finitezza della velocità di propagazione del segnale deve essere tenuta in conto, il potenziale vettore è
l’elemento essenziale di un fenomeno quantistico noto come effetto
Aharonov-Bohm, che suggerisce che in realtà le quantità fondamentali
dell’elettromagnetismo siano i potenziali e non i campi. Detto diversamente, la formulazione lagrangiana della meccanica, basata sulle
energie, è più fondamentale di quella newtoniana, basata sulle forze;
dalla meccanica lagrangiana deriva la formulazione path-integral di
Feynman, e tutte le teorie moderne della fisica microscopica a molti
corpi.
4. Induzione elettromagnetica
La domanda che viene da farsi osservando che le correnti generano
campo magnetico è se un campo possa generare correnti o, che è in
sostanza lo stesso, forze elettromotrici. L’esperimento con cui Faraday
cercò di rispondere è schematizzata in Figura 4.1: un circuito non
alimentato viene messo in un campo magnetico, e uno strumento
(che oggi chiameremmo un amperometro) misura l’eventuale corrente
generata. Questo campo può essere quello di una calamita o quello
generato da una corrente in un circuito adiacente in cui circola una
corrente stazionaria. Il risultato è negativo: un campo non genera nessuna corrente. Ma l’esperimento, in pratica, non può non richiedere
l’accensione e spegnimento di un circuito, o l’avvicinare la calamita
al circuito. È proprio in questi transienti che Faraday osserva un
segnale nell’amperometro: nasce una nuova era, quella dell’induzione
elettromagnetica.
4.1 Legge di Faraday-Lenz
Faraday osserva che la corrente transiente è maggiore se la calamita si
avvicina velocemente, e che se il circuito passivo ha più spire uguali, la
corrente è proporzionalmente maggiore. L’intuizione, corretta, è che
la forza elettromotrice che produce la corrente sia proporzionale alla
variazione temporale del campo magnetico e all’area (N spire hanno N
volte l’area di una spira), quindi alla variazione temporale del flusso.
La legge di Faraday-Lenz formalizza questa intuizione:
Eindotta =
I
C
E · ds = −
dΦ B
d
=−
dt
dt
I
S
B · dA,
(4.1)
dove S è una superficie appoggiata sulla linea C (la spira), e naturalmente Φ B è il flusso del campo magnetico. L’equazione qui sopra
implica che 1 Wb/s=1 V, il che è chiaramente vero se ricordiamo
che il Tesla è anche un V m2 s. Il nome di Lenz si riferisce al segno
negativo in Eq.4.1. Che questo sia il segno corretto è evidente da
Figura 4.1: Schema degli esperimenti di
Faraday.
86
considerazioni energetiche: con il segno positivo, si avrebbe un meccanismo di feedback positivo (B aumenta e induce una variazione di
forza elettromotrice che genera una variazione di corrente che genera
una ulteriore variazione di campo concorde con quella iniziale, e così
via) che porterebbe l’energia a diventare infinita, in contrasto con il
principio di conservazione dell’energia. In sostanza, quindi, il campo
magnetico indotto (dalla corrente prodotta dalla forza elettromotrice
indotta) è opposto alla variazione di campo che l’ha generato. Un
altro modo di esprimere la stessa cosa è dire che il momento magnetico indotto si oppone al momento magnetico inducente. (Si veda
Figura 4.2.) Mnemonicamente è conveniente usare la regola della
vite normale e poi invertire il segno. La comparsa di questo effetto
si ha se il campo varia nel tempo o il circuito si muove o si riorienta
all’interno di un campo magnetico, eccetuate le semplici traslazioni
di spire in campo uniforme che naturalmente non variano il flusso.
Chiaramente la circuitazione del campo elettrico ora non è più nulla
come nell’elettrostatica (Eq.1.28) e non sono presenti generatori di
tensione, quindi il campo elettrico non è conservativo. La seconda
equazione di Maxwell assume così la sua forma finale
rot E = −
Figura 4.2: Casi vari della legge di Lenz
(occhio ai segni e alle orientazioni).
∂B
;
∂t
I
L
E · ds = −
dΦ B
,
dt
(4.2)
dove abbiamo usato la derivata parziale perchè B può dipendere da
altre variabili.
4.2 Applicazioni
4.2.1
Generatore azionato da lavoro meccanico
Consideriamo un sistema in campo magnetico uniforme B=B ẑ (l’asse
z esce dalla pagina) come in Figura 4.3, in cui la sbarretta mobile, la
cui posizione è x, si muove con velocità v=v x̂. Il moto della sbarretta
aumenta l’area attraverso cui fluisce B, e quindi il flusso; la forza
elettromotrice risultante è
E =−
dΦ B
dx
= − Bb
= − Bbv,
dt
dt
e produce una corrente
Figura 4.3: Generatore azionato da moto
lineare.
E
|vBb|
=
r+R
r+R
che, per la regola della vite inversa, fluisce in senso orario guardando
nella direzione –z (dall’esterno del foglio). Il campo magnetico esercita
una forza su questa corrente, data dalla solita formula
I=
B2 b2
F = I ~` × B = −
v,
r+R
dove ~` è la lunghezza del tratto mobile orientata nel verso della corrente. La forza quindi si oppone al moto della sbarretta, analogamente
a una forza di tipo viscoso newtoniano (lineare in v) che ostacola il
fisica 2
87
moto di un oggetto in un fluido. La potenza che la forza esterna che
muove la barretta deve fornire è
P = Fext · v =
B2 b2 2
v = (r + R) I 2 = E · I,
r+R
con le ultime due uguaglianze che ci rassicurano sulla consistenza del
nostro argomento con i risultati noti per i circuiti. In sostanza, questo è
il principio di un generatore di tensione a induzione elettromagnetica,
azionato da lavoro meccanico. Ne esiste uno molto più furbo, che
discuteremo tra poco.
4.2.2 Motore a induzione (o "cannone magnetico")
Consideriamo ora lo stesso schema di circuito della Sezione precedente, ma con una corrente circolante in senso antiorario (Figura 4.4), e
in aggiunta una forza esterna F0 =–F0 x̂. In sintesi, la forza magnetica
contrasta quella esterna e il sistema arriva a un equilibrio dinamico a
velocità costante. La forza magnetica è
F1 = IBbx̂.
La corrente, e quindi la forza magnetica, include il termine indotto da
Faraday-Lenz. La f.e.m. totale è E = E0 + Eind = RI, con E0 la f.e.m.
a sbarretta ferma, e quindi, ricordando la f.e.m. indotta che abbiamo
ottenuto nell’esempio precedente, la corrente è
I=
E0 − bBv
.
R
La corrente è soggetta a una forza totale in direzione x
F = F1 − F0 = IbB − F0 ≡ ma = m
dv
dt
dove abbiamo usato l’equazione di Newton. Quindi
dv
E0 − vBb Bb F0
=
−
dt
R
m
m
2
2
E0 Bb F0
B b
=
v+
−
Rm
mR
m
Questa equazione differenziale del primo ordine lineare ha soluzione
E0
RF0
v=
− 2 2 (1 − exp − B2 b2 t/mR),
Bb
B b
che è un esponenziale a saturazione con costante di tempo
τ=
mR
,
B2 b2
ovvero la velocità satura a un valore finale tanto più velocemente
quanto più grande è il campo e piccola la massa. La velocità di
saturazione è
E0
RF
v∞ =
− 2 02
Bb
B b
Figura 4.4:
magnetico".
Schema del "cannone
88
e in corrispondenza a questa la corrente è
I∞ =
F0
,
Bb
e la potenza coinvolta è
2
P∞ = E0 I∞ = RI∞
+ F0 · v∞ .
Chiaramente questo sistema è una specie di motore azionato dalla
corrente tramite accoppiamento con il campo. Va notato che per avere
una velocità positiva (cioè la forza generata dal circuito ecceda la
forza esterna) la forza elettromotrice deve soddisfare
E>
F0 R
.
bB
Se la forza esterna fosse dovuta a, o includesse, l’attrito radente, ad
esempio quello lineare in v, l’equazione si complicherebbe, ma la
saturazione non cambierebbe qualitativamente.
4.2.3
Pick-up
Discussione dei pick-up a induzione, piezo, accelerometrici.
4.2.4
Generatore a spira rotante
Questo è in assoluto l’esempio più importante. Una spira non soggetta
a potenziale o corrente è tenuta meccanicamente in rotazione entro
un campo magnetico uniforme. Poichè il flusso di campo magnetico
concatenato dalla spira oscilla (come vedremo) nel tempo, ne risulta
per la legge di Faraday-Lenz una forza elettromotrice alternata.
Consideriamo (Figura 4.5) una spira che ruota con velocità angolare ω intorno ad un asse verticale. L’angolo di rotazione è perciò θ=ωt.
Il flusso del campo attraverso la spira è
Figura 4.5: Schema di generatore di
tensione alternata a spira rotante.
Φ=
Z
B · dA = BA cos θ = BA cos ωt.
La forza elettromotrice indotta è perciò
Eind = −
dΦ
= ωBA sin ωt = Em sin ωt
dt
e ha quindi massimo valore proporzionale alla frequenza di rotazione,
oltre che a campo e area. La corrente che circola su un eventuale
carico R è
ωBA
I=
sin ωt,
R
da cui la potenza istantanea
P = EI =
(ωBA)2
E2
sin2 ωt = m sin2 ωt.
R
R
La potenza media su un periodo di rotazione è
2 1 Z T
Em
E2
E2
2
Prms =
sin ωt = m = rms ,
R T 0
2R
R
fisica 2
dove abbiamo definito la f.e.m. “root mean square"
Em
Erms = √ .
2
Ad esempio, la tensione alternata nelle nostre prese si ottiene con
un avvolgimento di N=20 spire di raggio r=20 cm=0.2 m tenuto in
rotazione a f =50 Hz=50 s−1 in un campo uniforme B=0.39 T, tutti
numeri plausibili. Infatti
Em = ωBA = 2π f BNπr2 ' 311 V ⇒ Erms = 220 V.
Notiamo in chiusura che lo stesso risultato si può ottenere considerando il moto, entro il campo magnetico, delle cariche negative che
sono libere di muoversi entro la spira conduttrice (contrariamente a
quelle positive degli ioni, che possono essere assunte fisse). Questo si
vede facilmente per una spira quadrata di lato a (riferendosi ancora a
Figura 4.5). Sul lato parallelo all’asse di rotazione, la velocità dovuta
alla rotazione è ortogonale al piano della spira, e ha modulo v=ωa/2.
~ ×~a/2, dove a è orientato dal centro al lato. La
Vettorialmente, v=ω
forza di Lorentz sui portatori di carica punta perciò lungo la spira, e
così fa il campo elettrico:
Ei =
F
= v×B
−e
da cui
Eind =
I
Ei · ds =
I
(v × B) · ds = 2avB sin θ
= 2aB
ωa
sin θ = ABω sin ωt.
2
come trovato in precedenza.
4.2.5 Campo variabile
Banalmente, se la spira è ferma, ma il campo, e quindi il suo flusso,
varia nel tempo, la corrente nella spira sarà
I=
E − Eind
E − dΦ/dt
1
dB
=
= (E − A
)
R
R
R
dt
dove l’ultima uguaglianza vale per campo uniforme.
4.2.6 Freni elettromagnetici: il disco di Rowland
Abbiamo studiato schematicamente un generatore azionato da lavoro
meccanico e un motore a induzione. Ora consideriamo il sistema
complementare: il freno elettromagnetico. Il disco di Rowland ne
dimostra il principio, ancorchè in modo operativamente poco pratico.
Inoltre, esso esemplifica empiricamente la legge di Biot-Savart in un
contesto diverso dai fili percorsi da correnti.
Come schematizzato in Figura 4.6 il disco, conduttore e di raggio a,
~ ed ha due contatti, al
è mantenuto in rotazione con velocità angolare ω
centro e su un bordo, con un circuito con carico. Il campo magnetico
Figura 4.6: Disco di Rowland
89
90
~ . Il campo elettrico indotto,
esce dalla Figura, cioè è concorde con ω
come menzionato sopra, è in questo caso
~ × r × B = ω rB r̂,
Eind = v × B = ω
come dallo schema in Figura. La f.e.m. è
Eind =
I
Eind · ds = ωB
Z a
0
r r̂ · dr =
Z a
0
r dr =
ωa2 B
.
2
La corrente essendo I=E /R, la forza elementare sul tratto dr del disco
(sempre orientato dal centro verso l’esterno), e il suo momento, sono
dF = I dr × B;
dM = r × dF.
Quindi la forza è tangenziale al disco e si oppone alla rotazione. Il
momento
a2 B2 r
dM = −~
ω
dr
2R
è quindi antiparallelo alla velocità angolare. Integrando, il momento
totale è
Z
a2 B2 a
a4 B2
M = −~
ω
,
r dr = −~
ω
2R 0
4R
che si oppone quindi alla rotazione. Va quindi applicato un momento
torcente M0 =–M per mantenere il disco in rotazione. La potenza
necessaria per far ciò è
~ = −(−
P = M0 · ω
a4 B2
a4 B2 ω 2
E2
~)·ω
~ =
ω
=
.
4R
4R
R
Questo disco percorso da corrente in campo magnetico è un prototipo
di freno elettromagnetico, ma non molto pratico, ad esempio perchè al
centro e al bordo del disco servirebbero, rispettivamente, un contatto
rotante e uno a strisciamento. Nella prossima Sezione, discuteremo il
fenomeno delle correnti parassite, che sostanzialmente fanno le veci
della corrente indotta dal campo senza bisogno di contatti, e sulle
quali si basano i freni elettromagnetici pratici (per esempio quelli
ferroviari).
4.2.7
Figura 4.7: Principio del freno elettromagnetico.
Freni elettromagnetici: eddy currents
Ora consideriamo una versione ‘naturale’ di freno elettromagnetico,
in due versioni (dimostrativa e semi-realistica). Consideriamo (Figura
4.7) una spira rettangolare, senza nessuna alimentazione esterna, che
si muove dall’interno all’esterno di una regione dove è presente un
campo magnetico. Detto D il lato della spira ed x la porzione del lato
ancora presente entro la regione del campo, l’area della spira è A=Dx,
il flusso è Φ=BDx e quindi, poichè x varia nel tempo il modulo della
f.e.m. è
dΦ
dx
= BD
= |vBD |
|E | =
dt
dt
e la corrente è
I=
BDv
.
R
fisica 2
91
Nel disegno, stiamo guardando la terna cartesiana dalle z negative
verso l’alto. La spira viene tirata verso l’esterno della regione del
campo (lungo x̂) e il campo è entrante, B=Bẑ. La diminuzione di
flusso dovuta alla uscita della spira dal campo causa una f.e.m. che
vuole aumentare il campo, e quindi la corrente circola in senso orario.
Il tratto di spira verticale nel disegno è soggetto ad una forza netta
perchè il suo opposto è fuori dalla regione di campo; gli altri due lati
sono soggetti a forze che si compensano. Attribuiamo, al solito, al
lato della spira il carattere vettoriale proprio della corrente: D=Dŷ.
La forza è
Fm = ID × B = IDB (ŷ × ẑ) = − IDBx̂ = − Fext
dove l’ultima è la forza esterna che tira la spira. La potenza è
P = Fext · v = −Fm · v = IDBv · x̂ = IDBv =
( BDv)2
E2
=
= RI 2 .
R
R
In ambedue i casi la forza magnetica è azionata dal moto della spira
e si oppone al moto stesso.
Una corrente simile a quella generata dal campo nella spira in moto si realizza a livello microscopico nei metalli non magnetici in moto
in campo magnetico. Come discusso in precedenza, la carica elettronica nei metalli è altamente mobile nei metalli, e risponde in modo
(per i nostri scopi) istantaneo alle forze prodotte dai campi elettromagnetici. Dove il metallo esce dal campo magnetico, la diminuzione di
flusso induce una certa corrente circolante nel piano; dove il metallo
sta entrando nel campo, l’aumento di flusso induce una corrente di
circolazione opposta. In base allo stesso ragionamento appena fatto,
queste correnti sono soggette a forze dello stesso segno, ambedue
opposte al moto. Sono dette eddy currents, cioè correnti a vortice (o
parassite), e interagiscono con il campo magnetico esattamente come
la corrente nel loop appena discusso (Figura 4.8).
Possiamo adattare l’espressione per la forza sulla spira al caso di
una geometria a disco (Figura 4.9). Supponiamo di avere n magneti
a sezione quadrata di lato D posti a distanza r dal centro di un
disco metallico di spessore d mantenuto in rotazione. (Notiamo che
concettualmente non è cambiato nulla: D era prima la dimensione
della spira, e ora è la dimensione lineare della regione di campo dove
c’è una circolazione di corrente.) La resistenza è R=ρD/dD=1/(σd),
con σ la conduttività: infatti D è la lunghezza della regione su cui
fluisce la corrente, e l’area sezionale della stessa regione è lo spessore
per la lunghezza nel piano. La velocità tangenziale in corrispondenza
al raggio r dove sono posizionati i magneti è v=ωr, con ω la velocità
angolare. Dunque
F=
vB2 D2
= ωrσdB2 D2 ,
R
Figura 4.8:
Eddy currents come
principio del freno elettromagnetico
P = ω 2 r2 σdB2 D2 .
Per n magneti posti alla stessa distanza r dal centro, il momento
torcente che si oppone alla rotazione del disco è
M = nFr = nωr2 σdB2 D2 .
Figura 4.9: Freno a geometria a disco,
e freno elettromagnetico di un treno
92
(È interessante la discussione e costruzione di un freno fatta da laureandi americani: http://bit.ly/2goZ46d). Il freno elettromagnetico basato sulle correnti a vortice non richiede contatti elettrici
o flussi espliciti di corrente ed è di relativamente semplice costruzione e progetto; per il no-free-lunch theorem, ha un solo problema
significativo, il riscaldamento Joule causato dalle correnti, che è il
processo che dissipa l’energia sottratta alla rotazione. È chiaramente una benedizione dal lato tecnologico, ed è ampiamente usato in
campi molto diversi, dai freni ferroviari ai discensori per alpinismo o
parchi-avventura etc. (http://bit.ly/2furf4W).
4.3 Induttanza e autoinduttanza
Si è detto che un campo magnetico variabile prodotto da un certo
circuito può generare una f.e.m. in un altro circuito tramite il suo
flusso variabile. Il flusso nel circuito 2 del campo B1 generato dal
circuito 1 dipende in modo complicato dalla corrente in 1, poichè
usando il campo dalla legge Biot-Savart, si ha
Z
Z I
µ0 I1
Φ12 =
B1 · dA =
ds × r · dA
4πr2
S2
S2
Z I
µ0
= I1
ds
×
r
·
dA
≡ M12 I1 ,
(4.3)
4πr2
S2
dove abbiamo spazzato tutte le complicazioni sotto il tappeto di un
nuovo coefficiente M12 . Lo stesso ragionamento fatto per l’azione
della corrente 1 su 2 vale anche per la corrente 2 che agisce su 1, e in
quel caso possiamo scrivere
Φ21 ≡ M21 I2 .
Ora risulta che
M12 = M21 ≡ M,
Figura 4.10:
solenoidi.
Mutua induttanza tra
cosa del tutto non banale da mostrare in generale (ma che mostreremo
per un caso particolare tra poco). Il coefficiente M è detto coefficiente
di mutua induzione o anche induttanza mutua, dato che i due circuiti causano mutuamente flusso magnetico l’uno nell’altro in modo
simmetrico. Mostriamo (Figura 4.10) che il coefficiente M è lo stesso
per un caso semplice, un solenoide di area A1 e con densità di spire
n1 contenuto in un altro solenoide di area A2 e densità n2 . I due
solenoidi si sovrappongono per una lunghezza `. Il flusso indotto
dentro 2 da 1 è
Φ12 = n2 A1 B1 ` = n2 A1 (µ0 n1 I1 )` = M12 I1 ⇒ M12 = µ0 n1 n2 A1 `.
Il flusso indotto in 1 da 2 dà invece
Φ21 = n1 A1 B2 ` = n1 A1 (µ0 n2 I2 )` = M21 I2 ⇒ M21 = µ0 n1 n2 A1 `
e quindi M12 =M21 . I coefficienti M hanno dimensione di induttanza,
la cui unità si chiama Henry: 1 H=1 T m2 /A, o anche µ0 ×lunghezza.
fisica 2
4.3.1 Autoinduttanza
Una spira percorsa da una corrente I genera un campo, e quindi
flusso, anche dentro sè stessa: è quel che si dice un autoflusso. Si
definisce induttanza di un avvolgimento di N spire la quantità
L=N
Φ
.
I
Le unità di L sono T m2 /A che come anticipato prendono il nome di
Henry. Per un tratto di solenoide lungo `, ad esempio,
NΦ = (n`)( BA) = n`(nµ0 I ) A = n2 `µ0 I A = LI
e quindi l’induttanza è
L = n2 `µ0 A,
e per unità di lunghezza
L
= µ0 n2 A.
`
(4.4)
Si vede perciò che l’induttanza dipende dalla geometria, ma è sempre
della forma µ0 × lunghezza, analogamente alla capacità, che è sempre
ε 0 × lunghezza.
Infine, veniamo al punto importante. La variazione dell’autoflusso
nel tempo induce una f.e.m nella spira stessa. Data la relazione tra
autoflusso e corrente nella spira
NΦ = LI,
la f.e.m. indotta, che è la derivata temporale del flusso è
EL = −L
dI
.
dt
Notiamo, che come prevedibile essendo basata sulla legge di FaradayLenz, la f.e.m. si oppone alla variazione di corrente che la genera.
Come il condensatore o capacitore è caratterizzato dalla sua sola
capacità, e il resistore dalla sua resistenza, la induttanza definisce
un ulteriore elemento ideale, l’induttore. In un certo senso, come
vedremo, la capacità e l’induttanza sono il reciproco l’una dell’altra.
4.3.2 Induttori in serie e in parallelo
Le induttanze di N induttori in serie si sommano:
Lserie = L1 + L2 + . . . + L N .
Il motivo è che la corrente è la stessa in tutta la serie, e la tensione
totale è la somme di termini del tipo Li R dI/dt,
V = Lserie =
dI
dI
dI
dI
= LN + LN + . . . + LN .
dt
dt
dt
dt
Per il parallelo le induttanze si sommano inversamente come le
resistenze:
1
1
1
1
=
+
+...+
.
Lpar
L1
L2
LN
93
94
Infatti, essendo il potenziale lo stesso ai capi di tutti gli induttori, la
corrente totale in entrata o uscita dal parallelo è per definizione,
1
1
1
1
1
1
1
Ipar =
X+
X=
+
X=
X+...
+...+
X,
L1
L2
LN
L1
L2
LN
Lpar
(a parte i valori delle correnti al tempo zero che sono costanti), dove
abbiamo definito
Z
X=
t1
t0
Vdt.
4.4 Circuito RL
Figura 4.11: Circuito RL.
Come prima applicazione del principio di induzione, studiamo un
preliminare ai circuiti a corrente alternata, ovvero il comportamento
temporale del circuito RL, con sola resistenza e induttanza, evidenziando alcune analogie –e molte differenze– con il circuito RC. Il
transiente di corrente (ad esempio, l’aumento alla chiusura del circuito) nell’induttore produce una f.e.m. che si oppone al transiente
stesso, e la corrente ne risulta ridotta. Quando la corrente raggiunge
lo stato stazionario la f.e.m. indotta va a zero e l’induttore diventa
inattivo.
Come la quantità guida nell’RC era la carica, qui è invece la
corrente. Dato il circuito in Figura 4.11, la caduta di potenziale sul
capacitore è IR, e quella sull’induttore è L İ; la loro somma è pari alla
f.e.m. alimentante, cui ambedue si oppongono, cioè
E = IR + L
dI
.
dt
Dunque l’equazione di evoluzione è
dI
R
E
=− I+ ,
dt
L
L
(4.5)
analoga a quella del circuito RC. La soluzione infatti è
I=
E
E
[1 − exp (−tR/L)] = [1 − exp (−t/τLR )].
R
R
A t=0 la corrente è nulla, cioè l’induttore si comporta come un tratto
di circuito aperto; a t→∞ la corrente tende al valore massimo puramente resistivo E /R, cioè l’induttore si comporta come un tratto di
conduttore perfetto. Questo in realtà avviene già su tempi dell’ordine
di τLR =L/R, un tempo caratteristico analogo a quello del circuito RC.
(Ricordiamo che 1 H/1 Ω=1 V s/A · 1 A/V= 1 s.)
Il comportamento in spegnimento, cioè quando viene rimossa la
f.e.m., è dato dall’Eq.4.5 senza il secondo termine al secondo membro,
dI
R
= − I,
dt
L
cosicchè la corrente decade esponenzialmente con tempo di caduta
τLR :
E
I = exp (−t/τLR ).
R
fisica 2
Anche qui il transiente è dovuto al fatto che la corrente diminuisce
non avendo più f.e.m. esterna, e questa diminuzione genera una f.e.m.
indotta nell’induttore, che sostiene la corrente per un certo tempo
caratteristico. Se si trattasse di una pura resistenza (che è ovviamente
una idealizzazione), la corrente andrebbe a zero istantaneamente.
4.4.1 Energia nel circuito RL
Riprendiamo l’espressione del bilancio delle f.e.m.,
E = IR + L
dI
;
dt
moltiplicando per la corrente otteniamo una equazione per la potenza:
E I = I 2 R + LI
dI
.
dt
Il primo membro è il lavoro E dq fatto da E sulla carica dq nel tempo
dt; il primo termine al secondo membro è la potenza dissipata per
effetto Joule sul resistore; il secondo termine al secondo membro, per
la conservazione dell’energia dev’essere il tasso dUB /dt a cui viene
immagazzinata nell’induttore, e specificamente nel campo magnetico
che la f.e.m. indotta genera dentro l’induttore per autoinduzione.
Quindi
dI
dUB
= LI
dt
dt
⇒ dUB = LI dI ⇒
Z UB
0
dUB0 =
Z I
0
LI 0 dI 0
si ottiene che l’energia immagazzinata nell’induttore è
UB =
LI 2
.
2
(4.6)
Confrontandola con quella immagazzinata nel capacitore, ad esempio
nella forma UC =q2 /(2C), si intravede una analogia tra I e q, e tra L e
1/C, che approfondiremo tra poco.
4.4.2 Energy density
La densità di energia è meritevole di uno sguardo perchè risulta
essere equivalente a quella del capacitore. In un solenoide di area A
e lunghezza `
uB =
UB
LI 2
µ n2 AI 2
µ
=
= 0
= 0 n2 I 2
V
2A`
2A
2
dove abbiamo usato la densità di induttanza Eq.4.4. Dato che il campo
del solenoide è B=µ0 nI, abbiamo infine
uB =
B2
,
2µ0
(4.7)
analoga alla densità di energia del condensatore
uE =
e0 E 2
,
2
(4.8)
95
96
Sia Eq.4.7 che Eq.4.8 sono valide in qualunque geometria. Nei casi in
cui u E =u B , si ha che
B2
e E2
= 0
2µ0
2
⇒ B 2 = e0 µ 0 E 2 ≡
E2
,
c2
dove c risulta essere la velocità della luce. Casi importanti in cui
questo avviene sono, come vedremo tra poco, il circuito oscillante LC
(dove l’uguaglianza è sempre vera in media, oltre che istantaneamente
due volte per ciclo) e le onde elettromagnetiche (dove è sempre vera).
4.4.3
Applicazione: serratura elettromagnetica
Un elettromagnete è una sorgente di campo magnetico che attrae a, o
allontana da sè un materiale magnetico, il quale assorbe (o espelle)
flusso di campo magnetico più di quanto farebbe lo stesso volume
di vuoto. Consideriamo un cilindro di ferro (dunque, un materiale
ferromagnetico, che può avere permittività µr ∼1000) di area A che
venga inserito in un solenoide della stessa area interna, con densità di
spire n, e percorso da una corrente I. L’unica coordinata necessaria, x,
è definita in Figura 4.12. Supponiamo di essere in condizioni lineari,
ovvero che valga la relazione
B = µ0 µr H.
Per valutare correttamente la forza sul cilindro, consideriamo il caso
analogo del sollevamento di un corpo massivo da altezza zero a
altezza h>0 contro la forza gravitazionale: gli forniamo una certa
energia potenziale applicando una forza, uguale e opposta a quella
che agirà sul corpo portato in h se verrà lasciato cadere. La forza Fe
che applichiamo per immagazzinare energia potenziale è quindi
Fe = − F = +
<
Figura 4.12: Semplice elettromagnete.
∂U
.
∂x
Nel nostro caso, il lavoro viene svolto dal generatore, che fornisce la
corrente costante nel solenoide e immagazzina con ciò energia nel
sistema, e così applica una forza al cilindro magnetico. L’analogo
dell’energia potenziale gravitazionale è l’energia magnetica immagazzinata nell’induttore, e dovuta all’interazione corrente-induttanza,
cioè
LI 2
UM =
,
2
e la forza sul cilindro (assunto che il suo asse coincida con quello del
solenoide e con l’asse x) è, come discusso, il gradiente dell’energia
potenziale con il segno positivo,
Fe = Fe,x x̂ = +
∂U M
x̂,
∂x
Il solenoide e il cilindro magnetico sono due induttori in serie, di
induttanza totale L = Ls + Lc . Se il cilindro è inserito nel solenoide, e
quindi sovrapposto alla corrente, per un tratto di lunghezza x, la sua
induttanza è
Lc = µ0 µr n2 Ax
fisica 2
mentre quella del solenoide è relativa alla porzione non occupata dal
cilindro, cioè
Ls = µ0 n2 A(` − x ).
Dunque,
UM =
µ0 n2 A 2
I [` + (µr − 1) x ),
2
e dunque la forza
Fx =
∂U M
µ n2 A 2
= 0
I ( µr − 1)
∂x
2
attrae il cilindro dentro il solenoide se µr >1, e lo respinge verso
l’esterno se µr <1. Il primo caso è quello del cilindro ferromagnetico
(che ’mangia’ le linee di campo), il secondo quello diamagnetico (che
espelle le linee di campo).
97
5. Oscillazioni e circuiti in corrente alternata
Abbiamo studiato circuiti RC e RL in corrente continua, circuiti che
hanno delle dinamiche simili di carica e scarica (accumulo e svuotamento di carica), o avvio e spegnimento della corrente. Le altre
tre combinazioni che ora studieremo sono il circuito LC, che risulta
essere un oscillatore, il circuito RLC che è un oscillatore smorzato, e il
circuito RLC con una f.e.m E alternata che è un oscillatore smorzato
e forzato.
5.1 Circuito LC: oscillazioni
Il circuito LC consiste di un condensatore di capacità C e un induttore di induttanza L. In ogni istante l’energia totale è la somma
delle energie immagazzinate, rispettivamente, nel condensatore e
nell’induttore:
Utot = UE + UB , UE =
q2
LI 2
, UL =
.
2C
2
Non essendoci resistenze, non c’è dissipazione e l’energia totale si
conserva. Come schematizzato nelle Figura 5.1, il circuito che parte con il condensatore carico (ad esempio) oscilla tra stati di carica
del condensatore con polarità opposta, passando per lo stato scarico.
All’inizio (pannello 1) il condensatore è carico con data polarità e l’energia è tutta elettrica. Durante la scarica del condensatore (pannello
2), la corrente aumenta nell’induttore, generando campo magnetico
per induzione; corrispondentemente l’energia si converte da elettrica
(nel condensatore) a magnetica (nell’induttore). Quando la corrente
raggiunge il massimo, il campo nell’induttore è massimo e l’energia è
tutta magnetica (pannello 3). Successivamente la corrente comincia a
calare, il campo magnetico nell’induttore quindi cala, e nel contempo
il condensatore si ricarica (pannello 4); l’energia si converte, inversamente a prima, da magnetica ad elettrica. Alla fine la situazione
(pannello 5) ridiventa identica energeticamente al pannello 1, con il
Figura 5.1: Oscillazioni nel circuito LC.
100
condensatore carico e l’energia tutta elettrica; a differenza del pannello 1, però, nel 5 il condensatore è carico con polarità opposta. Da qui
parte un nuovo ciclo (pannelli 6, 7, e 8), in cui la corrente fluisce al
contrario. Il comportamento energetico è comunque lo stesso.
C’è una ovvia analogia tra questo trasferimento interno di energia
e quello analogo nell’oscillatore meccanico tra energia potenziale e
cinetica. Istituiamo perciò, in Tabella 5.1, una analogia tra oscillatore
meccanico e circuito LC. Le seconde tre colonne sono quantità derivate
che realizzano quel che suggerivamo poco fa. Vediamo esplicitamente
la fisica dell’oscillatore armonico e, poi, del circuito LC. L’energia
totale
mv2
kx2
U=
+
2
2
è conservata (non varia nel tempo) e quindi si ottiene
dv
dx
d2 x
dU
= mv + kx
= mv 2 + vkx = 0 ⇒
dt
dt
dt
dt
Oscillatore
LC
x
q
v =dx/dt
I=dq/dt
1
C
k
m
q
ω= mk
Epot = kx2
Ecin = mv2
2
2
L
q
ω=
l’equazione dell’oscillatore armonico. La (una, almeno) soluzione è
r
x = x0 cos (ωt + φ), ω =
1
LC
q2
Epot = 2C
Ecin = LI2
2
d2 x
k
+ x=0
m
dt2
k
m
Per il circuito LC possiamo facilmente replicare questa discussione;
l’energia
LI 2
q2
U = U B + UE =
+
2
2C
è anche qui conservata. Dunque
Tabella 5.1: Relazione tra le quantità
coinvolte nell’oscillatore meccanico e nel
circuito LC.
dI
q dq
d2 q
dU
Iq
= LI +
= mI 2 +
=0 ⇒
dt
dt
C dt
C
dt
d2 q
1
q=0
+
LC
dt2
che è di nuovo l’equazione di un oscillatore armonico. La soluzione è
r
q(t) = Q cos (ω LC t + φ), ω LC =
1
LC
e quindi la corrente è
dq
= −ω LC Q sin (ω LC t + φ) = − I0 sin (ω LC t + φ) ⇐ I0 = ω LC Q.
dt
La fase φ è in relazione con la condizione iniziale in cui è preparato il
circuito. Fase nulla corrisponde a condensatore carico; infatti se φ=0,
a t=0 il coseno è pari a 1, e
q(0) = Q, I (0) = 0.
Sostituendo la soluzione per q nell’equazione differenziale si verifica
che la frequenza deve avere il valore indicato sopra, che è la frequenza
propria di oscillazione del circuito LC,
1
ω LC = √ .
LC
(5.1)
fisica 2
Ovviamente il periodo di oscillazione è
T=
√
2π
= 2π LC.
ω LC
L’energia totale è conservata, ma le due componenti oscillano, proprio
come nell’oscillatore meccanico. La parte elettrica e quella magnetica
dell’energia oscillano entrambe con la stessa frequenza, e sono esattamente in controfase, dato che una è legata alla carica e l’altra alla
corrente. La componente elettrica è
UE =
q2
Q2
=
cos2 (ωt + φ)
2C
2C
e quella magnetica
UB =
LI 2
Lω 2 Q2
Q2
=
sin2 (ωt + φ) =
sin2 (ωt + φ),
2
2
2C
dove abbiamo sostituito ω da Eq.5.1. Come si vede, le due componenti
hanno lo stesso valore massimo Q2 /2C. Essendo in controfase, una
componente è nulla quando l’altra è massima. L’energia totale è
U = U B + UE =
LI 2
Q2
Q2
[sin2 (ωt + φ) + cos2 (ωt + φ)] =
= 0,
2C
2C
2
cioè il valore massimo di ognuna delle due componenti. Chiaramente,
è la stessa energia che si trasferisce avanti e indietro tra condensatore
e induttore. Infine, dato che il valore medio delle parti oscillanti è lo
stesso,
Z
Z
1 T
1 T
1
2
sin ωt =
cos2 ωt = ,
T 0
T 0
2
i valori medi delle due componenti sono uguali:
hU B i = hUE i ;
Questo risultato, ben noto per l’oscillatore armonico, è un caso particolare del teorema del viriale, che asserisce che per una energia
potenziale del tipo
Epot ( x ) ∼ x n
e una energia cinetica quadratica vale
2h Ecin i = nh Epot i.
dove n è appunto 2 nel caso dei nostri oscillatori, e le componenti
potenziale e cinetica dell’oscillatore si identificano nel circuito LC
con l’energia elettrica e magnetica, rispettivamente. Questo implica
anche che, come anticipato, la relazione tra B ed E di cui si è parlato
nella Sezione precedente (B=cE) è verificata dalle medie temporali
dei campi.
5.2 Circuito RLC in serie. Oscillazioni smorzate
Un circuito LC è un oscillatore che conserva l’energia. La presenza
di una resistenza causa dissipazione di energia elettrica in calore
101
102
tramite l’effetto Joule. Ne risulta che il circuito RLC è l’analogo di un
oscillatore smorzato.
Poichè la resistenza non immagazzina energia, ma la dissipa soltanto, l’energia totale corrispondente ai valori istantanei di carica e
corrente è
q2
LI 2
+
U=
2
2C
e non si conserva. Notiamo che non c’è nessun alimentazione: il
transiente (come nella scarica dei circuiti RC e RL) è alimentato dal
condensatore (o dall’induttore). La variazione temporale dell’energia
è pari alla potenza dissipata in R,
dU
dI
q dq
= − RI 2 = LI +
,
dt
dt
C dt
e quindi
− IR = L
q
dI
+ ,
dt
C
o ancora
d2 q
R dq
1
+
+
q = 0.
L dt
LC
dt2
Anche qui l’interpretazione fisica è quella di un oscillatore, con le
analogie date in Tabella I, con in più una forza dissipativa viscosa
(il termine contenente R); prima di discutere in dettaglio i vari regimi possibili, nella Sottosezione successiva studiamo la soluzione di
questa equazione per l’oscillatore.
5.2.1
Come risolvere l’equazione dell’oscillatore smorzato
L’equazione di Newton per l’oscillatore armonico contiene due forze,
quella elastica e quella d’attrito, ed è
F = Felast + Fattrito = −kx − b
dx
d2 x
= m 2 = ma.
dt
dt
k, b > 0.
(5.2)
Naturalmente la differenza chiave con l’oscillarore è la presenza
della forza di tipo viscoso proporzionale alla velocità. Risolviamo
con il metodo dell’equazione caratteristica. Facciamo un’ipotesi di
soluzione:
h
i
y = ert
ẏ = rert , ÿ = r2 ert .
Sostituendo, si ha
mr2 ert + brert + kert = 0 ⇒ mr2 + br + k = 0.
Il parametro r è perciò la soluzione di una equazione di secondo
grado,
√
−b ± b2 − 4km
r=
.
(5.3)
2m
Si identificano dunque tre distinti regimi, a seconda che il discriminante sia positivo, nullo, o negativo, e quindi le soluzioni siano reali
e distinte, reali coincidenti, o complesse coniugate (Figura 5.2):
1. b2 <4mk ⇒ soluzioni complesse, oscillazione smorzata
2. b2 >4mk ⇒ soluzioni reali, smorzamento esponenziale
fisica 2
3. b2 =4mk: ⇒ soluzione reale singola, oscillazione critica.
Caso 1) : abbiamo
p
|b2 − 4km|
b
± iωd ,
ωd =
,
r1,2 = −
2m
2m
(5.4)
e le soluzioni sono del tipo
bt
bt
bt
e− 2m e±iωd t = e− 2m cos (ωd t) ± sin (ωs t) = e− 2m cos (ωd t + φ),
cioè oscillanti nel tempo, ma con un inviluppo decrescente esponenzialmente nel tempo.
Caso 2): le soluzioni sono
√
b
b2 − 4km
±
,
(5.5)
2m
2m
che sono entrambe negative perchè la radice è minore di b. Dunque
abbiamo due soluzioni esponenzialmente decrescenti senza oscillazioni, con due cadute distinte; una loro combinazione lineare è ancora
soluzione (l’equazione è lineare):
r1,2 = −
c 1 e −r1 t + c 2 e −r2 t ,
dove la soluzione r1 (corrispondente al segno +) decide il comportamento a tempi grandi.
Caso 3): c’è una sola soluzione
r1,2 = −
b
2m
(5.6)
dell’equazione caratteristica. Per ottenere una soluzione dell’equazione differenziale devo combinare due soluzioni linearmente indipendenti, e la più semplice combinazione è
bt
e− 2m (c1 + c2 r ).
Questa è la situazione di confine tra una oscillazione smorzata ed
una sovrasmorzata, che può essere vista come la situazione in cui
lo zero della funzione oscillante va all’infinito. Notiamo che, un po’
controintuitivamente, la caduta esponenziale è più rapida in questo
caso che in quello sovrasmorzato.
5.2.2 Discussione dei diversi regimi dinamici del circuito RLC
Armati dei risultati della sezione precedente, possiamo analizzare i
tre casi distinti di comportamento del circuito RLC non alimentato.
Riprendiamo le Eq.5.3-5.6, ponendo m=L, b=R, e k=1/C. Il primo
regime è quello di oscillazioni smorzate. La soluzione è quindi
q = Qe− Rt/2L cos (ωd t + φ)
dove la frequenza si ottiene notando che in questo caso, il discriminante è negativo (e quindi il suo modulo è lui stesso cambiato di
segno). Riarrangiando,
2
1
4L
1
4L
R
1
2
2
|R −
| = 2 (− R +
)=−
+
C
C
2L
LC
4L2
4L
Figura 5.2: Soluzioni osc smorzato
103
104
e infine
ω 2LC
−
R
2L
2
≡ ωd2
(5.7)
cioè ωd (reale) è la frequenza dell’oscillatore LC modificata dalla presenza di R. Nel caso 2), il determinante è positivo; quindi l’oscilazione
exp iωd t diventa un esponenziale reale, e la soluzione è
q = Qe− Rt/2L e−|ωd |t .
Questo succede se
R
2L
2
−
1
>0 ⇒
LC
R
2L
2
> ω 2LC
e quindi, ricordando la definizione dei tempi caratteristici τRC e τLC
di decadimento dei transienti del circuito RC e di quello LC,
R2 >
4L
C
⇒
CR2
R
> 1 ⇒ RC > 4 ⇒
4L
L
o anche
4L
R >
C
2
r
⇒ R>2
τRC
> 4.
τRL
L
C
Dunque alla fine il decadimento è più veloce di quello del singolo
√
esponenziale. Infine il caso 3) è quello in cui R = 2 L/C e abbiamo
appunto un singolo esponenziale
q = Q e− Rt/2L .
Abbiamo trovato perciò che la specifica scelta di resistenza, capacità, e induttanza possono pilotare il circuito RLC in uno specifico
regime.Questo resta vero anche in presenza di alimentazione. Naturalmente è particolarmente interessante il caso, che ora analizziamo,
in cui la tensione di alimentazione è variabile nel tempo e si accoppia
alla oscillazione o decadimento proprî del circuito.
5.3 Circuito RLC in serie alimentato: oscillazioni forzate e
risonanza.
Il circuito RLC è alimentato, in moltissime applicazioni, da una f.e.m.
oscillante (detta alternata: è quella delle nostre prese di casa). La
produzione di tale f.e.m. è un argomento a parte, ma il principio del
generatore, dettagli costruttivi a parte, è esattamente quello discusso
in Sez.4.2.4. Assumiamo quindi una f.e.m. alternata
E = Em sin ωe t,
dove ωe è in sostanza la frequenza di rotazione della spira nel generatore di Sez.4.2.4, ed è quindi determinata dall’esterno. La corrente
nel circuito sarà anch’essa oscillante con una legge
I = I0 sin (ωe t − φ),
fisica 2
105
dove φ è una fase e il segno negativo è convenzionale, ma comunemente usato. Come si è ormai capito, mentre la corrente nei resistori
segue (a tutti gli effetti pratici) istantaneamente la f.e.m. ed è quindi
in fase con essa, la presenza di elementi induttivi e capacitivi potrà
produrre una fase non nulla della corrente rispetto alla f.e.m., dovuta
in soldoni al riempimento / svuotamento di capacitori o accensione
/ spegnimento di campi magnetici negli induttori su scale di tempi
finite. Detto diversamente, il comportamento della corrente rispetto
alla f.e.m. dipenderà dalla frequenza ωe in relazione alla frequenza
propria ω LC del circuito oscillante, come modificata dalla presenza
della resistenza (ωd in Eq.5.7).
Si configura perciò il caso di un oscillatore armonico smorzato e
forzato, e un sistema estremamente complesso e affascinante (che esibisce, ad esempio, regimi di comportamento caotico e intermittente).
Le oscillazioni tendono, a causa della frequenza forzante, ad avvenire
con frequenza ωe , ma il comportamento proprio del circuito, descritto
sinteticamente dalle frequenze ω LC e ωd , è importante perchè, ad
esempio, la potenza erogata dal generatore può essere deviata in
parte o in toto sugli elementi L e C invece che sul carico resistivo,
dato che come abbiamo visto i tre tipi di elementi competono per il
possesso o la dissipazione dell’energia in gioco.
In questa Sezione consideriamo il caso in serie, in cui la corrente è
la stessa in tutti gli elementi in serie; useremo solo superficialmente il
formalismo dei fasori. Trattiamo in sequenza i casi dei carichi puri di
tipo resistivo, induttivo e capacitivo, cioè i circuiti in Figura 5.3.
5.3.1 Carico resistivo puro
Figura 5.3: Circuiti puri R, L, C in
tensione alternata.
Nel caso resistivo (Figura 5.3, a sinistra) tutta le f.e.m. cade sul
resistore,
E = v R = Em sin ωe t = VR sin ωe t.
La corrente è
vR
V
= R sin ωe t;
R
R
confrontando con l’espressione generica
IR =
I = I0 sin (ωe t − φ)
si ha I0 ≡ IR0 =VR /R, e risulta che φ=0, cioè che su un elemento resistivo
lo sfasamento fem-corrente è nullo. Detto diversamente, la corrente segue
istantaneamente la f.e.m. (trascuriamo qui e altrove tutti gli effetti
relativistici).
La corrente e la f.e.m. sono in fase in questo caso (Figura 5.4,
in alto), e possono essere rappresentate geometricamente usando i
cosiddetti fasori. Per i nostri scopi, i fasori sono vettori in un piano, il
cui angolo rispetto all’asse x è ωe t o ωe t–φ, il cui modulo è il valore
massimo della quantità alternata che vogliamo rappresentare, e la cui
proiezione sull’asse y è il valore istantaneo della data quantità. Ad
esempio in Fig.5.4 in basso, i due vettori rappresentativi sono paralleli
(in fase), i rispettivi moduli sono VR ed IR0 =VR /R, e la loro proiezione
Figura 5.4: Corrente in fase con la tensione in funzione del tempo (sopra) e
nel formalismo dei fasori (sotto).
106
sull’asse y fornisce il valore v R ed IR in un certo istante t. Questo
risulterà utile tra poco in presenza di L e C.
5.3.2
Carico capacitivo
Per un carico puramente capacitivo (Fig.5.3, a destra), la f.e.m. cade
tutta sul capacitore, e si ha per costruzione
vc = VC sin ωe t
e
qC = Cvc = CVC sin ωe t.
La corrente è
π
dqC
= ωe CVC cos ωe t = ωe CVC sin (ωe t + ),
dt
2
e quindi (ricordiamo la convenzione sul segno della fase)
IC =
Figura 5.5: Corrente in anticipo di fase
sulla tensione alternata (nel tempo, sopra, e in forma di fasori, sotto) per un
carico capacitivo puro.
π
φ=− ,
2
caso capacitivo
cioè (Fig.5.5) la corrente è in anticipo di 90◦ sulla tensione, e così
fanno i fasori delle due quantità. Definiamo ora la reattanza capacitiva
XC ≡
1
ωe C
che ha le dimensioni di una resistenza, e riscriviamo la corrente come
IC =
VC
π
sin (ωe t + ) ⇒ vc = XC IC .
XC
2
Si ha quindi una legge Ohm-like per il carico capacitivo. Riassumendo,
un carico capacitivo causa un anticipo della corrente rispetto alla
f.e.m. In sostanza, la corrente carica da subito il capacitore (non c’è
resistenza) e la tensione sale in ritardo rispetto ad essa.
5.3.3
Carico induttivo
Per un carico puramente induttivo (Figura 5.3, al centro), la f.e.m.
cade tutta sull’induttore, e si ha per costruzione
v L = VL sin ωe t.
Figura 5.6: Corrente in ritardo di fase
sulla tensione alternata (nel tempo, sopra, e in forma di fasori, sotto) per un
carico induttivo puro.
Per ottenere la corrente notiamo che, per la legge di Faraday-Lenz,
vL = L
dIL
dt
⇒
dIL
V
= L sin ωe t,
dt
L
da cui integrando
IL =
VL
L
Z
dt sin ωe t = −
VL
V
π
cos ωe t = L sin (ωe t − )
ωe L
ωe L
2
Dunque φ=π/2, cioè la corrente è in ritardo di fase rispetto alla f.e.m.
(Figura 5.6). Definendo la reattanza induttiva
X L ≡ ωe L,
fisica 2
107
che ha di nuovo le dimensioni di una resistenza, riotteniamo una
legge Ohm-like, questa volta per il carico induttivo:
IL =
π
VL
sin (ωe t − ) ⇒ v L = X L IL .
XL
2
Riassumendo, un carico induttivo causa un ritardo della corrente
rispetto alla f.e.m. Diversamente dal caso capacitivo, la corrente sale in
ritardo perchè è occupata a generare campo magnetico nell’induttore
e quindi sale in ritardo rispetto alla fem. Tabella 5.2 è riassunta la
discussione fino a questo punto.
Una mnemonica anglofona per ricordare i segni e ritardi è ELI [is]
positively the ICE man (letteralmente, Elia è sicuramente il venditore di
ghiaccio): ELI sarebbe E (la f.e.m.) prima di I (la corrente) nel caso L
(induttivo) con fase φ>0 (“positively"), e ICE sarebbe corrente I prima
di f.e.m E nel caso C (capacitivo).
Tabella 5.2: Sommario delle reattanze e
fasi per carichi puri.
Carico
reattanza
fase (π/2)
R
R
0
C
XC =1/ωe C
–1 (anticipo)
L
X L =ωe L
1 (ritardo)
5.4 RLC in serie con E (t)
Veniamo al caso generale di un circuito con R, L, e C in serie e fem
alternata di frequenza ωe . La nostra discussione vale nel regime stazionario, cioè trascurando processi transienti che possono presentarsi
durante l’accensione o lo spegnimento della f.e.m. esterna. Come
nelle discussioni precedenti, vale
E = Em sin ωe t = v L + v R + vC ,
I = I 0 sin (ωe t − φ);
essendo il circuito in serie, tutti gli elementi vedono la stessa corrente.
Vogliamo determinare il valore di I 0 e φ. Dunque vorremmo determinare le posizioni relative dei fasori della f.e.m. e della corrente. La
f.e.m. ha componenti diverse sui diversi elementi. Il vettore della
f.e.m. ha valore massimo Em e fase φ=0 per costruzione. Dalla discussione del carico resistivo, ricordiamo che la corrente è in fase con la
componente v R della f.e.m. sulla resistenza (Figura 5.7). Rispetto a
v R , la componente v L è in ritardo (90◦ in senso antiorario) e la componente vC è in anticipo (90◦ in senso orario). Facciamo la differenza
dei fasori di v L e vC , e sommiamoli a v R per ottenere il fasore della
f.e.m. E . Come si vede in Figura 5.7 in basso, i moduli delle diverse
tensioni soddisfano la relazione seguente:
Em2 = VR2 + (VL − VC )2 = ( I 0 R)2 + ( I 0 X L − I 0 XC )2 .
Dunque la massima corrente è
I0 = p
R2
Em
Em
Em
= p
≡
2
2
2
Z
+ ( X L − XC )
R + (ωe L − 1/ωe C )
dove abbiamo definito implicitamente l’impedenza
q
Z = R 2 + ( X L − XC )2 .
Notiamo che l’impedenza è una pura resistenza se le reattanze induttiva e capacitiva sono uguali. Veniamo ora alla fase relativa di E e I.
Figura 5.7: Fasori per il circuito RLC in
serie.
108
La prima maniera di ottenerla (forse non la più comoda da usare in
pratica: è preferibile Eq.5.8 discussa più oltre) è notare che, come si
vede da Figura 5.7, la fase che ci interessa è l’angolo tra il fasore della
f.e.m. e quello della componente v R . In particolare i valori massimi
sono legati da
Em cos φ = VR ,
Em sin φ = VL − VC
da cui, dividendo la seconda equazione per la prima,
tan φ =
X − XC
VL − VC
= L
VR
R
⇒
φ = arctan
X L − XC
R
Per le proprietà della tangente trigonometrica, abbiamo tre casi. Il
primo è X L > XC ; in questo caso φ>0 e I ritarda su E , come atteso
per un circuito “un po’ più induttivo che capacitivo". Il secondo è
X L < XC , che implica φ<0 e I in anticipo su E , come atteso per un
circuito “un po’ più capacitivo che induttivo". Il terzo caso è X L = XC :
la fase è nulla, corrente e f.e.m. sono in fase, e si dice che siamo in
risonanza.
5.4.1
Risonanza
Nel terzo caso menzionato, φ=0, ed E è in fase con I. La corrente ha
il massimo valore possibile, dato che
I0 =
Em
Em
Em
=
= p
.
2
2
Z
R
R + ( X L − XC )
La condizione di uguaglianza delle reattanze mostra che la frequenza
di risonanza è giusto la frequenza propria del circuito LC con le
specifiche L e C del circuito RLC in esame:
X L = XC ⇒ ω e L =
Figura 5.8: Corrente nel circuito RLC
in funzione della frequenza esterna. La
risonanza si manifesta come aumento
della corrente alla frequenza del circuito LC. Il valore di I è tanto maggiore
quanto minore è la resistenza.
1
ωe C
1
⇒ ωe = √ .
LC
Secondo la condizione di risonanza, se R→0 la corrente I →∞. In
condizioni reali R è sempre finita; ma a R piccola corrisponderà
corrente grande e viceversa. La corrente ha un massimo (tanto più
pronunciato quanto più la resistenza è piccola) in corrispondenza alla
frequenza risonante, come mostra Figura 5.8. A destra (a frequenze
maggiori) della risonanza,
ωe2 >
1
, φ > 0,
LC
lato induttivo, “ELI00
mentre a sinistra (a frequenze minori)
ωe2 <
5.4.2
1
, φ < 0,
LC
lato capacitivo, “ICE00 .
Potenza nel circuito RLC. Il ‘cosfi’ (cos φ).
Avendo la corrente I, la potenza è presto calcolata:
P = I 2 R = R( I 0 )2 sin2 (ωe t − φ).
fisica 2
Ricordiamo anche che
Em cos φ = VR ,
Z
Em
= ,
VR
R
e perciò
R
≤ 1,
(5.8)
Z
dove l’ultima eguaglianza si ha solo in risonanza. Il termine oscillante
della potenza ha media 1/2 sul periodo e quindi la potenza media,
come in casi precedenti, è
cos φ =
0 2
R
I
0
= √
R = ( Irms
)2 R.
2
2
√
Definendo anche una Erms =Em / 2, si ha
Pave = ( I 0 )2
0
Irms
=
Erms
.
Z
Dunque
Pave =
Erms 0
0 R
Irms R = Erms Irms
Z
Z
e infine
0
Pave = Erms Irms
cos φ
(5.9)
Quindi la potenza erogata al carico R dipende dalla fase, cioè, come
anticipato, dalla combinazione di capacità, induttanza, e frequenza
applicata. La porzione di essa effettivamente erogata può essere aggiustata variando gli elementi circuitali. Si parla spesso di potenza attiva
(la componente proporzionale a cos φ), che è massima in risonanza,
dove Z=R e cos φ=1, e di potenza reattiva (di fatto non trasmessa
al carico, e proporzionale a sin φ). Esiste perfino uno strumento, il
cosfimetro, che misura appunto cos φ e quindi la porzione di potenza
attiva.
5.5 RLC in parallelo: fasori complessi
Come nei circuiti DC, anche nei circuiti AC in serie la corrente è la
stessa in tutti gli elementi. Nel caso parallelo, invece, è la tensione ad
essere la stessa ai capi dei diversi elementi o loro gruppi; l’analisi di
questo caso potrebbe seguire lo schema della Sezione precedente. È
meno ovvio descrivere un generico circuito RLC composto da serie e
paralleli. Invece di replicare l’analisi già fatta, usiamo questa occasione
per introdurre il formalismo complesso dei fasori, definendo a fianco
di reattanze e impedenze le loro rispettive inverse: le suscettanze B
e ammettenze Y, analoghe in sostanza della conduttanza nei circuiti
DC. (Collettivamente, queste quantità vengono genericamente dette
immittenze.) Questo ci permetterà, con alcune semplici regole, di
dedurre l’impedenza, e dunque la corrente in funzione dela tensione
per un qualunque circuito.
Fin qui abbiamo discusso le quantità variabili (f.e.m, corrente)
come funzioni reali oscillanti del tempo, con una fase relativa che
descrive il ritardo o anticipo dovuto agli elementi circuitali reattivi.
109
110
Possiamo però anche trattare le funzioni trigonometriche nel campo
complesso; nel seguito menzioneremo i risultati di aritmetica e analisi
complesse man mano che risultano necessari. l’idea è maneggiare la
tensione, la corrente, l’impedenza, etc., e le loro combinazioni, sotto
forma di numeri complessi, stipulando che le effettive quantità nel
circuito siano le loro parti reali o i loro moduli. I numeri complessi
(Figura 5.9) sono in sostanza coppie di numeri reali, combinati nella
forma
Figura 5.9: Rappresentazioni di un
numero complesso
c = a + jb = |c| exp ( jα) ≡
p
a2 + b2 [cos α + j sin α]
dove a=Re c è la parte reale, e b=Im c quella immaginaria, |c| il
modulo, α la fase, e abbiamo usato j per denotare l’unità immaginaria
√
−1, come normalmente si fa in elettrotecnica (in altri campi la
notazione è i). Teniamo a mente per il seguito che, dalla geometria
in Figura, il modulo del numero complesso (la lunghezza del vettore,
dal teorema di Pitagora) è
|c| =
p
a2 + b2 =
e la fase è
α = arctan
q
Im[c]
Re[c]
(Re[c])2 + (Im[c])2
b
= arctan
.
a
(5.10)
(5.11)
Questo permette di passare facilmente dall’espressione in componenti a quella modulo-fase, il che è comodo dato che l’espressione in
componenti è utile nelle somme,
c + w = ( a + jb) + ( p + jr ) = ( a + p) + j(b + r )
e quella polare nelle divisioni e moltiplicazioni:
c ∗ d = |c||d| exp [i (φc + φd )] ;
|c|
c
=
exp [i (φc − φd )]
d
|d|
Qui sopra, abbiamo anche usato la relazione di de Moivre
exp jα = cos α + j sin α.
Importanti casi particolari di questa relazione sono
exp (0) = 1;
π
exp (± j ) = ± j,
2
che mostrano che moltiplicare una quantità complessa per ± j equivale
a fornire una fase di ±π/2. Questo tornerà utile nella discussione
delle reattanze. Un’altra, molto elegante, di queste relazioni è
eiπ + 1 = 0
che riunisce quattro tra i numeri più importanti di tutta la matematica.
La rappresentazione complessa di una tensione variabile è quindi
v(t) = V exp jωt,
fisica 2
dove
V = VR + jVI = |V | exp jφV ,
è il cosiddetto fasore, cioè un vettore, di lunghezza |V | e angolo φV
rispetto a un asse di riferimento, che ruota nel piano complesso con
pulsazione ω. Per la nostra convenzione iniziale, la tensione nel
circuito sarebbe
v(t) = Re[v(t)] = Re[|V | exp j(ωt + φV )]
ovvero
v(t) = A cos (ωt + φV ).
(5.12)
Possiamo liberamente scegliere l’asse di riferimento e quindi la fase; se
volessimo far contatto con la trattazione precedente del caso in serie,
sceglieremmo φV =π/2, e identificheremmo v≡E , A≡Em , ottenendo
E (t) = Em sin ωt
come in precedenza. Più semplicemente, scegliamo φV =0, dato che
le fasi relative di tensione e corrente non dipendono dalla fase di
riferimento.
In questo formalismo, i casi puri (sola R, C, L) in serie sono
facilmente descrivibili. Definiamo la corrente e la tensione come
i = Re[ I exp ( jωt)];
v = Re[V exp ( jωt)],
specificando che V=|V | e I = | I | exp (− jφ), cioè attribuendo lo sfasamento alla corrente, con il segno negativo come da convenzione usata
nella discussione della Sezione precedente. Per il capacitore
i=
dq
dv
d
= C Re
= C Re[ V exp ( jωt)] = Re[ jωCV exp ( jωt)]
dt
dt
dt
e quindi
I = jωCV,
V=
I
.
jωC
La cancellazione del fattore oscillante con frequenza ω riflette fisicamente la frequenza fissa del potenziale esterno. Per l’induttore
v=L
di
d
= L Re[ I exp ( jωt)] = Re[ jωLI exp ( jωt)],
dt
dt
cioè
I=
V
V
= −j
,
jωL
ωL
V = jωLI
Per la pura resistenza si ha semplicemente
V = RI.
Queste equazioni ci danno automaticamente le relazioni di fase nei
tre casi: la corrente è in fase con la tensione nel resistore, e anticipa
(ritarda) di π/2 nel capacitore (induttore), perchè come menzionato la
moltiplicazione per 1, j, e − j corrisponde ad acquisire rispettivamente
una fase nulla, oppure positiva e, rispettivamente, negativa e pari a
π/2. Qui la convenzione implicita sul segno della fase è opposta a
111
112
quella che abbiamo usato in precedenza, ma tra poco ci riallineeremo
con la convenzione originale.
Per proseguire, e riottenere i risultati della Sezione precedente,
usiamo una forma generalizzata della legge di Ohm,
V = IZ =
I
,
Y
definendo l’impedenza complezza Z e l’ammettenza complessa Y :
Z=
V
= R + jX,
I
Y=
I
1
= G + iB = ,
V
Z
con R, X, G e B la resistenza, reattanza, conduttanza, e suscettanza.
Naturalmente R, X e Z hanno le dimensioni di una resistenza, e G, B
e Y di una conduttanza. Le impedenze dei singoli elementi sono
ZR = R ;
ZC =
1
−j
=
= − jXC ;
jωC
ωC
Z L = jωL = jX L .
Per il caso di tre elementi in serie, l’impedenza complessa è
Z=
1
V
∑ V
= i i = ZC + Z L + Z R = R + j(ωL −
) ≡ |Z | exp [iα],
I
I
ωC
cioè, le impedenze in serie, come le resistenze, si sommano. Dall’algebra dei numeri complessi il modulo è
r
1 2
Z = |Z | = R2 + (ωL −
) ,
ωC
cioè l’impedenza definita in precedenza per il caso RLC in serie. Il
modulo della corrente è quindi
|I| =
|V |
|V |
= p
Z
R 2 + ( X L − XC )2
come ottenuto in precedenza. La fase dell’impedenza è
α = arctan
X L − XC
,
R
non casualmente uguale alla fase ottenuta in precedenza per la
corrente. Infatti, dalla legge di Ohm generalizzata,
I=
V
Z
⇒
| I | exp (−iφ) =
|V |
|Z | exp (iα)
⇒ φ = α,
cioè la fase della corrente è uguale a quella dell’impedenza; usando
il segno negativo per φ, ci siamo riallineati alla convenzione di fase
usata nella Sezione precedente. I risultati ottenuti in precedenza
restano dunque validi.
Nel caso in parallelo, in cui la tensione è la stessa per tutti i rami
paralleli, conviene usare l’ammettenza, ottenendo
Y=
I
1
∑ I
= i i = YC + Y L + Y R = G + j(ωC −
) = |Y | exp (iβ).
V
V
ωL
Il modulo è
Y = |Y | =
q
G2 + (ωC − 1/ωL)2 =
q
G2 + ( BC − BL )2
fisica 2
e la fase
BC − BL
.
G
Dalla legge di Ohm generalizzata, la corrente è
q
| I | = |V |Y = |V | G2 + ( BC − BL )2 ,
β = arctan
che, esattamente al contrario che per la serie, è minima in risonanza
(quando le suscettanze si cancellano). Per la fase,
I = V Y = | I | exp (−iφ) = |V ||Y | exp (iβ)
⇒ φ = − β,
ovvero la fase della corrente è l’opposto di quella dell’ammettenza:
φ = − arctan
BC − BL
B − BC
= arctan L
,
G
G
dove la seconda uguaglianza viene dal fatto che l’arcotangente è
funzione dispari. Mnemonicamente, questa è come la fase della serie,
sostituendo le suscettanze a reattanza e conduttanza a resistenza.
Notiamo che gli elementi in parallelo hanno l’effetto contrario a quelli
in serie: ad esempio la corrente nel capacitore è IC = jωCV e quindi
in ritardo di fase sulla tensione, e viceversa per l’induttanza. Si
capisce quindi che i singoli termini complessi (sia di induttanza che
ammettenza) danno direttamente una visione delle fasi relative.
A questo punto, un circuito composto di settori in serie e in
parallelo può essere decomposto come un circuito DC usando, rispettivamente, impedenze e ammettenze. Il circuito in Figura 5.10, ad
esempio, ha impedenza
Z1 = R1 + jωL1
nel ramo 1 e
Z2 = R2 +
1
jωC2
nel ramo 2. Il parallelo nel suo complesso ha ammettenza
1
1
+
.
Z1 Z2
La corrente si calcola direttamente in forma complessa, tipo
Y p = Y1 + Y2 =
I = VYp
per quella totale e
I1 =
V
= V Y1
Z1
o simili per quelle parziali. Un grosso vantaggio di questo approccio
è che nelle operazioni di somma di numeri complessi si può usare la
forma in componenti, ad esempio
Y p = Y1 + Y2 = G1 + jB1 + G2 + jB2 = ( G1 + G2 ) + j( B1 + B2 )
e per l’inversione si può usare la forma polare:
Z = |Z | exp (iα) ⇒ Y =
1
1
=
exp (−iα).
Z
|Z |
Figura 5.10: RLC parallelo
113
114
Il passaggio dall’una all’altra rappresentazione si fa al solito con le
formule Eq.5.10 e 5.11. Più in generale, nel caso di più blocchi paralleli
in serie l’aritmetica complessa fornisce
I = V ∑ Yi = V ∑ Gi + j( Bi,C − Bi,L )
i
i
e quindi alla fine una corrente massima
r
| I | = |V | (∑ Gi )2 + (∑[ Bi,C − Bi,L ])2
i
i
e una fase
∑i ( Bi,L − Bi,C )
.
∑i Gi
La potenza attiva può essere espressa come al solito a partire
da v e i prendendo la parte reale della corrente e tensione in forma
complessa
φ = arctan
P a = vi = Re[V exp ( jωt)] ∗ Re[ I exp ( jωt)] = |V || I | cos φ cos2 (ωt)
(ricordiamo che I ha la fase −φ nell’esponenziale complesso, e che il
coseno è pari nel suo argomento). La sua media temporale fa
a
Pave
=
|V || I |
0
cos φ ≡ Erms Irms
cos φ
2
dove abbiamo adottato i nomi dei valori massimi root-mean-squared
di tensione e corrente usati nella Sezione precedente. Si vede che
l’espressione è identica a Eq.5.9. Come già discusso precedentemente
e indicato con l’apice a, questa potenza attiva è il prodotto vi delle
parti reali di v e i. La potenza reattiva, che non è utilizzata dal
carico e alimenta la circolazione di corrente nelle reattanze, è invece il
prodotto delle parti immaginarie, pari a
Pr = Im[V exp ( jωt)] ∗ Im[ I exp ( jωt)] = |V || I | sin φ sin2 (ωt)
da cui
r
0
Pave
= Erms Irms
sin φ.
Figura 5.11: Impedenza e fattore Q di
una serie RLC
Notiamo che queste espressioni non dipendono, come è giusto, dallo
zero della fase (ovvero non è necessario specificare la fase complessiva
φV di cui ad Eq.5.12: questo corrisponde al fatto che ruotare tutto il
sistema di assi non cambia le fasi relative). Tutta la discussione resta
in sostanza invariato se al posto dell’impedenza si usa l’ammettenza.
In particolare, nel caso di un puro parallelo, si può procedere fino a
trovare l’ammettenza totale e usare l’inverso delle sue parti reali e
immaginarie nelle formula appena viste per fase, moduli, e potenza.
A proposito della risonanza, è interessante notare che è possibile
definire un fattore di qualità Q della risonanza. In sostanza, esso dà
una misura della diminuzione (brusca) della impedenza in corrispondenza alla risonanza. È definito come il rapporto della reattanza alla
frequenza di risonanza ωr (indifferentemente capacitiva o induttiva,
essendo uguali) con la resistenza,
Q=
X L ( ωr )
.
R
fisica 2
115
Come si vede in Figura 5.11, per il circuito RLC in serie l’impedenza
diminuisce quando la frequenza è sotto la risonanza, e risale dopo
averla oltrepassata. Questo è dovuto al fatto che l’impedenza è dominata a frequenze piccole dalla capacità, poichè XC ∼1/ω (che compare
come una retta log XC =–log ω nel grafico log-log), e a frequenze grandi dall’induttanza, essendo X L ∼ω (quindi log X L = log ω). Alla
risonanza, però, l’impedenza ha un calo repentino (che corrisponde
al drastico aumento della corrente), che è tanto maggiore quanto è
piccola R, ed è appunto quantificato da Q.
Un parallelo di tre elementi RLC invece ha ammettenza Y=G+jB, e
q
Y = G2 + ( BC − BL )2 .
Quindi l’andamento è analogo a quello dell’impendenza. L’impedenza corrispondente, ricordando che |(z−1 )|=1/|z|, è
Z= p
1
G2
+ ( BC − BL
)2
= p
1
G2
+ (ωC − 1/ωL)2
Figura 5.12: Impedenza e fattore Q di un
parallelo RLC in serie ad una resistenza
.
All’opposto del caso in serie, nel limite ω →0 domina il termine induttivo e Z ∼ω, e nel limite ω →∞ domina il termine capacitivo e Z ∼1/ω.
Quindi in scala log-log l’impedenza del parallelo sale linearmente fino
alla risonanza e poi cala linearmente. Alla risonanza, l’impedenza
è massima (con un brusco aumento analogo alla diminuzione del
caso della serie) e uguale alla sola resistenza. Questo andamento è
mostrato in Figura 5.12, dove il parallelo è in serie a una resistenza;
oltre al comportamento menzionato, sia a grandi che a piccole che
a grandi frequenze l’impedenza (che altrimenti tenderebbe a zero)
satura al valore della resistenza in serie.
5.5.1 Applicazioni: il trasformatore
Ci sono molte applicazioni importanti dei circuiti AC; tra le principali
ci sono il trasformatore e il trasmettitore/ricevitore di onde (elettromagnetiche) radio. Ora discutiamo il primo, e ci occuperemo del
secondo nella Sezione 6.6.2. La motivazione per il trasformatore viene
dalla necessità, discussa in Sezione 2.1.5, di trasmettere la potenza
elettrica dalle centrali di generazione alle utenza attraverso linee tenute ad alta tensione, ma utilizzare la potenza stessa a tensioni più basse
e maneggevoli. Il trasformatore deve quindi trasmettere la potenza
innalzando o abbassando la tensione.
Il dispositivo, schematizzato in Figura 5.13, consiste in due circuiti,
primario e secondario, accoppiati da una barra (o nucleo) di materiale
ferromagnetico (Sezione 3.10). La f.e.m. alternata
E = Em sin ωe t
alimenta il circuito di sinistra. La resistenza nel circuito primario è
piccola; le perdite tipiche sono dovute a effetto Joule nei conduttori,
oltre che alle correnti di vortice e all’isteresi del ferromagnete sotto
campo variabile, ma sono di qualche percento e le trascuriamo. Dunque il circuito primario è un induttore puro, e la corrente è in ritardo
Figura 5.13: Trasformatore
116
di π/2 sulla f.e.m., per cui il cos φ è zero e non c’è potenza trasmessa. Tuttavia la corrente nel primario induce un campo magnetico (e
quindi una variazione di flusso); ora questo campo induce nel core
ferromagnetico, la cui suscettività magnetica χ è molto grande, un
grande campo totale
H ' µ0 ( B + M ) = µ0 (1 + χ) B B.
Poichè il core ferromagnetico include sia il primario sia il secondario, anche in quest’ultimo compare un grande campo variabile con
frequenza ωe , che causa una grande variazione alternata di flusso, e
quindi una f.e.m.
dΦ H
Eind =
dt
per spira. Dato che i due circuiti hanno diverso numero di spire,
risulta che
dΦ H
VS = NS Eind = NS
dt
nel secondario e
dΦ H
VP = NP Eind = NP
dt
nel primario. Dunque il rapporto delle tensioni è lo stesso del
rapporto tra i numeri di spire, anche noto come turn ratio:
VS
N
= S.
VP
NP
Figura 5.14: Diagramma a fasori del
trasformatore.
(5.13)
Quindi se NS > NP , la tensione nel secondario è maggiore che nel
primario, e si parla di step-up trasformer, perchè la tensione viene
aumentata. Se NS < NP , la tensione nel secondario è minore che nel
primario, e si parla di step-down trasformer, perchè la tensione viene
ridotta. Il primo tipo è usato per alzare la tensione, ad esempio, dal
valore di generazione alla centrale al valore di trasmissione sulla linea;
il secondo viene usato per abbassarla dal valore di linea a quello della
rete di distribuzione, oppure per portare la tensione 220 V di rete, ad
esempio, a 12 V.
Finora nel primario circola una corrente I0 =I M +Iloss ∼ I M , la somma della corrente I M che produce la magnetizzazione e di quella
che alimenta le perdite Joule o magnetiche. Nel secondario c’è solo
una f.e.m., ma non essendoci carico non circola corrente e non viene
trasmessa potenza. Se chiudiamo il secondario su un carico Z, compare una corrente alternata IS con una potenza associata ZIS2 . Questa
corrente IS genera una f.e.m. che per Faraday-Lenz si oppone a quella
che la genera (o detto diversamente, crea un campo magnetico che
riduce quello indotto da VP ). Tuttavia, VP non può cambiare essendo
guidata da E . Per mantenere VP , il generatore deve generare una corrente I1 (Figura 5.14) con una fase e ampiezza che sono esattamente
quelle che servono a cancellare la f.e.m. indotta nel secondario dalla
corrente IS . La corrente totale IP =I0 +I1 non ha più una fase π/2, e si
può avere trasmissione di potenza.
Poichè la potenza nel primario e secondario deve essere la stessa
(perdite a parte), ricordando la relazione tra le tensioni e il numero di
fisica 2
117
avvolgimenti, si ha per le correnti
IP VP = IS VS = IS VP
NS
NP
→
IS = IP
NP
,
NS
(5.14)
cioè il rapporto inverso rispetto alle tensioni, e dunque tensioni aumentate corrispondono a correnti ridotte e viceversa. Invertendo
questa relazione, e sostituendo la relazione Eq.5.13 tra tensioni e
numero di spire si ha che
V N
V
IP = S S = P
R NP
R
NS
NP
2
,
cioè l’impedenza equivalente su cui opera la tensione del primario è
( P)
Zeff = Z
NP
NS
2
.
Questo risultato è alla base dell’uso del trasformatore come “impedance matching”: in sostanza posso far sì, scegliendo opportunamente
il turn ratio, che il primario veda il secondario come un carico di
impedenza uguale alla sua. In questo caso, la potenza trasferita è
massima (anche se l’efficienza è solo il 50%), come abbiamo mostrato
per il caso DC in Sezione 2.2.1.
La capacità del trasformatore di trasmettere potenza tramite un
accoppiamento magnetico, senza contatti elettrici, suggerisce applicazioni come come la trasmissione di potenza acustica con isolamento e
l’aggiustamento di impedenza, come tra un amplificatore e un altoparlante, oppure l’inductive charging, usato negli spazzolini da denti
elettrici. La base e lo spazzolino sono rispettivamente il primario e
il secondario di un trasformatore: infilando lo spazzolino sul perno
della base (il ferromagnete) si stabilisce l’accoppiamento, e la base
fornisce energia alla batteria nello spazzolino.
Altro aspetto interessante del trasformatore è la polarità della
tensione del secondario rispetto a quella del primario. In sostanza,
a seconda del verso di avvolgimento del secondario relativamente
al primario, la corrente in uscita avrà un dato verso oppure il suo
opposto. Questo è dovuto al fatto che il campo magnetico prodotto
dal secondario deve opporsi a quello indotto dal primario (esempio in
Figura 5.15). Nei trasformatori è solitamente indicata la relazione tra
i segni della corrente (in entrata o in uscita, e ovviamente in undato
momento del ciclo della oscillazione) da un dato terminale, come in
Figura 5.16.
Figura 5.15: Un caso di polarità del
trasformatore
Figura 5.16: I “dots” dei trasformatori e
la fase relativa delle correnti.
6. Equazioni di Maxwell e onde EM
6.1 Corrente di spostamento e legge di Ampere-Maxwell
La legge di Ampere, cioè la relazione tra correnti concatenate da una
certa linea C e la circuitazione del campo su di essa,
I
C
B · ds = µ0 I,
è incompleta. Fu lo stesso Maxwell a capire che fenomeni coinvolgenti
campi elettrici variabili generano campi magnetici, analogamente alla
comparsa di campi elettrici (f.e.m.) per induzione tramite la legge di
Faraday-Lenz. Ne risulta la legge di Ampere-Maxwell, che completa
il quartetto delle equazioni di Maxwell (le rielencheremo tra poco).
Consideriamo un condensatore a piatti piani di area A a distanza
h inizialmente scarico, e procediamo a caricarlo. Ovviamente per
passare da 0 al valore massimo Q, la carica deve variare e quindi deve
fluire una corrente nel circuito. La carica finale nel condensatore è
Q = CV = ε 0
A
Eh = ε 0 AE
h
con E il campo elettrico finale nel condensatore. Essendo l’area
costante, a t generico la corrente nel circuito di carica sarà pari a
I=
dq
dE
dΦ
= ε0 A
= ε 0 E ≡ Id
dt
dt
dt
dove Φ E è il flusso del campo elettrico attraverso il condensatore:
in effetti, benchè tra i piatti del condensatore non ci sia corrente
di conduzione, deve esserci un qualche omologo di una corrente (se
immaginiamo di allontanarci dal circuito tanto da non distinguere
più il capacitore, tutto quello che vediamo è una corrente che fluisce).
Maxwell la chiama, come già indicato, corrente di spostamento:
Id = ε 0
dΦ E
.
dt
120
Questa corrente è nulla fuori dal condensatore, dove invece si ha
corrente di conduzione I. Le due sono uguali, solo che una vive
fuori e una dentro il condensatore; possiamo dire che in sostanza
sono una diversa realizzazione della stessa cosa. Se consideriamo
ora (Figura 6.1) una linea amperiana che circonda uno dei fili che
connettono il condensatore al generatore di tensione, la corrente che
fluisce nel filo genera un campo magnetico per la legge di Ampere.
Ma se facciamo scorrere la linea amperiana lungo il circuito, Maxwell
ragiona giustamente, e la portiamo a circondare la zona centrale del
condensatore, la legge di Ampere deve continuare a valere. Maxwell
riscrive dunque la legge di Ampere come
I
Figura 6.1: Linee amperiane nella discussione della corrente di spostamento.
C
B · ds = µ0 ( I + Id ) = µ0 I + µ0 ε 0
dΦ E
;
dt
poichè Id è nulla fuori dal condensatore e I è nulla dentro il condensatore, la corrente totale è ovunque la stessa. Questa legge di
Ampere-Maxwell si usa esattamente allo stesso modo di quella di
Ampere; ad esempio, se prendiamo una linea amperiana intorno al
filo o intorno a condensatore otteniamo esattamente lo stesso campo,
generato nel primo caso dalla corrente di conduzione e nel secondo
da quella di spostamento.
Notiamo anche che quando il condensatore è carico la corrente
si ferma e il campo da essa generato scompare. Ad esempio, in
un circuito RC in fase di carica il campo magnetico prodotto dalla
corrente di spostamento è dovuto alla variazione del campo elettrico
nel condensatore, e quindi dato da
2πrB = Aµ0 ε 0
dE
V µ ε d(1 − exp −t/RC )
Vµ ε
=A 0 0 0
= A 0 0 0 exp −t/RC
dt
h
dt
hRC
e quindi
B=
µ0 ε 0 V0 r12
exp (−t/RC )
2hRCr2
dove il raggio del condensatore (assunto circolare) è r1 e quello dove
si calcola il campo magnetico è r2 , e V0 ed R sono potenziale massimo
e resistenza, e h e A la distanza tra i piatti e la loro area.
Cosa importante, questa legge vale in generale e per geometrie
arbitrarie; in particolare, vale in assenza di correnti di conduzione
e in presenza, invece, di solo campo elettrico variabile. Così, una
variazione di campo elettrico produce un campo magnetico e in
modo quasi simmetrico una variazione di campo magnetico produce
un campo elettrico per la legge di Faraday-Lenz: questa è la base
dell’esistenza delle onde elettromagnetiche.
fisica 2
121
6.2 Equazioni di Maxwell
Possiamo a questo punto riassumere le quattro equazioni di Maxwell
in forma finale, sia differenziale che integrale.
div E =
ρ
ε0
I
S
I
div B = 0
S
∂B
∂t
I
∂E
rot B = µ0 j + µ0 ε 0 ;
∂t
I
rot E = −
C
C
E · dA =
1
ε0
I
VS
ρ dV
B · dA = 0.
E · ds = −
dΦ B
dt
B · ds = µ0 I + µ0 ε 0
dΦ E
.
dt
La forma che ci interesserà da qui in poi è quella, molto più semplice,
detta senza sorgenti, cioè in cui correnti di conduzione e cariche sono
assenti:
div E = 0
div B = 0
∂B
∂t
∂E
rot B = µ0 ε 0 ;
∂t
rot E = −
I
IS
S
E · dA = 0
B · dA = 0.
dΦ B
dt
C
I
dΦ E
B · ds = µ0 ε 0
.
dt
C
I
E · ds = −
(6.1)
In questo caso è abbastanza evidente la simmetria quasi completa
tra i due termini di induzione, e se ne deduce che l’esistenza e variabilità di un campo in un dato momento implica necessariamente
l’esistenza dell’altro, e che i due continuano a generarsi mutuamente. Risulta, come ora discutiamo, che i campi soluzione di queste
equazioni sono soluzioni dell’equazione d’onda, cioè sono quantità
oscillanti mutuamente accoppiate.
6.3 Onde elettromagnetiche
Le onde sono oscillazioni temporali o spaziali (o ambedue) di quantità
varie, ad esempio il livello dell’acqua attorno al livello medio del mare
in presenza di onde in acqua profonda, o la posizione di una corda
di chitarra pizzicata, o la densità dell’aria fatta vibrare dalle corde
vocali o da un pistone. Menzioneremo tra poco alcune delle loro
proprietà principali, ma ora vogliamo derivare l’equazione che ne
governa il moto in generale. Consideriamo una porzione di corda
spostata meccanicamente dall’equilibrio (Figura 6.2). La posizione
lungo la corda è x, e lo spostamento laterale della corda dalla sua
posizione di equilibrio è y, che è funzione di x e del tempo t. Ai
capi di un suo tratto generico infinitesimo dx, la corda è soggetta a
tensioni, cioè forze di richiamo, che non si cancellano in generale (lo
fanno se il tratto di corda è localmente e momentaneamente diritta).
La forza netta è
Fnet = T (sin θ1 − sin θ2 ).
Figura 6.2: Tensioni su un tratto di corda
oscillante.
122
Sviluppando in serie per piccolo angolo, sin θ ∼θ. Ma poichè anche
la tangente ha lo stesso sviluppo al primo ordine, sin θ ∼tan θ. Dalla
geometria elementare, sappiamo che tan θ è la pendenza locale di y(x)
rispetto all’asse x, cioè la sua derivata; quindi
∂y
∂y
∂2 y
Fnet ' T (tan θ1 − tan θ2 ) = T
| x+dx − | x ' T 2 dx,
∂x
∂x
∂x
dove all’ultima equaglianza abbiamo linearizzato, o se si preferisce
applicato la definizione di derivata a ∂y/∂x. Definiamo una densità
lineare di massa µ in modo tale da esprimere la massa del tratto di corda dx come m=µ dx; l’equazione di Newton F=ma ci dà direttamente
l’equazione delle onde:
F=T
∂2 y
∂2 y
µ ∂2 y
∂2 y
dx
=
ma
=
µ
dx
⇒
=
T ∂t2
∂x2
∂t2
∂x2
che riscriviamo come
1 ∂2 y
∂2 y
= 2 2 .
2
∂x
v ∂t
Chiaramente la costante
s
v=
(6.2)
T
µ
ha le dimensioni di una velocità, e risulta essere effettivamente la
velocità con cui la perturbazione si propaga sulla corda. Per vederlo,
notiamo che la soluzione dell’equazione d’onda Eq.6.2 deve soddisfare
una sola proprietà, e precisamente deve dipendere da x e t come
def
y( x, t) = y( x − vt).
Per verificarlo, definiamo y=G e z=x–vt, e notiamo che
∂y
∂G ∂z
∂G
∂2 y
∂2 G
=
=
⇒
= 2
2
∂x
∂z ∂x
∂z
∂x
∂z
e d’altra parte
∂y
∂G ∂z
∂G
∂2 y
∂2 G
1 ∂2 y
∂2 G
=
=
(−v) ⇒
= 2 (−v)2 ⇒ 2 2 = 2 ,
2
∂t
∂z ∂t
∂z
∂t
∂z
v ∂t
∂z
ovvero: una funzione generica di x e t del tipo y(x–vt) soddisfa l’equazione
d’onda. Quindi una qualunque funzione di x–vt può essere soluzione.
Ad esempio
Figura 6.3: Soluzione Eq.6.3 di Eq.6.2.
y = exp [−
( x − vt)2
]
x02
(6.3)
è una possibile soluzione, ma
?
y = exp [−
x2 − (vt)2
]
x02
non lo è. Dato che solo v2 compare nell’equazione, ambedue i segni di
v, cioè i due versi di moto, sono validi. Scegliendo +v la forma d’onda
si muoverà verso destra, e viceversa per –v (Figura 6.3). Una soluzione
fisica 2
generale sarà una combinazione lineare (l’equazione, ricordiamo, è
lineare) del tipo Ay( x − vt)+By( x + vt).
Prima di proseguire, altre considerazioni di base sulle proprietà
delle onde. Generalmente, esistono onde trasversali o longitudinali,
nelle quali cioè l’oscillazione avviene ortogonalmente o parallelamente alla direzione di propagazione dell’onda. Ad esempio, come
vedremo, le onde EM sono trasversali; le onde sonore in un gas (l’aria, per esempio) sono longitudinali, consistendo di compressioni e
rarefazioni alternate del gas che viene compresso da una pressione
oscillante prodotto ad esempio dalle vibrazioni della membrana di
un altoparlante o delle corde vocali. Consideriamo per semplicità
un’onda di tipo sinusoidale che soddisfa la forma generale vista
sopra:
y = ym cos (kx − ωt).
Questa oscillazione si muove nel tempo lungo una certa direzione. Se
ci poniamo in una certa posizione (x=0 per semplicità) e osserviamo
il valore di y, notiamo che esso si ripete quando cos (ω (t + T )) =
cos (ωt + 2π ), cioè con periodo temporale
ωT = 2π ⇒ T =
2π
.
ω
Possiamo anche fissare t=0 e variare x, e allora vediamo che y si ripete
uguale per tutti i valori di x separati da una traslazione λ tale che
cos (k ( x + λ)) = cos (kx + 2π ), cioè
kλ = 2π ⇒ k =
2π
;
λ
λ è la lunghezza d’onda e k il vettore d’onda (che ha, come discuteremo, un carattere vettoriale, associato alla direzione del moto). Vediamo poi che la velocità dell’onda è legata alla frequenza e al vettore
d’onda. Quando il massimo di un’onda si sposta in x, l’argomento
del coseno non cambia da un punto all’altro, cioè kx–ωt=costante.
Derivando rispetto a t si ha perciò
k
dx
−ω = 0 ⇒
dt
dx
ω
2π λ
= v=
=
= λf.
dt
k
T 2π
(6.4)
Una fase del coseno con +ω invece di −ω fornirebbe alla fine la
velocità dell’onda −v.
6.4 Onde come soluzione delle equazioni di Maxwell
Vogliamo dimostrare l’esistenza di soluzioni simultanee delle equazioni di Maxwell e dell’equazione d’onda. Dimostriamo prima che una
soluzione della equazione d’onda verifica le equazioni di Maxwell;
poi, all’inverso, mostreremo che una soluzione delle equazioni di
Maxwell soddisfa l’equazione d’onda. Otterremo due condizioni che
determinano a) la velocità dell’onda, che risulta essere c, la velocità
della luce, e b) la relazione tra i valori massimi dei campi, che risulta
essere E0 =cB0 .
123
124
x
y
Figura 6.4:
piana.
6.4.1
z || k
Onda elettromagnetica
Un’onda opportuna soddisfa le prime due equazioni
Benchè ci siano moltissimi possibili tipi di soluzione dell’equazione d’onda, per semplicità consideriamo delle semplici onde piane
cosinusoidali
E = x̂E0 cos (kz − ωt) = x̂Ex ; B = ŷB0 cos (kz − ωt) = ŷBy . (6.5)
E e B sono dunque ortogonali e oscillano nel tempo e nello spazio
lungo l’asse x e y rispettivamente. In ogni piano individuato da un
dato valore di z (supponiamo t fisso, cioè guardiamo una immagine
statica dell’onda come in Figura 6.4), questi vettori oscillanti sono
uguali per ogni valore di x e y, dovunque ci spostiamo in quel piano.
L’onda si propaga lungo l’asse z, quindi in direzione ortogonale a
entrambe i campi; questa direzione è normalmente associata al vettore
d’onda
2π
k=
ẑ.
λ
Le onde EM sono perciò onde trasversali, dato che i campi che le
costituiscono oscillano in direzione ortogonale a quella di propagazione. La dipendenza spaziale dei campi, cioè il fatto che i campi
dipendano solo dalla coordinata z lungo la direzione di propagazione,
è essenziale affinchè le prime due relazioni di Eq.6.1, le equazioni per
la divergenza, risultino verificate. L’operatore divergenza ha come
componenti le derivate ∂Ex /∂x e analoghe: le sole due componenti
della soluzione in Eq.6.5 coinvolte sono Ex e By , che dipendono solo
da z; dunque le derivate ∂Ex /∂x e ∂By /∂y che figurano nelle due divergenze di E e B sono zero, quindi le due divergenze sono nulle e le
prime due equazioni sono verificate. D’altro canto, i campi oscillano
anche nel tempo, e in Figura 6.5 è mostrato l’andamento temporale
delle ampiezze dei campi su un ciclo dell’onda, osservate in un dato
punto nello spazio. Come accennato, queste onde sono soluzioni delle
equazioni di Maxwell se
E0 = cB0
c= √
1
= 2.998 × 108 m/s
ε 0 µ0
(6.6)
come mostreremo tra poco.
6.4.2
Figura 6.5:
Andamento temporale dei campi in un ciclo dell’onda
elettromagnetica.
Un’onda opportuna soddisfa le seconde due equazioni
Per affrontare le equazioni “del rotore” o “dell’induzione”, ci sono
due strade: la forma differenziale e quella integrale. Superato lo
spavento per l’espressione del rotore, la prima risulta più diretta e
meno complicata. Consideriamo l’equazione per il rotore di E, la
terza in Eq.6.1,
∂B
rot E = − .
∂t
Per il primo membro, ricordiamo che il rotore ha la forma seguente:
∇ × E = rot E = x̂(
∂Ey
∂Ey
∂Ez
∂Ex
∂Ez
∂Ex
−
) + ŷ(
−
) + ẑ(
−
).
∂y
∂z
∂z
∂x
∂x
∂y
fisica 2
Notiamo subito che qui abbiamo solo la componente Ex e che la sua
unica dipendenza dalle coordinate è quella da z. Dunque tutte le
derivate sono zero eccetto quella di Ex rispetto a z. Si ha perciò
rot E = ŷ
∂Ex
= −ŷkE0 sin (kx − ωt)
∂z
Al secondo membro abbiamo semplicemente
−
∂B
∂
= −ŷB0 cos (kz − ωt) = −ŷωB0 sin (kz − ωt)
∂t
∂t
da cui
ŷkE0 sin (kz − ωt) = ŷωB0 sin (kz − ωt) ⇒ E0 = B0
ω
k
e quindi
E0 = cB0
dove c è la velocità dell’onda. Veniamo infine all’ultima equazione,
rot B = µ0 ε 0
∂E
.
∂t
Usando l’espressione del rotore vista poco fa, e notando che B ha solo
componente y, dipendente solo da z, otteniamo
rot B = x̂
∂By
= −x̂kB0 sin (kz − ωt)
∂z
Al secondo membro risulta
µ0 ε 0
∂E
∂
= µ0 ε 0 x̂E0 cos (kz − ωt) = −x̂µ0 ε 0 ωE0 sin (kz − ωt)
∂t
∂t
e quindi
µ0 ε 0 ωE0 x̂ sin (kz − ωt) = kB0 x̂ sin (kz − ωt)
⇒
µ0 ε 0 ωE0 = kB0
Poichè abbiamo trovato poco fa che E0 =cB0 e siccome ω/k=c,
µ0 ε 0
ω
cB0 = B0 ⇒
k
c2 =
1
µ0 ε 0
⇒
c= √
1
µ0 ε 0
che è la seconda condizione che avevamo anticipato. Dunque le
soluzioni cosinusoidali dell’equazione d’onda sono soluzioni anche
delle equazioni di Maxwell, con le condizioni
E0 = cB0 ,
c= √
1
µ0 ε 0
Questa che abbiamo appena discusso è una onda elettromagnetica. Avremmo potuto ottenere la stessa conclusione, in modo più
macchinoso, usando la formulazione integrale.
Che le onde abbiano la forma appena vista od una differente
dipende dalle condizioni al contorno, o, che è lo stesso, dalla sorgente
che genera l’onda originale. L’onda appena discussa è una onda piana.
Tra gli altri tipi di onda, menzioniamo quelle cilindriche e sferiche.
Onde cilindriche possono essere generate da una sorgente filiforme,
125
126
oppure passando una onda piana attraverso una fenditura (Figura
6.6, in alto); analogamente onde sferiche possono originare da una
sorgente puntiforme, ad esempio un foro su cui sia inviata una onda
piana (Figura 6.6, in basso, vista in sezione).
Benchè sia già abbastanza chiaro, notiamo esplicitamente che i
vettori campo di Eq.6.5 non sarebbero una soluzione valida se a) non
fossero trasversi alla direzione (unica) di propagazione, e quindi non
giacessero nello stesso piano (questo perchè in quel caso avrebbero
dipendenza anche da x o y e non sarebbero verificate le equazioni
per la divergenza), e b) non fossero mutuamente ortogonali (perchè
non varrebbero più le eguaglianze delle rispettive componenti nelle
equazioni per il rotore). Dunque questi campi oscillanti devono
necessariamente essere ortogonali tra loro e trasversi alla direzione di
propagazione se vogliamo che soddisfino le equazioni di Maxwell.
6.5 I campi elettromagnetici sono soluzioni della equazione
d’onda
Figura 6.6: Generazione di un onda cilindrica (alto) e di una sferica (basso)
.
Ora, all’inverso di prima, mostriamo che campi maxwelliani, cioè
soluzioni delle equazioni di Maxwell, soddisfano l’equazione d’onda.
La derivazione è per il campo elettrico, ma quella per il campo
magnetico è analoga. Usiamo inizialmente le equazioni con sorgenti.
Prendiamo l’equazione per il rotore di E e applichiamo l’operatore
rotore:
rot (rot E) = −rot
∂B
∂
∂
∂E
= − rot B = − (µ0 j + µ0 ε 0 )
∂t
∂t
∂t
∂t
dove abbiamo sostituito l’equazione per il rotore di B. Al primo
membro, usiamo senza dimostrazione il risultato di analisi vettoriale
rot (rot E) = grad div E − div grad E.
L’equazione è allora
grad div E − div grad E = −
∂
∂E
∂j
∂2 E
( µ0 j + µ0 ε 0 ) = − µ0 − µ0 ε 0 2 .
∂t
∂t
∂t
∂t
Siccome abbiamo assunto che correnti e cariche siano assenti, scompaiono il termine in j e il primo termine al primo membro (dalla prima
equazione di Maxwell, div E=ρ/ε 0 =0). Dunque
div grad E = µ0 ε 0
∂2 E
.
∂t2
Quindi, per un vettore generico A,
div grad A = ∇ · ∇ A =
∂2 A y
∂2 A x
∂2 A z
+
+
≡ ∇2 A,
2
2
∂x
∂y
∂z2
che è il cosiddetto operatore laplaciano, l’equivalente tridimensionale
della derivata seconda spaziale nell’equazione d’onda unidimensionale vista all’inizio della Sezione; questo si può vedere anche ricordando
che l’applicazione dell’operatore divergenza può essere espressa come
fisica 2
il prodotto scalare dell’operatore gradiente per l’operando, e notando
che quest’ultimo è di nuovo l’operatore gradiente, quindi
∇ · ∇ = (x̂
∂2
∂2
∂
∂
∂2
+ . . .) · (x̂ + . . .) = 2 + 2 + 2 .
∂x
∂x
∂x
∂y
∂z
L’equazione diventa perciò
∇2 E =
1 ∂2 E
,
c2 ∂t2
che descrive una quantità (vettoriale) oscillante che si propaga con
√
velocità c=1/ µ0 ε 0 . Dunque un campo E che soddisfa le equazioni
di Maxwell obbedisce l’equazione d’onda, ed è perciò un’onda con
velocità c.
6.6 Energia trasportata e intensità delle onde EM
Per valutare l’energia trasportata da un’onda EM partiamo dalla solita
densità di energia associata al campo elettrico; usando le relazioni tra
E e B e l’espressione di c appena trovate, abbiamo
uE =
E2
B2
ε 0 E2
=
= uB
=
2
2µ0
2µ0 c2
Come per il circuito LC, l’energia totale è la somma delle densità di
energia associate al campo magnetico e al campo elettrico,
utot = u E + u B = ε 0 E2 = ε 0 EBc.
È utile definire una energia per unità di area e di tempo, cioè una
densità areale di potenza, che permette poi di calcolare l’energia
assorbita da un oggetto di una certa area in un certo intervallo di
tempo. Consideriamo allo scopo un parallelepipedo di area sezionale
A= e il cui terzo lato sia la distanza `=c δt percorsa dall’onda EM
in δt. Il volume di questo parallelepipedo è quindi V=A δt c m3 . Il
volume V contiene perciò una energia (in J)
U = utot V = utot c = ε 0 EB c2 A δt
Perciò
S=
U
EB W
=
,
A δt
µ 0 m2
è la densità areale di potenza trasportata dall’onda elettromagnetica
attraverso A. In effetti, EB/µ0 ha dimensioni VT/(mµ0 ) = VTA/(Tm2 )
= VC/(m2 s) = J/(m2 s) = potenza/area. Poichè l’onda si propaga nello
spazio in direzione ortogonale ai due campi, è comodo definire il
vettore di Poynting
E×B
S=
,
µ0
il cui modulo è uguale a S e la cui direzione è quella di propagazione
(parallela a k). Poichè i campi oscillano nel tempo, anche S oscilla
tra 0 e EB/µ0 W/m2 . Mediando sul periodo il termine oscillante
127
128
si ottiene come al solito un fattore 1/2. Giungiamo a definire così
l’intensità dell’onda
I≡
E2
S
E B
ε E2
= 0 0 = 0 = 0 c,
2
2µ0
2µ0 c
2
(6.7)
che, ricordiamo, è una densità areale di potenza, e che moltiplicata
per il tempo di esposizione e la superficie esposta fornisce l’energia
rilasciata dalla radiazione (e, per l’ultima eguaglianza, può anche
essere vista come una densità di energia che si propaga con velocità c).
Tra le ovvie applicazioni, possiamo calcolare l’energia rilasciata in un
oggetto assorbente da onde EM di dato campo elettrico o magnetico.
Se E0 =100 V/m, ad esempio, da Eq.6.7 si ha
S=
1002
W
,
= 13
2µ0 c
m2
che è una potenza relativamente bassa, dato che il corpo umano
irradia circa 100 W nell’infrarosso in condizioni normali. Se il campo
fosse 10 volte più grande, la densità di potenza diventerebbe 100
volte maggiore, circa 1.3 kW/m2 , che comincia ad essere piuttosto
significativa. In effetti, questa è circa la densità di potenza della
radiazione solare sulla terra. Infatti, il Sole irradia in modo pressochè
isotropo circa PS =3×1026 W. A distanze dal Sole molto maggiori del
suo raggio (7×108 m), quali il raggio medio rT =1.5 × 1011 m dell’orbita
terrestre, possiamo assimilare il Sole a una sorgente puntiforme.
Siccome l’emissione è isotropa, cioè la stessa in tutte le direzioni,
la potenza PS è distribuita uniformemente sull’area di una sfera di
raggio rT , cioè la densità areale di potenza è
S=
kW
PS
0.08 · 3 × 1026 W
∼1
.
'
2
11
2
m2
(1.5 × 10 m)
4πrT
Un calcolo simile è applicabile a qualunque sorgente approssimativamente puntiforme (una lampadina, per esempio, o un’antenna cellulare, casi in cui incidentalmente le energie in gioco sono enormemente
minori di quelle menzionate).
Ovviamente l’intensità non è l’unica caratteristica della radiazione
EM; dall’espressione di Eq.6.5 le altre proprietà caratterizzanti, oltre alle ampiezze E0 e B0 , sono la lunghezza d’onda λ=2π/k e la frequenza
ω, che sono legate dalla relazione di dispersione ω=ck=2πc/λ. Onde
di diversa frequenza interagiscono diversamente con la materia. La
frequenza (o, che è in sostanza lo stesso, la lunghezza d’onda) determina il tipo di interazioni con la materia. La spiegazione di dettaglio
richiede la meccanica quantistica, ma in linea di massima possiamo
dire che diversi atomi o molecole interagiscono selettivamente solo
con certe frequenze e in modi specifici. Ad esempio, una molecola
può assorbire radiazione a una certa frequenza e riemetterla a una o
più diverse; i metalli assorbono ed riemettono a diverse frequenze,
e le frequenze riemesse determinano il loro colore (ad esempio, il
rossiccio del rame, il giallo dell’oro, l’argenteo di argento e alluminio);
certi composti isolanti emettono luce visibile di specifica frequenza e
fisica 2
129
sono utilizzabili come sorgenti luminose di colore; l’assorbimento di
un certo tipo di radiazione può cambiare la conformazione geometrica
e quindi la funzionalità di una molecola; ancora, la nostra percezione
del colore è legata all’assorbimento selettivo di radiazione EM visibile
di diverse frequenze da parte di distinti sensori organici presenti nel
nostro occhio.
Radio
radar, MW
IR, vis, UV
X
λ
0.3-300 km
0.3 mm-0.3 m
0.3 µm
0.3 nm-3 Å
f
1 MHz - 1 kHz
1 THz - 1 GHz
1000 THz
106 THz
E
4 µeV - 4 peV
4 meV - 4 µeV
4 eV
4 keV
Tabella 6.1:
Frequenze, lunghezze
d’onda, e nome di diverse bande di
radiazione EM.
I diversi tipi di onde EM sono categorizzabili come in Tabella 6.1. È
evidente già dalla nomenclatura che le onde EM sono forse il singolo
caso più importante di scoperta e comprensione di un fenomeno fisico.
Il calore (infrarosso) e la luce (visibile) sono di ovvia importanza,
ma anche altre bande di frequenza come quella radio e microonde
hanno enorme importanza nelle comunicazioni (radio, cellulari, wi-fi,
GPS), nella diagnostica medica (X, risonanza magnetica, ultrasuoni a
generazione EM per ecografia), e in altre applicazioni industriali.
Figura 6.7: Densità di potenza spettrale
della radiazione solare.
Tornando all’esempio del Sole, la potenza totale ha in effetti una
distribuzione spettrale, cioè è suddivisa tra diverse lunghezze d’onda.
Figura 6.7 riporta (in funzione delle lunghezza d’onda in nanometri)
l’intensità di Eq.6.7 per unità di lunghezza d’onda, anche nota come
irradianza. L’intensità totale è l’integrale di questa funzione sulla lunghezza d’onda. La funzione ha circa un valore medio di 0.5
su un range di 2000 nm, quindi l’integrale è circa 1 kW/m2 , come
abbiamo stimato poco fa. Si nota che la irradianza dipende fortemente dalla lunghezza d’onda (e quindi dalla frequenza, da Eq.6.4), è
maggiore a basse lunghezze d’onda, cioè nel visibile e ultravioletto
vicino, e mostra alcune bande di stop dovute ad assorbimenti dell’atmosfera terrestre. Notiamo che le energie di questi assorbimenti
corrispondono a ben definite proprietà (transizioni interne elettroniche, vibrazionali, e rotazionali) di specifiche molecole. Ad esempio,
130
la molecola d’acqua è un dipolo, e può quindi interagire con il campo
elettrico della radiazione e assorbirne l’energia convertendola in propria energia interna, e cambiando stato. Può poi ritornare allo stato
originale riemettendo la stessa radiazione (o quasi).
6.6.1
Pressione di radiazione
La trasmissione di energia dell’onda EM a un oggetto produce una
pressione sull’oggetto stesso. Con un semplice ragionamento dimensionale, indicando con S il modulo del vettore di Poynting mediato e
con p la pressione, otteniamo
P
Fv
=
= pv.
A
A
Essendo la velocità pari a c, p è proporzionale a S/c:
S=
Figura 6.8: Tempesta solare vicino a Mercurio (alto); “onda di prua” del campo
magnetico di Mercurio nel vento solare
(basso).
p=a
S
.
c
Il fattore a è pari a 1 se la radiazione viene assorbita, o a 2 se viene riflessa: questo per la conservazione cinematica del momento.
Dunque
prad =
S
c
(assorbimento),
2S
c
(riflessione).
La pressione di radiazione è rilevante prevalentemente in ambito
astrofisico e astronautico. A distanza 1 AU dal Sole (sulla Terra, cioè)
la potenza per unità di area è 1 kW/m2 . La pressione risultante è
piccola,
Figura 6.9: Principio della generazione
di un onda EM per moto oscillante di
carica.
p=
1
kW s
J
2S
N
=2
= 0.6 × 10−5 3 = 6 × 10−6 2 .
8
2
c
3 × 10 m m
m
m
Tuttavia la potenza assorbita o riflessa varia con la distanza dal Sole,
e così fa, dunque, la pressione
p=
Figura 6.10: Ampiezza delle onde EM
irradiate da una carica oscillante lungo l’asse orizzontale. Vedere https:
//goo.gl/iYbl7T e https://goo.
gl/82D46u .
2PS
2S
=
.
c
4πr2 c
Vicino a Mercurio, p è quasi 7 volte quella vicino alla Terra, e su
Giove circa 20 volte minore. L’effetto della pressione di radiazione è
importante su particelle leggere emesse dal Sole o presenti nelle sue
vicinanze, che finiscono col produrre il cosiddetto vento solare. La
pressione di radiazione vicino al Sole gioca un ruolo importante nelle
tempeste solari sui pianeti interni, quali Mercurio (Figura 6.8, in alto),
che si difendono a stento (come la Terra, d’altronde) grazie al proprio
campo magnetico (Figura 6.8, in basso). L’effetto è significativo per
le sonde e le navicelle spaziali; è stato calcolato che le sonde Viking
avrebbero mancato il loro bersaglio (Marte) di oltre 15000 km se si
fosse trascurata la pressione di radiazione (un po’ come una barca a
vela che ignorasse completamente lo scarroccio causato dal vento e
dalle onde non raggiungerebbe la sua destinazione). Esistono inoltre
ricerche volte a costruire delle “vele spaziali” riflettenti che sfruttino
questa pressione.
fisica 2
131
6.6.2 Generazione e rilevazione delle onde EM
Le onde elettromagnetiche sono prodotte da molti fenomeni diversi.
Analizzeremo quelli per noi rilevanti, quali le oscillazioni dei circuiti
AC. In linea di massima, questi processi originano dal moto accelerato
di cariche, per esempio, le oscillazioni di un dipolo o di una carica. In
Figura 6.9, è schematizzato il processo per il campo elettrico -restando
sottointeso che il campo magnetico è pure presente, per le equazioni
dell’induzione.
Una carica, che si trova inizialmente nel centro del cerchio a
sinistra (per cui il suo campo elettrico radiale e isotropo è dato dalle
frecce nere) si muove e raggiunge il centro del cerchio di destra dopo
un tempo t. Il campo elettrico è ora radiale a partire dal nuovo
centro. Questa modifica al campo può propagarsi propagarsi al
più con velocità c. Entro il cerchio di raggio ct il campo è dunque
quello nuovo, ma al di fuori dello stesso cerchio è ancora quello
vecchio: c’è una perturbazione nel campo che si propaga con velocità
c allontanandosi dalla sorgente (la carica in moto).
Figura 6.11: Generatore/ricevitore di
onde EM basato su circuiti oscillanti
RLC.
Dallo schema di Figura 6.9 si vede che l’effetto è massimo in direzione trasversale al moto della carica, e nullo in direzione del moto
della carica stessa. Quando la carica inverte il suo moto la perturbazione si annulla e poi cambia segno. Ne risulta che l’ampiezza del
campo, e quindi l’intensità, ha una forma a lobo circa come in Figura
6.10. Un generatore (che può funzionare anche da ricevitore) di onde
EM è per esempio il circuito in Figura 6.11: si tratta di due circuiti
accoppiati come in un trasformatore. Il secondario, invece del carico
resistivo ha una porzione di conduttore disposto in linea. Benchè sia
formalmente un circuito aperto, il secondario risulta tuttavia avere
una impedenza (detta impedenza di antenna), perchè l’energia ad
esso trasmessa viene emessa sotto forma di onde EM. Il primario
alimenta il secondario a una data frequenza, e nel tratto lineare (“di
antenna") del secondario la carica oscilla avanti e indietro nella porzione terminale, generando onde EM di quella stessa frequenza (notiamo
che la carica si muove nella stessa direzione nel polo superiore e in
quello inferiore dell’antenna).
Reciprocamente, un’onda EM può mettere in oscillazione le cariche nell’antenna, e tramite l’accoppiamento, al circuito primario. (In
Figura 6.12 si vede uno snapshot di una animazione del fenomeno di
ricezione, che chiaramente è anche rappresentativo qualitativamen-
132
Figura 6.12: Onda EM che induce una
oscillazione di carica in una antenna lineare. Vedere il gif animato su http:
//bit.ly/2h1YUow .
te della emissione.) In quel caso, al generatore verrà sostituito un
rivelatore o un carico.
Solo se il circuito primario è in risonanza con la radiazione (cioè se
√
la radiazione ha frequenza ωrad =1/ LC), ai suoi capi viene rivelato
un segnale. Dunque le caratteristiche del circuito primario determinano la sua capacità di emettere o ricevere onde EM di data frequenza.
Questa è eventualmente aggiustabile modificando per esempio la
√
capacità; se siamo sintonizzati sulla frequenza ω=1/ LC e vogliamo risintonizzarci su una nuova frequenza ω 0 , dovremo cambiare la
capacità da C a
ω2
C 0 = C 02 ,
ω
processo noto come modulazione di frequenza (vedere https://
goo.gl/p0KAsy, https://goo.gl/MHf1hE). Il segnale ricevuto
trasporta della potenza, che può essere sufficiente a caricare –il cosidetto radio charging– piccole batterie in piccoli dispositivi (apparecchi
acustici, certi orologi, ...). Molto più comune l’inductive charging di
cui si è detto in connessione al trasformatore.
6.7 Forza magnetica : forza elettrica + relatività
6.7.1
Trasformazioni di Lorentz
Abbiamo accennato che le forze magnetiche sono in realtà forze elettriche tra cariche in moto: per capire il fenomeno, serve familiarizzarsi
un po’ con la relatività ristretta. La teoria della relatività studia quel
che succede trasformando la descrizione di un fenomeno da un sistema di coordinate ad un altro in moto relativo uniforme con velocità
u rispetto al primo. Questi sistemi si chiamano inerziali. In generale,
le leggi della fisica non dovrebbero cambiare, e quindi una specifica
equazione che descriva certi fenomeni deve rimanere invariata, passando da un sistema di riferimento inerziale ad un altro. In effetti il
primo postulato della relatività è che
le leggi fisiche sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali.
Le trasformazioni di coordinate possono essere di diverso tipo. Le più
semplici e usate (correttamente, in molti casi) sono quelle galileiane.
Ad esempio, le trasformazioni galileiane da un sistema inerziale F a
un altro F 0 in moto rispetto a F con velocità u nella direzione x sono
F ⇒ F0 :
x 0 = x − ut, t0 = t
(6.8)
e ovviamente y=y0 , z=z0 . Queste trasformazioni lasciano invariate le
leggi di Newton e quindi tutti i fenomeni meccanici. L’equazione
delle onde (che abbiamo visto essere una implicazione delle equazioni
di Maxwell, ma che si presenta anche in altri in contesti) non è così
gentile. Lo spostamento dall’equilibrio di una corda percorsa da
un’onda obbedirà l’equazione d’onda
∂2 y
1 ∂2 y
= 2 2,
2
∂x
v ∂t
fisica 2
con v la velocità dell’onda nel sistema di riferimento della corda a
riposo. L’equazione nel sistema di riferimento in moto con velocità
u, però, non è del tipo appena visto. Per evitare calcoli complicati, ci
basta calcolare (applicando la trasformazione Eq.6.8 e la regola della
differenziazione in catena delle derivate parziali) la derivata prima di
y rispetto a t
∂y
∂y
∂y ∂x 0
∂y ∂t0
∂y
= 0
+ 0
= 0 (−u) + 0 ,
∂t
∂x ∂t
∂t ∂t
∂x
∂t
dove compare una dipendenza da u, e quindi l’equazione d’onda
trasformata non può rimanere della forma originale (non è invariante
per trasformazioni galileiane). Infatti, solo per informazione, l’equazione d’onda (unidimensionale e per velocità costante del sistema di
riferimento) nel sistema trasformato è
(1 −
1 ∂2 y
2u ∂2 y
u2 ∂2 y
)
−
+
.
v2 ∂2 x 0
v2 ∂t02
v2 ∂t0 ∂x 0
Tuttavia, le proprietà delle onde elettromagnetiche non mostrano
nessuna dipendenza dalla velocità relativa dei sistemi di riferimento,
e in particolare la loro velocità è sempre costante. Ne segue che per
le onde EM le trasformazioni galileiane non possono essere corrette,
e devono essere rimpiazzate. Risulta infatti che l’equazione d’onda
per i campi elettromagnetici, così come le equazioni di Maxwell, e
quindi tutta la teoria dell’elettromagnetismo, è invariante rispetto alle
trasformazioni di Lorentz :
F ⇒ F0 :
x0 = p
x − ut
1 − (u/c)2
≡ γ( x − ut),
t − ux/c2
t0 = p
,
1 − (u/c)2
scritte qui per un moto a velocità u lungo la direzione x. Queste
trasformazioni erano note prima di Einstein, che però introdusse un
altro postulato:
la velocità della luce è finita.
La prima, e forse la principale, delle conseguenze è che la velocità
dell’onda nel sistema trasformato è
w=
v−u
,
1 − uv/c2
e dunque se v=c, anche w=c:
la luce è un’onda che viaggia a velocità c in qualunque sistema inerziale.
Notiamo che se c→∞, cioè se la luce non avesse velocità finita, si
ritroverebbero le trasformazioni galileiane; dunque, queste ultime
valgono (approssimativamente) nel limite di velocità relativa u piccola
rispetto a c. Tra le conseguenze più note delle trasformazioni di
Lorentz da un sistema F=(x,t) a uno F 0 =(x 0 ,t0 ) ci sono
• la dilatazione dei tempi: se un orologio a riposo e uno in moto
misurano nello stesso punto (δx=0) un intervallo di tempo, si ha
δt0 =γδt, cioè l’intervallo è più lungo nel sistema in moto, essendo
γ>1;
133
134
• la relatività degli eventi simultanei: se due eventi avvengono allo
stesso tempo (δt=0) in punti x diversi (a distanza δx) nel sistema a
riposo F, nel sistema in moto F 0 si ha δt0 =–γ v δx/c2 , cioè gli eventi
non sono simultanei per l’osservatore in F 0 ;
• la contrazione delle lunghezze: una sbarra di lunghezza δx a riposo
in F risulta muoversi con velocità −v in F 0 . Poichè la sua lunghezza
deve essere misurata in F 0 con misure simultanee (δt0 =0) della
posizione delle due estremità, dalle relazioni di Lorentz risulta che
che δx 0 =δx/γ, cioè la lunghezza della sbarra è minore in F 0 .
La contrazione delle lunghezze è rilevante proprio nel caso del magnetismo. Ultimo elemento essenziale, anch’esso significativo per noi,
è che la carica elettrica è un invariante relativistico, cioè non varia per
trasformazioni tra sistemi inerziali.
6.7.2
Deduzione della forza magnetica da elettrostatica e relatività
Vogliamo mostrare che, assunta la validità delle trasformazioni di
Lorentz tra sistemi inerziali e la costanza della velocità della luce
(cioè la relatività ristretta), l’esistenza dell’interazione di Coulomb
implica necessariamente l’esistenza di forze magnetiche. Notiamo
preliminarmente tre cose:
1. in un filo metallico di sezione A dove i portatori di carica hanno
densità numerica di volume n, velocità v, e carica e, la corrente,
come si è visto in precedenza, è I = envA;
2. siccome il moto avviene lungo l’asse della sbarra per ipotesi, la
contrazione relativistica riguarda solo le lunghezze in quella direzione e non nelle direzioni ortogonali; la densità lineare di carica
sulla sbarra di area sezionale A è quindi λ = enA;
3. se una sbarra di lunghezza L carica con una certa densità di carica
(a riposo) n0 si muove con velocità v, si accorcerà come previsto
dalla relatività e un osservatore a riposo vedrà sulla sbarra in moto
una densità aumentata n = γn0 .
Ciò posto, consideriamo una linea di carica positiva e una linea di
carica negativa sovrapposte (un modello di un filo metallico che
contiene ioni positivi ed elettroni negativi). Le densità positiva e
negativa nel sistema F a riposo siano n0+ e n0− . Supponiamo che la
linea positiva scorra a velocità v rispetto alla negativa, che è invece a
riposo (anche se, di solito, sono gli elettroni ad essere mobili, questa
scelta semplifica la trattazione). C’è una corrente dovuta al moto di
carica positiva verso destra pari a
I = n+ vAe.
Siccome il filo è neutro, le densità positiva e negativa a riposo non
possono essere uguali. Se lo fossero, la contrazione relativistica della
lunghezza dovuta al moto produrrebbe un eccesso di densità di carica
positiva (punto 2 qui sopra, e γ>1). Per conservare la neutralità, le
densità devono essere legate da
n0− = γn0+ ,
neutralità
(6.9)
0
che controbilancia l’effetto della contrazione. (Parliamo di densità e
non di cariche: la carica è un invariante relativistico e non cambia
con il moto inerziale). Se ora poniamo una carica positiva a riposo
vicino al filo, non osserviamo nessun effetto, dato che le densità si
compensano per costruzione. Cosa succede invece se la particella
si muove con velocità v ? (Scegliamo v uguale a quella della sbarra
per semplicità, ma il risultato rimane vero in generale.) Dato che le
leggi della fisica devono restare le stesse in ogni sistema inerziale,
posso scegliere di mettermi nel sistema di riferimento in moto con
la particella. In questo sistema di riferimento, la densità positiva è
a riposo ed è quindi uguale a n0+ . Ora però la densità negativa è
aumentata:
n− = γn0− = γ2 n0+ ;
la seconda eguaglianza viene da Eq.(6.9) ed è dovuta alla neutralità.
Perciò il filo appare ora avere una densità netta negativa
nnetta = −n− + n0+ = −n0+ (γ2 − 1).
Espandendo γ2 in potenze di v/c, si ha
γ2 n0+ = p
n0+
1 − (v/c)2
' n0+ (1 +
v2
+ . . . ).
c2
Dunque
n0+ v2
v2
+
·
·
·
−
1
)
=
−
,
c2
c2
il che significa che, nel sistema di riferimento della particella, il filo
è carico negativamente per effetto relativistico (ovvero, la densità
sarebbe zero se c fosse infinita). La particella è quindi attratta verso il
filo, in direzione trasversale alla sua velocità. Quanto vale la forza di
attrazione ? Il campo elettrico di un filo carico è, contando la distanza
r a partire dal filo,
λ
E=
.
2πε 0 r
La densità di carica è
nnetta = −n0+ (1 +
λ = ennetta A = −eA
n0+ v2
c2
quindi la forza, attrattiva verso il filo, è
F = eE = −e2 A
n0+ v2 1
ev
µ I
= −eAn0+ v
= −ev 0 = −evB,
2
2
2πε
r
2πr
c
2πc ε 0 r
0
dove abbiamo riconosciuto il modulo del campo magnetico del filo
indefinito. Questa chiaramente è la forza magnetica di Lorentz che
abbiamo incontrato in precedenza. Questa forza dev’essere la stessa
in tutti i sistemi di riferimento inerziali, e in particolare nel sistema
del laboratorio dove la particella ha velocità v. Notiamo che a rigore
nell’ultima equazione avremmo dovuto usare n+ invece di n0+ . Questo
non è grave, dato che
n+ = γn0+ ∼ n0+
v2
c2
e quindi il primo termine trascurato è dell’ordine (v/c)4 .
7. Ottica
7.1 Onde e fronti d’onda
7.2 Onde stazionarie. Cavità e guide d’onda
7.3 Riflessione, rifrazione, dispersione: binocoli, tramonti, arcobaleni
Velocità della luce nella materia.
Riflessione e rifrazione.
Dispersione cromatica.
Riflessione totale, angolo limite e applicazioni.
7.4 Polarizzazione
Polarizzazione lineare e legge di Malus.
Polarizzazione per riflessione e legge di Brewster.
7.5 Interferenza: qui sì, qui no
7.6 Diffrazione
Aperture e telescopi
Raggi X: MQ
8. Bibliografia
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