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Il declino della schiavitù come modo di produzione nell'Europa medievale

Piero Bertoli
IL DECLINO DELLA SCHIAVITÙ
COME MODO DI PRODUZIONE NELL’EUROPA MEDIEVALE
“La schiavitù come modo di produzione si avviò pertanto a scomparire, nelle regioni europee più
evolute, […] perché il lavoro degli schiavi non era così produttivo come lo era quello di esseri
umani cointeressati ai risultati della propria attività. […] All’avvio della fase espansiva, dapprima si
verificarono numerosi affrancamenti; contemporaneamente si ebbe il passaggio dei servi a migliori
condizioni di vita e di lavoro […] e in seguito si sviluppò la tendenza verso un ulteriore aumento
della loro autonomia produttiva e la diffusione del sistema dell’affittanza dei suoli. La spinta verso
la libertà fu quindi inarrestabile, e lo fu perché era conveniente: la libertà coinvolgeva chi lavorava
la terra nei risultati della produzione e lo spingeva a essere più efficiente”. 1
A. Cortonesi e L. Palermo motivano in termini prettamente economici il graduale
abbandono del sistema schiavistico nell’agricoltura europea: si sarebbe trattato di un
sistema inefficiente e dunque destinato ad essere superato in favore di una maggiore
produttività. In quest’ottica, la libertà acquisita dai lavoratori viene a corrispondere ad un
miglioramento nell’organizzazione della produzione. Tale lettura, desunta dalla tradizione
storiografica sviluppatasi intorno ad una tesi originale di Marc Bloch, si inserisce
perfettamente nella prospettiva che permea il volumetto qui considerato. I due autori,
infatti, leggono le trasformazioni sociali dell’Europa medievale, alla luce dell’espansione
economica bassomedievale e dell’egemonia tecnologica e politica a cui gli Stati del nostro
continente sarebbero poi giunti in età moderna.
Questa analisi “a posteriori”, seppur ben fondata, merita di essere approfondita dal
punto di vista storiografico, ripercorrendo le tappe della nascita e dello sviluppo degli studi
in questo campo. Un simile approfondimento consentirà di specificare quali siano gli
elementi fattuali dai quali è sorta l’ipotesi di una spiegazione economica per la scomparsa
della schiavitù di tipo antico nel corso del Medioevo. Permetterà inoltre di rilevare quali
ulteriori ipotesi, complementari o alternative a quella del lineare sviluppo della produttività
economica, siano state avanzate dagli storici nella seconda metà del ‘900.
1
A. CORTONESI, L. PALERMO, La prima espansione economica europea, Carocci, Roma 2009.
1. IL LAVORO PIONIERISTICO DI MARC BLOCH
Marc Bloch ha posto le basi della ricerca sulla fine della schiavitù antica in epoca
medievale, dedicando a questo tema numerosi studi. In particolare, con l’articolo
pubblicato postumo “Comment et pourquoi finit l’esclavage antique” 2, ha formulato due
domande destinate a provocare numerosi tentativi di risposta nei decenni successivi. I
suoi interventi sono sempre volti a stimolare ulteriori approfondimenti, non cedendo mai
all’ambizione di una sintesi globale e definitiva. Ciò non gli impedisce di esporre con
chiarezza le sue ipotesi, elaborate a partire da una attenta analisi dei dati di fatto.
La sua elaborazione prende avvio da un’inquadratura amplissima, che include e
confronta le società antiche e l’Europa moderna. La società romana infatti, così come
quella greca e quelle germaniche, sono inconcepibili senza il lavoro schiavile: esso fu una
componente fondante di queste civiltà, senza il quale non si può immaginarne l’esistenza,
né tanto meno i momenti di maggior evoluzione sociale, culturale e politica. L’Europa
moderna, al contrario, ignora la schiavitù sul proprio suolo e non ne fa un elemento
costituente della sua struttura socio-economica. Cosa è successo nel frattempo? Cosa ha
determinato questa trasformazione in epoca medievale?
Il primo punto fermo posto dallo storico francese riguarda la non-coincidenza tra
fine dell’età antica e fine della schiavitù antica 3. La fine dell’Impero Romano d’Occidente e
l’epoca delle invasioni barbariche, lungi dal contribuire al declino del sistema schiavile,
costituirono invece un periodo di massima disponibilità e impiego di schiavi, causati dalle
guerre continue, dal disordine sociale e dalla crescente miseria. Le fonti della schiavitù
antica, infatti, erano sempre state la guerra e la povertà (che favoriva l’autoriduzione in
schiavitù e la vendita dei figli), ma la pax romana del I e II secolo d.C. aveva frenato
l’attività bellica interna all’Impero e arginato la miseria delle popolazioni ad esso soggette,
provocando indirettamente la diminuzione del numero di schiavi disponibili sul mercato e
dunque, al permanere di una forte domanda di lavoro schiavile, aveva determinato un
aumento dei prezzi di questa “merce”. Al contrario, con la fine dell’età antica, assistiamo
ad un nuovo e forse inedito vigore dello schiavismo, che si prolungherà almeno fino
all’inizio dell’epoca carolingia. Ciò nonostante, secondo Bloch, vi è comunque un filo rosso
che collega la caduta dell’Impero con la lenta fine del sistema schiavile. Si tratta di un
rapporto causale indiretto, legato soprattutto al disgregamento del sistema economico che
si reggeva sul possente apparato statale romano: eccolo presentato in estrema sintesi 4.
2
3
4
M. BLOCH, Comment et pourquoi finit l’esclavage antique, in “Annales. Économies, Sociétés, Civilisations”, 2e
année, N. 1, 1947, pp. 30 - 44.
Ivi, pp. 31 - 32.
Ivi, pp. 32 - 34.
A partire dalla fine del III secolo assistiamo al declino della grande impresa
imperiale, artigianale5 e agricola, che tradizionalmente godeva della forza repressiva e
degli sbocchi commerciali adeguati all’impiego di grandi masse di schiavi. Lo
sfilacciamento del circuito commerciale mediterraneo provoca un forte ridimensionamento
dei traffici, e il sistema economico inizia a ricostituirsi su scala molto più ristretta, locale e
rurale. In assenza delle grandi imprese imperiali, la piccola impresa non ha concorrenti
che ostacolino la sua affermazione. I latifondi romani si parcellizzano in appezzamenti più
piccoli. Si tratta di processi plurisecolari, ricostruiti da Bloch per via in parte ipotetica, atta a
fornire una spiegazione di quanto avverrà in seguito. Secondo l’autore, queste nuove
condizioni delineano la figura di un padrone meno potente a livello economico, privo di un
mercato ampio che possa giustificare l’investimento in economie di scala, messo in
difficoltà dai costi eccessivi del mantenimento dei suoi schiavi, dalla spesa necessaria a
sostituire quelli morti, dalla scarsa produttività di manodopera non-libera ed esclusa dai
frutti del lavoro. È questo il contesto in cui diventa possibile il processo di progressiva
emancipazione degli schiavi che porta, secondo Bloch, ad una loro drastica riduzione
entro il IX secolo.
Come avviene questa emancipazione? Ritorniamo al padrone appena raffigurato. A
fronte di un sistema oneroso e inefficiente, egli individua la possibilità di ridurre i costi di
gestione e di aumentare la produttività: assegnare allo schiavo un lotto di terra (su cui
deve rimanere e dal quale deve trarre il proprio sostentamento). Stabilizzando lo schiavo
su un appezzamento di proprietà del padrone, permettendogli di costruirsi una famiglia e
una casa e di beneficiare di una parte di ciò che produce, si riducono considerevolmente
le spese e si ottiene una resa superiore. Il servo casato così costituito, spinto dalla fame o
dall’ambizione ad aumentare la produttività del suo lavoro, resta comunque un servus,
obbligato a prestare le dovute corvées nei periodi di maggiore necessità di manodopera e
considerato ancora proprietà (immobile) ereditaria del padrone. D’altro canto, lo schiavo
che versa al padrone solo una parte di ciò che produce, che gli dà solo una parte del
proprio tempo, che organizza il suo lavoro e la sua famiglia in relativa autonomia e che, se
capace e fortunato, può migliorare la sua dieta e le sue condizioni materiali, tende a
somigliare molto più di prima ad un contadino libero, seppur povero: è ormai presa la
piega che condurrà ad una sua progressiva liberazione 6.
Liberazione, però, spesso non significa fine dell’assoggettamento ad un signore. Se
è vero che Bloch individua, al fianco di un progressivo miglioramento delle condizioni di
5
6
M. MCCORMICK, Le origini dell’economia europea, comunicazioni e commerci, 300-900 d.C., Vita e Pensiero,
Milano 2008, pp. 51 – 75.
Ivi, pp. 34 – 37.
vita degli schiavi, anche una decisa riduzione del loro numero nel corso del IX secolo,
deducendo che molti discendenti di schiavi devono aver trovato il modo di divenire liberi,
l’autore francese sostiene anche che nella maggior parte dei casi l’affrancamento venisse
concesso cum obsequio, cioè mantenendo forti legami di dipendenza. Obbligo di
obbedienza ereditaria al proprio “protettore”, versamento di una imposta annuale fissa,
versamento di imposte occasionali legate alle morti e ai matrimoni: più che una reale
liberazione, l’affrancamento si sarebbe configurato come una trasformazione delle
modalità di sfruttamento, ovvero il loro adeguamento ad una società in cui si guadagnava
maggior prestigio dominando uomini liberi, piuttosto che schiavi.
Un tema ulteriore, posto dal fondatore delle Annales, riguarda la possibile influenza
della religione cristiana nel processo di emancipazione schiavile 7. Bloch rileva innanzitutto
che la Chiesa, anche attraverso le voci autorevolissime di alcuni Padri, quali Agostino e
Isidoro di Siviglia, ha sempre legittimato ideologicamente l’esistenza della schiavitù, in
quanto patimento inflitto all’umanità in conseguenza del peccato originale. Su un piano più
concreto, la Chiesa impediva agli schiavi di accedere al sacerdozio e agli ordini monastici.
Sopra a tutto questo, si impone per evidenza il fatto che la Chiesa possedesse un
grandissimo numero di schiavi e ne vietasse la liberazione in quanto patrimonio di Dio. A
ciò si aggiunge la scarsa efficacia di provvedimenti quali il divieto di vendita di schiavi
cristiani a padroni islamici. Non va però sottovalutata, secondo l’autore, l’influenza del
messaggio evangelico nel modificare la considerazione di sé degli schiavi stessi, descritti
dal Vangelo e da San Paolo come fratelli ed eguali dei liberi di fronte a Cristo. Inoltre la
Chiesa suggeriva la liberazione dei servi (altrui), come atto infinitamente raccomandabile,
e non è escluso che si possano essere verificati numerosi affrancamenti legati a reali
scelte di coscienza da parte dei padroni (come d’altronde succedeva anche nel mondo
romano).
7
Ivi, pp. 37 – 41.
2. LA STORIOGRAFIA FRANCESE FINO A PIERRE BONNASSIE
Con l’articolo “Survie et extinction du régime esclavagiste dans l’Occident du haut Moyen
Âge”8, nel 1985 Pierre Bonnassie faceva il punto delle ipotesi sviluppate fino a quel
momento, a partire dalle due domande poste da Bloch: come e perché finì la schiavitù
antica?
Per prima cosa, Bonnassie ripercorre le tesi sostenute da Bloch 9. L’arrivo delle
popolazioni germaniche ha determinato una recrudescenza del commercio di schiavi e del
loro impiego, ma in epoca carolingia lo schiavismo non ha più, nelle società europee, un
peso paragonabile al precedente. Le trasformazioni che evidentemente devono essere
intercorse nel tempo compreso fra queste due epoche, e cioè fra il IV e il IX secolo, sono
causate da tre ordini di fattori: religiosi, militari ed economici. Infatti Bloch, come abbiamo
visto, riteneva che il declino della schiavitù, oltre ai fattori di ordine economico, avesse
anche cause religiose (seppur incoerenti e contrastanti) e militari (la diminuzione degli
scontri militari avrebbe ridotto la disponibilità di schiavi, facendone alzare il prezzo oltre la
soglia della convenienza). Secondo Bonnassie, le risposte che Bloch avrebbe dato alle
sue stesse domande sono dunque queste:
- Perché finì la schiavitù antica? Perché molti padroni scelsero di liberare i propri schiavi,
giudicando troppo costoso il mantenimento di una manodopera poco efficiente nel nuovo
contesto economico;
- Come finì la schiavitù antica? Lasciando spazio a una nuova classe di dipendenti – i
servi – il cui status era stato prefigurato da quello dei colliberti, ovvero gli affrancati cum
obsequio.
Bonnassie prosegue prendendo in esame le posizioni di Charles Verlinden 10,
George Duby11, Robert Fossier12, Charles Parain13 e Pierre Dockès14, ricavandone nel
complesso la perdita di rilevanza dei fattori religiosi e militari. Al contrario, la spiegazione di
carattere economico si arricchisce di nuove considerazioni, quali per esempio la
constatazione di una forte domanda di schiavi da parte del mondo musulmano, che
potrebbe aver reso conveniente l’esportazione di questo bene. È da notare, però, che il
moltiplicarsi di spiegazioni economiche in contraddizione fra loro ci porta ad una situazione
di stallo. Se Duby e Fossier, in forte continuità con Bloch, legano il declino della schiavitù
8
9
10
11
12
13
14
P. BONNASSIE, Survie et extinction du régime esclavagiste dans l’Occident du haut moyen âge (Ive-Xie s.), in
“Cahiers de civilisation médiévale”, 28e année, N. 112, 1985, pp. 307-343.
Ivi, pp. 308 – 309.
C. VERLINDEN, L’esclavage dans l’Europe médiévale, vol.2, Gand 1955/77.
G. DUBY, Guerriers et paysans, Parigi 1973.
R. FOSSIER, Histoire sociale de l’Occident médiéval, Parigi 1970.
C. PARAIN, De l’Antiquité esclavagiste au féodalisme, in “Quel avenir attend l’homme?”, Parigi 1961.
P. DOCKÈS, Révoltes bagaudes et ensauvagement, in “Sauvages et ensauvagés”, Lione 1980.
alla necessità di abbattere i costi di produzione in una fase di recessione economica,
Dockès critica l’assunto che lo schiavismo sia un sistema di produzione eccessivamente
costoso e propone invece di attribuire questa conquista sociale agli schiavi stessi, che
l’avrebbero ottenuta attraverso “lotte di classe” nella forma di rivolte servili, da immaginare
in un contesto di sviluppo delle forme produttive. Anche Parain, attribuendo una forte
rilevanza alle innovazioni tecnologiche, che avrebbero eliminato l’esigenza di lavoro
umano per le mansioni maggiormente alienanti, inscrive la fine del sistema schiavile in un
contesto di forte crescita economica, difficilmente conciliabile con l’analisi proposta da
Bloch.
Vi sono posizioni differenti anche per quanto riguarda il rapporto di continuità o
discontinuità fra esclavage e servage. Se Verlinden li tratta come fossero fenomeni in forte
continuità, tanto da non necessitare di una chiara distinzione, il Bloch aveva invece
argomentato a favore di una netta distinzione fra i due fenomeni. Duby propone invece
una mediazione fra le ipotesi di continuità e discontinuità: solo una parte dei non-liberi di
epoca feudale sono i discendenti dei servi altomedievali, gli altri sono ex contadini liberi
sottomessi dalle nuove signorie bannali. Infine, gli storici francesi discordano anche nella
proposta di indicazioni temporali di riferimento: se Bloch proponeva di collocare la fine
sostanziale del sistema schiavistico nel IX secolo, gli storici marxisti cercano di collocare
tale trasformazione all’epoca delle invasioni barbariche. Duby propone invece l’XI secolo
come fine effettiva del fenomeno. Bonnassie ne conclude che non sia esistita una sola fine
dello schiavismo, ma sia più opportuno parlare di molteplici battute d’arresto del
fenomeno, che hanno gradualmente e non linearmente portato al suo spegnimento.
La seconda sezione del saggio consiste nella ricostruzione della figura dello schiavo
nell’Europa barbarica del VI-VIII secolo 15. Le leggi visigote, bavare, saliche e carolinge
condividono numerosi riferimenti a servi e ancille, che vengono equiparati senza mezzi
termini alle bestie da soma. Essi sono normalmente oggetto di vendita, tanto che possono
divenire anche unità di conto per gli scambi commerciali; sono stabilite tariffe di
risarcimento per il loro furto. In base alla ricostruzione di Bonnassie, lo schiavo di questi
secoli non può esercitare la proprietà di alcun bene, né la potestà sui figli. Gli è fatto
divieto di unirsi a donne libere e in generale non ha la possibilità di sposarsi. È oggetto del
più assoluto arbitrio del padrone, che può disporne e infliggergli punizioni corporali atroci,
che vanno dalle percosse, alla mutilazione, alla morte. Ne emerge il ritratto di un essere
15 P. BONNASSIE, op. cit., pp. 316 – 322.
desocializzato, espropriato della possibilità di produrre per sé e di riprodursi diversamente
dalle bestie. Agli occhi dei liberi, non appartiene ad un’altra classe, ma ad un’altra razza.
Tornando a considerare il fattore religioso 16, Bonnassie esclude che la Chiesa abbia
intenzionalmente combattuto la schiavitù. L’ha invece giustificata a livello ideologico e
praticata abbondantemente, tanto da risultare il più grande possessore di schiavi
dell’Europa medievale.
Bloch aveva poi ipotizzato l’esistenza di una progressiva difficoltà nel reclutamento
degli schiavi, ma Bonnassie smentisce anche questa possibilità esplicativa: dal V all’VIII
secolo l’Inghilterra e la Gallia sono teatri di continue cacce all’uomo, più che sufficienti a
rifornire i mercati degli schiavi. Le guerre di Carlo Magno rinforzano l’afflusso di schiavi
dalle regioni di confine. Anche quando le guerre divengono meno frequenti, il ricambio di
schiavi viene garantito dall’asservimento per debiti, dall’auto-asservimento dovuto
all’esigenza di non morire di fame, dalla vendita dei bambini, dal ricorso all’asservimento in
sostituzione della pena di morte o di pene pecuniarie insolute. Tuttavia, pur negando la
rilevanza di questo fattore, Bonnassie constata che, quando il reclutamento si localizza, la
manodopera schiavile tende a mantenere connotati sociali e culturali simili a quelli della
popolazione libera, rendendo assai più facile la progressiva integrazione fra schiavi e liberi
poveri, destinata ad essere riconosciuta dalla legge solo dopo essersi affermata sul piano
effettuale (si pensi ai matrimoni misti).
Nella quinta sezione del suo saggio, Bonnassie fa chiarezza rispetto alle ipotesi di
crescita o recessione dell’economia europea altomedievale 17. Se sembra indiscutibile che
la fine dell’Impero romano abbia provocato una forte contrazione degli scambi
commerciali, ciò non significa che anche la produzione agricola abbia subito un tracollo. Al
contrario, l’economia rurale cresce già dal VII secolo in Gallia e in Germania, dall’VIII
secolo anche in Italia. Al netto di ricadute e rallentamenti regionali e momentanei, si può
affermare che la schiavitù declina e scompare in una fase di sviluppo economico,
contrariamente a quanto ipotizzato da Bloch. Vanno tuttavia esaminati i caratteri di questa
espansione
che,
non
basandosi
sull’aumento
della
produttività,
ma
piuttosto
sull’estensione delle superfici coltivate, risultava particolarmente inadatta ad essere
affrontata dai grandi domini schiavili. La messa a coltura di nuovi appezzamenti richiedeva
grande mobilità della manodopera e libertà di iniziativa nel risolvere problemi nuovi. Si
verificò quindi la frammentazione dei domini e un estremo dinamismo della micro-proprietà
paesana, diffondendosi anche la pratica dell’accasamento prima e dell’affrancamento poi
(VIII-X secolo).
16 Ivi, pp. 322 – 326.
17 Ivi, pp. 329 – 335.
Fra il IX e l’XI secolo, anche l’introduzione di nuove tecnologie, quali il mulino ad
acqua, il giogo frontale e il collare a spalla, dovettero favorire la liberazione dalle fatiche
più prolungate e fisicamente provanti. Da questo però, non va tratta l’idea che i progressi
tecnologici abbiano comportato in automatico le trasformazioni sociali di cui ci stiamo
occupando. La libertà, infatti, è sempre una conquista. Bonnassie attribuisce all’analisi di
Pierre Dockès, pur viziata da pesanti imprecisioni cronologiche, il merito di aver
evidenziato che, per mantenere in vita un sistema schiavistico, fu sempre necessaria la
presenza di un efficiente apparato repressivo statale, capace di contenere la costante
pressione esercitata dagli schiavi per ottenere la libertà. Tale pressione poté, a volte,
esplodere in rivolte aperte, come nel caso delle guerre bagaudiche del III e del V secolo, o
la sollevazione degli schiavi delle Asturie nel 770. Più spesso, la lotta per la libertà
assunse forme meno vistose, quali la disobbedienza al padrone, il suo assassinio da parte
di un singolo, la fuga individuale o la costituzione di piccole bande di ribelli.
Bonnassie ritiene che solo all’altezza dell’XI secolo si sia verificata una
convergenza di fattori sufficiente a provocare il crollo definitivo del sistema schiavistico, già
prostrato da una plurisecolare successione di contraccolpi 18. Nello specifico, l’ormai
completa cristianizzazione delle campagne, la diffusione delle tecnologie di cui si è parlato
in precedenza e la mobilità della manodopera legata all’estensione delle superfici coltivate,
avrebbero amplificato la capacità di pressione esercitata dagli schiavi stessi, che fra la fine
del primo millennio e l’inizio del secondo sarebbero giunti a mettere in discussione la
nozione stessa di schiavitù, spesso favoriti dal contemporaneo collasso di importanti
apparati statali. Alla fine della schiavitù sarebbe seguito, nell’Europa meridionale, un breve
periodo di assestamento prima dell’avvento della signoria bannale. Nel Nord Europa,
invece, l’inizio della società feudale – seppur in discontinuità con le trasformazioni sociali
di fine millennio – sarebbe giunto senza iati temporali.
18 Ivi, p. 340.
3. GLI STUDI ITALIANI DI FRANCESCO PANERO
Nel corso del suo saggio, Bonnassie manifesta la necessità di appoggiarsi a studi di
carattere regionale, lasciandosi interrogare dalle problematiche che da essi possono
sorgere e cercando di inserirne i risultati in un quadro generale. In questa direzione si
colloca il lavoro di ricerca di F. Panero 19.
Lo storico italiano si propone di indagare in modo specifico l’entità e le forme della
dipendenza servile nell’Italia centro-settentrionale dell’Alto Medioevo, con forte attenzione
alle realtà regionali e locali, ma senza trascurare il confronto con la storiografia francese. Il
taglio della sua ricerca conferisce forte rilievo alle varietà geografiche, cronologiche e
terminologiche delle attestazioni in suo possesso. L’autore ci restituisce, con scrupolosa
aderenza alle fonti (diplomi regi e imperiali, placiti, polittici, atti privati e carte di
manumissione), il variegato mondo della subordinazione contadina dei secoli VIII e IX e le
sue trasformazioni dei secoli successivi.
3.1 La servitù altomedievale italiana
La storiografia francese fin qui presa in esame, pur nella sua varietà, ruota tutta intorno
all’opposizione fra schiavitù antica e servaggio di tipo nuovo. Diversamente, nella
riflessione italiana di Francesco Panero è centrale la nozione di “servitù” 20. Questa
categoria storiografica, che definisce una condizione di dipendenza connotata in
particolare dall’ereditarietà del vincolo di subordinazione, si affianca ai concetti di
esclavage e servage fin quasi ad oscurarne l’efficacia esplicativa, almeno per quanto
riguarda la situazione italiana settentrionale. Vi sarebbe, secondo Panero, una sostanziale
continuità tra la sottomissione non-libera dei secoli X-XI e le trasformazioni alla condizione
dei servi in atto fin dalla tarda età longobarda. La definizione relativamente chiara di che
cosa sia un servo costituisce il punto fermo intorno al quale l’autore ricostruisce – senza
semplificazioni, né generalizzazioni – il movimento plurisecolare di trasformazione dei
rapporti di dipendenza nelle campagne italiane centro-settentrionali. L’analisi di questo
studioso, infatti, senza dubbio evidenzia e valorizza gli indizi indicanti la lenta continuità
nel processo di emancipazione servile: pur dando conto di ricadute notevoli (si pensi alla
reintroduzione del concetto giuridico di colono-ascrittizio), si rinuncia del tutto ad
individuare un periodo o addirittura una data di “fine della schiavitù”.
Se già Bonnassie, al termine della sua sintesi, era arrivato ad accettare la grande
varietà di motivazioni, tempistiche e modalità che portarono alla scomparsa della schiavitù
19 F. PANERO, Schiavi servi e villani nell’Italia medievale, Paravia, Torino 1999.
20 Ivi, p. 23.
rurale europea, Panero arricchisce il quadro esplicativo con differenziazioni geografiche e
lessicali, dando rilievo – per ciascun territorio considerato – ad un complesso e articolato
intreccio di condizioni politiche, sociali, giuridiche e culturali. Questo procedimento lo
porta, in un certo senso, a dissolvere la tensione verso la possibilità di una risposta
univoca alle celebri questioni poste da Bloch: non ci sono un modo e un motivo per cui
l’Europa, alle soglie dell’età moderna, si trovò sostanzialmente priva di schiavi all’interno
delle sue popolazioni contadine; si tratta, invece, di ricostruire le fitta rete di eventi e
processi che condusse complessivamente a quel quadro socio-economico. Nel contempo,
l’analisi di Panero, fra quelle considerate in questo breve scritto, è quella che con più
pregnanza smentisce l’ipotesi di una spiegazione puramente economica del fenomeno
(pur riservando una marcata rilevanza al fenomeno dell’accasamento dei servi, finalizzato
ad aumentarne la produttività).
3.2 Schiavi antichi o servi altomedievali?
Perché, secondo Panero, non si può parlare di schiavitù di tipo antico per i rapporti di
dipendenza non-libera nell’Italia tardolongobarda e carolingia?
Bonnassie rilevava la presenza di termini come servus e ancilla in un gran numero
di articoli di leggi barbariche del VI, VII, e VIII secolo (fino anche all’inizio del IX) 21.
Associando questo dato all’equiparazione fra servi e animali, attestata in documenti
giuridici e commerciali coevi, lo storico francese immaginava una condizione bestiale – e
dunque del tutto affine a quella dello schiavo antico – per i dipendenti non-liberi di quei
secoli. Con uno sguardo rivolto soprattutto al settentrione del nostro continente e alle
attestazioni, negli atti reali, di termini denotanti stati servili, deduceva la rilevante presenza
di questa figura subumana – lo schiavo – in tutta l’Europa occidentale fino alla fine del I
millennio (seppur in forte declino nel corso del X secolo).
Panero, concentrandosi sulla situazione italiana, dipinge un quadro piuttosto
diverso. Pur riconoscendo anch’egli una diminuzione della popolazione servile all’inizio del
II millennio, ritiene che si possano individuare significativi mutamenti nello status del nonlibero già a partire dal VII secolo 22. Le leggi tardolongobarde riconoscono e difendono il
matrimonio cristiano fra servi, puniscono lo stupro di ancillae sposate, consentono il
matrimonio misto (con degradamento dell’intera famiglia allo stato servile), riconoscono al
servo accasato su un manso il possesso di un patrimonio mobiliare con diritto di
successione. Si consideri, in aggiunta a questo, che nel corso del IX secolo i servi accasati
divennero di più di quelli prebendari, che anche le condizioni di questi ultimi furono
21 P. BONNASSIE, op. cit., pp. 316-317.
22 F. PANERO, op. cit., pp. 24 – 27.
migliorate dal punto di vista matrimoniale, che fu facilitato l’accesso agli ordini sacri e che
tutti i servi si videro attribuita la piena responsabilità penale, talvolta anche quella civile
(coerentemente a una doppia tendenza di età carolingia: da un lato si sgravavano i signori
fondiari della responsabilità penale e civile sui servi, dall’altro si estendeva la loro districtio
padronale fino a renderla una sorta di potere giudiziario su tutti i dipendenti). Alla luce di
tutto ciò, ritenere che la schiavitù di tipo antico permanga con rilevanza fino al X secolo
sembra risultare un’interpretazione piuttosto forzata.
La condizione dei servi prebendari conserva, anche in età carolingia e postcarolingia, tratti tipici della schiavitù antica: proprio questo permette alla storiografia
francese di chiamare esclaves questi individui. Tuttavia, per lo stesso periodo, la
documentazione italiana consente di escludere che, all’interno della grande proprietà, i
rapporti di subordinazione fossero prevalentemente di tipo antico 23. I servi ecclesiastici e
quelli regi, in tutto l’Impero carolingio, venivano esentati per legge dalle punizioni che
eccedevano in durezza. Anche se rimane in ombra la condizione dei servi delle piccole
proprietà, e anche le norme di tutela dei servi regi ed ecclesiastici rispondono all’esigenza
di non renderli inabili al lavoro, è tuttavia degno di nota che gli ufficiali pubblici potessero
intervenire, a differenza che in antichità, in difesa dei dipendenti non-liberi. D’altronde, il
contesto stesso della curtis, che prevedeva contatti frequenti fra servi residenti sul
dominico (prevalentemente prebendari) e sul massaricio (casati), non doveva consentire
una eccessiva diversità nella loro considerazione e trattamento.
3.3 Il nuovo servaggio e l’importanza della tradizione giuridica
Abbiamo messo in evidenza la distanza che, per Panero, separa il concetto di schiavitù
antica da quello di servitù altomedievale. Resta ora da chiarire se, nel caso italiano, si
possa affermare che, dopo l’anno 1000, sia occorso un asservimento di tipo nuovo,
paragonabile a ciò che la storiografia francese ha individuato come servage.
Nel saggio che abbiamo preso in esame, Bonnassie parla ripetutamente di
servaggio. Inizialmente accusa Verlinden di non averlo saputo adeguatamente definire e
distinguere dalla schiavitù antica. Poi ricorda la tesi di Bloch, secondo la quale esclavage
altomedievale e servage feudale sarebbero stati fenomeni di natura diversa e in
discontinuità storica fra loro, sebbene la condizione dei nuovi servi del II millennio fosse
stata prefigurata da quella dei colliberti di età carolingia. Infine, si dice concorde con Bloch
riguardo alla discontinuità storica dei due fenomeni, da inquadrare nell’ottica di differenti
sistemi
di
23 Ivi, p. 87.
produzione
(schiavistico
e
feudale).
Questa
discontinuità
sarebbe
particolarmente evidente in tutta l’Europa meridionale, dove la schiavitù antica sarebbe
scomparsa prima dell’avvento del nuovo servaggio.
Cosa dice Panero al riguardo? In Italia centrale e settentrionale è effettivamente
esistito un nuovo asservimento, distante nel tempo e nella tipologia da quello
altomedievale? Per la verità, l’autore italiano contesta che si possa parlare di
asservimento di massa anche in Francia e cerca di fornire delle spiegazioni alternative ai
dati proposti da Bloch rispetto a Saint-Germain-des-Prés 24. In ogni caso, non è plausibile
immaginare che la maggioranza della popolazione rurale dell’Italia settentrionale
precomunale fosse stata piegata al servaggio ereditario. Nel Triveneto e in Lombardia
assistiamo alla lenta scomparsa della servitù rurale, con una parallela persistenza di “servi
di masnada”, sfruttati dai signori per il servizio armato fino al Quattrocento. Anche in
Piemonte, non si assiste ad un generale livellamento verso il basso delle condizioni di vita
della popolazione contadina. Ecco anzi un esempio, riportato da Panero, che rende l’idea
di come – nell’Italia settentrionale del pieno Medioevo – le opportunità di contrattazione e
di emancipazione contadina fossero nel complesso aumentate, anziché diminuite, in
corrispondenza all’ascesa delle signorie di banno 25.
I canonici di Santa Maria di Novara possedevano servi sia negli insediamenti di
Cannero e Oggiogno, sul Lago Maggiore, sia altrove. In queste prime due località, i
canonici non erano riusciti ad imporsi come signori di banno, quindi trattavano i propri
famuli con generosità e consentivano matrimoni misti con i liberi della zona, chiedendo in
cambio la dichiarata permanenza allo stato servile. Solo in questo modo, infatti, il capitolo
riuscì ad impedire che i propri dipendenti fossero “fagocitati” dai signori di banno locali e
sottoposti allo stesso districtus a cui erano soggetti tutti i contadini liberi di quel territorio.
Solo nel 1211, rendendosi conto di non poter più ritardare la completa fusione dei loro
servi con i liberi del posto, i canonici decisero di porre fine alla propria signoria fondiaria e
vendettero ai loro servi la terra e la libertà. Le cose andarono diversamente nei territori in
cui i canonici di Santa Maria erano riusciti, nel tempo, ad acquisire dei diritti bannali. Qui,
dal momento che i servi casati non rischiavano di entrare nell’orbita di signorie rivali, si
fusero gradualmente e senza impedimento con le locali famiglie di dipendenti liberi,
andando a costituire una popolazione relativamente omogenea, sottoposta nel complesso
all’amministrazione fiscale e giuridica del capitolo di Novara. Ai nostri fini, è utile rilevare
che, in entrambi i casi, l’equiparazione fra liberi e servi non avvenne a svantaggio dei
primi, ma a favore dei secondi.
24 Ivi, p. 106.
25 Ivi, pp. 109 – 110.
Con lo sfaldamento del sistema curtense (graduale scomparsa delle corvées,
erosione del dominicio a vantaggio del massaricio) e l’emergere delle signorie di banno,
l’amministrazione della fiscalità e della giustizia venne razionalizzata nel senso di una
maggiore standardizzazione. Insomma, in molte aree dell’Italia centro-settentrionale non ci
fu una omogeneizzazione dei dipendenti nella direzione della schiavitù, ma una
riorganizzazione delle forme di dipendenza, in cui i poteri “pubblici” delle signorie di banno
(e dei Comuni) finirono per prevalere sulla facoltà di coercizione “privata” dei signori
fondiari.
È pur vero che nel corso del XII secolo, al crescere della mobilità contadina e
dell’emancipazione dei servi dallo status giuridico di servitù, i signori fondiari tentarono di
trattenere i propri dipendenti liberi, attraverso contratti che li vincolassero alla terra che
coltivavano e sulla quale risiedevano. In buona parte dell’Italia settentrionale, questa
reazione non trovò terreno fertile nel diritto di tradizione longobarda. Al contrario, in
numerose aree dell’Emilia, della Toscana, dell’Umbria e delle Marche, tale iniziativa
signorile fu supportata e incalzata dall’attività di giuristi impegnati nella riscoperta di
strumenti giuridici di tradizione giustinianea 26. Fra il III e il V secolo, infatti, l’Impero
Romano aveva vincolato numerose famiglie contadine ai fondi da esse coltivati, prima per
motivi fiscali e poi per ostacolare l’abbandono di alcune aree periferiche. I coloni così
creati, nel VI secolo furono distinti in misthotôi (liberi) e énapògraphoi (ascrittizi): i primi
poterono possedere terre e dovettero pagare le tasse, mentre i secondi rimasero vincolati
alla terra ed esentati dalla fiscalità. Infine, la guerra greco-gotica fece sfumare anche
quest’ultima forma di colonato antico. I coloni di epoca longobarda e carolingia erano
coltivatori diretti di terre in concessione per lunghi periodi, non più legati alla terra in modo
ereditario, anche se talvolta le penali previste per il mancato rispetto dei contratti erano
talmente pesanti da vincolare, de facto, alla permanenza. In territori come la Lucchesia,
già fra il IX e il X secolo notiamo la diffusione di clausole contrattuali che obbligano il
coltivatore alla residenza. Fra l’XI e i XII secolo, l’opera di Irnerio (glossatore bolognese)
pose le basi della scienza giuridica medievale, a partire dalla riflessione su testi
giustinianei. La categoria del colono-ascrittizio, riscoperta a livello accademico, nei territori
di antico diritto bizantino divenne uno strumento per i tentativi signorili di legare i contadini
alla terra. La concessione perpetua di un fondo, la permanenza trentennale su di esso o la
promessa di protezione del patrimonio e della persona, potevano creare i presupposti per
una nuova forma di assoggettamento. Patti di adscriptizio (Toscana ed Emilia) e di
hominicium (Umbria e Marche), plasmati sull’esempio del colonato ascrittizio, portarono
26 Ivi, cap. VII, pp. 203 – 240.
alla formazione di un variegato insieme di contadini non più liberi di spostarsi e vendibili
assieme alla terra coltivata.
Questa fase è segnata in maniera discriminante dalle diverse tradizioni giuridiche,
che determinarono sviluppi diversi nei diversi territori. Va tuttavia rilevato che per l’Italia
centro-settentrionale non si può comunque parlare di asservimento di massa, perché
questa trasformazione riguardò solo una minoranza, seppur significativa, della
popolazione. Ad ostacolare questo fenomeno, o in qualche caso ad interagire con esso,
furono i Comuni, che spesso sfruttarono la liberazione collettiva dalla districtio signorile per
annettere intere comunità rurali alla propria giurisdizione.
3.5 Manumissioni e affrancamenti
Panero non ritiene che le manumissioni (cum obsequio, piene o collettive che fossero)
abbiano avuto un ruolo di primissimo piano nel processo di estinzione della servitù
altomedievale27. A suo parere, il processo principale sarebbe consistito nell’accasamento
dei servi e nella loro graduale fusione con la popolazione libera soggetta alle signorie di
banno. Nonostante questo, l’autore dedica uno specifico capitolo al tema delle
manumissioni e degli affrancamenti 28. Gli affrancamenti potevano riguardare anche i liberi,
perché consistevano in franchigie ed esenzioni da servizi e prestazioni di carattere
economico, senza incidere profondamente sulla condizione giuridica personale. Questo
genere di iniziative potevano servire ad appianare i contrasti fra le comunità rurali e i loro
signori, ad attrarre nuovi immigrati oppure, nel caso dei Comuni, a creare insediamenti
liberi da oneri signorili e sottoposti alla fiscalità e alla giurisdizione cittadina. Proprio i
Comuni, nel corso del XIII secolo, furono i protagonisti di alcune azioni determinanti per la
definitiva liberazione dei residuali servi altomedievali e degli ancor numerosi coloniascrittizi.
Il territorio soggetto al Comune di Bologna, per esempio, nel 1256 ospitava ancora
un servo ogni quindici residenti liberi. Questa componente servile, eccezionalmente
numerosa, è giustificata da uno specifico compromesso raggiunto fra il popolo e i magnati
bolognesi all’inizio del ‘200. Il Comune, tuttavia, prendendo atto che il continuo aumento
del numero dei servi impediva alla città di estendere il numero di cittadini tassabili, decise
di intervenire. Dapprima emendò l’esenzione fiscale per i liberi ammogliati con serve e
cancellò la norma che rendeva servi i figli di libere sposate con servi, poi scelse di
riscattare con le proprie finanze lo status servile di quasi 6000 rustici (la liberazione fu
registrata nel celebre “Liber Paradisus”). Vennero inoltre vietati nuovi contratti di adscriptio,
27 Ivi, pp. 262 – 263.
28 Ivi, pp. 261 – 304.
che nel lungo periodo avrebbero cancellato dal territorio comunale non solo la condizione
servile, ma anche quella colonaria (anche se per la scomparsa di quest’ultima bisognerà
attendere l’inizio del ‘300).
Un caso simile interessò il Comune di Firenze, che nel 1289 scelse di rispondere
alle richieste di alcune comunità rurali del Mugello, facendo da intermediario affinché essi
acquistassero la loro terra, che altrimenti sarebbe finita alla famiglia degli Ubaldini. Questa
iniziativa, che impedì il rafforzamento di una famiglia nemica del Comune ed estese il
numero di contribuenti, fu accompagnata dall’emancipazione di tutti gli affittuari e i coloni
residenti nelle terre “liberate”.
CONCLUSIONE
Si può percepire uno scarto significativo fra la prospettiva di Panero e quella della
storiografia francese, a cominciare da Marc Bloch. Panero cerca di dar conto di questa
distanza individuando vari modelli esplicativi, la cui molteplicità non sarebbe dovuta a
differenze interpretative, ma a differenze geografiche 29. Il dato condiviso è che le
condizioni di vita materiale dei servi (accasamento, matrimoni misti, disponibilità di
peculio) siano tendenzialmente migliorate fra il VII e il XII secolo, ma a questo vanno
aggiunte specifiche considerazioni regionali e locali. Ecco due fra i principali motivi di
differenziazione.
La prima discriminante riguarda l’evoluzione giuridica dello status dei gruppi di
origine servile. In molte aree dell’Italia centro-settentrionale, il progresso materiale fu
accompagnato da una graduale equiparazione dei servi ai dipendenti liberi, anche a livello
giuridico. Come abbiamo visto, in concomitanza con la disgregazione del sistema curtense
e il sorgere di poteri territoriali come le signorie di banno (e poi i Comuni), il potere si
concentrò nelle mani di forze poco interessate allo sfruttamento diretto del lavoro servile e
più orientate all’esercizio di fiscalità (ritorno economico) e giustizia (ritorno in termini di
prestigio e potere) su di una più ampia popolazione rurale. Diversamente, nelle aree
francesi studiate da Bloch, così come in Sardegna, i signori accettarono che i loro servi
vivessero meglio, ma si sforzarono di conservare la memoria del loro status giuridico.
Questo sforzo determinò la prolungata permanenza del lessico servile nei documenti
ufficiali e fa risaltare la manumissione come momento determinante per la fine della
servitù.
La seconda discriminante riguarda l’efficacia con cui, in risposta allo scomparire
della servitù di origine altomedievale, i signori seppero contrapporre l’assoggettamento a
nuovi tipi di servaggio, in particolare la servitù della gleba. In Piemonte, in Lombardia e
nelle Venezie questi tentativi, laddove documentati, si rivelarono fallimentari. In alcune
aree del Centro Italia furono invece più efficaci e supportati dall’introduzione di specifici
strumenti giuridici. Nel Mezzogiorno, soprattutto in Sicilia, furono i Musulmani, sottomessi
dai Normanni, a divenire i nuovi servi.
A queste due discriminanti generali, si sommino tutte le specificità locali: se ne
otterrà un quadro complessivo difficilmente sintetizzabile.
Riprendiamo, infine, la citazione dal Cortonesi-Palermo proposta in apertura. Al termine
della nostra analisi, ci sembra di poter affermare che le circostanze che portarono
29 Ivi, pp. 372 – 375.
l’economia europea a svincolarsi dal lavoro servile non furono solo di natura economica.
Certamente questa trasformazione ebbe cause e conseguenze di carattere economico,
ma si possono individuare anche motivazioni differenti alla base di essa. Se, per esempio,
ci concentriamo sul Nord Italia, notiamo che già i Longobardi tutelavano la manumissione
e incentivavano la manumissione piena, l’unica che creasse sudditi militarmente
responsabili30; successivamente, la signoria di banno tese strutturalmente a favorire
un’omogeneizzazione della popolazione ad essa soggetta, per motivi amministrativi di
natura non solo prettamente economica; infine nel XII secolo - mentre altrove si
consumava un’efficace reazione signorile volta a ricostituire una classe servile - in
Lombardia, Piemonte, parte del Triveneto e parte della Liguria ciò fu impedito dalla
tradizione del diritto longobardo, che non prevedeva il colonato-ascrittizio, e dal crescente
protagonismo dei Comuni, interessati a governare cittadini liberi. Questi sono tutti aspetti
non riconducibili al puro progresso della produttività.
Un’osservazione politica di carattere più generale viene da Dockès e Bonnassie,
che sottolineano la necessità che i sistemi di produzione schiavistici siano sostenuti da un
efficiente apparato repressivo statale31. Nel nostro caso, al di sopra del ruolo esercitato da
signorie territoriali e Comuni, è facile individuare l’assenza di un potere più esteso, di
dimensioni nazionali o continentali. Lo stesso Cortonesi-Palermo riconosce in questa
assenza una differenza decisiva rispetto al mondo bizantino e a quello musulmano. 32
Infine, anche la religione cristiana sembra aver svolto un’azione efficace. Anche se
la Chiesa fece poco o nulla per contrastare la servitù, il messaggio evangelico di
fratellanza universale ebbe un’influenza notevole, soprattutto perché portò al battesimo
degli individui di condizione servile e poi al riconoscimento e alla tutela del matrimonio fra
servi. Questo passaggio fu decisivo nel rendere la popolazione servile religiosamente e
socialmente più omogenea alla popolazione libera.
Sono dunque molteplici e connesse le possibili risposte alle domande poste da
Marc Bloch rispetto alla fine della servitù in Europa. Le trasformazioni del sistema di
produzione descritte da Cortonesi-Palermo, certamente centrali per la comprensione del
fenomeno, non devono tuttavia dar luogo ad una ricostruzione economicistica che
prescinda dal più ampio e complesso contesto storico che le ha rese possibili.
30 Ivi, p. 32.
31 P. BONNASSIE, op. cit., p. 335. A questo proposito, vedere anche
P. FREEDMAN, Images of the Medieval Peasant, Stanford University Press, Stanford 1999, pp. 177 – 203.
32 A. CORTONESI, L. PALERMO, op. cit., pp. 21 – 24.
BIBLIOGRAFIA
•
M. BLOCH, Comment et pourquoi finit l’esclavage antique, in “Annales. Économies,
Sociétés, Civilisations”, 2e année, N. 1, 1947, pp. 30-44.
•
P. BONNASSIE, Survie et extinction du régime esclavagiste dans l’Occident du
haut moyen âge (Ive-Xie s.), in “Cahiers de civilisation médiévale”, 28e année, N.
112, 1985, pp. 307-343.
•
A. CORTONESI, L. PALERMO, La prima espansione economica europea, Carocci,
Roma 2009.
•
P. FREEDMAN, Images of the Medieval Peasant, Stanford University Press,
Stanford 1999.
•
M. MCCORMICK, Le origini dell’economia europea, comunicazioni e commerci,
300-900 d.C., Vita e Pensiero, Milano 2008.
•
F. PANERO, Schiavi servi e villani nell’Italia medievale, Paravia, Torino 1999.