CARTESIO DAL DUBBIO AL COGITO Condividendo filosofie come quella di Bacone e di Galileo, Cartesio aspira alla costruzione di un nuovo sapere, attuando un nuovo metodo per acquisire un criterio sicuro per distinguere il vero dal falso. Il nuovo metodo è formato da quattro regole fondamentali: l’evidenza (è accettabile come vero solo ciò che è chiaro ed evidente), l’analisi (dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare), la sintesi (unione degli elementi, analizzati precedentemente, con ordine, dal più semplice al più complesso) e l’enumerazione completa affinché siamo sicuri di non aver omesso nulla. Ma per poter dimostrare la validità del suo metodo, il filosofo ritiene di non poter seguire il sapere già esistente, ma di dover sottoporre ogni conoscenza al dubbio, partendo da un dubbio metodico a un dubbio iperbolico, che lo porterà alla radice: l’uomo come soggetto pensante (cogito ergo sum). IL DUBBIO METODICO (T2) Il dubbio metodico è il procedimento, attraverso l’esercizio del dubbio, che ci consente di approdare a delle conoscenze indubitabile. Il dubbio metodico si estende alla realtà che ci circonda, nella prima parte Cartesio analizza la conoscenza sensibile. Cartesio costruisce allora un crescendo di dubbi che si allargano via via a investire ogni possibile contenuto del pensiero umano. Bisogna indagare le fonti stesse della nostra conoscenza, i “princìpi sui quali si fondano tutte le opinioni ricevute”, ossia i sensi, perché essi talvolta ingannano. Nella Prima meditazione Cartesio afferma che, nella vita, accade normalmente che i sensi ci ingannino. E allora, se anche ciò accadesse una sola volta, non potrebbe essere che ci ingannino sempre? Come fidarsene? Allo stesso modo bisogna dubitare dell’esistenza del nostro corpo e di tutta la realtà esterna, dubitare di ogni pensiero, perché le percezioni e i pensieri che si provano da svegli possono essere identici a quelli che si provano anche in sogno, quando vedo e percepisco cose indipendentemente da uno stimolo della realtà esterna. Come essere sicuri che questa nostra vita, con le sue diverse esperienze, non sia frutto di un sogno incessante, di cui non si è consapevoli proprio perché non finisce mai? “Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come vere una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princípi cosí mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m'era d'uopo prendere seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta.” Già nella prima parte possiamo notare l’intenzione di Cartesio di individuare le fondamenta della conoscenza e per criticare e dubitare tutto il sapere tradizionale. “Ora, dunque, che il mio spirito è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare che esse sono tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione mi persuade già che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono manifestamente false, il menomo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare.” Il filosofo a questo punto decide di eliminare tutta la sua conoscenza preesistente e tutte le sue vecchie opinioni prive di un’idea principale chiara ed evidente. Per eliminarle, però, non è necessario esaminarle e dimostrare la falsità ma è sufficiente dubitare la loro verità se non hanno un’idea principale. La prima forma di conoscenza che inizia a dubitare è quella sensibile, i sensi, i quali ci possono ingannare. Ma aldilà di ciò esistono opinioni, associate ai sensi, che paiono essere indubitabili, come il luogo dove ci si trova, gli oggetti tra le mani, le vesti portate addosso… se si dubita di ciò per il filosofo si tratta di un comportamento da folli. “Ma, benché i sensi c'ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al fuoco, vestito d'una veste da camera, con questa carta fra le mani;” “E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? a meno che, forse, non mi paragoni a quegl'insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d'oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s'immaginano di essere delle brocche, o d'avere un corpo di vetro. Ma costoro son pazzi;” Ma, andando avanti, Cartesio capisce che molto spesso confondiamo sogno e realtà, poiché spesso ci ritroviamo in situazioni analoghe sia nei sogni che nella realtà. Il dubbio consiste proprio nell’impossibilità di distinguere il sogno dalla realtà poiché l’uomo si potrebbe trovare in una perenne realtà come in un perenne sogno, anche perché che vi sono sia nella veglia che nel sonno cose sempre identiche (l’uomo). Queste riflessioni portano il filosofo a una conclusione provvisoria, cioè che l’aritmetica e la geometria, scienze che hanno elementi semplici, sono sempre veritiere mentre il resto può essere messo in dubbio. Ma questa conclusione verrà presto superata dal dubbio iperbolico causato da un genio maligno. “Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l'abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili ancora, che quegl'insensati quando vegliano. Quante volte m'è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto?” “E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno.” “ma che l'aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo tipo, le quali non trattano se non di cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo pensiero se esistano o meno in natura, contengono qualche cosa di certo e d'indubitabile.” Con la definizione del metodo Cartesio afferma l’esigenza che il sapere si basi su criteri di verità effettivamente certi, senza accettare contenuti che non siano stati sottoposti a verifica, senza dare niente per scontato, senza fare ricorso alle autorità della tradizione, o alle opinioni formatesi senza il controllo della ragione, affidandosi solo all’evidenza riconosciuta della ragione. Il sapere deve dunque essere radicalmente critico. Questo significa che bisogna sospendere l’assenso a qualsiasi proposizione, rifiutando tutto ciò in cui possa insinuarsi anche il minimo dubbio. Cartesio afferma che, per poter legittimamente dubitare di tutto, basta trovare una sola cosa passibile di essere messa in dubbio. Il punto di partenza del sapere è perciò il dubbio. Ma come arrivare da qui a riconoscere con certezza ciò che è evidente? Per Cartesio la via consiste nell’usare lo stesso dubbio in modo sistematico come uno strumento capace di produrre certezza. Se la ragione umana dubita di tutto, e ciò nonostante qualcosa riesce a salvarsi dal dubbio universale, questo qualcosa sarà assolutamente indubitabile. Il dubbio metodico intende proprio ciò: mettere in dubbio tutto ciò che manca delle regole del metodo, tutto ciò che non è chiaro ed evidente, ma con il dubbio metodico si fermerà a dubitare solo sulla realtà che noi percepiamo con i sensi, con il dubbio iperbolico, con il genio maligno, il dubbio si estenderà anche sulla matematica, a ogni cosa e diventa universale. IL DUBBIO IPERBOLICO (T3) Il dubbio iperbolico è il momento culminante del dubbio metodico, cioè quando il dubbio si estende a ogni cosa e diventa universale, data l’ipotesi dell’esistenza di un genio maligno potentissimo, astuto, ingannatore, che inganna sempre l’uomo. L’ipotesi del genio maligno mette in crisi ogni nostra verità e certezza persistente, anche quelle che nella prima meditazione erano indubitabili (la matematica). L’uomo diventa vittima di questo genio maligno in cui tutto ciò che vede o che tocca, ciò che è come corpo, potrebbe essere solo un’illusione, un inganno del genio maligno. Quindi il filosofo propone di sospendere il giudizio su ogni cosa, così da eliminare la possibilità di commettere un errore. “Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di Verità, ma un certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni” “se, con questo mezzo, non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità” Ma questa sospensione del giudizio appare molto difficoltosa. Come uno schiavo che sogna la libertà e spera che il sogno duri più tempo possibile, Cartesio potrebbe ricadere nelle sue vecchie opinioni, rassicuranti, sottolineando come la ricerca della verità sia molto più difficile e faticosa rispetto ad accontentarsi del sapere tradizionale, tuttavia erroneo. “Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente nel corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno d'una libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un sogno, teme d'essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne piú lungamente ingannato, cosí io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche opinioni” Adesso il filosofo comincerà a dubitare di tutto, anche della matematica, ma, tramite questo strumento del dubbio, riuscirà a trovare una prima certezza, quella dell’esistenza dell’Io come soggetto pensante. “IO SONO, IO ESISTO” (T4) Cartesio grazie al dubbio scopre il "primo principio" fondamento di tutto il suo pensiero: «io penso, dunque sono» ossia, nella formulazione latina: «Ego cogito, ergo sum, sive existo», («Io penso, io sono, ossia esisto». Questo primo principio è indubitabilmente vero: se, infatti, noi ne dubitassimo non faremmo altro che pensare poiché il dubbio «è un caso particolare del pensiero» che riconferma il "cogito ergo sum". Ma se penso, questo pensiero deve pur far capo a qualcosa cioè a me stesso: se penso, devo pur essere qualcosa. Un'affermazione questa così evidente e chiara che si rifà al metodo cartesiano. Con questa unica certezza, cioè la certezza che il soggetto ha di sé stesso in quanto sostanza pensante, permetterà di sconfiggere il dubbio e di procedere alla riedificazione di un nuovo sapere, fondato sul nuovo metodo cartesiano. Cartesio utilizza la similitudine dell’annegamento in un’acqua profonda, in cui non si riesca né a nuotare né a toccare il fondo, nell’acqua del dubbio. Il filoso continua il suo cammino alla ricerca di una verità certa, indubitabile. “La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il minimo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo” Adesso il filosofo riassume brevemente i passaggi con cui ha sottoposto ogni cosa al dubbio. Cartesio, nel trovar consapevolezza di non poter che dubitare di tutto, l’unica certezza: se io dubito, io penso, allora esisto, e neppure il genio maligno potrà ingannami, poiché per essere ingannati, è necessario esistere, esistere come soggetto che pensa. “Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo” “No, certo; io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa.” Io non esisto se non come cosa che dubita, cioè come cosa che pensa, poiché può dubitare solo chi esiste: cogito ergo sum. La frase “io esisto” equivale alla frase “io sono un soggetto pensante” come spirito, intelletto, come res cogitans. “ Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito”. In quest’ultima frase Cartesio sottolinea l’unica certezza che mi permetterà di garantire la validità della conoscenza umana. Inoltre, questa certezza non è frutto di un ragionamento ma è una verità intuitiva, chiara ed evidente (io dubito=io penso=io esito) a tal punto da essere evidente a chiunque dotato di pensiero, a qualunque soggetto pensante. DIO, LA VERITÀ E L’ERRORE (T8) Dopo aver dimostrato che io sono un essere pensante che ha idee, Cartesio pone un altro dubbio: le idee corrispondono alla realtà effettiva fuori di me? Per rispondere a ciò, il filosofo dovrà dimostrare l’esistenza di Dio, di un un Dio buono che non mi inganna come il genio maligno. Per dimostrare l’esistenza di Dio, Cartesio divide le idee in tre tipi: innate, avventizie e fattizie. La successiva domanda che si pone il filosofo è se esista una idea che sia causata non da me ma da una realtà esterna e, poiché la causa è qualcosa di maggiore e uguale all’effetto, l’idea di Dio o di infinito non può derivare dall’uomo, poiché soggetto finito e imperfetto, ma da una realtà esterna infinita e perfetta che è Dio. Questa è la prima prova sull’esistenza di Dio. La seconda prova consiste nelle imperfezioni dell’uomo: se ognuno fosse causa di sé stesso, si sarebbe dotato di perfezione, ma siccome sono finito e imperfetto vuol dire che un’entità superiore perfetta mi ha generato (Dio). L’ultima prova consiste nell’ammettere la sua esistenza poiché stiamo pensando a Dio come essere perfetto, poiché l’esistenza è una delle sue perfezioni necessarie. Dopo aver dimostrato l’esistenza di Dio, Dio essendo perfetto, pura intelligenza, spirito buono non può ingannarci, mi garantisce il lume naturale della ragione, per cui tutto ciò che ci risulta chiaro ed evidente deve per forza essere vero. Dio così ci permette di passare dalla certezza della nostra esistenza alle altre evidenze del mondo. Nelle prime righe infatti il filosofo sottolinea come le impressioni che abbiamo sia nel sonno che nella veglia, il dubbio se sia un sogno o la realtà effettiva, non potrà mai essere eliminato se non si pensa all’esistenza di Dio. Infatti, solo perché Dio esiste, come volontà buona, ci permette di accogliere come vere le idee che ci appaiono chiare e distinte. “Che cosa ci induce a credere che i pensieri che ci vengono in sogno siano più falsi degli altri, visto che spesso non sono né meno vivi, né meno chiari? Che i migliori ingegni vi riflettano pure quanto vogliano: quanto a me non credo che possan mai trovare ragione sufficiente per eliminare tale dubbio, se non presuppongono l’esistenza di Dio”. Ma, tuttavia, l’uomo può cadere in errore. L’errore però non dipende da Dio ma dalla nostra volontà, dal nostro libero arbitrio, dalla nostra superficialità e imperfezione (quindi non può derivare da Dio) a non seguire le regole del metodo, seguendo quelle idee che possono anche essere non chiare (non seguendo così la prima regola). Inoltre, se noi non presumiamo l’esistenza di Dio, noi non avremo nessuna certezza anche di fronte alle idee che ci appaiono chiare e distinte (potrebbe essere un’illusione), e non avranno mai la perfezione di essere vere. Alla fine, Cartesio sottolinea come la certezza e la chiarezza, sia nel sogno che nella veglia, si ha solo tramite l’uso della ragione e non tramite i sensi. Le percezioni sensoriali devono essere giudicate dalla ragione, infatti, Dio mi garantisce il lume naturale della ragione, e la ragione ci suggerisce quale sia il fondamento di verità , escludendo ciò che vediamo o immaginiamo, che tutte le nostre idee hanno in quanto provengono dalla volontà buona che è Dio. L’errore quindi per Cartesio si può evitare se, tramite l’uso della ragione, ci atteniamo molto attentamente alle regole del metodo, in particolar modo alla chiarezza e all’evidenza. “Di modo che, se abbastanza spesso ne professiamo alcune che contengono il falso, deve trattarsi solo di quelle che presentano aspetti confusi ed oscuri giacchè in ciò partecipano del nulla, cioè tali idee sono in noi così confuse solo perché non siamo del tutto perfetti” . “Infine, sia nella veglia che nel sonno, dobbiamo lasciarci persuader soltanto dall’evidenza della nostra ragione.” “La ragione, infatti, non ci dice che è vero quel che così vediamo o immaginiamo, ma ci suggerisce che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità, poiché non potrebbe essere che Dio, che è assolutamente perfetto e veridico, le abbia poste nella nostra mente senza che fossero vere”. Questi brani, quindi, sottolineano come il filosofo Cartesio sia il padre del razionalismo, quel razionalismo che sarà alla base dell’Illuminismo.