LUIGI PIRANDELLO romanzi, novelle, teatro Storie di vermucci, ormai, le nostre Il Fu Mattia Pascal (1) Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: — Io mi chiamo Mattia Pascal. — Grazie, caro. Questo lo so. — E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza: — Io mi chiamo Mattia Pascal. Il Fu Mattia Pascal (2) Finalmente il convoglio si scrollò. Per fortuna ero rimasto solo nello scompartimento. Balzai in piedi, levai le braccia, trassi un interminabile respiro di sollievo, come se mi fossi tolto un macigno di sul petto. Ah! tornavo a esser vivo, a esser io, io Mattia Pascal. Lo avrei gridato forte a tutti, ora: «Io, io, Mattia Pascal! Sono io! Non sono morto! Eccomi qua!». Il Fu Mattia Pascal (3) …passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri polverosi. Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l'avesse saputo sotto il sigillo della confessione. Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare. — Intanto, questo, — egli mi dice: — che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere. Il Fu Mattia Pascal (4) Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch'io mi sia. Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s'uccise alla Stìa, c'è ancora la lapide dettata da Lodoletta: COLPITO DA AVVERSI FATI MATTIA PASCAL BIBLIOTECARIO CVOR GENEROSO ANIMA APERTA QVI VOLONTARIO RIPOSA LA PIETA' DEI CONCITTADINI Il Fu Mattia Pascal (5) Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda: — Ma voi, insomma, si può sapere chi siete? Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: — Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal. (riferimento al libro di testo a p. 922-923) Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico! — Oh oh oh, che c'entra Copernico! — esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia. — C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava... — E dàlli! Ma se ha sempre girato! — Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. Premessa seconda (2) Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. Premessa seconda (3) Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d'a- ver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Premessa seconda (4) Storie di vermucci ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più? Pirandello e la crisi del Positivismo • Nel passaggio da Ottocento a Novecento la fiducia nell’esattezza dell’analisi scientifica e nella verità assoluta del suo metodo è sottoposta ad una profonda revisione che nasce in seno alla scienza stessa: le scoperte nell’ambito psicanalitica e nelle cosiddette “scienze esatte”. • Pirandello rivela una visione critica e relativistica della modernità, rappresentata come un insieme di contraddizioni aperte, non più ricomponibili entro gli schemi positivistici. Tali contraddizioni sono ad aumentare con il progresso della tecnica e della riduzione della vita in merce: in Serafino Gubbio Simone Pau dice che le macchine ingoiano l’anima e ne restituiscono solo scatolette. Da “Arte e coscienza oggi” “Crollate le vecchie norme, non ancor sorte o bene stabilite le nuove; è naturale che il concetto della relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere l’estimativa. Il campo è libero ad ogni supposizione. Nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile. I termini astratti han perduto il loro valore, mancando la comune intesa, che li rendeva comprensibili. Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata. […] A me la coscienza moderna dà l’immagine d’un sogno angoscioso. È in lei un continuo cozzo di voci discordi, un’agitazione continua”. Uno, nessuno e centomila (1) – Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi in solitamente indugiare davanti allo specchio. – Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino. Mia moglie sorrise e disse: – Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: – Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente: – Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra. TRAMA Vedere bene la trama a pagina 945-946 Uno, nessuno e centomila (2) Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio. Uno, nessuno e centomila (3) Non mi sono piú guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato cosí diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse. Uno, nessuno e centomila (4) Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace, non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. Uno, nessuno e centomila (5) L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. [..] E queste carraje qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Uno nessuno e centomila (6) Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. Uno, nessuno e centomila (7) La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle cam pane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori. Un panismo dannunziano? • La fusione panica per D’Annunzio è un’esperienza eccezionale, propria solo del superuomo, mentre per Pirandello è possibile a chiunque accetti di rompere il meccanismo delle convenzioni sociali ed estraniarsi da esse • Inoltre la teoria del superuomo è finalizzata a forme di dominio autoritario di un’elite sul corpo sociale, mentre l’irrazionalismo pirandelliano è del tutto anarchico, conduce ad una critica distruttiva di ogni compagine sociale. I sette romanzi • I romanzi sono sette: L’esclusa (1901), Il turno, Il fu Mattia Pascal (1904), Suo marito, I vecchi e i giovani, I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925), Uno, nessuno e centomila (1925-26). La produzione romanzesca si interseca con la scrittura di novelle con l’attività teatrale. • Il Fu Mattia Pascal è il romanzo della svolta. Anche nel panorama europeo (non sono ancora usciti né Proust, né Joyce, né Kafka, né Musil). • L’attività di romanziere prende le mosse dalla crisi del romanzo ottocentesco, in particolare dei romanzi naturalistici e veristi. Al romanzo ben fatto si oppone il romanzo “da fare”, romanzo delle possibilità, il cui fuoco è la ricerca di ciò che si nasconde dietro le apparenze, un’analisi incessante che non approda mai ad esiti certi e definitivi. La dissoluzione della trama • Si trova una chiara tendenza alla dissoluzione dell’unitarietà della trama. • Privilegia l’attitudine alla divagazione, alla deviazione rispetto alla vicenda principale con riflessioni saggistiche. • Dietro c’è una trasformazione profonda del modo di intendere la percezione temporale e le relazioni tra i fatti: il tempo non ha più un cammino lineare e progressivo. Le ambiguità dell’io narrante • La narrazione è assunta dalla voce del protagonista che filtra attraverso il suo punto di vista l’intera vicenda alterandone spesso i contorni, deformandola in rapporto ai percorsi della sua coscienza. • L’io narrante coincide con l’io narrato ma spesso il rapporto che li lega è conflittuale, incrinato da interrogativi e incertezze (l’io narrante dovrebbe saper fornire l’interpretazione della vicenda ai lettori ma questo non accade). • Siamo contemporaneamente alla fine del soggettivismo romantico, sia dell’oggettività realista: viene meno la centralità del soggetto interpretante e il concetto romantico di un’anima misura autentica del mondo. Lo sdoppiamento "In me son quasi due persone: tu già ne conosci una; l'altra, neppure la conosco bene io stesso. Soglio dire, ch'io conto d'un gran me e di un piccolo me: questi due signori sono quasi sempre in guerra tra di loro: l'uno è spesso all'altro sommamente antipatico. Il primo è taciturno e assorto continuamente [...], il secondo parla facilmente, scherza e non è alieno dal ridere e dal far ridere. [...] Io sono perpetuamente diviso tra queste due persone. Ora impera l'una, ora l'altra. Io tengo naturalmente moltissimo di più alla prima, voglio dire al mio gran me; mi adatto e compatisco la seconda, che è in fondo un essere come tutti gli altri, coi suoi pregi comuni e coi comuni difetti” da Lettere ad Antonietta La dissoluzione del personaggio e la funzione della scrittura • Conseguenza di ciò è la dissoluzione del personaggio tradizionale consegnatoci nella salda unitarietà della tradizione romantica. • Quando si rendono conto dell’impossibilità di una dimensione esistenziale autentica, i protagonisti dei romanzi pirandelliani si scoprono fuori da tutto, diventano forestieri della vita, sospesi in uno strano vuoto: ridotto ad un silenzio di cosa, Serafino, nella biblioteca, Mattia, e nel manicomio, Vitangelo decidono di raccontare la loro storia. Le strutture metanarrative • Anche se Pirandello non perviene a soluzioni innovative e rivoluzionarie di altri scrittori della sua epoca, i suoi romanzi assomigliano a macchine che girano a vuoto, aprendosi a forme ibride, saggistiche. • La forma è quella del romanzo-saggio, per cui il romanzo arriva a riflettere su se stesso diventando metanarrativo. L’andamento stilistico vede dominante la tecnica del soliloquio, continuamente interrotto da domande, esclamazioni, appelli al lettore, frasi sospese che confermano lo statuto incerto di una verità che si moltiplica in relazione ai punti di vista che la esaminano. La produzione novellistica Nel 1922 Pirandello decide di far confluire tutto il suo vasto repertorio di novelle, scritte dal 1894 al 1937, nel progetto Novelle per un anno. Nell’Avvertenza scriveva: “Una novella al giorno, per tutto un anno, senza che dai giorni, dai mesi o dalle stagioni, nessuna abbia tratto la sua qualità”. In realtà il numero dei testi fu inferiore. Il progetto: la rinuncia alla cornice • Pirandello rinuncia ad una qualunque forma di cornice, intesa alla maniera del Decameron di Boccaccio; rifiuta una qualunque sovrastruttura che ordini la varia e multiforme materia narrativa. • Le novelle si succedono slegate, separate le une dalle altre; ciascuna è come una monade. • Il titolo stesso sembra voler rinviare alla funzione dissipatrice del tempo, un eterno presente in cui gli eventi sono dominati dal caso e dall’assenza di senso La rappresentazione della commedia umana • Le novelle non accettano nessun altro principio di classificazione che quello della mobile e cangiante caoticità dell’esistenza: la rappresentazione della “commedia umana” è ben lontana dai fini e dai modi del realismo ottocentesco. • Quella che va in scena è l’assurda convenzione del vivere e con essa i meccanismi ripetitivi e alienanti che imprigionano l’individuo e lo fissano in maschere nude e vuote identità. Il rovesciamento umoristico e la moltiplicazione delle verità • La poetica dell’umorismo supera, nelle novelle pirandelliane, il principio di verisimiglianza. L’oggettività dei veristi lascia spazio ai processi di scomposizione e di riflessione, la narrazione è sostituita da un narratore che si immerge nel punto di vista dei personaggi di cui assume l’ottica. • Al rapporto causa-effetto si sostituisce il principio di casualità. • Il relativismo conoscitivo porta alla moltiplicazione infinita dei punti di vista. dalla Prefazione ai Sei personaggi Ora bisogna sapere che a me non è mai bastato rappresentare una figura d'uomo o di donna, per quanto speciale e caratteristica, per il solo gusto di rappresentarla; ci sono scrittori che, oltre a questo gusto, hanno un più profondo bisogno spirituale, per cui non ammettono figure, vicende, paesaggi che non s'imbevano, per così dire, d'un particolar senso della vita, e non acquistino con esso un valore universale. Sono scrittori di natura più propriamente filosofica. Io ho la disgrazia d'appartenere a questi ultimi. Vedersi vivere (1) • Nelle trame delle novelle si fissano singoli dettagli apparentemente trascurabili. È proprio grazie ad essi che il personaggio vede il vuoto dietro le forme. • Nella routine del quotidiano irrompe spesso un fatto imprevisto anche minimo insignificante del tutto casuale che porta alcuni soggetti a uscire dalla rete delle convenzioni sociali costringendoli a guardare dal di fuori la propria esistenza. Vedersi vivere (2) • Il conflitto tra essere e apparire, tra vita e forma esploderà allora in tutta la sua potenza. • Sarà condannato a vedersi vivere. • Paradossalmente solo vedendo la vita dal di fuori è possibile scorgere la rivelazione di un’altra esistenza, lontana e irraggiungibile, avere la percezione del flusso che scorre indistinto sotto le prigioni delle grigie esistenze borghesi. Tra ganci e trappole (3) • I singoli elementi della vita, i gesti quotidiani, le convenzioni sono trappole, tanto che si arriva a gesti ridicoli e da folli pur di scrollarsi di dosso il peso delle forme. • Conosce bene il potere delle forme chi è stato “agganciato” ad esse e viene visto dagli altri sotto un unico aspetto (es. Chiarchiaro de La patente). Talvolta un particolare giganteggia sulla pagina ingrandito come in uno zoom cinematografico. • Man mano che si arriva all’ultima fase della produzione novellistica domina sempre di più l’assurdo, diminuiscono i dialoghi e gli ultimi racconti sono pieni di silenzio. G. Scholz, Industrialized farmers Brutti e sconciati • L’opera di Pirandello è costellata di figure sconciate: volti pallidi con folte sopracciglia, nasi vasti e carnosi, o erti e aquilini, capelli tinti, lunghe mani molli, corpacci pesanti e uomini curvi, tentennanti nella loro magrezza, insomma una galleria degli orrori. • Il critico G. Debenedetti l’ha definita “l’invasione vittoriosa dei brutti”. • Non si tratta dell’interesse fisiognomico ottocentesco: sotto la superficie della realtà fattuale si scorge una dimensione altra invisibile all’occhio e alla logica tradizionale, un mondo sotterraneo fatto di pulsioni segrete che si riflettono nelle fattezze dei personaggi. Debenedetti mette in collegamento questo fenomeno con gli studi di Freud sulla psicanalisi. da L’uomo col fiore in bocca Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c'è, c'è, ce lo sentiamo tutti qua, come un'angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell'atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare.