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Alberto De Panfilis
13 eRRori
da non commettere in
CLASSE
1 ‐ Spiegare quello che (non) si deve fare
Chi non ha nulla da dire è più saggio
di chi pretende di spiegare tutto.
‐ Riccardo Cataldi
“Ragazzi, studiare è fondamentale! Se lasciate indietro degli argomenti trattati male,
avrete difficoltà per l’esame di fine anno… e poi lo sapete che studiare è importante per il
vostro futuro: adesso non ve ne rendete conto, ma nei prossimi anni vi pentirete di non
aver fatto di più!” ‐ “Bambini, quante volte ve l’ho detto? Non voglio che corriate tra i
banchi: è pericoloso, per voi e per gli altri. Se qualcuno inciampasse, si farebbe molto
male!”
Abbiamo tentato questo approccio tante, troppe volte: di fronte a qualcuno che sembra
non comprendere le nostre raccomandazioni, la via più ragionevole appare questa:
spiegare tutte le ​buone ragioni per le quali ci si dovrebbe (o non dovrebbe) comportare in
un certo modo.
Spesso poi si va anche oltre: si tende cioè a ​ripetere quanto già detto innumerevoli volte,
sperando nei presunti effetti benefici promessi dalla celeberrima locuzione latina ​repetita
iuvant.
Purtroppo la strategia appena descritta risulta il più delle volte miseramente fallimentare,
perché inefficace e frustrante.
Rischi ed effetti negativi
Partiamo dall’evidenza empirica: se si sperimenta la necessità di ripetere mille volte la
stessa raccomandazione, è evidente che lo spiegarsi è, quantomeno in quelle occasioni,
del tutto inefficace.
In questo caso è utile far riferimento al concetto di “cambiamento”: è proprio un
cambiamento quello che chiediamo alle persone cui rivolgiamo le nostre esortazioni. Se
per esempio ripeto alla Classe di non fare chiasso, le sto chiedendo di mutare il proprio
comportamento (da turbolento a quieto); se sprono un Ragazzo a svolgere i compiti che gli
assegno per casa, gli sto domandando di variare il suo approccio allo studio domestico; e
così via.
Il cambiamento può essere di tre tipi: cognitivo, catastrofico o strategico.
Il primo tipo di cambiamento, a differenza degli altri due, passa attraverso una diversa
consapevolezza logico‐cognitiva: mi dicono che fumare fa male e smetto di farlo. Il
medico mi informa che i miei livelli di colesterolo sono sopra i valori fisiologici e inizierò a
mangiare in modo più sano. Mi dicono che fare attività fisica farebbe bene alla mia salute
e comincio a muovermi tre volte a settimana. Gli esempi appena presentati non sono
credibili, perché la maggior parte dei cambiamenti non parte da una diversa
consapevolezza cognitiva delle cose, ma da un saltus percettivo che innesca meccanismi
diversi nel nostro modo di ​sentire e quindi di comportarci.
Vediamo allora gli altri due tipi di cambiamenti, che partono dal sentire.
Il secondo tipo di cambiamento, quello catastrofico, vede accadere qualcosa che cambia
repentinamente le carte in tavola. Prendo il mio primo 2 ad un compito in classe, mi ​sento
abbattuto e decido di abbandonare gli studi; un ragazzo inizia a corteggiarmi, mi ​sento
lusingata ed affascinata e di colpo comincio a voler andare a Scuola.
Un cambiamento di questo tipo non sarà quindi necessariamente negativo (come parrebbe
suggerire il termine), ma “discreto”: esistono un prima e un dopo ben definiti.
Il terzo cambiamento, quello strategico, assiste ad una variazione progressiva (e spesso
​ geometrica) delle dinamiche connesse al sistema ​percettivo‐reattivo: viene definito anche
“effetto valanga”, facendo riferimento alla piccola palla di neve che, rotolando lungo le
pendici della montagna, acquista velocità e massa, finendo per divenire una vera e propria
slavina.
Un esempio nel contesto scolastico potrebbe essere quello relativo ad un cambio di
atteggiamento dell’Insegnante nei confronti di uno Studente in difficoltà: una piccola
attestazione di fiducia ogni giorno, insieme a qualche sorriso prima assente, potrebbe nel
tempo far migliorare la qualità del rapporto Docente‐Discente, con tutto ciò che poi ne
conseguirà. Una sorta di ​butterfly effect.
​
Torniamo a parlare del cambiamento di primo tipo, quello cognitivo: la strategia che
riesce a promuovere un cambiamento di questo tipo è l’​informazione o la ​formazione. Se
prima non lo sapevi, adesso lo sai e comincerai a comportarti in modo differente.
Attenzione: molto spesso ricorriamo a questa strategia (perché appare la più logica e
ragionevole), nonostante i nostri interlocutori siano già più che “informati” sul tema del
cambiamento. I nostri Studenti ​sanno già perfettamente che “studiare è importante”,
oppure che “correre tra i banchi è pericoloso”; ribadirglielo ripetutamente non sortirà
perciò nessun effetto concreto, se non quello di ledere il rapporto (creando fastidio da
parte di chi riceve sempre le stesse raccomandazioni e frustrazione in chi non fa altro che
ripeterle).
Il rischio più grande in dinamiche di questo tipo è l’assuefazione del ricevente: chi si sente
ripetere sempre la stessa cosa finirà per abituarsi a quella nenia, attribuendole sempre
meno valore e provando, invece, sempre maggiore irritazione.
Potenziali attivatori
●
La ​frustrazione: è la molla più frequente che fa scattare in noi la cosiddetta
“ripetizione a macchinetta”. Non riusciamo ad produrre i risultati che vorremmo
ottenere ed ecco che può partire il “cazziatone” (più elegantemente “paternale”).
●
Le ​consuetudini: siamo cresciuti in un contesto educativo in cui i nostri riferimenti
(genitori, insegnanti, ecc.) hanno agito su di noi questo tipo di cambiamento. Non
solo l’abbiamo subìto, quindi, ma in buona parte l’abbiamo anche integrato tra le
nostre modalità relazionali.
●
I ​consigli ricevuti: senza mettere in dubbio le buone intenzioni di chi ce li fornisce,
molto spesso i consigli che riceviamo non sono propriamente efficaci. Sono frutto
dell’esperienza di qualcuno che potrebbe neanche ottenerli i risultati per cui ci
rivolge i suoi suggerimenti (e magari neanche lo sappiamo) oppure chi ci consiglia
ottiene buoni esiti, ma per altri motivi.
●
Periodi di ​crisi: nei momenti di difficoltà le proviamo un po’ tutte, senza fare
valutazioni critiche. Abbiamo fretta di trovare una soluzione e ci lasciamo guidare
da quello che ci dice l’istinto (o la cultura, o l’abitudine…). Questo fenomeno ci
rende particolarmente “vulnerabili” anche nei confronti del punto precedente.
Possibili strategie alternative
●
Sperimentare strategie alternative che producano risultati differenti: sembra
un’ovvietà, ma purtroppo capita spesso che ci si intestardisca a portare avanti
comportamenti inefficaci illudendosi che aumentandone la frequenza o l’intensità
si possano ottenere risultati differenti. È proprio così che nascono le ​ipersoluzioni
o, con un termine più attuale, le cosiddette ​tentate soluzioni: ad esempio, di
fronte al fatto che la Classe non ascolta le mie raccomandazioni, continuo a
ripeterle più spesso oppure alzando la voce o interpellando il Preside.
Va perciò cambiato qualcosa rispetto a ciò che stiamo attualmente facendo,
modificando uno o più di questi fattori: il ​cosa (ciò che dico), il ​come (si può
intervenire sulla voce ‐ volume, tono, velocità, ecc. ‐ e/o sul proprio stato
emotivo), il ​dove (il contesto che scelgo per rivolgermi alla Classe viene spesso
ignorato, ma risulta determinante), il ​quando (durante la lezione, in pausa, prima
che suoni la campanella, prima/dopo che la Classe presenta un comportamento
scorretto), il ​quanto (“less is more”, come diceva l’architetto van der Rohe), il ​chi
(a chi parlo e/o chi altro è presente quando parlo a qualcuno).
●
Imparare ad utilizzare il ​Dialogo Strategico​®​: un ottimo modo di rivolgersi alla
nostra Classe senza cadere nella trappola della ripetizione.
Questa tecnologia comunicativa è stata sviluppata dal prof. Giorgio Nardone di
Arezzo e prevede uno stile dialogico che non spiega, ma “fa sentire”: attraverso
l’uso di domande ad illusione di alternativa, parafrasi ristrutturanti e l’uso sapiente
del linguaggio evocativo, i nostri interlocutori saranno guidati ad ​cogliere in
autonomia quello che vogliamo suggerirgli. Il passaggio è determinante.
Riuscire a padroneggiare questa modalità di colloquio non è cosa facile, ma i
risultati che regala ripagano dell’impegno messo per impararne l’arte.
●
Prendere confidenza con l’uso dell’​autorivelazione (o ​messaggio io): questa
modalità consiste nel comunicare alla Classe ​quello che proviamo quando siamo di
fronte ad un loro comportamento scorretto.
Può sembrare un dettaglio, ma porre l’accento su come ci sentiamo ​noi piuttosto
che su come si sono comportati ​loro può fare la differenza, risultando più
persuasivo.
●
Fare degli ​esempi reali​: anziché ripetere tutte le buone ragioni per le quali (non)
ci si dovrebbe comportare in un certo modo, può essere molto utile citare esempi
realmente accaduti. Questa scelta produce un uso più “evocativo” del dialogo, che
quindi aiuta a far ​sentire l’utilità di comportarsi diversamente, piuttosto che
sperare di farla ​comprendere.
●
Raccontare una storia​: questa strategia, simile alla prima, risulta molto utile
soprattutto con i bambini più piccoli.
●
Usare la tecnica del ​come peggiorare​: questa tecnica prevede il coinvolgimento
della Classe in un’attività “creativa” che punta a cercare tutti i modi di peggiorare
un’esperienza (per esempio: “Ragazzi, cosa potremmo fare o non fare, dire o non
dire, pensare o non pensare per essere certi di arrivare al compito in classe
completamente impreparati?”). Si basa sull’antico stratagemma cinese ​Se vuoi
drizzare qualcosa, devi prima imparare a storcerla di più: facendo dichiarare in
modo leggero e stimolante alla stessa Classe tutti i modi di peggiorare la propria
situazione, si riuscirà indirettamente a responsabilizzare maggiormente i Ragazzi
(tenendo anche conto del ​principio di impegno e coerenza di Robert Cialdini).
Attività propedeutiche
Per esercitarsi nell’uso del ​Dialogo Strategico​®​, consigliamo di leggere (nell’ordine in cui
vengono presentati di seguito) due libri che aiutano a comprendere il funzionamento di
questo potente strumento: ​Correggimi se sbaglio (G. Nardone, ed. Ponte alle Grazie) e ​Il
dialogo strategico (G. Nardone, ed. Ponte alle Grazie).
Oltre a queste utili letture, è possibile frequentare corsi che guidino nella comprensione e
soprattutto nella pratica di questa tecnica dialogica: raccomandiamo di verificare che i
Docenti siano autorizzati dal Centro di Terapia Strategica (che si occupa degli aspetti
clinici) o dall’STC Change Strategies (che si occupa della formazione professionale),
entrambi di Arezzo.
Consigliamo di iniziare ad utilizzare l’​autorivelazione in situazioni dove il carico emotivo
non risulta eccessivo, ma ancora gestibile: in questo modo si potrà iniziare a prendere
confidenza con questa tecnica, per poterla utilizzare anche in circostanze più
“impegnative”.
Per poter condividere ​esempi reali con la propria Classe è utile abituarsi (ed abituare i
propri Alunni) a farlo: sarà utile perciò imparare a condividere con i propri Studenti
momenti personali (non intimi), sia positivi che negativi.
Anche ​raccontare una storia richiede abilità specifiche: innanzitutto bisogna conoscere
qualche storia che si addica alla situazione che stiamo vivendo in classe. Per arricchire il
proprio bagaglio di storie evocative può essere utile leggere romanzi (anche per
bambini/ragazzi),
vedere film o cartoni animati, consultare raccolte di storie
appositamente raccolte per fornire una guida a chi vuole usare questa forma di dialogo per
promuovere il cambiamento nei propri interlocutori.
Anche il ​modo in cui vengono raccontate le storie fa la differenza: ecco perché un
consiglio è quello di valutare l’opportunità di frequentare un buon corso di teatro (non per
diventare affettati e poco spontanei, ma per sperimentarsi in modo nuovo ed arricchirsi di
nuove possibilità).
Approfondimenti
Problem Solving Strategico da tasca ‐ G. Nardone
Di bene in peggio ‐ P. Watzlawick
Il Dialogo Strategico ‐ G. Nardone, A. Salvini
Insegnante efficace ‐ T. Gordon
Le parole portano lontano ‐ N. Owen
2 ‐ Volume di voce costantemente alto/basso
Tutto diventa un po’ diverso
appena lo si dice a voce alta.
‐ Hermann Hesse
Uno degli errori più comuni commessi in classe dai Docenti consiste nel modulare in modo
poco funzionale, o non modulare affatto, il volume della propria voce.
Stiamo parlando di “volume” e non necessariamente di tono: ci riferiamo quindi
all’​intensità con la quale la voce esce dalla bocca, quella caratteristica cioè misurabile in
decibel.
Rischi ed effetti negativi
Utilizzando un volume della voce ​troppo alto si rischia di generare nell’ambiente una
condizione favorevole alla confusione: la voce (troppo alta) dell’Insegnante diviene una
fonte di malessere che, nel tempo, stimolerà i Ragazzi a parlare a loro volta con un
volume sostenuto. È come se nel tempo ci si abituasse ad “urlare per farsi sentire”,
mantenendo l’asticella del volume medio in classe attorno a livelli preoccupantemente
alti.
Se invece il Docente ha l’abitudine di calibrare la propria voce con un volume
insufficiente (che non consente cioè a tutti gli Alunni di sentire correttamente quello che
viene detto), il rischio più grande è quello di incentivare le distrazioni: potremmo
paragonare questa situazione ad una conferenza tenuta in una lingua solo parzialmente
conosciuta. Le difficoltà di comprensione lasceranno spazio a probabili cali di attenzione.
Potenziali attivatori
●
Il ​nervosismo: avere i “nervi a fior di pelle” causa difficoltà a controllare i
movimenti del diaframma. Andando incontro a piccoli (o grandi) spasmi, questo
può provocare picchi o cali del volume della voce.
●
La ​fretta: solitamente associata ad un volume della voce troppo alto, la fretta ci fa
spingere sull’acceleratore. La sensazione di non avere abbastanza tempo per fare
tutto quello che ci si era prefissi causa una cattiva gestione della propria voce: il
risultato che ne viene fuori è un’ulteriore riduzione dei risultati che si riescono ad
ottenere.
●
Difficoltà uditive: se si hanno problemi di udito (temporanei o permanenti), si
tenderà ad alzare il volume della propria voce.
●
Problemi alle corde vocali: una delle categorie professionali che più di frequente
viene colpita da questo genere di problemi è proprio quella degli Insegnanti. Le
cause posso essere varie: cattivo uso della voce, fumo, infiammazioni locali o
generalizzate, ecc.
Chi soffre di questo disturbo tende a non regolare correttamente il volume della
voce, tenendolo sempre basso per non provare dolore, oppure sforzandosi di
spingerlo in alto per “farsi sentire” correttamente.
●
La ​difficoltà a farsi ascoltare: quando si ha la sensazione che i propri interlocutori
non siano attenti a ciò che si sta dicendo, la reazione più comune è quella di alzare
la voce.
In realtà non sempre (anzi, quasi mai) è una questione di intensità vocale: è invece
molto più frequente che lo scarso interesse derivi da una scelta poco azzeccata
degli argomenti trattati, da una relazione debole, dalla continua ripetizione degli
stessi concetti (vedi errore precedente) o da una difficoltà ad ascoltare propria
dell’interlocutore.
●
L’​abitudine: a volte una delle ragioni che porta a regolare male il volume della
propria voce è semplicemente l’essersi abituati a tale modalità. L’esperienza, ma
anche l’esempio dei propri Insegnanti, può giocare un ruolo determinante in tal
senso.
Possibili strategie alternative
Un volume della voce ottimale in classe è quello che consente a tutti i Ragazzi seduti
nell’ultima fila di banchi di percepire correttamente ogni singola parola dell’Insegnante. È
utile ricordare che è opportuno tenere conto di eventuali difficoltà uditive dei propri
Studenti.
Oltre a scegliere un volume adatto, è importante modulare la propria voce in modo che
questa risulti ​varia. Come qualsiasi altro senso, anche l’udito tende ad assuefarsi agli
stimoli costanti: per questo motivo è utile aiutarsi anche con il volume per introdurre
variazioni nel proprio eloquio e mantenere così più alto il livello di attenzione della
Classe.
Si potranno quindi sottolineare con un volume più marcato i passaggi più importanti,
stimolare la riflessione con una voce più soft e generare ironia con un volume inconsueto.
Attività propedeutiche
Anche se vi abbiamo già accennato in riferimento all’errore precedente, ci fa piacere
ribadire l’utilità di frequentare un corso di teatro. Anche dei workshop di canto o di
doppiaggio potranno aiutarci a sviluppare maggiore confidenza con la voce. In ogni caso
l’obiettivo è quello di curare la propria voce considerandola per quello che è: un vero e
proprio strumento di lavoro del quale prendersi cura per ottenere risultati migliori ed
evitare problemi.
Un altro spunto “poco convenzionale” utile per rendere più ​flessibile il proprio modo di
parlare è quello di leggere ad alta voce delle storie ad un bambino. Solitamente,
svolgendo questa attività ci concediamo maggiore libertà di variare volume, tono e timbro
del nostro eloquio, allenandoci quindi a risultare più coinvolgenti ed interessanti.
Ancora un suggerimento prezioso: è utilissimo registrare e riascoltare la propria voce.
Questo consente di sviluppare maggiore consapevolezza su “come gli altri ci sentono”; è
frequente provare imbarazzo (o altre sensazioni spiacevoli) nel percepire dall’esterno il
suono della propria voce: purtroppo (o per fortuna) fa parte del gioco. Inoltre, gli altri ci
sentono proprio in quel modo!