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Benveniste e il gioco (1)

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Il professor Benveniste contro gli
analogisti.
Sulla differenza tra gioco e sacro
GIUSEPPE BIANCO
Se moquer de la philosophie c’est vraiment philosopher.
Pascal, Pensées
l gioco come struttura fu pubblicato la prima volta nel 1947, nel secondo dei sei “quaderni di filosofia” della rivista “Deucalion”, uscita tra il 1946 e il 1957 sotto la direzione di Jean Wahl.
1
La rivista, assieme alla fondazione del Collège de philosophie, faceva parte di un ampio progetto di “rinnovamento filosofico” che mirava a ritessere i legami intellettuali interrotti
dal conflitto all’insegna dell’interdisciplinarità. Wahl, che aveva insegnato filosofia in svariate università prima di approdare
definitivamente alla Sorbonne nel 1937, si era situato in una
posizione prudentemente eccentrica rispetto al mondo accademico, facendosi coinvolgere in molti circoli dell’avanguardia intellettuale parigina. Appassionato di poesia, aveva collaborato assiduamente con la “Nouvelle Revue Française” durante gli anni trenta; aveva inoltre contribuito a introdurre nella filosofia francese autori allora poco conosciuti come Hegel,
Heidegger e Kierkegaard. In esilio negli Stati Uniti durante
l’occupazione, aveva collaborato a due riviste stampate in zona
libera, “Confluences” e “Fontaine”, le cui edizioni pubblicarono anche “Deucalion”. La rivista costituiva in effetti la pro-
I
1
É. Benveniste, Le jeu comme structure, “Deucalion”, 2, 1947, pp. 159-167; trad. Il gioco
come struttura, in questo fascicolo.
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secuzione dell’utopia2 di fraterno sincretismo che aveva riunito
surrealisti di antica data, intellettuali comunisti e cattolici, fenomenologi ed esistenzialisti sotto lo stendardo della comune opposizione al nazismo. Se i primi due numeri della rivista (1946 e
1947) sono decisamente dominati dal dibattito su Sartre e l’esistenzialismo,3 vi ritroviamo anche articoli di De Broglie sulla fisica nucleare, di Lévinas su Proust, di Wahl su Hölderlin, di
Beckett, e di intellettuali difficilmente classificabili o di “transfughi” del surrealismo come Alquié, Bataille e Masson, che ne aveva disegnato il frontespizio.
Fu proprio attraverso un ex membro del movimento di Breton, Roger Caillois,4 che Wahl venne in relazione con Benveniste,
con il quale aveva forse avuto un primo casuale contatto durante
gli anni venti, nell’ambito delle riviste “Philosophies” e “L’esprit”, pubblicate da un gruppo di studenti di filosofia vicini al
surrealismo.5 Wahl si era legato a Caillois sin dalla comune col-
2
Il titolo della rivista non è scelto a caso. Secondo il mito raccontato nel Timeo, Deucalione
e Pirra, sopravvissuti grazie a un’arca al diluvio scatenato da Giove contro l’umanità, ripopolarono la terra gettando alle loro spalle delle pietre, le quali diedero vita agli esseri umani. Nell’introduzione al primo numero, del 1946 (pp. 7-9), Wahl si augurava che agli “sconvolgimenti” del
periodo della guerra seguissero delle “profonde modificazioni nel pensiero”. La rivista era permeata da uno spirito di eclettismo, proponendosi di dare spazio non soltanto alle “teorie più importanti”, ma a tutte le “componenti eterogenee” della scena intellettuale, oltre che alle altre discipline (“pittori, poeti, scienziati”). L’idea di interdisciplinarità di Wahl affondava le sue radici
in un malcelato bergsonismo intriso di romanticismo misticheggiante e in una filosofia del multiplo e del “mosaico” mutuata dal pluralismo americano.
3
Un articolo di De Waehelens su Heidegger et Sartre, due di Wahl su Sartre e l’esistenzialismo (Essai sur un néant d’un problème, L’existentialisme vu de New York), uno di Yvonne Picard su Heidegger et Husserl, una lunga recensione della Fenomenologia della percezione di Roland Caillois e un articolo (il primo articolo pubblicato in francese) di Hannah
Arendt sulla Philosophie de l’existentialisme.
4
Caillois, dopo una breve partecipazione al movimento, aveva dichiarato il suo distacco
nel 1935 con il pamphlet Procès intellectuel de l’art (ora in Approches de l’imaginaire, Gallimard, Paris 1974). Prima di entrare in contatto con i surrealisti aveva inoltre frequentato un
altro gruppo d’avanguardia, “Le grand jeu”. Cfr. la biografia di O. Felgin, Roger Caillois,
Stock, Paris 1993.
5
Benveniste scrisse il suo primo articolo (una recensione della traduzione di M. Betz dei
Cahiers de Malte Laurids Brigge di Rilke) nel primo numero della prima rivista “Philosophies” (aprile 1924), Wahl pubblicò la prima traduzione di un brano della Fenomenologia
dello spirito di Hegel nel secondo numero di “L’esprit” (1926). Benveniste farà peraltro riferimento al surrealismo nell’articolo Osservazioni sulla funzione del linguaggio nella scoperta
freudiana (1955, ora in Problemi di linguistica generale I, 1966, il Saggiatore, Milano 1994).
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laborazione alla rivista “Recherches philosophiques”, e aveva
seguito da vicino, per conto della “N.R.F.”, la breve vita del
movimento “Contre-Attaque”, della rivista fondata da Caillois, “Inquisitions”, oltre che le attività della rivista “Acéphale” e del Collège de sociologie; aveva infine scritto, assieme a
Caillois, sulle pagine di “Mésures” e poi di “Fontaine”. A loro
volta Benveniste e Caillois si erano conosciuti all’École Pratique des Hautes Études, dove il primo insegnava grammatica
comparata dell’indoeuropeo e dell’iraniano e il secondo seguiva i corsi di Kojève, di Marcel Mauss, di Jean Marx, amici di
Benveniste (e per breve tempo collaboratori delle “Recherches
philosophiques”), di André Corbin e Georges Dumézil. Al di
là del breve riferimento a Caillois nel saggio di Benveniste (e a
Benveniste, nella ripubblicazione del saggio del 1945 di Caillois, nella seconda edizione dell’Uomo e il sacro), gli scambi tra
i due intellettuali si manifesteranno esplicitamente quando
Benveniste, coinvolto da Caillois, collaborerà alla rivista di antropologia da lui fondata nel 1952, “Diogène”,6 il cui obiettivo
era quello di disegnare un quadro per quelle “scienze trasversali” capaci di comprendere l’unità delle manifestazioni umane. L’articolo di Benveniste pubblicato nel primo numero, del
1952, Linguaggio animale e comunicazione umana – il quale mirava a separare i due fenomeni utilizzando la coppia codice di
segnali / linguaggio, pertinenti ai rispettivi campi semiologico
e semantico – avrà un’importanza decisiva per Caillois, poiché
gli permetterà di operare un clivaggio tra le scienze biologiche
e le scienze umane attraverso un’analisi passibile di ristruttura-
6
Con Comunicazione animale e linguaggio umano (1952) e poi con Il linguaggio e l’esperienza umana (1965) (entrambi ripubblicati in Problemi di linguistica generale, cit.). L’influenza del lavoro di Benveniste su quello di Caillois durante gli anni cinquanta è illustrata in
maniera convincente da L. Moutout nella sua Biographie de la revue Diogène, L’Harmattan,
Paris 2006. È su “Diogène” che Caillois riprende la sua riflessione sui giochi con due saggi
che andranno a confluire nel libro I giochi e gli uomini (1959), Bompiani, Milano 1981
(Structure et classification des jeux, “Diogène”, 12, 1955, pp. 72-88 e Unité du jeu, diversité
des jeux, “Diogène”, 19, 1957, pp. 117-144). E sempre su “Diogène” (40, 1962) ritroviamo
uno studio dello psicologo Jean Château, autore di riferimento tanto per Benveniste che per
Caillois (Règle et turbulence dans le jeu enfantin).
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re la distinzione profano/sacro (fino ad allora utilizzata da
Caillois) grazie a quella pulsionale/simbolico.
L’articolo di Benveniste sul gioco rimarrà senza replica, perlomeno su “Deucalion”, fino all’uscita dell’ultimo numero della rivista (del 1957), espressamente dedicato al tema “Jeu et poèsie”.
In questo fascicolo, oltre a un frammento del celebre studio di
Eugen Fink sull’ontologia del gioco, venne pubblicato un testo di
Suzanne Lilar, Le jeu. Dialogue de l’analogiste avec le professeur
Plantanga.7 Qui la drammaturga e saggista olandese menzionava
Huizinga, Caillois e Jean Château – autore di due importanti saggi sul gioco e il bambino, usciti poco prima del Gioco come struttura8 – suggerendo di essere al corrente degli sviluppi dei dibattiti degli anni quaranta e cinquanta concernenti il gioco. Le jeu
metteva in scena un dialogo tra un’“analogista” e un immaginario
“professor Plantanga”, i cui tratti paiono curiosamente ricordare
quelli di Benveniste: il professore era infatti accusato dall’autrice
di un’eccessiva “predilezione per la classificazione e per ciò che
egli [...] chiama lo studio delle strutture formali”.
È solo avendo in mente questo quadro d’insieme che è possibile comprendere la posta in gioco dell’articolo di Benveniste, in
cui, come in molti altri interventi,9 i rimandi e le allusioni al campo dei saperi a lui contemporaneo sono mascherati da un’apparente semplicità di costruzione e dall’assenza di note, fatta eccezione per quella su Huizinga e Caillois. Tanto la traiettoria intellettuale piuttosto solitaria di Benveniste, quanto il suo temperamento ritroso paiono in effetti andare difficilmente d’accordo
con i problemi che agitavano l’inquieta scena filosofica dell’immediato dopoguerra – dominata dai temi “esistenzialisti” – di cui
7
Lilar aveva raggiunto una certa celebrità nel 1954, con la pubblicazione del Diario dell’analogista (Panozzo, Rimini 1991).
8
Le jeu de l’enfant après trois ans, sa nature, sa discipline (Vrin, Paris 1946) e Le réel et l’imaginaire dans le jeu de l’enfant (Vrin, Paris1946). Nel 1950, Château pubblicherà Il bambino e il giuoco (La Nuova Italia, Firenze 1991).
9
Si vedano a questo proposito le pertinenti analisi di J.-C. Milner nel capitolo III del suo
recente Periplo strutturale (2002, Mimesis, Milano 2008). In particolare, Milner tenta di dimostrare, in maniera convincente, l’influenza della ricezione francese dell’hegelismo e del
marxismo nei primi scritti di Benveniste.
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“Deucalion” forniva uno spaccato. Diplomato in grammatica all’inizio degli anni venti, dottore nel 1935 con una tesi sull’Origine
de la formation des noms en indo-européen, successore del suo
maestro Antoine Meillet all’École Pratique des Hautes Études
nel 1927 e poi al Collège de France dal 1934 fino agli anni sessanta, Benveniste era noto esclusivamente come uno dei più grandi
esperti di grammatica comparata delle lingue indoeuropee e di
studi iraniani. La sua fama di studioso di linguistica generale si
diffonderà solamente in seguito alla pubblicazione della raccolta
Problemi di linguistica generale e a quella del celebre Vocabolario
delle istituzioni indoeuropee.10 Il gioco come struttura appartiene
invece a una manciata di saggi meno specialistici, pubblicati in riviste di maggiore divulgazione e riguardanti temi più generali.11
Una parte di essi fu raccolta nel primo tomo dei Problemi di linguistica generale, altri, come il saggio in questione, restarono (e
restano tuttora) dispersi in svariate riviste.12
10
Pierre Nora, direttore della collana “Sciences sociales” dell’editore Gallimard, dove
Benveniste pubblicò i Problemi di linguistica generale, racconta che prima della pubblicazione della raccolta Benveniste aveva avuto soltanto due allievi (cfr. Interview avec Pierre
Nora, “Entreprise et Histoire”, 24, 2000).
11
Articoli compresi nella rubrica “Divers” dell’esaustiva bibliografia curata da M.D.
Mïnfar nel volume Mélanges linguistiques offerts à Émile Benveniste, Société Linguistique
de Paris, Paris 1975, pp. VII-LIII. Prima del saggio del 1947, i libri e gli articoli pubblicati da
Benveniste si erano limitati ad ambiti strettamente specialistici.
12
Giorgio Agamben è stato forse l’unico ad aver ripreso, peraltro in alcuni momenti cruciali della sua opera, le feconde intuizioni contenute nel saggio di Benveniste. In “Il paese
dei balocchi”, capitolo centrale di Infanzia e storia (Einaudi, Torino 20042), la distinzione tra
gioco e rito, tra gioco e sacro (nozione che, com’è noto, occupa un ruolo centrale nella produzione di Agamben) viene fatta coincidere con quella che, nel Pensiero selvaggio, LéviStrauss traccia tra società calde e fredde. Agamben evidenzia come la dialettica tra gioco e rito, tempo dell’evento e tempo dell’eterno presente, costituisca il tempo delle società umane,
il tempo storico. Nel recente Profanazioni (nottetempo, Roma 2006), nel capitolo che dà nome al libro, riprendendo lo stesso saggio di Benveniste, Agamben sottolinea come il gioco
rappresenti il caso d’essenza della profanazione, il gesto tramite il quale ciò che è sacro, ciò
che è separato dal “regno degli uomini”, viene restituito “all’uso e alla proprietà degli uomini”. Agamben oppone l’operazione di “neutralizzazione” e profanazione del sacro propria
al gioco alla secolarizzazione, la quale, invece, costituisce una mera rimozione dei concetti
teologici e dei legami di potere che essi veicolano. Se entrambe le operazioni hanno un carattere “politico”, la secolarizzazione è strettamente legata all’esercizio del potere, di cui essa si
fa garante, mentre la profanazione “disattiva i dispositivi del potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato”. L’ingiunzione conclusiva di Profanazioni potrebbe allora apparire diametralmente opposta alla conclusione del Gioco come struttura: mentre Benveniste suggerisce la possibilità di una ri-sacralizzazione del gioco, Agamben, esiben-
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“Il gioco, non il giocatore”
Questo breve ma incisivo scritto – “oggetto perturbante” e “documento” in un senso squisitamente batailliano13– ha una certa
importanza, se non altro per il suo carattere anticipatore. Nel clima culturale francese dell’immediato dopoguerra, dominato dalla filosofia della libertà veicolata da “Les Temps Modernes”, trovare nel rigido paradigma della struttura la chiave della comprensione di un fenomeno quale quello del gioco, fino ad allora legato
alla spontaneità, alla gratuità e alla libertà dell’uomo, non era certo all’ordine del giorno.14 È utile a questo proposito ricordare la
concezione avanzata nelle ultime pagine dell’Essere e il nulla, dove – partendo dall’esperienza fenomenologica della libertà e dal
suo potere di “néantisation” – Sartre opponeva il gioco
all’“esprit du sérieux”. Mentre l’uomo serio, che cosifica il suo
essere e considera il per-sé alla stregua dell’in-sé, è costretto a subire il determinismo e sfugge alla libertà attraverso le condotte di
malafede, il giocatore accetta la sua ambiguità, riconosce di non
essere quello che è e, così facendo, assume la responsabilità della
sua libertà d’azione. Se non fosse per il fatto che le venti pagine
della Brief über den humanismus, che sconvolsero la scena filosofica francese all’alba degli anni cinquanta, sono state pubblicate
contemporaneamente al saggio di Benveniste, si potrebbe leggere facilmente una tonalità anti-umanista nelle prime frasi del Giodo la miseria provocata dall’odierno processo di sacralizzazione del gioco attraverso la sua
progressiva secolarizzazione, suggerisce invece che “restituire il gioco alla sua vocazione puramente profana è un compito politico” destinato alle generazioni a venire (Profanazioni,
cit., p. 88). Se il tempo storico pare essersi arrestato in quell’avvilente eterno presente prodotto della religione capitalista, Agamben pare sostenere che il gioco costituisca uno dei pochi modi per sbloccarlo, attraverso la sua carica profanatoria, e dunque creatrice.
13
Cfr. la “Préface” di D. Hollier alla riedizione della rivista Documents (J.-M. Place, Paris 1991), animata da Bataille tra il 1929 e il 1931.
14
Già Château aveva messo in luce il carattere strutturato dei giochi. Tuttavia – aspetto
che rende l’approccio di Benveniste di estrema originalità – ciò che sottolineava non era tanto la differenza tra la struttura generale inerente a tutti i giochi e la struttura di altre manifestazioni umane (come per esempio il sacro), bensì le differenze, interne all’insieme delle attività ludiche, tra le strutture di particolari giochi. In sostanza, per lo psicologo, il problema
non era il gioco come struttura, ma la struttura di alcuni giochi. Château, che in Le jeu de l’enfant fa precedere al capitolo su “La classification des jeux” un capitolo su “Les structures ludiques” traccia una “distinzione essenziale [...] tra i giochi non regolati e i giochi che implicano delle regole, delle strutture” (ivi, p. 380).
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co come struttura. Come quando Benveniste, ponendo il senso del
gioco nella sua forma e affrancandolo dalle condotte soggettive
del giocatore, scrive che “il gioco [...] determina i giocatori, non
l’inverso, [...] crea i suoi attori, conferisce loro il loro posto, rango, figura; regola il loro mantenimento, il loro aspetto fisico, li
crea, addirittura, a seconda del caso, morti o vivi”. Ma, più in generale, ciò traspare dall’accento posto sulla questione “del gioco,
non del giocatore”. Nel 1947 nulla poteva far presagire che Derrida, vent’anni dopo, in un convegno a cui Benveniste parteciperà,15 avrebbe presentato una conferenza in cui, legando strettamente il tema del gioco a quello del segno e della struttura, tentava di scalzare il soggetto dal posto centrale che aveva fino ad allora occupato in una certa filosofia francese.16 Né era possibile prevedere lo stesso tipo di operazione, effettuata praticamente nello
stesso momento da Deleuze nella Logica del senso, a proposito
del carrolliano “gioco ideale”, né l’idea foucaultiana dei “giochi
di verità” dei quali il soggetto è più il prodotto che il protagonista.
Alla luce della futura prudenza di Benveniste nei confronti
della moda strutturalista e della sua predilezione per il termine
“sistema”, Il gioco come struttura risulta ancora più singolare.
L’articolo precede di un anno la discussione della celebre tesi di
Lévi-Strauss (ritornato dal suo esilio americano proprio al momento della pubblicazione del saggio), che porterà il termine
struttura nel suo titolo.17 D’altronde sin dal primo paragrafo traspare chiaramente l’omologia tra il gesto di Benveniste e quello
dell’antropologo. Benveniste rifiuta con decisione la spiegazione
15
Da allora Derrida si servirà innumerevoli volte delle analisi di Benveniste (sul dono,
sull’ospitalità, sull’ipseità, sull’etimologia del verbo essere).
16
J. Derrida, “La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane” (1966),
in La scrittura e la differenza (1967), Einaudi, Torino 1998.
17
Benveniste faceva parte della commissione esaminatrice della tesi. D’altro canto, già
due anni prima, Lévi-Strauss aveva pubblicato, in uno dei primi numeri di “Word” – la rivista del circolo linguistico newyorchese animato da Jakobson – l’articolo L’analisi strutturale
in linguistica e in antropologia (ora in Antropologia strutturale, 1958, il Saggiatore, Milano
2002). Lévi-Strauss renderà omaggio a Benveniste nel saggio (poi citato da Agamben),
Mythe et oublie (in J. Kristeva, J.-C. Milner, N. Ruwet, Langue, discours, société: pour Émile
Benveniste, Seuil, Paris 1975).
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“naturalista” del gioco, la quale parte dall’ipotesi della soddisfazione nel gioco di una “tendenza bio-psicologica” insita nel singolo individuo, e, procedendo invece “inversamente”, mette in
primo piano la questione “del gioco, e non [quella] del giocatore”. Levi-Strauss effettua la stessa inversione prospettica al suo
ritorno dagli Stati Uniti nel 1947, rompendo con l’antropologia
biologica del XIX secolo: l’antropologia non è più, come in Comte, la scienza il cui sapere interessa l’individuo concreto, ma l’oggettivazione assoluta dei fenomeni umani che conferisce loro un
senso. Tanto l’eterogeneità dei giochi, la loro “immensa varietà”,
quanto l’infinita diversità dei legami di parentela o, poco più tardi, quella dei miti, si trova unificata grazie al paradigma della
“struttura”, della “totalità chiusa”. La corrispondenza stabilita
da Benveniste tra la coppia “forma/contenuto” e quella
“gioco/realtà”, la ricerca del “senso” del gioco non tanto nella
“finalità” del gioco quanto nella sua particolare “forma”, l’insistenza sulla “convenzionalità” e sull’“arbitrarietà” delle regole,
l’idea che vi sia una “logica” e un “linguaggio” propri del gioco, il
carattere di totalità differenziale delle regole che “non sono nulla
quando sono separate e sono tutto quando sono riunite”, la loro
“proprietà strutturante”, rendono evidente l’omologia con il modello fornito dalla linguistica saussuriana che, ciononostante,
non è mai nominata da Benveniste. Paradossalmente, sebbene
Benveniste parli di struttura tanto per il sacro quanto per il gioco,
il gioco pare quasi costituire l’exemplum di una struttura.
Il procedimento è soltanto a prima vista analogo a quello adottato da Caillois in Il gioco e gli uomini e da Huizinga in Homo ludens (che Benveniste lesse solo in seguito alla redazione del suo
saggio), dove l’autore olandese si opponeva alle spiegazioni “psicologistiche” dei comportamenti ludici. Caillois, il quale loda
l’approccio di Huizinga nella recensione del 1945, aveva precedentemente adottato esattamente il tipo di analisi “psicologistica” che criticherà poco dopo. Negli studi di sociologia degli anni
trenta, come quelli raccolti in Il mito e l’uomo e in La communion
des forts, l’attenzione è portata infatti verso gli “istinti profondi”
di “natura biologica”, contrapposti alla società; nella fattispecie,
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nel saggio Vertiges18 il punto di partenza è proprio una lettura
soggettiva del giocatore, la quale è per molti versi analoga a quello data da Freud nel celebre saggio del 1928 su Dostoevskij e il
parricidio.19 Nel giocatore d’azzardo, paragonato all’amante e al
guerriero, Caillois sottolineava “la voglia del disastro”, l’“alienazione”, la “squisita angoscia” e la fiducia nel “disequilibrio”,
contrapposte alla “virtù della giustizia e della regola”. Inoltre né
negli studi di Caillois precedenti alla guerra, né in quello di Huizinga, il quale tradisce una retorica dell’“attività volontaria” e
delle regole “liberamente consentite”, è percepibile il decentramento soggettivo che invece traspare nettamente nel testo di
Benveniste.
L’apparente somiglianza del metodo adottato da Benveniste
con quello di Lévi-Strauss, per quanto stupefacente, è invece solo
frutto di una coincidenza, poiché Benveniste era giunto indipendentemente – attraverso un lento e solitario studio, iniziato
vent’anni prima e sfociato prima nella tesi di dottorato e, molto
più tardi, nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee – all’incrocio tra scienze sociali e linguistica. Sin dalla tesi aveva tentato di
mostrare come la radice indoeuropea dei nomi fosse determinata
da regole precise; riprendendo dal suo maestro Antoine Meillet
l’idea che la lingua non fosse una sostanza primitiva, ma un sistema dominato rigidamente da regole, Benveniste tentava di stabilire una corrispondenza tra la storia delle strutture sociali indoeuropee e le strutture linguistiche. Per farlo tentava di ricondurre la diversità dei suoni a un tipo unico (proto-indo-europeo);
in seguito, ipotizzando che i modelli indoeuropei avessero giocato un ruolo cruciale nella costituzione delle rappresentazioni,
avrebbe cercato di stabilire sistematicamente una relazione tra
un’istituzione e una categoria di pensiero. Nel Gioco come strut18
Prima incluso in La communion des forts (1941), poi riunito assieme ai saggi appartenenti al volume del 1951 Quatre essais de sociologie contemporaine nella raccolta, del 1964,
Instincts et société, essais de sociologie contemporaine.
19
La psicanalisi resta un termine di riferimento, e sovente il bersaglio di critiche, per tutti gli studi psicologici del gioco infantile risalenti agli anni quaranta. Cfr., oltre ai già citati
studi di Château, anche il libro di Piaget La formation du symbole chez l’enfant: imitation, jeu
et rêve, image et représentation (Delachaux et Niestlé, Paris 1945).
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tura i comportamenti ludici umani nelle loro varietà eterogenee
sono ridotti a un’unità dotata di una struttura comune; in seguito
è la “varietà semantica” legata al gioco, a essere ridotta a un’unica
struttura, la quale ha una storia e delle variazioni (in questo caso
ludus e jocus20).
Se da una lettura attenta traspare in maniera incontrovertibile
che Benveniste avesse letto gli studi psicologici sul gioco di Piaget e Château, immediatamente precedenti alla stesura del saggio, è altrettanto evidente, nel paragone con la “struttura” propria del sacro – e, ancor più, nelle allusioni alla frenesia che esso
induce e nell’accenno conclusivo alla possibilità di una ri-sacralizzazione del gioco –, un confronto con i lavori di Caillois, di cui
Benveniste aveva letto, oltre all’articolo su Huizinga del 1945,
anche i due importanti libri della fine degli anni trenta, Il mito e
l’uomo e L’uomo e il sacro, e la raccolta già citata, La communion
des forts. La definizione del sacro come “supremamente efficiente” è d’altronde ripresa da uno dei primi capitoli di L’uomo e il sacro (“Il sacro, fonte di ogni efficienza”). Ma, contrariamente alla
concezione proposta da Caillois durante gli anni trenta e quaranta – la quale tendeva a mettere il gioco in rapporto con attività
tanto diverse quali la guerra e l’amore, evidenziandone il loro legame con lo “spreco” –, la teoria di Benveniste permette di trovare un criterio di differenziazione apparentemente più rigoroso
tra i fenomeni umani (nella stessa maniera in cui, pochi anni dopo, la linguistica permetterà di separare comunicazione animale
e linguaggio umano). Le ultime righe del saggio, in cui Benveniste scrive che “la distinzione tra il sacro e il profano non si sovrappone assolutamente a quella tra il gioco e il reale”, ma che “le è solamente parallela”, paiono essere esplicitamente indirizzate contro Caillois.
20
In un passaggio posto in esergo a uno dei due libri sul gioco del 1946, Château aveva
già messo in risalto l’origine latina del termine gioco: “Il gioco”, scriveva, “è innanzitutto ‘jocus’; è lo scherzo salace e grossolano che fa singhiozzare di grasse risa i rozzi paesani del Lazio; è la vita, è la gioia” (Le jeu de l’enfant après trois ans, sa nature, sa discipline, cit., p. 1). In
una densa pagina Benveniste riporta sui binari della discussione scientifica un utilizzo piuttosto disinvolto e impressionistico dell’etimologia.
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Ciononostante Benveniste sostiene che il gioco abbia dei rapporti con il sacro, e che essi siano formalizzabili; il gioco è caratterizzato dall’assenza di riferimento a un reale – fosse anche un
“sur-reale”21 come nel caso del sacro – e nell’elisione di una delle
due parti della struttura del sacro: il mito, o narrazione sacra (nel
ludus), oppure il rito, o atti sacri (nel jocus). Ciò ha come conseguenza l’abbassamento del divino al livello del profano, l’“esaltazione” e la “liberazione” e non, come nel sacro, l’innalzamento
del profano al livello del divino, la “tensione” e l’“angoscia”. Infine questo tipo di “analisi strutturale” permette di ipotizzare – in
maniera più precisa rispetto al testo di Huizinga, che Benveniste
critica per l’estensione arbitraria della categoria di gioco a ogni
attività umana regolata – la possibilità della rilettura di ogni attività umana alla luce del gioco, a patto che vengano rispettati i due
criteri sopra indicati: elisione della narrazione del mito o del rito,
e assenza di finalità pratica o riferimento al “reale”.22 Ovviamente – come farà notare Caillois dieci anni dopo, riprendendo e correggendo le formulazioni di uno studio giovanile come Vertiges –
la classificazione rigida di Benveniste gli preclude la comprensione dei giochi d’azzardo, i quali hanno una finalità pratica e dunque intrattengono un legame con il reale.
Il gioco e l’“irrealizzazione”
Se già il primo passo, quello dell’accoppiamento delle scienze sociali e della linguistica riveste un certo interesse,23 il secondo,
21
La scelta di questo termine è un’evidente strizzata d’occhio alla parola coniata da
Apollinaire e poi ripresa da Breton nel 1924.
22
Benveniste raggiunge così, con un grado di precisione maggiore, le conclusioni di Piaget nel suo studio sul gioco del 1945 (La formation du symbole chez l’enfant, cit.). Piaget, dopo aver preso in esame svariate teorie sulla differenza costitutiva del gioco rispetto ad altre
manifestazioni umane, sosteneva che “tutti i criteri proposti per definire il gioco rispetto all’attività non ludica sfociano, non a dissociare in maniera netta il primo dalla seconda, ma a
sottolineare semplicemente l’esistenza di un orientamento il cui carattere più o meno accentuato corrisponde alla tonalità più o meno ludica dell’azione. Ciò non significa altro che il
gioco si riconosce da una modificazione, di grado variabile, dei rapporti di equilibrio tra il
reale e l’io [moi]” (ivi, p. 155).
23
Benveniste aveva partecipato alla fondazione della rivista di Lévi-Strauss, “L’homme”, il cui primo numero esce all’inizio degli anni sessanta.
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quello dell’utilizzo della “psicologia”, lo fa a maggior ragione,
basti pensare che Benveniste aspetterà un decennio prima di fare
il suo primo intervento in una disciplina fino ad allora molto lontana dal suo campo d’indagine, e dove lascerà peraltro una traccia indelebile.24 Nell’ultima parte del Gioco come struttura Benveniste non solo ipotizza che a una radice linguistica corrisponda
una struttura comune alla pluralità delle pratiche ludiche, ma anche che quest’ultima abbia la sua origine in quella che chiama una
“struttura umana”, un’istanza “vitale”, la quale coincide con le
forze “della vita subconscia”, con un “istinto profondo” che ha
creato il gioco e che poi vi si è piegato. È solo nell’ultimo passaggio che Benveniste può allora ritrovare le spiegazioni “bio-psicologiche” che aveva inizialmente escluso.25 Nel Gioco come struttura il concetto di “struttura umana” resta indeterminato e può
essere inteso in diverse maniere, ma, come intendiamo mostrare,
Benveniste pare trovarsi in una situazione di ambigua prossimità
tanto con un certo freudismo che con la fenomenologia di Sartre,
il quale aveva ampiamente utilizzato il termine durante gli anni
trenta per designare le “strutture esistenziali”.26 Il lavoro del filo24
Cfr. É. Benveniste, Osservazioni sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana,
cit. Ricordiamo, per fornire un quadro che permetta di soppesare l’importanza strategica di
questo saggio nel gesto lacaniano, che nello stesso numero di “La psychanalyse” è anche
pubblicato il fondamentale articolo Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, la traduzione di Logos di Heidegger, e il commento di Hyppolite alla Verneinung di
Freud. Il primissimo contributo di Benveniste a una rivista di psicologia fu tuttavia pubblicato nel 1951, nel “Journal de Psychologie” (La nozione di “ritmo” e la sua espressione linguistica, poi ripreso in Problemi di linguistica generale, cit.).
25
Solo qualche anno più tardi, anche il linguaggio realista dell’istanza vitale e dell’istinto, il quale riprende evidentemente l’energetismo proprio del Collège de sociologie, e la
psicanalisi precedente la riforma lacaniana, sarà sostituito da un inconscio formalizzato.
Nel sopra citato saggio sulla Funzione del linguaggio nella scoperta freudiana, Benveniste si
opporrà risolutamente alle teorie fenomenologiche del Sartre della Trascendenza dell’ego
(e alla psicologia in “prima persona” della Critica dei fondamenti della psicologia del suo
coetaneo Politzer) sostenendo che “è in e attraverso il linguaggio che l’uomo si costituisce
come soggetto; poiché solamente il linguaggio fonda in realtà [...] il concetto di ego [...],
consideriamo che questa soggettività, che la si ponga in fenomenologia o in psicologia come
si voglia, non è altro che una proprietà fondamentale del linguaggio. È ego che dice ego”
(corsivi miei). Benveniste elimina dunque il riferimento saussuriano alla parole (al locutore, quindi all’individuo) per fondare la soggettività sulla materialità del linguaggio in quanto si proferisce.
26
Come nota Merleau-Ponty nel celebre saggio Da Mauss a Claude Lévi-Strauss (1959, in
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sofo doveva d’altronde aver interessato un linguista come Benveniste, visto il tentativo sartiano – nell’Immaginazione, ma soprattutto nell’Immaginario – di distinguere, dal punto di vista di una
“psicologia” fenomenologica, l’immagine dal segno e dal simbolo.27
Nel Gioco come struttura Benveniste, dopo aver postulato la
totale separazione del gioco dal reale28 – il gioco come “forma”
non si riferisce infatti né a un “contenuto” reale, come nel profano, né sur-reale, come nel sacro, ma extra-reale –, radica il gioco
in una funzione psichica subconscia che chiama “irrealizzante”.
Da una parte pare evidente che Benveniste avesse in mente il
“principio di realtà” freudiano (Lacan utilizzerà per esempio l’espressione “irrealizzazione” per designare il passaggio dal reale
al simbolico29), ma il fatto che il linguista non parli della soddisfazione del principio di piacere nel gioco,30 farebbe piuttosto pensare a Sartre, il quale aveva usato il termine “irrealizzazione” nell’Immaginazione e poi nell’Immaginario, per designare il tipo di
intenzionalità proprio della coscienza immaginativa, capace di
trascendere il mondo e di porlo a distanza, nullificandolo e riuscendo così a presentificare una persona o una cosa assente. Se-
Segni, 1960, il Saggiatore, Milano 2003), il termine struttura era già stato ampiamente utilizzato dagli psicologi per designare delle “configurazioni del campo percettivo”, delle “totalità articolate”. I due maggiori teorici del gioco contemporanei di Benveniste, i già citati Piaget e Château avevano utilizzato con frequenza, nei loro studi del 1945 e 1946, espressioni
quali “struttura psicologica” e “struttura mentale”.
27
Benveniste si era interessato all’immaginario e agli studi di Bachelard (che aveva probabilmente incontrato nell’ambito delle “Recherches philosophiques”) in un breve articolo
intitolato L’eau virile, pubblicato nel 1945 nell’unico numero della rivista “La pierre à feu.
(Province noire)”, vicina agli ambienti surrealisti. L’articolo, che si riduce a una serie di annotazioni sulla “mitologia latente nelle figurazioni dell’acqua” (di mare) in alcuni poeti si
ispira, citandolo, al Bachelard dell’Acqua e i sogni.
28
La dialettica che intercorre tra realtà e immaginazione all’interno del gioco è l’oggetto
tanto di Le réel et l’imaginaire dans le jeu de l’enfant di Château che di La formation du symbole chez l’enfant di Piaget. Piaget collega il gioco a un’“imitazione esatta del reale”, Château lo collega a un potere di rappresentazione delle cose nel quale il bambino “si ritrova”.
29
Lo schizofrenico, per cui tutto è reale, è incapace di operare tale irrealizzazione.
30
Al contrario Piaget, menzionando il principio di piacere e il principio di realtà, criticava le interpretazioni più semplicistiche, come quella di Claparède, il quale vedeva nel gioco
l’immediata realizzazione dei desideri e dei bisogni (cfr. La formation du symbole chez l’enfant, cit., p. 155).
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condo Sartre, che si rifaceva liberamente a Husserl, questa attività presiedeva alla creazione di tutti i tipi di immagini, tanto i sogni, quanto le metafore o le fotografie.31 Allo stesso modo Benveniste include tra le manifestazioni dell’attività “irrealizzante”
“l’immaginazione, il sogno e l’arte”, ma soprattutto descrive – in
termini fenomenologici – la costellazione ludica come “un insieme di forme la cui intenzionalità non può essere orientata verso
l’utile”.32 La funzione “irrealizzante” che si manifesta nel gioco
sospende così il reale esattamente nella stessa maniera in cui l’attività irrealizzante propria della hylé immaginativa presenta un
oggetto come assente. Nel gioco la coscienza riprende le strutture del sacro, ma “per gioco”, separandole dalla realtà divina, “irrealizzata”.
Inoltre, secondo Benveniste, l’irrealizzazione che si manifesta
nel gioco consiste nel tentativo di risolvere il difficile conflitto
dell’uomo con il reale. In due passaggi, che tradiscono un certo
pathos esistenzialista, Benveniste oppone la gratuità del gioco al
mondo reale in cui, al contrario, “il volere umano, asservito all’utilità, va a sbattere di continuo contro l’evento, l’incoerenza, l’arbitrario, in cui nulla giunge mai al suo termine previsto seguendo
le regole ammesse, in cui la sola certezza che l’uomo possiede,
quella della sua fine, gli appare al contempo come iniqua e assurda”, evocando infine l’immagine di una coscienza “condannata a
brancolare dolorosamente in un reale che essa non può vivere immediatamente, né accettare completamente, poiché se spesso riesce a modificarlo, d’altra parte non è mai in condizione di comprendere”. Il gioco crea invece un mondo dove questi tragici
31
Nello stesso momento, anche Caillois, come spiega nella prefazione al Mito e l’uomo,
stava cercando di costituire una fenomenologia dell’immaginazione capace di discernerne
le diverse manifestazioni (infantile, mitologica, poetica, patologica).
32
Tanto Château che Piaget (il secondo in maniera più dubitativa) avevano posto l’accento sull’inutilità del gioco, considerandolo come un’“attività gratuita il cui principio è il
godimento” (Le jeu de l’enfant, cit., p. 377) qualcosa “che trova la sua fine in se stesso, mentre il lavoro e le altre condotte non ludiche comportano un obiettivo che non è compreso
nell’attività come tale. Il gioco sarebbe dunque, come si suol dire, ‘disinteressato’” (J. Piaget, La formation du symbole chez l’enfant, cit., p. 154).
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conflitti sono appianati:33 in tale mondo la coscienza può esprimersi liberamente, a patto di sottostare alle regole del gioco, le
quali circoscrivono una rappresentazione priva di contenuto
(salvo quello dell’extra-realtà che il gioco crea). Benveniste definisce questa rappresentazione del mondo, innata nell’individuo,
come magica. Ora, Sartre aveva ripreso, sin dalle Idee per una teoria delle emozioni (1939),34 l’aggettivo “magico” dalla Mentalità
primitiva di Lévy-Bruhl35 al fine di definire un determinato modo
di esistenza della coscienza, quello emozionale. L’emozione,
spiegava Sartre, consiste in una “brusca caduta della coscienza
nel magico” e precisava che “vi è emozione quando il mondo degli utensili svanisce bruscamente e il mondo magico appare al suo
posto”. Nelle condotte emozionali, la realtà umana fugge dal
mondo reale, e lo sostituisce con un mondo “magico”, ma “interamente coerente”, dove gli oggetti agiscono direttamente su una
coscienza cosificata. La stessa espressione è ripresa, nel 1940, all’inizio del quarto capitolo dell’Immaginario,36 quando Sartre definisce l’immaginazione come “un atto magico”, “un incantamento destinato a far apparire l’oggetto al quale si pensa, la cosa che si
desidera, in maniera che se ne possa prendere possesso”. Sartre
lega, infine, tanto nelle Idee quanto nell’Immaginario, la coscienza magica al mondo dell’infanzia37 proprio come fa Benveniste
nel Gioco come struttura.
33
Ancora una volta troviamo espressioni simili in Château e Piaget; secondo quest’ultimo il gioco procede “da un rilassamento dello sforzo di adattamento” alla realtà (La formation du symbole chez l’enfant, cit., p. 94).
34
In J.-P. Sartre, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni (1936), Bompiani,
Milano 2004.
35
Nei Quaderni per una morale (Editori Riuniti, Roma 1991), la rilettura, questa volta
esplicita, di Lévy-Bruhl (affiancata a quella di Mauss, Leiris e Bataille) in chiave fenomenologica è direttamente tesa alla ricerca di una morale. Sartre spiega come la modalità esperienziale del “primitivo”, il quale non possiede le categorie di produzione e di causa ed effetto, è quella di un uomo alienato nel bel mezzo di “un mondo magico dove [...] l’oggetto è essenziale e l’uomo inessenziale”.
36
J.-P. Sartre, L’immaginario (1940), Einaudi, Torino 2007.
37
Un riferimento comune e implicito, tanto in Benveniste che in Sartre, sono gli studi
degli anni trenta di Piaget sulla genesi della causalità e della rappresentazione del mondo nel
bambino. Piaget aveva peraltro tentato di mostrare, ispirandosi agli studi di Lévy-Bruhl, la
somiglianza tra le strutture proprie della mentalità “primitiva” e quella del bambino.
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Il “campo di gioco” del professor Benveniste
Una contraddizione pare tuttavia palesarsi. Sartre aveva radicato
il gioco in una libera “attività di cui l’uomo è l’unica origine”.
Nelle ultime pagine dell’Essere e il nulla l’attività risultante dalla
primissima presa di coscienza della libertà da parte dell’uomo era
infatti quella ludica. Sartre scriveva che il principio del gioco
“sfugge alla natura naturata, [e] gli impone addirittura il valore e
le regole dei suoi atti e non consente di pagare se non secondo le
regole che gli ha lui stesso imposto”.38 Al contrario Benveniste lega il gioco al “predominio della vita subconscia”, e soprattutto alla creazione di un “mondo magico”. Se secondo Sartre l’emozione e la coscienza magica implicano la negazione della responsabilità, la malafede, la fusione del soggetto in un mondo pieno in cui
la negatività non ha posto, se inoltre il gioco costituisce l’attività
paradigmatica in cui invece l’uomo “si coglie come libero”, è evidente che parlare di un’“essenza magica” (che il gioco permetterebbe di vivere), e legare inoltre il gioco all’infanzia e al subconscio, come fa Benveniste in Il gioco come struttura, significa opporsi alla concezione di Sartre usando il suo stesso linguaggio.
Nell’ottica di Benveniste il gioco non può quindi che essere una
fuga “irrealizzante”, seppure necessaria e legittima, davanti a un
mondo incoerente e doloroso come, per esempio, quello vissuto
da tanti intellettuali nella Francia traumatizzata dalla guerra.
Il serio “professor Benveniste”, attraverso le sue “strutture
formali”, voleva forse criticare il carattere irreale delle teorie dei
“sociologi” (Caillois) e dei “filosofi dell’impegno” (Sartre), di cui
mimava il linguaggio? Voleva così farsi gioco di coloro i quali, inizialmente critici rispetto all’“esprit du sérieux”, si erano fatti invece i portavoce di una filosofia molto seria ma ormai quasi sacralizzata? Ciò vorrebbe dire pensare che Benveniste conoscesse bene le regole del gioco che regolavano il campo intellettuale a cui
apparteneva e che stesse, attraverso un’analisi riflessiva di tale
campo, assecondando le mosse degli altri giocatori, mimandone
38
J.-P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), il Saggiatore, Milano 2002, parte IV, cap. II, § 2,
“Fare ed avere: il possesso”.
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le posizioni teoriche, pensando forse che la posta importante fosse in gioco su un altro tappeto verde, non certo in un divertissement pubblicato in una rivista alla moda, bensì nelle dense pagine di serie riviste scientifiche.
Ma probabilmente Benveniste giocava seguendo le stesse regole dei suoi contemporanei e il suo barare è soltanto la proiezione dello sguardo retrospettivo di chi ormai appartiene a un altro
campo, strutturato secondo altre regole. Se così fosse, l’ipotetico
smarcamento di Benveniste rispetto alla “filosofia del gioco” del
suo tempo sarebbe in fin dei conti soltanto un’illusione ottica. È
sufficiente, infatti, accorgersi che tanto per Sartre quanto per
Benveniste nel gioco – differentemente da quanto avviene nel sogno e nell’universo “incantato” dell’emozione – l’uomo è cosciente della “magia” del mondo che ha creato. Nel gioco la coscienza “irrealizzante” è riflessa, il giocatore sa che si tratta “solo
di un gioco”. È proprio quest’operazione riflessiva a far sì che nel
gioco, e soltanto nel gioco, come sottolinea Benveniste, la coscienza, possa vivere l’irrealizzazione, e non soltanto subirla, come, per esempio, nelle condotte emozionali o nel sogno. La coscienza emozionale, di cui l’uomo è ostaggio, crea infatti un mondo fittizio, ma che non può, per definizione, distinguere dalla
realtà: “se l’emozione è un gioco”, scrive Sartre nelle Idee per una
teoria delle emozioni, “è un gioco al quale crediamo”.
A guardare bene è forse proprio questo uno dei meriti di questo serio divertissement di Benveniste, quello di lasciarci oscillare
in quel dubbio che sospende per un attimo le nostre credenze, e
ci spinge a domandarci, tanto sui campi di gioco che nel campo,
ancora ritualizzato, della socialità intellettuale: stiamo facendo
sul serio o è tutto soltanto un gioco?
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