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Analisi e commento delle Categorie di Aristotele

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA E SCIENZE UMANE
CORSO di DOTTORATO di RICERCA in STORIA DELLA FILOSOFIA
CICLO XXIII
Analisi e commento delle
Categorie di Aristotele
TUTOR
Chiar.mo Prof. Maurizio Migliori
DOTTORANDA
Dott.ssa Marina Bernardini
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Filippo Mignini
ANNO 2011
Sommario
PARTE PRIMA. STATO DELLA QUESTIONE
Capitolo primo. Breve sguardo d’insieme sull’opera
p. 7
PARTE SECONDA. ANALISI DEL TESTO
Capitolo primo. Le nozioni di omonimia, sinonimia e paronimia
Capitolo secondo. “Dirsi di” un soggetto ed “essere in” un soggetto
Capitolo terzo. Generi subordinati e generi non subordinati
Capitolo quarto. Presentazione delle dieci categorie
Capitolo quinto. La sostanza
Capitolo sesto. La quantità
Capitolo settimo. I relativi
Capitolo ottavo. La qualità
Capitolo nono. L’agire e il patire
Capitolo decimo. Gli opposti
Capitolo undicesimo. I contrari
Capitolo dodicesimo. L’anteriorità
Capitolo tredicesimo. La simultaneità
Capitolo quattordicesimo. Il mutamento
Capitolo quindicesimo. L’avere
p. 33
p. 49
p. 59
p. 71
p. 77
p. 105
p. 129
p. 155
p. 187
p. 199
p. 243
p. 261
p. 269
p. 277
p. 289
PARTE TERZA. IL VALORE DELLE CATEGORIE ALL’INTERNO
DEL PENSIERO ARISTOTELICO
Premessa metodologica
Capitolo primo. Natura e struttura delle Categorie
Capitolo secondo. Il ruolo delle Categorie all’interno dell’Organon
Capitolo terzo. Una lettura multilaterale
p. 297
p. 299
p. 321
p. 327
Bibliografia
p. 331
Indice analitico della materia trattata
p. 339
PARTE PRIMA
STATO DELLA QUESTIONE
Capitolo Primo
Breve sguardo d’insieme sull’opera
1. Collocazione tradizionale delle Categorie all’interno del Corpus Aristotelicum
Le Categorie sono un’opera, tramandataci nella suddivisione in quindici capitoli, che
fa parte di quel complesso di scritti aristotelici, tutti considerati dalla tradizione concernenti la “logica”, che Alessandro di Afrodisia designò, tra la fine del II e il III secolo d.
C., con il nome di “Organon”, che significa “strumento”. Questa designazione risulta
particolarmente adatta al contenuto delle opere interessate, dal momento che Aristotele
non incluse l’oggetto trattato in tali scritti all’interno di nessuna delle sue divisioni “canoniche” delle scienze in teoretiche, pratiche e poietiche1, poiché il fine delle trattazioni
“logiche” è quello di fornire i concetti e gli strumenti preliminari necessari ad affrontare, poi, qualsiasi tipo di indagine scientifica2. La logica mostra «come proceda il pensiero quando pensa, quale sia la struttura del ragionamento, quali gli elementi di esso, come sia possibile fornire dimostrazioni, quali tipi e modi di dimostrazioni esistono, di che
cosa e quando siano possibili»3. In realtà, il termine logica è posteriore ad Aristotele, il
quale dava allo studio dei sillogismi il nome di analitica4.
I trattati “logici” aristotelici si dividono in tre gruppi principali5:
1.
Gli Analitici Primi, in cui viene trattata la struttura del ragionamento in generale, considerato nel solo aspetto formale, prescindendo dalla natura dell’oggetto
trattato e dal valore di verità.
2.
Gli Analitici Secondi, che si occupano del ragionamento non solo formalmente
corretto, ma anche vero: si tratta del sillogismo scientifico, in cui consiste la
dimostrazione. In essi si parla anche delle premesse vere, di come vengono conosciute e dei problemi legati alla definizione.
3.
I Topici e le Confutazioni sofistiche, infine, che trattano, rispettivamente, del
sillogismo dialettico, il quale parte da premesse semplicemente fondate
sull’opinione, e delle argomentazioni sofistiche.
1
Le scienze teoretiche, le uniche alle quali potrebbero, eventualmente, esser ascritte le opere
logiche, si suddividono, per Aristotele, in matematica, fisica e teologia, e non hanno, dunque,
posto per questi. Cfr. Metafisica E 1, 1025 b 1 - 1026 a 32.
2 Cfr. Th. Waitz, Aristotelis Organon, 2 voll., Lipsiae 1844, ristampato ad Aalen 1965, vol. II,
pp. 293-294.
3 G. Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma 1974, 1995 , p. 141.
4 Il termine logica è «sconosciuto ad Aristotele e non può essere fatto risalire a un tempo anteriore a quello di Cicerone. Anche allora logica significa non tanto logica quanto dialettica, e Alessandro è il primo scrittore che usa logik» nel senso di logica» (W. D. Ross, Aristotle, ed. by
Metheuen e co. Ltd, London 1923, trad. it. Aristotele, traduzione di Altiero Spinelli rivista sulla
quinta ed. di Claudio Martelli, Feltrinelli, Milano 1971, p. 28).
5 Cfr. Ross, Aristotele…, p. 28.
8
A questi scritti, si aggiungono le Categorie e il De Interpretatione, che, secondo la
tradizione, trattano, rispettivamente, degli elementi più semplici della proposizione, e
del giudizio e della proposizione6, e che sono stati, per questo, considerati come ricerche
preliminari e propedeutiche.
La tradizione ci consegna, così, un insieme di opere che andrebbero lette nel seguente ordine: Categorie, De Interpretatione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche. È evidente che l’ordine in cui esse sono state scritte è del tutto insondabile7, ma si può cercare di ricostruire e di proporre un ordine di lettura che miri alla consequenzialità teorica degli aspetti contenutistici delle singole opere. Da questo
punto di vista, la struttura di questi scritti è molto più complessa di quanto si creda, e
diede luogo a dei dibattiti fin dall’antichità.
Come si è visto, nella prospettiva indicata dalla tradizione, le Categorie costituirebbero un trattato preliminare allo studio della logica aristotelica, e formerebbero, insieme
al De Interpretatione e agli Analitici Primi, una sorta di trittico che presenta,
nell’ordine, una logica dei termini, una logica delle proposizioni e una logica dei ragionamenti8. Ci fu un periodo, tuttavia, in cui il testo delle Categorie non godette di buona
fortuna e fu addirittura misconosciuto. In un documento precedente ad Andronico di
Rodi e conservato nella dossografia di Diogene Laerzio9 viene ignorata l’esistenza di un
trattato intitolato Categorie e di uno intitolato De Interpretatione. Questo testo, di ispirazione sicuramente stoica, presenta la filosofia di Aristotele come un intero, come un
corpo di dottrine suddiviso in parti, proprio come i sistemi stoici. La prima di queste
parti è costituita dalla sezione logica, o strumentale. Oltre a ciò, il documento precisa
che la parte logica può essere suddivisa, a sua volta, in due diverse tappe, chiamate, secondo la denominazione stoica, discernimento (kr…sij) dei “lemmi”, cioè delle premesse, e discernimento della “deduzione”, cioè del ragionamento. Mancando il testo delle
Categorie e del De Interpretatione, il documento assegna al discernimento dei lemmi i
Primi Analitici, e al discernimento della deduzione i Secondi Analitici. Nella completa
fedeltà al modello stoico, l’autore del documento si è probabilmente sforzato di ricondurvi le opere aristoteliche, pur non conoscendone esattamente il contenuto10.
Fu Andronico di Rodi (I secolo a. C.) a sottrarre le Categorie dall’ombra e dal relativo isolamento, fornendo loro una collocazione all’interno del Corpus aristotelicum attraverso un catalogo ragionato che funge da modello canonico della classificazione delle
opere dello Stagirita11. In questo catalogo, la parte delle opere attribuite ad Aristotele inizia con la menzione dei primi scritti dell’Organon. L’influenza stoica sulla sistema6
Per un approfondimento della questione cfr. Ross, Aristotele…, pp. 28-29; Reale, Introduzione…, pp. 144-145.
7 Cfr. lo status quaestionis in Aristotele, Analitici primi, a cura di M. Mignucci, Napoli 1970,
pp. 19 ss. Per uno studio più approfondito intorno a questa problematica, rimando al testo V.
Sainati, Storia dell’Organon aristotelico, Firenze 1968. Per lo status quaestionis concernente
l’evoluzione della logica cfr. E. Berti, La filosofia del primo Aristotele, Firenze, Olschki 1962,
pp. 88-100.
8 Cfr. Reale, Profilo di Aristotele…, pp. 145-146.
9 Diogene Laerzio, V, § 28-29.
10 Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, pp. XVI-XVIII.
11 La ricostruzione del catalogo di Andronico si trova in I. Düring, Aristotle in the Ancient Biographical Tradition, Elanders Boktryckeri Aktiebolag, Göteborg 1957, pp. 221-231, e riprodotta
in Aristotelis Opera, vol. III, Librorum deperditorum fragmenta, collegit O. Gigon, Berlin-New
York, 1987, 38 b - 45 b.
8
zione di Andronico è molto forte. Egli, infatti, ordina le opere principali dello Stagirita
secondo un ordine preciso, in cui le opere metodologiche occupano il primo posto a titolo introduttivo e strumentale. L’influenza è, inoltre, testimoniata dal riferimento alla
pubblicazione da parte di un suo contemporaneo, lo stoico Atenodoro di Soli, di
un’opera dal titolo PrÕj t¦ Aristotšlouj kategor…aj (Contro le categorie di Aristotele).
Con l’interesse di Andronico per tale scritto dello Stagirita e con la rinascita
dell’aristotelismo nei successori del Rodense, le Categorie iniziano ad avere fortuna e
diventano oggetto di studio di pensatori e commentatori. Il trattato viene preso in considerazione dai neoplatonici. Per citare degli esempi, nel III secolo d. C. Porfirio difende
l’idea che le Categorie inaugurino l’insegnamento della filosofia; Proclo, nel V secolo
d. C., stabilisce le tappe di percorso filosofico, che inizia con un’introduzione generale
alla filosofia e che continua con lo studio commentato delle principali opere di Platone e
di Aristotele, tra le quali, nel gruppo degli scritti “strumentali” e metodologici, le Categorie.
L’unità che le Categorie formano con le altre opere logiche di Aristotele e, dunque,
l’unità dello studio del linguaggio e del sillogismo, in realtà, appare molto più forte
nell’interpretazione stoica che nello stesso Aristotele. Bodeüs ha sottolineato come, diversamente dall’impianto stoico della logica, in cui i ragionamenti complessi possono
essere scomposti in proposizioni complesse, e queste, a loro volta, possono essere
scomposte in proposizioni semplici, anche’esse scomponibili in ulteriori elementi, la
teoria del sillogismo formale, in Aristotele, non necessita di uno studio preliminare delle
premesse, in quanto i sillogismi vengono definiti dalla posizione relativa dei termini
contenuti nelle premesse e simboleggiati da lettere12. In effetti, a ben vedere, da un lato,
i Primi Analitici apparirebbero autonomi, in quanto la conoscenza del termine (Óroj) e
della premessa (prÒtasij), necessarie alla comprensione dell’opera, vengono esplicate
nei primi tre capitoli; dall’altro, il De Interpretatione potrebbe essere pensato a fatica
come indissolubilmente legato alle opere successive, in quanto non vi si fa mai menzione di sillogismi, premesse o termini.
2. Titoli attribuiti all’opera
La giustificazione del titolo dell’opera costituisce una questione rilevante che viene
discussa da quasi tutti i commentatori neoplatonici13, dal momento che lo scritto sembra
aver ricevuto titoli diversi a partire dall’età ellenistica, fino ai primi secoli dell’età cristiana.
La questione appare, in realtà, regolata già a partire da Porfirio, che assume la denominazione di Categorie (Kathgor…ai), in seguito divenuta tradizionale e accolta quasi
all’unanimità a partire da Alessandro di Afrodisia in poi14.
Nei secoli precedenti, invece, la questione del titolo dell’opera fu particolarmente
controversa, dal momento che esso era strettamente connesso al contenuto e, quindi, variava a seconda dell’intento che veniva attribuito all’opera. L’origine del dibattito può
essere rinvenuta nell’iniziativa di Andronico di Rodi che consisteva nel sostituire con
12
Bodeüs, Aristote, Le catégories…, pp. XIX-XX.
Cfr. Simplicio, In Cat., 15,26 - 18,6; Filopono, In Cat., 12, 17-27; Ammonio, In Cat., 13, 1214; Olimpiodoro, In Cat., 22, 13-37.
14 Cfr. Alessandro di Afrodisia, In Top., 97, 27-98; In Met., 242, 15; 245, 35.
13
9
Kathgor…ai il titolo con cui precedentemente veniva indicato lo scritto, PrÕ tîn topikîn, Prima dei Topici, o PrÕ tîn tÒpwn, Prima dei luoghi. La novità introdotta da
Andronico dimostra che, in età ellenistica, l’opera era conosciuta attraverso un nome diverso che stabiliva una stretta relazione tra il nostro trattato e i Topici.
La proposta di Andronico era interamente basata sulla sua considerazione dell’opera:
secondo il redattore delle opere aristoteliche, infatti, il fine dello scritto in questione era
quello di introdurre alla logica del Filosofo, attraverso l’analisi degli elementi costitutivi
delle premesse del sillogismo. In quest’ottica, tutta la seconda parte del testo15, costituita dalla sezione che tratta l’opposizione, la contrarietà, l’anteriorità, la simultaneità, il
movimento, l’avere, risultava, ai suoi occhi, apocrifa e accorpata alla parte precedente
da qualcuno che non era Aristotele. Di conseguenza, Andronico attribuiva il titolo Kathgor…ai alla sola prima parte dell’opera, l’unica ritenuta autentica16.
La reazione dei successori alla proposta di Andronico non ci permette di poter stabilire in maniera definitiva se la seconda parte dell’opera sia stata giudicata inautentica e
se il nuovo titolo proposto sia stato considerato maggiormente adatto al testo preso in
considerazione, poiché, da una parte, fu respinta la proposta di scindere la seconda parte
dalla prima, e le due sezioni furono conservate e commentate unitamente fino alla fine
dell’antichità17; dall’altra, invece, fu accettato il nuovo titolo.
La denominazione di Andronico diventò classica e si impose nella tradizione, superando le varianti proposte, che possono essere ricondotte a due diversi modi di intendere
il fine dell’opera aristotelica. La prima variante si fondava sulla convinzione che la prima sezione del testo - che tratta la natura delle cose che si dicono senza connessione e
che vengono enumerate in 1 b 26-27 - fosse un’analisi dei generi più universali
dell’essere, conformandosi, così, a una interpretazione ontologica. Si tratta di una variante ricordata ancora nel XI secolo, nel manoscritto Parisinus Coislinianus 330, in cui
l’opera viene presentata come Aristotšlouj kathgor…ai perˆ tîn dška genikot£twn
genîn (Le categorie di Aristotele. I dieci generi più universali)18.
15
Capp. 10-15.
Boezio, In Cat., IV, PL 64, 263 B e ss, riporta le tesi di Andronico rispetto all’opera; lo stesso
anche in Simplicio, In Cat., 379, 8-12. Mentre Boezio si schiera dalla parte di Andronico, rimproverando, a colui che aveva aggiunto la seconda parte alla prima, di aver unito ciò che doveva
essere separato, Simplicio rimprovera coloro che, come Andronico, hanno voluto separare ciò
che doveva essere unito. La questione dell’autenticità dell’opera verrà affrontata, più nello specifico, nel § III.
17 La proposta della scissione fu rifiutata già da Boezio di Sidone, discepolo di Andronico di
Rodi.
18 Ci possono essere delle variazioni nella denominazione di questo tipo, quali: Perˆ (tîn) genîn (I generi), Perˆ tîn dška (genikot£twn) genîn (I dieci generi più universali), Perˆ tîn
genîn toà Ôntoj (I generi dell’essere). Si vedano le seguenti fonti: Simplicio, In Cat., 15, 2829; Olimpiodoro, In Cat., 22, 31; Filopono, In Cat., 12, 24-25; Porfirio, In Cat., 56, 31-32; 57,
13-14 e 59, 31-33. Adotta questa prima variante Plotino, il quale ritiene che Aristotele e i Peripatetici sostengano l’esistenza di dieci generi dell’essere (Enneadi VI, 1, 15 e ss.). Plotino, tuttavia, si sforza di dimostrare che, in realtà, le classificazioni di Aristotele non siano propriamente generiche, poiché ogni categoria raggruppa degli elementi che non hanno l’unità del genere,
ma un’unità meramente nominale. Porfirio, discepolo di Plotino, su questi punti, ha preso delle
distanze critiche rispetto al suo maestro. Cfr. C. Evangeliou, Aristotle’s Categories and Porphiry, Brill, Leiden 1988, pp. 164-181; S. K. Strange, Plotinus, Porphyry, and the Neoplatonic
Interpretations of the Categories, «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt», II, 36. 2
(1987), pp. 955-974.
16
10
La seconda variante si fondava, invece, sulla convinzione che le cose «dette senza
connessione» fossero espressioni razionali dei concetti più universali, e proponeva il titolo Kathgor…ai su modello di un trattato di Archita di Taranto19, facendo, in questo
modo, risalire l’opera a un genere letterario esistente prima dell’epoca di Aristotele. Il
trattato cui si fa riferimento, tuttavia, è stato falsamente attribuito al filosofo pitagorico,
in quanto si tratta, in realtà, di un apocrifo scritto nel II secolo o nel I secolo d. C. e
composto sul modello offerto dalla prima parte delle Categorie20, di cui rappresenta una
interpretazione21.
Su queste due varianti di denominazione prevalse la proposta di Andronico per due
importanti motivi: da una parte, perché quasi tutte le fonti risultavano concordi nel riportare che i discepoli immediati di Aristotele, tra i quali Teofrasto di Ereso22 ed Eudemo di Rodi, scrissero delle opere dal titolo Kathgor…ai (le Categorie) su imitazione del
loro maestro23; dall’altra, perché il titolo sembrava essere autorizzato da Aristotele stesso, il quale, nonostante non si riferisca mai esplicitamente al testo, usa il termine kathgor…ai per riferirsi alle distinzioni presentate nella nostra opera24 e in determinate espressioni, quali t¦ gšnh tîn kategoriîn (i generi delle categorie)25 e t¦ sc»mata
tÁj kategor…aj (gli schemi delle categorie)26.
Il termine categoria, tuttavia, ha subìto, nel corso del tempo, delle trasformazioni di
significato a seconda dell’aspetto che veniva di volta in volta accentuato. Prima di Andronico, si sottolineava il fatto che la categoria indicava la predicazione, cioè l’atto linguistico attraverso il quale si indica una sostanza, una qualità, una quantità, una relazione, un luogo, un tempo, un giacere, un avere, un agire o un patire; attraverso tale predicazione si possono formare le premesse di un sillogismo27. A partire da Andronico, e,
dunque, nei suoi successori e nei commentatori antichi, invece, si inizia a privilegiare la
tesi secondo la quale l’opera, classificata per scelta come primo scritto del Corpus logi19
Si vedano: Simplicio, In Cat., 17, 26-28; cod. Urbinas 35, 32 b 38-39.
Il testo è stato pubblicato in una edizione curata da H. Thesleff in The Pythagorean Texts of
the Ellenistic Period, Åbo Akademi, 1965, e in traduzione tedesca T. A. Szlezàk, PseudoArchitas. Über die Kategorien. Texte zur griechischen Aristoteles Exegese, Herausgegeben,
übersetzt und kommentiert von T. A. Szlekàk, Berlin-New York, 1972.
21L’autore del testo sostiene che il linguaggio (lÒgoj) è un insieme di pensiero (di£noia) e di
parole (lšxij), di cui il pensiero è il significato e la parola il significante; esistono, pertanto,
dieci significati universali e un corrispettivo numero di significanti (cfr. Szlezàk, PseudoArchitas…, p. 34, 10-14). L’autore è, tuttavia, anche convinto che, sotto il pensiero, ci sia
l’essere, dal momento che si riferisce alla sostanza e agli accidenti come Ônta (cfr. Szlezàk,
Pseudo-Architas…, p. 52, 6-7).
22 Una notizia che non possiamo verificare, in quanto le opere conservate di questo autore non
attestano il fatto. Nessuna delle liste antiche delle opere attribuite ai discepoli di Aristotele riportate da Diogene Laerzio (Vite dei Filosofi, libro V) contiene un Kathgor…ai o un Perˆ kategoriîn. L’ipotesi dell’attribuzione di una tale opera a Teofrasto viene esclusa da H. B. Gottschalk, Did Theofrastus write a Categories, «Philologus» 131 (1987), pp. 245-253.
23 Tale fatto viene riportato nelle seguenti fonti: Cod Urbinas 35, 32-33; David, In Cat., 132,
23-25; Filopono, In Cat., 7, 20-21; Oliompiodoro, In Cat., 13, 24-25; Ammonio, In Porph. Isag., 26, 13.
24 Categorie 4, 1 b 26-27. In questo passo, Aristotele utilizza il termine categorie (kathgor…ai)
all’interno dell’opera delle Categorie.
25 Topici I 9, 103 b 20-21.
26 Metafisica D 7, 1017 a 23.
27 Cfr. Topici I 9, 103 b 25-26.
20
11
co di Aristotele, non tratti dell’atto dell’attribuzione, ma di ciò che viene attribuito, la
diversità delle cose che vengono indicate dalla predicazione, e dunque sia i termini significanti sia le cose significate da essi.
Sebbene il titolo Kathgor…ai abbia conquistato, come abbiamo visto, il campo della
denominazione dell’opera, restano delle tracce dell’antica denominazione nella doppia
versione PrÕ tîn topikîn, Prima dei Topici, e PrÕ tîn tÒpwn Prima dei luoghi, in
Adrasto di Afrodisia (360-317 d. C.), maestro del suo noto compatriota Alessandro. Egli
sosteneva una posizione dissidente nei confronti dell’ortodossia filosofica dell’epoca, e
l’aveva esposta in uno scritto dal titolo L’ordine della filosofia di Aristotele, di cui siamo a conoscenza solo grazie alle allusioni di Simplicio28, e in cui presentava, attraverso
la classificazione delle opere dello Stagirita, un programma di iniziazione alla filosofia.
Adrasto riteneva che il cammino filosofico dovesse iniziare non con lo studio della logica del vero e del necessario, ma con lo studio della logica del verosimile e del probabile,
e cioè con ciò che è maggiormente conosciuto per noi, piuttosto che con ciò che è meno
conosciuto. La tappa iniziale di un cammino così concepito era ben rappresentata
dall’interezza di quell’opera indicata con l’antico titolo PrÕ tîn topikîn o PrÕ tîn
tÒpwn, e non esclusivamente dall’isolamento della prima parte, cui Andronico intendeva attribuire la denominazione di Kathgor…ai. Di questa opera, comprendente entrambe
le sezioni, egli intendeva fare una introduzione ai Topici, e dunque alla dialettica. A
questa opinione di Adrasto, per cui l’opera PrÕ tîn topikîn o PrÕ tîn tÒpwn funge
da introduzione ai Topici e fa parte, come i Topici, di un insieme di testi dedicati alla
dialettica, sembrerebbero fare eco due passi del Commentario ai Topici di Alessandro di
Afrodisia, in cui si rimanda esplicitamente a tale scritto introduttivo29.
Nei cataloghi antichi, tuttavia, la menzione di uno scritto dal titolo T¦ prÕ tîn
tÒpwn non precede quello dei Topici così come noi li conosciamo (indicati come Meqodik£ o come Topikîn)30, ma un’opera dal titolo Topikîn prÕj toÝj Órouj, che potrebbe riferirsi a una sezione dei Topici (VI e VII, 1-4) relativa ai luoghi da utilizzare
per le definizioni. Il nostro trattato, quindi, si rapporterebbe alle opere di Aristotele dedicate alla dialettica e, più precisamente, a quelle in cui si tratta della topica della definizione.
3. La questione dell’autenticità delle Categorie
Per quanto le Categorie si avvicinino molto alle teorie di paternità aristotelica, il che
è dimostrato dalla profonda affinità che l’opera presenta con il libro G della Metafisica,
di cui potrebbe rappresentare una versione non scientifica e divulgativa, e, ancora una
volta, con i Topici, la questione dell’autenticità dello scritto è stata molto dibattuta, sia
28
Simplicio, In Cat., 16, 2; 18, 16.
Cfr. Alessandro di Afrodisia, In Top., 5, 27-28; In Top., 5, 17-19. Sebbene in questi passi si
faccia riferimento a un testo dal titolo PrÕ tîn tÒpwn, si ricordi, tuttavia, che Alessandro accetta l’uso della parola kathgor…ai per rimandare alla nostra opera (cfr. In Top., 97, 27 e ss;
112, 6-7; 319, 22-23; In Met., 242, 15-17; 319, 12-13.). Per tale incongruenza, si è per lo più ritenuto che PrÕ tîn tÒpwn fosse non l’antico titolo delle Categorie, ma l’antica denominazione
attribuita al primo libro dell’opera che oggi conosciamo come i Topici, e che rappresentava uno
scritto a sé stante. Per una trattazione più esaustiva di questo argomento si veda Bodeüs, Aristote. Les catégories…, pp. XXXVI-XXXVII.
30 Cfr. Diogene Laerzio ed Esioco.
29
12
tra i commentatori antichi sia tra quelli moderni, ispirata dalla costatazione che, nelle
opere riconosciute autentiche di Aristotele, non ci sono chiari riferimenti a questo testo,
e nel testo delle Categorie non si citano altri testi aristotelici, oltre che per il fatto che vi
viene adottato uno stile dogmatico non usuale; pertanto, in entrambe le epoche, vi sono
stati i fautori della tesi dell’autenticità e quelli della tesi opposta.
In realtà, le Categorie, nonostante costituiscano un’opera “isolata” internamente ed
esternamente nel Corpus Aristotelicum, in quanto mancano totalmente chiari riferimenti
e rimandi testuali, hanno, invece, dei contenuti teorici rapportabili a quelli espressi dallo
Stagirita in altre opere (chiarirò, in sede analitica, la vicinanza con De Interpretatione,
Topici, Metafisica, etc.), il che mostrerebbe l’unità del pensiero aristotelico e costituirebbe una prova a favore dell’autenticità delle Categorie stesse.
3.1. La questione dell’autenticità in epoca antica
Per quanto riguarda l’antichità, quasi tutti i commentatori neoplatonici si sono confrontati con tale questione, anche perché la problematica che veniva sollevata a proposito di ogni opera del Corpus Aristotelicum.
Coloro che sostenevano l’autenticità delle due parti del trattato facevano leva su tutti
o su alcuni dei seguenti argomenti31:
1. Gli esegeti precedenti, in particolare gli Attici, specialisti della lingua, con
l’autorità del loro giudizio avrebbero riconosciuto nel testo delle Categorie lo stile e la
fraseologia propri di Aristotele, ciò che veniva indicato come la “materia” (Ûlh)32
dell’opera;
2. I concetti sono espressi con la densità propria di Aristotele, e gli argomenti vengono presentati con la concisione abituale (deinÒthj tîn ™nqÚmhmatwn) dello Stagirita,
ciò che veniva indicato come la “forma” (edoj)33 dell’opera. Oltre a ciò, Simplicio34
aggiunge, come ulteriore giustificazione dell’autenticità dello scritto, che i più seri discepoli (˜ta‹roi) di Aristotele accettarono l’opera come autentica. Tali discepoli sarebbero i primi Peripatetici; altri commentatori fanno espressivamente riferimento a Teofrasto e a Eudemo di Rodi.
3. Secondo l’opinione di Simplicio, Aristotele citerebbe l’opera in altri luoghi del
Corpus35; il commentatore neoplatonico può affermare questo perché, secondo lui, Aristotele si riferisce all’opera chiamandola le “Dieci Categorie” per evitare che venga confusa con l’opera di Archita (in realtà, come precedentemente specificato, PseudoArchita), che porta un titolo diverso da questo, e, quindi, Simplicio considera ogni riferimento alle “Dieci categorie” del testo aristotelico come un rimando all’opera.
4. L’intera filosofia di Aristotele, e in particolare la sua logica, risulterebbero “acefale” se si eliminassero le Categorie come opera da collocare all’inizio del percorso di
formazione logica;
31
Gli argomenti che riporto si trovano in: Simplicio, In Cat, 18, 7-21; Filopono, In Cat., 12, 34
- 13, 5; Ammonio, In Cat., 13, 20 - 14, 2; David, In Cat., 133, 9 - 27; Olimpiodoro, In Cat., 22,
38 - 24, 20. Questi testi sono analizzati in L. M. de Rijk, The Authenticity of Aristotle’s Categories, «Mnemosyne» 4, 1 (1951), pp. 129-159, pp. 129-139.
32 Cfr. David, In Porph. Isag., 82, 20 e ss.
33 Cfr. David, In Porph. Isag., 82, 20 ss.
34 Cfr. Simplicio, In Cat., 18, 14.
35 Cfr. Simplicio, In Cat., 18, 9-14.
13
5. I discepoli di Aristotele scrissero, a loro volta, dei trattati “Sulle categorie” su emulazione del loro maestro36.
Malgrado sussistessero tutti questi argomenti, per quanto alcuni piuttosto deboli, a
favore della tesi dell’autenticità, gli antichi rilevavano dei nodi problematici nel momento in cui il nostro scritto veniva messo in relazione con altre opere dello Stagirita.
Tre sono le divergenze che venivano messe in risalto37:
1. L’assenza, in Categorie 1 a 1 e ss., in sede di presentazione degli omonimi, dei sinonimi e dei paronimi, della trattazione dei polionimi (poluènuma) e degli eteronimi
(˜terènuma), che sarebbero, secondo alcuni, presenti nella Fisica o nella Retorica; di
fatto, però, solamente il termine poluènumon figura in un’opera aristotelica, e cioè in
Storia degli animali I 2, 489 a 2;
2. L’affermazione, presente in Categorie 7, 7 b 23-24, che l’oggetto della scienza è
anteriore alla scienza stessa sarebbe in contraddizione con la tesi esposta nella Fisica
sulla simultaneità dei relativi; in realtà nulla di simile sarebbe espressamente affermato
nella Fisica, ma la divergenza avrebbe origine da un travisamento nell’interpretazione
del testo delle Categorie;
3. In Categorie 15, 15 a 13, la generazione e la corruzione vengono considerate come
forme di movimento, il che non si accorderebbe con Fisica V 1, 225 a 3, in cui le stesse
vengono intese come dei cambiamenti, ma probabilmente si tratterebbe di due diversi
tipi di terminologia, di approccio e di finalità, una più ortodossa e una di senso più ampio;
4. La divergenza più notevole riscontrata tra i testi aristotelici riguarderebbe le trattazioni della sostanza che si trovano, rispettivamente, nelle Categorie e nella Metafisica.
3.1.1. La dottrina della sostanza nelle Categorie e nella Metafisica
È soprattutto per quest’ultima divergenza, e cioè a causa del contrasto tra la dottrina
della sostanza presentata nelle Categorie e quella presente, invece, nella Metafisica, che
la prima delle due opere è stata giudicata inautentica. Le due opere sembrano presentare
due posizioni inconciliabili intorno allo statuto della sostanza. Nelle Categorie, “sostanza prima”, dunque sostanza in senso più proprio e principale, vengono detti gli individui
sensibili, come, ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo, e “sostanze seconde” sono le specie e gli individui che si predicano, alla maniera degli universali, degli individui. In Metafisica L, invece, “sostanza prima” viene detta la forma intesa come separata
dal sensibile e, pertanto, soprasensibile, immobile ed eterna. La nostra opera, dunque,
attribuisce la priorità alla sostanza individuale, sensibile e corruttibile38, laddove Metafisica L dà un forte rilievo all’ordine delle sostanze separate, immutabili e intellegibili,
una tesi, quest’ultima, cui i commentatori antichi, specie i neoplatonici, erano molto legati, dal momento si appoggiavano su di essa per dimostrare la pretesa alleanza tra il
platonismo e l’aristotelismo nel considerare l’universale intellegibile superiore al particolare sensibile.
Gli antichi si avvalevano di due argomenti principali per spiegare l’apparente contraddizione dei due testi aristotelici. Da una parte, servendosi di una distinzione espres36
Cfr. Supra, p. ***, n. ***.
Tali divergenze vengono riportate e spiegate nelle testimonianze di Olimpiodoro, In Cat., 22,
38 - 24, 9 e del cod. Urbinas 35, 33 a 30 - b 25.
38 Cfr. Categorie 5, 2 a 11 e ss.
37
14
samente spiegata da Aristotele39, prendevano in considerazione due tipi di priorità: la
sostanza di cui si parla nelle Categorie è “prima” in rapporto a noi e in senso cronologico, mentre la sostanza cui fa riferimento Metafisica L è la sostanza “prima” per natura.
Dall’altra parte, fornivano un’ulteriore giustificazione della conciliabilità delle due posizioni sostenendo una diversa posizione dei testi all’interno del disegno didattico
dell’Autore. Le Categorie sarebbero una sorta di introduzione alla filosofia ed esporrebbero ciò che è primo rispetto a noi, conformandosi al punto di vista di un principiante; la
Metafisica, invece, si rivolgerebbe a un pubblico filosoficamente più maturo e adotterebbe, quindi, il punto di vista di un sapere che si fonda su ciò che è primo in sé40.
La distanza tra la dottrina della sostanza contenuta nelle Categorie e quella contenuta nelle Metafisica è evidente. Sostanza prima, è, nelle Categorie, l’individuo concreto,
fenomenicamente presente e realmente esistente, il quale non si dice di nessun soggetto
né è in nessun sostrato; soggetto ultimo della predicazione e sostrato ultimo
dell’inerenza, la “sostanza prima” delle categorie è ciò di cui si dicono la specie e il genere, che vengono chiamate “sostanze seconde”, in quanto non indicano un qualcosa di
determinato e di individuale, cioè un tÒde ti, ma sono dei predicati comuni. In Metafisica L, invece, sostanza prima è la sostanza immutabile e soprasensibile. Si può, tuttavia, scorgere una via di conciliazione nel distinguere attentamente le due trattazioni, tenendo «presente che l’aggettivo “primo” ha sempre un significato relativo, cioè indica il
primo elemento di una serie, per cui, al variare della serie presa in considerazione, varia
anche il significato di ciò che è primo»41. Per questo, nelle Categorie, in cui vengono
prese in considerazione le forme di predicazione, sono dette “prime” le sostanze non ulteriormente predicabili, gli individui realmente esistenti, i quali né si dicono di un soggetto né sono in un soggetto; nella Metafisica, invece, “sostanza prima” è la forma,
prima rispetto alla materia e al composto stesso, poiché è la causa che li determina entrambi. Leggendo le dottrine come espressione di due punti di vista diversi sulla realtà,
si elimina la contraddizione, poiché diverso risulta il titolo in base al quale possono essere considerati “sostanza prima”, rispettivamente, l’individuo concreto e la forma.
Inoltre, è importante tener conto di un altro essenziale argomento a favore della conciliabilità: il fatto che le Categorie e la Metafisica trattano della sostanza all’interno di
due orizzonti molto diversi tra loro. La Metafisica, infatti, presenta una ricerca, che protremmo definire propriamente “scientifica”, dei principi, delle cause e degli elementi
della sostanza, laddove le Categorie, invece, esulano totalmente da una ricerca di tipo
“causale”42.
3.2. La questione dell’autenticità in epoca moderna
In epoca moderna, a partire dal XIX secolo, alcuni studiosi hanno messo nuovamente
in discussione l’autenticità delle Categorie, avanzando argomenti che pretendevano di
39
Cfr. Metafisica L 11, 1018 b 30-37.
R. Bodéüs (Aristote, Catégories, texte établi et traduit par Richard Bodéüs, Les Belles Lettres, Paris 2001, p. XCIII) sottolinea giustamente come il primo argomento, in quanto basato su
una distinzione espressamente affermata da Aristotele, abbia una notevole validità, mentre il secondo, interamente fondato sulla - non dimostrabile - convinzione che le Categorie siano state
concepite come testo introduttivo alla filosofia, si rilevi piuttosto specioso e fallibile.
41 E. Berti, Il concetto di «sostanza prima» nel libro Z della Metafisica, «Rivista di Filosofia»
vol. LXXX, n. 1 (1989), pp. 3-23, p. 7.
42 Si tratta di un argomento difeso da Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. XCIII.
40
15
scorgere nel testo inconciliabilità con altre opere o segnali di autori tardivi. Ad esempio,
si scorgeva nella definizione dei relativi, presente in Categorie 7, 8 a 31-32, una singolarità dell’opera, che tradiva la paternità di un autore tardo influenzato da Crisippo43;
tuttavia, una definizione simile si trova in Topici VI 8, 146 a 3-4. Un altro argomento a
favore dell’inautenticità era costituito dal fatto che, tra gli esempi della categoria del
luogo che vengono presentati in Categorie 2 a 1-2, si fa riferimento al Liceo (™n
Luke…J), il che tradirebbe la paternità di un autore ellenistico44; tuttavia, lo stesso esempio è presente anche in Fisica IV 11, 219 b 21, per cui o si sostiene che entrambi i
testi siano apocrifi o entrambi possono essere legittimamente attribuiti ad Aristotele.
Ma, ancora una volta, è soprattutto a causa del contrasto tra la dottrina della sostanza
presentata nelle Categorie e quella presente, invece, nella Metafisica, che la prima delle
due opere è stata giudicata da alcuni studiosi opera non di Aristotele, ma della sua scuola45. A differenza dei commentatori antichi, che si concentravano sulle discrepanze tra le
Categorie e Metafisica L, i critici moderni hanno dedicato maggiore attenzione alle dottrine presentate in Metafisica Z, in cui “sostanza prima” è la forma che determina le sostanze composte e sensibili46, e, quanto agli universali, di essi si afferma chiaramente
che non possono, in alcun caso, essere considerati sostanza47. Nella Metafisica, infatti,
ci sono due tipi di sostanze che meritano il titolo di sostanza prima: da una parte, la
forma dei composti, causa determinante del sinolo, che si identifica con l’essenza, cioè
con l’oggetto della definizione (Metafisica Z), e, dall’altra, la forma separata, soprasensibile (Metafisica L). In entrambi i casi, “sostanza prima” risulta ciò che è massimamente determinato e determinante. La stessa parola greca edoj, che nelle Categorie indica
la specie, nella Metafisica, assume il significato di forma, intesa come causa determinante ed elemento costitutivo del sinolo.
Pur riconoscendo tale discordanza di dottrine sulla sostanza, altri studiosi hanno comunque sottolineato l’autenticità delle Categorie, sostenendo che la dottrina in esso
43
C. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, Munich, 1855-1867, vol. I., p. 90 e n. 5.
Cfr. W. Jager, Aristoteles. Grundlinien einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin 1923,
trad. It. Aristotele: prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, versione autorizzata
di Guido Calogero, con aggiunte e appendice dell'autore, La Nuova Italia, Firenze 1935.
45 Cfr. Ad esempio, E. Dupréel, Aristote et le traité des Categories, «Archiv für Geschichte der
Philosophie», XXII (1909), pp. 230-251; A. M. de Vos, “Eidos” als “Eerste Substantie” in de
Metaphysica van Aristoteles, «Tijdschrift voor Philosophie», IV (1942), pp. 57-102; S. Mansion, Bulletin de littérature aristotélique, «Revue Néo-Scolastique de Philosophie» 30 (1928), p.
95; S. Mansion, La première doctrine de la substance: la substance selon Aristote, «Revue philosophique de Louvain», XLIV (1946), pp. 349-369; S. Mansion, La doctrine aristotélicienne
de la substance et le traité des Catégories, in AA. VV., Proceedings of the Tenth International
Congress of Philosophy, Amsterdam 1949, pp. 1097-1100; Chung-Hwan Chen, Aristotle’s Concept of primary substance in Books Z and H of the Metaphysics, «Phronesis», II (1957), pp. 4659; R. Boehm, Das Grundlegende und das Weswntliche, Den Haag, Nijhoff, 1965; A. R. Lacey,
οὐσία and Form in Aristotle, «Phronesis», X (1965), pp. 54-69; S. Mansion, Notes sur la doctrine des Catégories dans les Topiques, in AA. VV., Aristotle on Dialectic: The Topiques, Edited
by G. E. L. Owen, Oxford 1968, pp. 189-201; B. Dumoulin, L’ousia dans les Catégories
d’Aristote, in P. Aubenque (ed.), Concepts et Catégories dans la pensée antique, Paris 1980, pp.
23-32.
46 Cfr. Metafisica Z 11, 1037 a 5-7; Metafisica Z 17, 1041 b 7-9, 26-28.
47 Cfr. Metafisica Z 13, 1038 b 8 e ss.
44
16
contenuta non contrasta con quella del settimo libro della Metafisica48. Altri ancora, invece, hanno sostenuto un’evoluzione della concezione aristotelica della sostanza da una
fase giovanile e anti-platonica, rappresentata dalle Categorie, in cui Aristotele, sotto
l’influenza di Speusippo e ancorato a una posizione nominalista, avrebbe assegnato il
primato nella categoria della sostanza all’individuo, a una fase più matura e platonizzante, rappresentata da Metafisica Z, in cui egli, sotto l’influenza di Senocrate, avrebbe assegnato il primato, e quindi la sostanzialità, alla specie49.
Agli argomenti contro l’autenticità che si basano su discordanze contenutistiche, si
aggiungono quelli che risultano da studi sui rimandi intertestuali, sul lessico, sulla forma e sullo stile dell’autore. In primo luogo, nessun luogo delle Categorie rinvia esplici48
Cfr., ad esempio, J. Husik, The Autenticity of Aristotle's Categories, «The Journal of Philosophy», XXXVI (1939), pp. 427-431; W. D. Ross, The Autenticitv of Aristotle's Categories, «The
Journal of Philosophy», XXXVI (1939), pp. 431-433; L. M. de Rijk, The Autenticity of Aristotle's Categories, «Mnemosyne», IV (1951), pp. 129-159; J. Owens, AristotIe on Categories,
«The Review of Metaphysics», XIV (1960-1961), pp. 73-90; J. Lesher, Aristotle on Form. Substance and Universals: a Dilemma, «Phronesis», VI (1971), pp. 169-178; G. Reale, La polivocità della concezione aristotelica della sostanza, in AA. VV., Scritti in onore di Carlo Giacon,
Padova, Antenore, 1972, pp. 17-40. Ross, Aristotele…, p. 279, n. 30, a favore dell’autenticità
delle Categorie, attribuisce l’adozione dell’arido stile dogmatico dell’opera che, secondo lui, si
trova anche in altre opere dell’Organon quali il De Interpretatione e gli Analitici primi, al fatto
che «la logica, secondo le vedute di Aristotele, è uno studio preliminare alla scienza e alla filosofia. I libri indirizzati a studenti meno avanzati hanno naturalmente un tono più dogmatico».
49 Cfr. H.J. Krämer, Aristoteles und die akademische Eidoslehre, «Archiv für Geschichte der
Philosophie», LV (1973), pp. 119-190. A favore di un'evoluzione tra Categorie e Metafisica Z,
ma meno caratterizzata in senso filosofico, è anche M. Frede, Substance in Aristotle's Metaphysics, in AA. VV, Aristotle on Nature and Living Things. Philosophical and Historical Studies (a cura di A. Gotthelf), Pittsburgh-Bristol, Mathesis Publications Inc. and Bristol Classical
Press, 1985, pp. 17-26; G. Brakas, Aristotle’s Concept of the Universal, Zürich-New York,
1988; E. Berti, Profilo di Aristotele, Edizioni Studium, Roma 1979, p. 74; M. Frede, Essays in
Ancient Philosophy, Clarendon press, Oxford 1987, pp. 25-28; D. A. Graham, Aristotle’s Two
Systems, Clarendon Press, Oxford 1987, pp. 20-56; M. Furth, Substance, Form and Psyche: an
Aristotelian Metaphysics, Cambridge University Press, Cambridge 1988, pp. 9-66, p. 185, pp.
227-267; M. L. Gill, Aristotle on Substance: The Paradox of Unity, Princeton University Press,
Princeton 1989, pp. 27-32; F. A. Lewis, Substance and Predication in Aristotle, Cambridge
University Press, Cambridge 1991, pp. 3-84; Th. Scaltsas, Substances and Universals in Aristotle’s Metaphysics, Cornell University Press, Ithaca, 1994, pp. 126-129, pp. 148-223; Ch. Pietsch,
Prinzipienfindung bei Aristoteles. Methoden und erkenntnis-theoretische Grundlagen, Teubner,
Stuttgart, 1992, p.45; L. Spellman, Substance and Separation in Aristotle, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 40-62; Ch. H. Chen, Aristotle’s Theory of Substance in the Categoriae as the link between the Socratic-Platonic dialectic and his own theory of Substance in
books “Z” and “H” of the Metaphysics, in Atti del XII Congresso Internazionale di Filosofia,
Sansoni, Firenze 1960, pp. 35-40; R. M. Dancy, On some of Aristotle’s first thoughts about substance, «Philosophical Review» 84 (1975), pp. 338-373; R. M. Dancy, On some of Aristotle’s
second thoughts about substance: matter, «Philosophical Review», 87 (1978), pp. 372-413; E.
D. Harter, Aristotle on Primary OUSIA, «Archiv für Geschichte der Philosophie» 57 (1975), pp.
1-20; J. A. Driscoll, “Eide” in Aristotle’s Earlier and Later Theories of Substance, in D. J.
O’Meara (ed.), Studies in Aristotle, Washington DC, 1981, pp. 129-159; D. J. Devereux, The
Primacy of OUSIA: Aristotle’s debt to Plato, in D. J. O’Meara (ed.), Platonic Investigations,
Washington DC 1985, pp. 219-246; D. J. Devereux, Inherence and Primary Substance in Aristotle’s Categories, AncPhil 12 (1992), pp. 113-131.
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tamente a un altro testo del Corpus Aristotelicum, e, viceversa, nessun luogo delle Categorie è oggetto di rinvio in altri testi. Si tratta di una prerogativa che appartiene alle
opere che, pur essendo state integrate nel Corpus, sono state dichiarate apocrife: Perˆ
kÒsmou (De Mundo), Perˆ pneÚmatoj (De Spiritu), Perˆ crwm£twn (De Coloribus),
Fusiognwmik£(Physiognomonica), Perˆ qaumas…wn ¢kousm£twn (De Mirabilibus
Auscultationibus), Mhcanik£ (Mechanica), Perˆ ¢tÒmwn grammîn (De Lineis Insecabilibus), Anšmwn qšseij (Ventorum Situs), Perˆ Xenof£nouj (On Xenophanes),
`Rhtorik¾ prÕj Alšxandron (Rhetorica ad Alexandrum).
A ciò si aggiungono i risultati di uno studio sul lessico e sullo stile delle Categorie
comparati a quelli usati da Aristotele in altre opere e, soprattutto, nei Topici. Qui le particolarità da notare sono tre.
1. Le Categorie contengono un’importante quantità di termini che non si riscontrano
in nessuno degli otto libri dei Topici50. Si tratta di termini che servono a illustrare cose
che pure sono presenti all’autore dei Topici, ma di cui non porta esempi precisi, nella
fattispecie: d…phcu51 (di due cubiti), tr…phcu52 (di tre cubiti) per la categoria della
quantità ; (™n) Luke…J 53 (al Liceo), per la categoria del luogo, cqšj (ieri) e pšrusin 54
(l’anno scorso) per la categoria del tempo, ¢n£keitai 55 (sta disteso) per la categoria
della posizione, Øpodšdetai (porta le scarpe) e éplistai 56 (è armato) per la categoria
dell’avere. Sono termini del tutto nuovi rispetto al lessico dei Topici, come se, ogni qual
volta l’autore delle Categorie si trovasse a dover portare degli esempi specifici, incontrasse dei limiti del vocabolario; solamente negli esempi che illustrano la categoria
dell’avere57 si trovano nove termini non utilizzati nei Topici58.
2. Mentre nei Topici Aristotele fa largo uso dell’aggettivo neutro sostantivato, nelle
Categorie sembra preferire il corrispettivo sostantivo astratto: ad esempio, melan…a, nerezza, al posto di tÕ mšlan, nero59. Ma se questa scelta stilistica potrebbe essere motivata dalla distinzione che Aristotele presenta in Categorie 8, 8 b 25 tra la qualità
(poiÒthj) intesa come categoria e ciò che da essa viene qualificato (poiÒn), non avremmo altrettante giustificazioni concettuali per poter esplicare l’uso di molti altri termini meno tecnici usati nelle Categorie e non presenti nei Topici: si tratta di verbi, avverbi, aggettivi, sostantivi etc.
50
B. Collin - C. Rutten, Aristote. Categoriae. Index verborum. Listes de fréquence, C.I.P.L.,
Liège 1993.
51 Categorie 4, 1 b 28.
52 Categorie 4, 1 b 29.
53 Categorie 4, 2 a 1.
54 Categorie 4, 2 a 2.
55 Categorie 4, 2 a 2.
56 Categorie 4, 2 a 3.
57 Capitolo 15 delle Categorie.
58 Si tratta dei seguenti termini: ¢gge…on (15 b 23 e 26), kitèn (15 b 22), daktÚlion (15 b 23),
ker£mion (15 b 24 e 25), mšdimnoj (15 b 24 e 25), ktÁma (15 b 26), ¢grÕn (15 b 27), gun¾ (15
b 28), sunoikšw (15 b 30).
59 Numerosi sono gli esempi che si potrebbero portare: glukÚthj (dolcezza), ™nantiÒthj (contrarietà), eÙqÚthj (rettitudine), qermÒthj (calore), kampulÒthj (curvatura), strufnÒthj (asprezza), yucrÒthj (freddezza), çcrÒthj (pallore). Il punto, in questo argomento, non mi sembra risiedere tanto nel problema della differenza, quanto nella qualità dei termini: si tratta, cioè,
di capire quali siano più ricchi di significato, o più tecnici, o magari meno usuali.
18
3. Il fatto più straordinario è rilevare che, nelle Categorie, sono presenti ben sette hapax legomena, termini che non compaiono non solo in nessun’altra opera attribuita ad
Aristotele, ma neppure in alcuna testimonianza precedente60: ¢n£klisij61 (stare in piedi), fusiÒw62 (diventare naturale), strufnÒthj63 (asprezza), ™ruqri£w64 (arrossire),
™ruqr…aj65 (rosso), palaistrikÒj66 (uomo di palestra), sugkatariqmw 67 (annoverare). All’uso di questi termini si aggiungono delle particolarità stilistiche e formali, come, ad esempio, l’ingente ricorso alla particella greca ge, di molto superiore a quello del
testo della Metafisica68.
Molto giustamente Bodeüs ha affermato che, nonostante i tanti argomenti contro
l’autenticità delle Categorie, l’opera resta, tuttavia, basata su un’ispirazione molto fedele alle dottrine propriamente aristoteliche, tanto che, come ebbe a dire Siriano69, se si
trattasse davvero di un apocrifo, allora avremmo avuto due Aristotele! Pertanto, malgrado i dubbi, l’editore continua a sembrare autorizzato a porre questo testo sotto
l’autorità tradizionale di Aristotele70.
4. La tradizione del testo delle Categorie
Il testo greco delle Categorie è conservato in più di 160 manoscritti copiati in un arco
di tempo che va dalla fine del IX secolo all’inizio del XVII secolo71.
60
Secondo Bodéüs, in Aristote, Catégories…, p. CIX, tali termini sono in numero di nove, perché enumera anche ¢nambisbht»twj (indiscutibilmente), presente in Categorie 5, 3 b 11 e 8,
11 a 3, ma anche in Politica III 13, 1283 b 4 (non l’avverbio, ma la forma aggettivale); VI 14,
1332 b 20, 1332 b 33; Costituzione degli Ateniesi, sezione 35 sottosezione 2 riga 7; e
Ðpwsd»pote (in qualunque modo), presente in Categorie 10, 11 b 33, ma anche in Etica Nicomachea III 5, 1114 b 14, 1114 b 16, e in De Mundo, 397 b 21.
61 Categorie 7, 6 b 11.
62 Categorie 8, 9 a 2.
63 Categorie 8, 9 a 30.
64 Categorie 8, 9 b 30. Il termine è anche presente nei Problemata, opera tradizionalmente considerata non autentica, nei seguenti luoghi: 889 a 20; 889 a 21; 905 a 7; 957 b 10; 957 b 14; 960
a 37; 960 b 2; 960 b 7; 961 a 32; 961 a 34, e in Fragmenta varia, fr. 243, 3.
65 Categorie 8, 9 b 31.
66 Categorie 8, 10 b 3 e 4.
67 Categorie 8, 11 a 22.
68 Cfr. Bonitz, Index Aristotelicus, p. 147 a 48-50. La particella viene utilizzata, nelle Categorie,
cinquantuno volte, un numero che, se essa fosse stata utilizzata con la stessa frequenza nella
Metafisica, avrebbe dovuto raggiungere le quattrocento accorrenze, invece di 189. Cfr. Bodeüs,
Aristote, Les catégories…, p. CX n. 1.
69 Cfr. David, In Cat., 133, 24-25.
70 Bodeüs, Aristote, Les catégories…, p. CX.
71 La lista di questi manoscritti si trova in A. Wartelle, Inventaire des manuscripts grecs
d’Aristote et de ses commentateurs. Contribution à l’histoire du texte d’Aristote, Les belles lettres, Paris 1963, p. 174. Tale lista presenta, tuttavia, omissioni ed errori che sono stati messi in
mostra da: D. Harlfinger e J. Wiesner, Die griechischen Handschriften des Aristoteles und seiner Kommentatoren. Ergänzungen und Berichtigungen zum Inventaire von A. Wartelle, «Scriptorium» 18 (1964), p. 242-257; e da R. D. Argyropoulos e I. Caras, Inventaire des manuscripts
grecs d’Aristote et de ses commentateurs. Contribution à l’histoire du texte d’Aristote. Supplément, Les Belles Lettres, Paris 1980, p. 57.
19
Nonostante le difficoltà che concernono il reperimento di tracce di contaminazione
nei testi e una discreta dose di imprecisione e di ignoranza riguardo i rapporti che intercorrono tra i vari manoscritti, è possibile presentare delle ipotesi di filiazione e, conseguentemente, cinque gruppi principali di fonti.
Il primo gruppo è composto dai seguenti manoscritti: (A) Vat. Urbinas gr. 35, 22-54,
del XII o XIII secolo; (B) Ven. Marcianus gr. Z 201 (coll. 780), 10-26, datato 954; (d)
Flor. Laurentianus gr. 72, 5, 21, 22, 23-50, della seconda metà del X secolo. Ognuno di
essi contiene la totalità dell’Organon, preceduta dal testo dell’Isagogè di Porfirio72.
Il secondo gruppo è composto dai seguenti manoscritti, anch’essi contenenti l’intero
Organon preceduto dall’Isagogè di Porfirio: (C) Paris. Coislinianus 330, 17-42, del XI
secolo; (h) Ven. Marcianus gr. IV, 53, 5-12, del XII secolo73.
Il terzo gruppo è composto da due manoscritti, anch’essi contenenti l’intero Organon
preceduto dall’Isagogè di Porfirio: (V) Vat. Barberinianus gr. 87, 237-252, del X secolo; (u) Basileensis gr. F.II.21 (Omont 54), 17-30, datato attorno alla fine del XII secolo
e inizio del XIII74.
Il quarto gruppo è composto da due manoscritti: (n) Mediol. Ambrosianus L 93 sup.
(490), 24-60, datato in un arco di tempo che va dalla fine del IX secolo all’inizio del X;
(m) Flor. Laurentianus gr. 87, 16, 31-34, della fine del XIII secolo. In essi l’Organon,
preceduto dall’Isagogè di Porfirio, non è riprodotto in maniera completa; mancano, infatti, i Topici e le Confutazioni Sofistiche; in (m), inoltre, non ci sono i Secondi Analitici
e il secondo libro dei Primi Analitici75.
Il quinto gruppo, infine, comprende tre manoscritti: (D) Paris. Gr. 1843, 3-10 (Categorie b b 24 - 7 b 29), scampato a una copia mutilata del XII secolo; (E) Vaticanus gr.
247, 42-75, datato tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV, accompagnato dal commentario di Ammonio; (u ) Basil gr. F.II.21, 9-16, del XIV secolo76.
A partire da questi gruppi di manoscritti, oltre che ad una esigua testimonianza papirologica77, si sono operati dei grandi lavori editoriali, di cui dobbiamo ricordarne tre, per
quanto riguarda il testo delle Categorie. Bekker curò la prima edizione critica
dell’Organon nel 1821, condotta sulla base di quattro manoscritti: (A) Urbinas 35, (B)
Marcianus 201, (C) Coislinianus 33078. Nella metà del XIX secolo, Waitz esaminò
nuovamente i codici A B e C, individuando degli errori nel lavoro editoriale di Bekker;
collazionò, per la prima volta, i manoscritti n, d e u, e considerò alcune traduzioni e alr
72 Per una trattazione analitica di questo primo gruppo di manoscritti, si veda Bodeüs, Aristote,
Les Catégories…, pp. CXV-CXVI.
73 Per una trattazione analitica di questo secondo gruppo di manoscritti, si veda Bodeüs, Aristote, Les Catégories…, pp. CXVI-CXXII.
74 Per una trattazione analitica di questo terzo gruppo di manoscritti, si veda Bodeüs, Aristote,
Les Catégories…, pp. CXXII-CXXVII.
75 Per una trattazione analitica di questo quinto gruppo di manoscritti, si veda Bodeüs, Aristote,
Les Catégories…, pp. CXXVII-CXXXI.
76 Per una trattazione analitica di questo quarto gruppo di manoscritti, si veda Bodeüs, Aristote,
Les Catégories…, pp. CXXXI-CXXXIV.
77 I testi dei frammenti dei papiri si trovano in: The Oxyrhynchus Papyri, Part XXIV, edited
with translations and notes by E. Lobel and E. G. Turner, Londra 1957, pp. 126-129, e in Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Testi e lessico nei papiri di cultura greca e latina, Parte I,
vol. I: Autori noti, Olschki, Firenze 1989, pp. 256-261.
78 Aristotelis Opera ex recensione Immanuelis Bekkeri, edidit Academia Regia Borussica, Berlin, Reimer 1831; editio altera quam curavit Olof Gigon, Berlin, W. De Gruyter 1960.
20
cuni commentari antichi, nonché gli scoli di Brandis79. Nel 1949, infine, Minio-Paluello
ha pubblicato un’edizione delle Categorie e del De Interpretatione ricca di materiale
nuovo, in quanto egli ha collazionato nuovamente i codici A B C n e anche numerosi
manoscritti di traduzioni antiche, latine, siriache e arabe, e ha individuato i codici che
tramandano la traduzione boeziana delle Categorie80.
5. Una querelle di vecchia data
Non si potrebbe trattare del testo aristotelico delle Categorie senza fare accenno al
problema principe che tanto ha impegnato, e tuttora impegna, studiosi e commentatori.
La domanda riguarda i criteri in base ai quali Aristotele abbia dedotto le dieci categorie
e la natura dello scritto: se si tratti di un’opera di carattere solo linguistico-grammaticale
piuttosto che strettamente ontologico, o logico, o, ancora, semantico.
5.1. Il dibattito antico
La querelle è di vecchia data, molto più di quanto si possa, a tutta prima, pensare.
Già i commentatori antichi, tra i quali Alessandro di Afrodisia, Porfirio, Simplicio,
Giamblico, si chiedevano che cosa Aristotele intendesse con l’espressione t¦ legÒmena, “le cose dette”: se 1. le realtà (pr£gmata) significate dalle parole, o le nozioni
(no»mata) che significano la realtà, o le stesse espressioni per sé significanti, o, ancora,
espressioni senza significato, che possono sì essere pronunciate, ma non indicano nulla81. Potremmo distinguere tre diverse chiavi di lettura nell’individuazione dello scopo
principale delle Categorie.
1. Interpretazione linguistica. Le dieci categorie non sono altro che parole pronunciate (fînai), il fine dello scritto non riguarda che i semplici termini82, e si tratta della
primissima parte della logica. Come il De Interpretatione tratta di proposizioni, composte da termini, e non di realtà (pr£gmata), così le Categorie, in quanto trattano delle
parti della proposizione, riguardano i semplici termini. Questa posizione sarebbe suffragata dal fatto che Aristotele usi l’espressione t¦ legÒmena (“le cose che si dicono”) in
Categorie 2, 1 a 16-17:
Delle cose che si dicono (Tîn legomšnwn), alcune si dicono (lšgetai) secondo connessione, altre senza connessione.
79
Aristotelis Organon graece, novis codicum auxiliis adiutus recognovit, scolii inediti set
commentario instruxit. Th. Waitz, 2 voll., Leipzig, Hahan 1846; Darmstag, Scientia Verlag Aalen 1965.
80 Aristotelis Categoriae et Liber De Interpretatione recognovit brevique adnotatione critica instruxit L. Minio-Paluello, Oxford University Press, Oxford 1949. G. Colli (Aristotele. Organon,
Introduzione, traduzione e note di G. Colli, Giulio Einaudi editore, Torino 1955, pp. XII-XVIII)
ha mosso delle critiche all’edizione di Minio-Paluello, alle quali l’autore ha risposto in una recensione in «Giornale critico della filosofia italiana» 35 [1956], pp. 251 e ss.
81 Cfr. Simplicio, Aristotle’s Categories…, 41, 5 - 42, 10 (p. 55). Sembra che, tra gli antichi, la
controversia riguardasse se le categorie fossero termini (fînai) oppure concetti (no»mata) oppure oggetti reali (pr£gmata). Il primo giudizio viene attribuito ad Alessandro di Afrodisia, il
secondo a Porfirio, il terzo a Erminio.
82 Chaese (Simplicius, On Aristotle’s Categories…, p. 106, n. 122) sottolinea giustamente come
sia più corretto parlare di “termini” piuttosto che di “parole”, in quanto le parole vengono analizzate «non nella loro funzione di entità grammaticali, ma in quanto termini logici».
21
E ancora, in Categorie 4, 1 b 25-28:
Ciascuna delle cose che si dicono senza connessione (Tîn kat¦ mhdem…an sumplok¾n legomšnwn) indica o una sostanza o una quantità o una qualità o una relazione
o un luogo o un tempo o una posizione o un avere o un fare o un subire,
come se le categorie stessero ad indicare dei termini, delle parole che possono essere
pronunciate. Un’ulteriore riprova potrebbe essere costituita da Categorie 4, 2 a 4-6:
Ciascuna delle suddette cose, considerata per se stessa, non costituisce nessuna affermazione; è attraverso la connessione reciproca di esse che si ha l’affermazione
(kat£fasij).
Dove è chiaro che l’affermazione ha luogo da una combinazione di termini, non di realtà o di fatti83.
2. Interpretazione ontologica. Non è compito di un filosofo presentare delle teorie sulle
parole, ma piuttosto di uno studioso di grammatica, che ne analizza non solo modificazioni e desinenze, ma anche gli usi. L’intento dell’opera aristotelica non sarebbe, pertanto, quello di trattare parole e termini, ma le realtà, le cose, i fatti che le parole esprimono, e che Aristotele indica con t¦ legÒmena. A favore di questo argomento viene
portato il passo Categorie 2, 1 a 20-21, in cui l’Autore, accingendosi a presentare una
divisione degli enti, scrive:
Delle cose che sono (Tîn Ôntwn), alcune si dicono di un soggetto, ma non sono in un
soggetto
rendendo, pertanto, evidente che la divisione sia tra esseri, e non tra parole. E, ancora, il
passo Categorie 5, 2 a 11-12,
sostanza, nel senso più proprio, in primo luogo e soprattutto, è quella che non si dice di
nessun soggetto né è in nessun sostrato, come, ad esempio, un determinato uomo o un
determinato cavallo,
mostra come la discussione verta intorno a sostanze esistenti e non a mere parole84.
A questa posizione, Simplicio oppone la constatazione che lo scritto delle Categorie
fa parte dell’opera logica di Aristotele e che, dunque, non potrebbe occuparsi degli enti
in quanto enti, dal momento che questa sarebbe una trattazione riservata alla metafisica85.
3. Interpretazione nozionistica86. L’argomento delle Categorie non è costituito né da
termini significanti né da realtà significate, ma da nozioni (no»mata), poiché si trattano
i dieci generi, che sono entità concettuali. Come lo stesso Aristotele ha esplicitamente
scritto, l’opera tratta di “cose dette” (t¦ legÒmena), e le cose dette o dicibili non sono
che le nozioni, come confermerebbero gli Stoici87. A questa posizione, Simplicio88 o83
Per questa prima posizione, di stampo linguistico, riguardo il fine dell’opera e lo statuto delle
categorie, si vedano: Simplicio, In Cat., 9, 4-19; Porfirio, In Cat., 57, 6-8.
84 Per l’interpretazione ontologica, si vedano: Simplicio, In Cat., 9, 20-30; Ammonio, In Cat.,
9,5; Filopono, In Cat., 8, 33 - 9, 4, il quale attribuisce questa posizione a Eustazio; Olimpiodoro,
In Cat., 18, 30 - 19, 13; David (Elias), In Cat., 129, 11 - 130, 8, che attribuisce questa posizione
a Erminio.
85 Simplicio, In Cat., 9, 28-30.
86 Sembra che abbiano aderito a questa posizione: Porfirio (su testimonianza di Ammonio, 9,9;
Filopono, 9,5-6; David, 129,10-11) e Alessandro di Afrodisia (su testimonianza di Olimpiodoro,
18,31; 19,17 e ss.).
87 Cfr. P. Hadot, 1980, p. 316; Clemente di Alessandria, Stromata, 8,4,13,1.
88 Simplicio, In Cat., 10, 4-6.
22
bietta che neppure le nozioni in quanto nozioni appartengono all’ambito della logica,
ma, piuttosto, a quello dell’anima.
Simplicio afferma che i fautori di ciascuna posizione hanno colto, anche se imperfettamente e in maniera parziale, la finalità dell’opera, e che, tuttavia, a suo avviso, i commentatori che più si sono avvicinati al vero intento dell’opera sono stati Alessandro di
Afrodisia e Alessandro di Aigai, secondo i quali Aristotele, volendo indicare le nozioni
espresse dalle parti primarie e più semplici del discorso, e non potendo presentarne una
classificazione per individui (inconoscibili e non circoscrivibili per natura), ha, piuttosto, operato una divisione in generi sommi, che non fungono da sostrato ad altre cose,
ma essi stessi sono predicati di tutto il resto, ad esclusione della sostanza, che è sostrato
di tutto il resto89.
5.2. Il dibattito moderno
Questo dibattito trova posto anche, e soprattutto, nelle ricerche moderne, le cui linee
principali possono essere schematicamente ricondotte a tre grandi classi:
l’interpretazione linguistico-grammaticale, l’interpretazione ontologica e, infine,
l’interpretazione logica, cui possiamo accostare anche l’interpretazione semantica. A
questi tre modelli ermeneutici possono essere accostate le tre maggiori ipotesi intorno al
problema della deduzione della tavola delle categorie:
1. le categorie derivano dalla scomposizione della proposizione in elementi grammaticali (nome, verbo, aggettivo, avverbio);
2. le categorie derivano da un’analisi delle strutture ontologiche e metafisiche, indipendentemente dalla mediazione linguistica e logica;
3. le categorie derivano dalla scomposizione del giudizio logico o comunque derivano da un’analisi della predicazione logica.
Le diverse proposte di lettura forniscono ciascuna un quadro differente dei rapporti
tra le categorie e del piano dell’opera stessa. Presenterò, di seguito, brevemente, ciascuna delle interpretazioni, citandone i principali sostenitori, per poi saggiarne la capacità
ermeneutica per valutare se l’una escluda necessariamente l’altra o se, invece, non si
possa, in qualche modo operare una mediazione.
5.2.1. Il “filo conduttore grammaticale”
A intervenire, in maniera diffusa, sul tema delle categorie fu lo studioso tedesco
Friedrich Adolf Trendelenburg, il quale scrisse una storia delle categorie, la cui prima
parte è interamente dedicata ad Aristotele90. Egli vi sosteneva che il filosofo avesse dedotto le sue categorie a partire da un «filo conduttore grammaticale» («grammatischer
Leitfaden»), per cui ciascuna di esse corrisponderebbe ad una parte costitutiva della
proposizione. Il carattere comune delle categorie, infatti, sarebbe quello di essere dette
senza connessione e di venire a costituire un giudizio solo con l’intervento di una sumplok». Trendelenburg sosteneva la tesi della concordanza delle categorie con elementi
grammaticali essenziali della proposizione, identificando la categoria della sostanza con
il sostantivo, quelle della quantità e della qualità con l’aggettivo, quella della relazione
con il comparativo, le categorie del dove e del quando, rispettivamente, con l’avverbio
di luogo e di tempo, quelle del fare e del patire con il verbo in diatesi attiva e passiva, il
89
90
Cfr. Simplicio, In Cat., 10, 9-20.
Trendelenburg, Dottrina…, p.
23
giacere con il verbo intransitivo e l’avere con il verbo al perfetto91. A questa tesi veniva
obiettato che la derivazione linguistica è chiara solo in alcuni casi, mentre, in altri, si poteva addirittura rilevare la divergenza dall’uso linguistico. Inoltre, «nel tempo in cui Aristotele scriveva, la preesistente sistemazione grammaticale andava poco più in là della
distinzione del nome dal verbo, di modo che, anche a voler accettare integralmente
l’interpretazione di Trendelenburg, andrebbe detto che Aristotele procedeva assieme alla sistemazione tanto della logica quanto della stessa grammatica»92.
Questa tesi, tuttavia, che vedeva la sostanza caratterizzata, a livello grammaticale,
meramente come sostantivo all’interno di una proposizione, doveva essere, in gran parte, riveduta nello svolgimento dello stesso scritto di Trendelenburg. Egli, infatti, si accorse che le categorie, per quanto definite come sintatticamente sconnesse tra loro, in
quanto «elementi del giudizio, all’interno del quale servono ad esprimere il reale e le
sue relazioni, […] recano in sé il riferimento alla realtà e un significato oggettivo»93.
Questa corrispondenza con il reale portava lo studioso a notare che anche la stessa presentazione delle categorie seguiva un ordine ontologico, per cui la categoria della sostanza, prima per natura, precede tutte le altre e detiene una posizione condizionante.
Inoltre, poiché le categorie sono caratterizzate come i sommi generi della predicazione,
esse hanno senz’altro una valenza logica, secondo la quale ciò che funge da soggetto
conduce alla prima categoria, mentre tutti i predicati conducono alle rimanenti nove.
«Dove sono presenti un giudizio e una predicazione nel senso autentico, il soggetto è la
sostanza portante e generatrice. I concetti che vengono predicati presuppongono il soggetto e , non essendo sostanze, dal punto di vista ontologico sono nel sostrato, sono cioè
degli accidenti»94. La categoria della sostanza, tuttavia, pur essendo propriamente soggetto, può, talora, in quanto sostanza seconda, fungere da predicato95.
Da queste considerazioni scaturiva, così, una revisione della tesi iniziale, per cui il
contenuto concettuale e la valenza ontologica delle categorie ridimensionavano la dottrina del filo conduttore grammaticale: «se grammaticale è l’origine delle categorie,
nell’ambito della grammatica esse non esauriscono il loro valore»96; «la valenza ontologica delle categorie», però, pur non essendo misconosciuta, non veniva elevata
all’aspetto fondamentale; «sull’aspetto ontologico», infine, Trendelenburg faceva leva
nel precisare la natura delle categorie; le categorie sono “logiche Kategorien”: precisamente, sono i generi sommi della predicazione97, sono i predicati più universali98, dun91
Cfr. Trendelenburg, Dottrina…, pp. 103 -114.
Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 11.
93 Trendelenburg, Dottrina…, p. 95. Cfr anche pp. 95-96: «Di conseguenza, dunque, è soltanto
la proposizione a riprodurre il reale nel suo collegamento o nella sua separazione; i singoli concetti, invece, presi per se stessi, non lo esprimono. Nella misura in cui però i concetti, in quanto
materia della proposizione, designano il contenuto di ciò che si collega o si separa, allora
anch’essi hanno un riferimento alle cose, e questo significato reale accompagna perciò le categorie nonostante la loro origine dallo scioglimento del legame della proposizione».
94 Trendelenburg, Dottrina…, p. 97.
95 Cfr. Trendelenburg, Dottrina…, p. 97.
96 Reale, Filo conduttore grammaticale, filo conduttore logico e filo conduttore ontologico nella
deduzione delle categorie aristoteliche e significati polivalenti di esse su fondamenti ontologici,
saggio introduttivo in Trendelenburg, Dottrina…, p. 33. Cfr. Trendelenburg, Elementa logices
Aristoteleae, Berolini 1862, 5 ediz., p. 57: «Ita Aristoteles categoriarum genera ex grammaticis
fere orationis rationibus invenisse videtur, inventas autem ita pertractravit, ut, relicta origine,
ipsam notionum et rerum naturam spectarent».
97 Cfr. Trendelenburg, Elementa…, p. 56: «summa praedicationis genera».
92
24
que, figure della «logica»99. L’aspetto grammaticale restava, dunque, l’asse portante, attorno al quale si stringevano il piano logico ed il piano ontologico.
La tesi grammaticale di Trendelenburg, anche se moderata nel senso che abbiamo visto, considerata insufficiente, non trovò molti sostenitori100, ma diede impulso ad opere
critiche101 e a numerosi scritti ed analisi sulle categorie aristoteliche. Inoltre, anche se
in ambito strettamente filosofico, il filone grammaticale dell’interpretazione aristotelica
è andato man mano affievolendosi, esso è stato ripreso, in termini simili, ma in un contesto completamente diverso e rinnovato, nell’ambito novecentesco della linguistica
strutturale. Emile Benveniste può, così, affermare che le categorie enunciate da Aristotele non sono che categorie di lingua: mentre lo Stagirita «intendeva passare in rassegna
tutti i predicati della proposizione, […] inconsciamente ha seguito come criterio la necessità empirica di una espressione distinta per ciascun predicato. Era quindi destinato a
ritrovare, senza volerlo, le distinzioni che la lingua stessa rende evidenti fra le principali
classi di forme e tali classi hanno un significato linguistico. Aristotele credeva di definire gli attributi degli oggetti, mentre non enuncia che degli enti linguistici: è la lingua
che, grazie alle proprie categorie, permette di riconoscerli e specificarli»102.
Una posizione in parte avvicinabile a questo primo gruppo di interpretazioni “grammaticali” è anche quella di Ackrill103, secondo la quale le categorie derivano dagli avverbi interrogativi attraverso i quali si chiedono informazioni intorno a una realtà esistente e fenomenica. In questa prospettiva, tuttavia, non ci sono riferimenti ad una
scomposizione della proposizione, ma al contesto “dialogico” nel quale avrebbe preso
forma la dottrina aristotelica delle categorie.
All’interno di questo stesso gruppo va anche enumerata la posizione di Esposti Ongaro104, che concilia la prospettiva di Ackrill e quella di Trendelenburg, giudicando valida la posizione di quest’ultimo soltanto in relazione alle quattro categorie del verbo 98
Cfr. Trendelenburg, Dottrina…, p. 98: «die allgemeinstein Prädicate».
Reale, Filo conduttore…, p. 33.
100 Tra i sostenitori, ricordo F. Biese, Die Philosophie des Aristoteles, vol. I, Berlin 1835, pp.
54-55, secondo il quale Aristotele ha guadagnato l’enumerazione delle categorie attraverso la
lingua; egli sostiene, come Trendelenburg, che le categorie indicano i sostantivi, gli aggettivi ed
i numerali, gli avverbi di luogo e di tempo, le modalità del verbo. Tra i sostenitori di Trendelenburg possiamo anche annoverare Ernst Friedrich Apelt, secondo il quale le categorie indicano
forme sintattiche della grammatica e delle parti del discorso (cfr. E. F. Apelt, Metaphysik, Leipzig 1857, p. 169).
101 Oltre ad H. Bonitz, F. Brentano, O. Apelt, di cui diremo più avanti, E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Leipzig 1921, pp. 258-273; W. Schuppe, Die aristotelischen Kategorien, Berlin 1871 (1 ediz. 1866).
102 E. Benveniste, Catégories de pensée et catégories de langue, in Problèmes de linguistique
générale, Edition Gallimard, Paris 1966, trad. it. di M. Vittoria Giuliani, Categorie di pensiero e
categorie di lingua, in Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 79-91,
pp. 86-87. Grandi personalità filosofiche hanno accolto la tesi di Benveniste sulle categorie aristoteliche, tra le quali Paul Ricoeur e Umberto Eco. Cfr. V. Cicero, L’interpretazione linguistica
delle categorie aristoteliche in E. Benveniste, in Trendelenburg, Dottrina…, pp. 287-331. Si veda anche P. Aubenque, Aristote et le langage, in «Annales de la Faculté des lettre set sciences
humaines d’Aix», serie Etudes classiques, 2, 1967, pp. 103-105.
103 Cfr. J.L. Ackrill, Notes on the “Categories”, in J.M.E. Moravcsik (ed.), Aristotle. A Collection od Critical Essays, Mac Millan, London-Melbourne 1968, pp. 109-112.
104 Cfr. M. Esposti Ongaro, Dialettica e grammatica nella dottrina delle Categorie di Aristotele,
«Elenchos» XXVI (2005), fasc. 1, pp. 33-63.
99
a
25
una corrispondenza «[…] determinata dall’esigenza di attribuire valenza ontologica alla
predicazione verbale»105 - e concordando con Ackrill sulla derivazione dagli avverbi interrogativi per quanto riguarda le altre categorie.
5.2.2. La prospettiva ontologica
Il grande filologo tedesco Hermann Bonitz aprì una nuova prospettiva di tipo ontologico, criticando apertamente l’interpretazione linguistica di Trendelenburg e sostenendo
che le categorie, prima di essere predicati, sono i generi sommi dell’essere, ai quali poter ricondurre tutti gli enti esistenti106. La categoria della sostanza, prima nell’elenco,
viene a perdere la priorità ontologica che Trendelenburg, in seconda battuta, aveva cercato di attribuirle, dal momento che ogni categoria, secondo Bonitz, ha spessore ontologico.
Sulla stessa linea ontologica di pensiero sembra collocarsi anche Brentano, il quale
prende in considerazione i quattro significati fondamentali dell’essere distinti da Aristotele in Metaphysica D 7, cioè: l’essere per accidente, l’essere per sé, l’essere come vero
e l’essere come potenza e atto, e mostra che possono tutti ridursi all’essere per sé, vale a
dire a quello delle categorie. Inoltre, egli mostra che le categorie possono essere tutte
ricondotte alla sostanza, poiché esse si riferiscono tutte analogicamente ad un medesimo
significato, che è, appunto, l’essere primo, la sostanza107.
È chiaro che, in questo tipo di prospettiva, vengono valorizzati i passi aristotelici in
cui si fa riferimento alle kategor…ai toà Ôntoj, categorie dell’essere108. I generi
dell’essere corrispondono, senza dubbio, per Aristotele a delle categorie, come esplicitamente ammesso in Metafisica D 7, 1017 a 22-23109; questo, tuttavia, non basterebbe di
per sé a dimostrare che le categorie siano delle differenze che operano nel genere
dell’essere. Esse potrebbero essere delle distinzioni che corrispondono a delle differenze
reali, ma che costituiscono differenze di indicazioni che trovano posto al di fuori di una
prospettiva strettamente ontologica.
Nella prospettiva per cui le distinzioni categoriali debbano essere assimilate esclusivamente ai dieci generi dell’essere è, inoltre, possibile ipotizzare che la categoria della
105
Esposti Ongaro, Dialettica e grammatica…, p. 40.
Cfr. H. Bonitz, Über die Kategorienlehre des Aristoteles, in «Sitzungsberichte der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften», Philosophische-historische Klasse, 10 Band, 5 Heft, Wien
1853, pp. 591-645; trad. it. Sulle categorie di Aristotele, Prefazione, introduzione, progettazione
e impostazione editoriale di G. Reale, traduzione dal testo tedesco e indici di V. Cicero, Vita e
Pensiero, Milano 1995.
107 Cfr. F. Brentano, Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles, Freiburg
im Breisgau 1862, rist. Darmstadt 1960 e Hildesheim 1963; trad. it. Sui molteplici significati
dell’essere secondo Aristotele, prefazione, introduzione, traduzione dei testi greci, progettazione
e impostazione editoriale di G. Reale, traduzione del testo tedesco e indici di S. Tognoli, Vita e
Pensiero, Milano 1995., in particolare si veda il cap. V: L’essere secondo le figure delle categorie, pp. 91-194. La linea di interpretazione ontologica viene sostenuta da Reale, Filo conduttore…; L. Lugarini, Il problema delle categorie in Aristotele, «Acme», VII (1955), pp. 3-107.
108 Cfr. Metafisica Q 1, 1045 b 28.
109 kaq’aØt¦ dO enai lšgetai Ósaper shma…nei t¦ sc»mata tÁj kathgor…aj, «Essere per
sé sono dette tutte le accezioni che ha l’essere secondo le figure delle categorie», trad. tratta da
Aristotele, Metafisica, saggio introduttivo, testo greco con traduzione a fronte e commentario a
cura di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1995 .
106
2
26
sostanza assuma un ruolo per così dire “globale” e diventi un genere essenziale cui sono
subordinati altri generi non essenziali, che corrispondono alle altre nove categorie110.
5.2.3. Tra l’aspetto grammaticale e la derivazione ontologica: l’interpretazione logica e
semantica
Non sono mancate le proposte di interpretazione delle categorie attraverso un punto
di vista che si pone a metà strada tra l’aspetto grammaticale e la derivazione ontologica
delle categorie. Si tratta della posizione inaugurata da Otto Apelt, il quale sostiene che
le categorie aristoteliche hanno un carattere predicativo, che deve essere inteso in riferimento alla proposizione nel suo senso logico, cioè al giudizio. Esse, infatti, hanno un
significato non grammaticale, ma logico111; sono la mediazione tra le cose stesse e le
determinazioni linguistiche di queste, e ci permettono di stabilire le differenze logiche
di ciò che viene detto112.
L’intreccio tra l’aspetto logico e l’aspetto ontologico delle categorie è stato rilevato
ed analizzato ulteriormente anche da molti altri studiosi113; prendendo le mosse proprio
da esso, è nata, negli ultimi decenni del secolo scorso, una nuova interpretazione, secondo la quale le categorie sono modelli semantici, a metà strada tra le cose reali e le
loro espressioni linguistiche, della predicazione114, dei quali Aristotele si sarebbe servito
per stabilire i rapporti tra certe espressioni predicative e gli oggetti ad esse corrispondenti e, in particolare, i modi in cui i predicati-accidenti appartengono ai loro soggettisostanze. Secondo tale interpretazione, la categoria della sostanza, come, d’altro canto,
le altre, non potrebbe essere considerata né in senso puramente ontologico, come classificazione dell’essere, né in senso puramente linguistico, come elemento grammaticale,
poiché il valore semantico contiene l’uno e l’altro aspetto115.
5.3. Ipotesi di conciliazione
5.3.1. Due necessarie osservazioni
Intorno alla vexata quaestio dello status delle categorie aristoteliche può essere utile
prendere le mosse, paradossalmente, da una visione vicina, e tuttavia profondamente diversa, come quella espressa dal giudizio di Kant, secondo il quale lo Stagirita non a110
Una posizione vicina a quella di M. Frede, Essays in Ancient Philosophy, Clarendon Press,
Oxford 1987, p. 38.
111 Cfr. O. Apelt, Die Kategorienlehre des Aristoteles, in Beiträge zur Geschichte der Griechischen Philosophie, Leipzig 1891, p. 159.
112 Cfr. Apelt, Kategorienlehre…, p. 160: Le categorie si trovano «[…] in primo luogo a metà
strada tra la parte fenomenica e quella metafisica della nostra conoscenza, e, in secondo luogo,
anche a metà strada tra le cose stesse e le espressioni linguistiche designate attraverso le parole».
113 Tra gli altri, cito L. M. De Rijk, The place of Categories of being in Aristotle’s Philosophy,
Assen 1952.
114 Si tratta, appunto, dell’interpretazione semantica, la cui spiegazione più completa si trova in
M. Vesoly, Zur semantischen Interpretation der aristotelischen Kategorien, «Symbolae Philologorum Posnaniensium», 6 (1983), pp. 57-72; trad. it. Verso un’interpretazione semantica delle
Categorie di Aristotele, «Elenchos» V (1984), pp. 103-140. Per semantica si intende qui una
«teoria che svolge ricerche sui rapporti tra certe espressioni linguistiche e gli oggetti di cui esse
parlano» (Vesoly, Verso un’interpretazione…, p. 128).
115 Cfr. Vesoly, Verso un’interpretazione…, pp. 129-130.
27
vrebbe seguito nessun filo conduttore sistematico nell’elaborare gli schemi categoriali,
ma si sarebbe affidato alla semplice induzione116. Il filosofo tedesco contrappone alla
tavola delle categorie aristoteliche la propria, ottenuta tramite una sistematica «deduzione trascendentale»117, cioè attraverso una giustificazione della legittimità dell’origine a
priori delle categorie fondata nelle funzioni logiche generali dell’unità
dell’appercezione trascendentale: l’Io penso. Come fa giustamente notare Heidegger118,
in Kant, bisogna distinguere la «Spur», la traccia che rende possibile la scoperta delle
categorie da parte della ragione che esamina se stessa, cioè la tavola dei giudizi,
dall’«Ursprung», cioè la vera origine delle categorie, cioè l’«Io penso». Così, la tavola
dei giudizi, che guidano nella scoperta delle categorie, in realtà si rivela, essa stessa,
fondata su quest’ultima. Quel che ci interessa è che si tratta di una declinazione della distinzione tra quel che è primo di diritto (quid iuris), da quel che è primo di fatto (quid
facti)119, o, se vogliamo, tra una «genesi ideale», strettamente filosofica ed una «genesi
psicologica»120, storico-biografica, delle categorie.
Questo tipo di distinzione si rileva molto interessante per una più ampia interpretazione delle categorie stesse, perché, tramite essa, non saremo costretti ad identificare il
modo in cui lo Stagirita ha reperito le categorie con lo scopo che si prefiggeva di raggiungere tramite esse121. La distinzione, nata da un detrattore della tavola aristotelica
delle categorie, è servita, per lo più, agli studiosi come giustificazione per escludere il
116
Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, ed. Schimdt, Leipzig 1930, trad. It. Critica della ragione pura, introduzione, traduzione e note di G. Colli, Adelphi edizioni, Milano 1995, 1999 , p.
134: «La ricerca di questi concetti fondamentali fu un disegno di Aristotele: progetto degno di
un pensatore acuto. Tuttavia, dato che non possedeva alcun principio, egli raccolse allora questi
concetti, così come gli si presentavano,e anzitutto ne mise assieme dieci, che chiamò categorie».
Cfr. anche I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wisswenschaft
wird auftreten können, ed. K. Vorländer, Leipzig 1905, § 39, trad. It. Di P. Carabellese, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Bari 1925, Roma-Bari 1982 ,
pp. 85-86: «Aristotele aveva raccolto dieci di tali concetti puri elementari sotto il nome di categorie. […] Ma questa rapsodia poteva valere e meritar consentimento piuttosto come cenno per i
ricercatori futuri, che come idea regolarmente sviluppata; perciò, col progredire della filosofia,
essa è stata rigettata come del tutto inutile».
117 Cfr. Kant, Critica…, p. 142: «La spiegazione del modo in cui tali concetti possono riferirsi a
priori ad oggetti, io la chiamo dunque la deduzione trascendentale dei medesimi concetti, e la
distinguo dalla deduzione empirica, che indica il modo in cui un concetto è stato acquistato mediante l’esperienza e la riflessione sull’esperienza, e che riguarda quindi non già la legittimità,
bensì il factum, attraverso il quale è sorto il possesso».
118 Cfr. M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn 1929, trad. it. di M. E. Reina, riveduta da V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Roma-Bari 1981, p. 57. Cfr. anche Cicero, Interpretazione linguistica… p. 288, n. 3.
119 Cfr. Kant, Critica…, p. 141.
120 Cfr. Reale, Filo conduttore…, pp. 34-35.
121 L’accusa di aver confuso i due piani viene rivolta soprattutto a Trendelenburg (Cfr. Reale,
Filo conduttore…, pp. 34-35). Egli, invece, sebbene sia ricordato come il propulsore della sola
interpretazione grammaticale, a me sembra resti uno dei pochi che si sia reso conto che la scoperta delle categorie, avvenuta per via grammaticale, celi un impianto concettuale. Cfr. Trendelenburg, Dottrina…, p. 105: «[…] non si può non riconoscere che le categorie siano state dapprima orientate secondo la orma grammaticale dell’espressione, sebbene poi, al di là
dell’espressione stessa, esse perseguano il contenuto concettuale». L’espressione, infatti, deve,
in qualche modo, rendere il reale; è a partire dal reale, infatti, che essa viene costruita. Il linguaggio non è autofondante.
2
4
28
modo il cui il Filosofo ha reperito le categorie dalla ricerca filosofica perché non teoretico ed affannarsi a ricercare lo scopo cui mirava tramite esse. Questa eliminazione non
mi sembra possa valorizzare il testo aristotelico, che è così ricco da portare in sé tracce
di diverse letture possibili.
La seconda osservazione riguarda il fatto che risulta sempre facile, ai posteri, leggere
un testo antico attribuendogli, in maniera rigida, analisi derivanti da studi moderni o
contemporanei, o comunque posteriori allo scritto stesso, piuttosto che cercare, con
l’aiuto dei nostri concetti, sempre meglio sviluppati ed approfonditi, di illuminarlo, cercando di vedere se e come esso contenga in nuce elementi “indifferenziati”, che sono
stati, nel corso del tempo, dispiegati. Si tratta di essere preventivamente cauti
nell’applicazione delle nostre analisi a testi antichi; dobbiamo essere attenti a far in modo che esse, piuttosto che farci etichettare, in maniera definitiva, uno scritto in senso unilaterale, ci consentano di aprire gli occhi, di vedere cose che non avremmo visto se
non avessimo avuto i concetti giusti per pensarle.
In base a queste due osservazioni, cercherò di presentare le possibili chiavi di lettura
delle Categorie, come fossero livelli diversi di comprensione, non come reciprocamente
inconciliabili.
5.3.2. Tra linguaggio e realtà
Prescindendo dallo scopo che Aristotele si sarebbe realmente prefisso nel ricercare le
categorie, non si può in alcun modo negare che egli si sia rivolto, in primo luogo, a ciò
che gli era molto vicino, sotto gli occhi: il linguaggio, le parole con cui l’uomo significa122. E se anche egli non avesse voluto partire dal linguaggio, sarebbe stato, nondimeno, costretto a farlo, dal momento che la stessa realizzazione del pensiero ha la sua condizione nella forma linguistica che coglie e dà forma ai contenuti intellettivi ed il linguaggio, a sua volta, è una struttura che veicola significati123. La realtà che Aristotele
intendeva indagare gli si presentava come già configurata nella struttura del linguaggio.
Il pensiero, infatti, non può essere qualcosa di completamente autarchico e libero che
faccia uso delle parole come meri strumenti a sé asserviti: ogni qualvolta cerchiamo di
analizzare gli schemi del pensiero, ci imbattiamo ancora in categorie linguistiche124.
Questo non significa, tuttavia, che la sfera del pensiero e la sfera del linguaggio siano
perfettamente sovrapponibili; è vero, piuttosto, che spesso si creano degli scomodi scarti
che provocano ambiguità e ostacolano la comunicazione. Un tale gap non è misconosciuto da Aristotele, il quale, però, più che alla sfera del pensiero, è interessato alla sfera
del reale, ed è ben consapevole che, poiché è impossibile parlare presentando gli oggetti
e le cose come sono nella realtà dei fatti, l’uomo fa uso di simboli: i nomi. Il bel passo
aristotelico delle Confutazioni sofistiche credo valga la lettura.
122
Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 12: «Nella struttura della lingua si rispecchia una prima interpretazione della realtà, ma un’interpretazione appunto ch’è frutto di un sapere volgare e non
controllato, dell’opinione insomma e non della scienza». La struttura della lingua presenta, infatti, un riferimento alla realtà, non ancora precisamente affinato. Si tratta, allora, di capire se la
struttura della lingua può, e vuole considerare solo il suo ordine interno oppure solo la realtà che
descrive; ma è chiaro che la capacità del linguaggio di descrivere e di spiegare il reale ha luogo
nel rapporto, nel riferimento della struttura linguistica al reale.
123 Cfr. De Interpretatione 1, 16 a 3-4.
124 Cfr. Benveniste, Categorie…, in particolare pp. 79-81; in particolare pp. 90-91.
29
Dato che non è possibile discutere presentando gli oggetti come tali, e che ci serviamo
invece dei nomi, come di simboli che sostituiscano gli oggetti, noi riteniamo allora che
i risultati osservabili a proposito dei nomi si verifichino altresì nel campo degli oggetti,
come avviene a coloro che fanno calcoli usando dei ciottoli. Eppure le cose non stanno
allo stesso modo nei due casi: in effetti, limitato è il numero dei nomi, come limitata è
la quantità dei discorsi, mentre gli oggetti sono numericamente infiniti. È dunque necessario che un discorso esprima parecchie cose e che un unico nome indichi più oggetti. Ed allora, come rispetto all’esempio ricordato, coloro che non sono abilissimi nel
maneggiare ciottoli vengono ingannati da chi è esperto in materia, allo stesso modo, nel
caso dei discorsi, coloro che non hanno esperienza della forza e del significato dei nomi incappano in ragionamenti errati, sia discutendo essi stessi, sia ascoltando altri discutere125.
Questi due mondi, il mondo, dei significanti (nomi) e quello dei significati (cose) sono, ovviamente, comunicanti, ma non sono perfettamente simmetrici, per cui quel che
avviene tra i simboli non sempre avviene anche nelle cose. Con questo non si vuol certo
dire che il linguaggio sia da buttare, ma che occorre, anzi, conoscere il più possibile le
sue regole per comprenderlo e usarlo nel migliore dei modi.
Da una parte, dunque, il linguaggio è un insieme di “simboli”, sempre costitutivamente e legittimamente imperfetto, di cui ci serviamo per significare gli oggetti, la realtà, per formulare e comunicare i nostri pensieri; dall’altra, esso è precisamente ciò che ci
permette di capire la realtà, di parlare di essa e scoprirne i problemi:
la difficoltà che il pensiero incontra, manifesta le difficoltà che sono nelle cose126
Il linguaggio, ciò che offre all’uomo la possibilità di pensare e di parlare del reale, è,
nello stesso tempo, ciò che la ostacola, perché, essendo solo una rappresentazione degli
oggetti, ne resta sempre e comunque al di qua, ed è, ad ogni momento, incompleto e
manchevole. L’imperfezione del linguaggio è un dato di fatto strutturale, dunque ineliminabile; può, tuttavia, pur sussistendo, essere ridotto ai minimi termini possibili. In che
modo? Esaminando la lingua e le sue strutture, valutandole alla luce degli oggetti e dei
fatti che indicano, e cercando di sgombrare il campo da quante più ambiguità possibile.
È quel che Aristotele mi sembra cerchi di fare nelle Categorie. Con questo non intendo
dire che l’analisi sia puramente linguistica, e mi sembra di aver già fornito alcuni spunti
per poter credere che essa risulti, al contrario, fondata e valutata sul banco di prova della
fedeltà al reale127.
125
Confutazioni sofistiche, I, 165 a 6-17.
Metafisica B 1, 995 a 30-31.
127 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 12: «La ricerca categoriale consiste perciò nel condurre le
distinzioni reali già parzialmente presenti nella lingua dal livello dell’opinione a quello della
scienza, fungendo naturalmente da pietra di paragone la struttura effettiva della realtà».
126
30
PARTE SECONDA
ANALISI DEL TESTO
Capitolo Primo
Le nozioni di omonimia, sinonimia e paronimia
[1 a 1] `Omènuma lšgetai ïn Ônoma mÒnon koinÒn, Ð dO kat¦ toÜnoma lÒgoj tÁj
oÙs…aj ›teroj, oŒon zùon Ó te ¥nqrwpoj kaˆ tÕ gegrammšnon: toÚtwn g¦r Ônoma
mÒnon koinÒn, Ð dO kat¦ toÜnoma lÒgoj tÁj oÙs…aj ›teroj: ™¦n g¦r [5] ¢podidù tij
t… ™stin aÙtîn ˜katšrJ tÕ zóJ enai, ‡dion ˜katšrou lÒgon ¢podèsei.
sunènuma dO lšgetai ïn tÒ te Ônoma koinÕn kaˆ Ð kat¦ toÜnoma lÒgoj tÁj
oÙs…aj Ð aÙtÒj, oŒon zùon Ó te ¥nqrwpoj kaˆ Ð boàj: toÚtwn g¦r ˜k£teron koinù
ÑnÒmati prosagoreÚetai zùon, kaˆ Ð lÒgoj dO [10] tÁj oÙs…aj Ð aÙtÒj: ™¦n g¦r
¢podidù tij tÕn ˜katšrou lÒgon t… ™stin aÙtîn ˜katšrJ tÕ zóJ enai, tÕn aÙtÕn
lÒgon ¢podèsei.
parènuma dO lšgetai Ósa ¢pÒ tinoj diafšronta tÍ ptèsei t¾n kat¦ toÜnoma
proshgor…an œcei, oŒon ¢pÕ tÁj grammatikÁj Ð grammatikÕj kaˆ ¢pÕ tÁj [15]
¢ndre…aj Ð ¢ndre‹oj.
[1 a 1] “Omonime”1 si dicono le cose che hanno soltanto2 il nome3 in comune4, ma la
definizione dell’essenza5, corrispondente a quel nome, diversa6. Ad esempio, “animale”
si dice sia l’uomo sia il disegno; essi, infatti, hanno in comune solo il nome, mentre la
definizione dell’essenza, corrispondente al nome, è diversa. Se, infatti, [5] si dovesse
spiegare in che cosa consista, per ciascuno dei due, il fatto di essere un animale, si attribuirebbe a ciascuno una definizione propria7.
“Sinonime” si dicono, invece, le cose che hanno il nome comune e la stessa definizione dell’essenza corrispondente a quel nome. Ad esempio, l’uomo e il bue: ciascuno
di loro, infatti, viene designato con il nome comune di “animale”, e la definizione [10]
dell’essenza è la stessa. Se, infatti, si dovesse spiegare in che cosa consista, per ciascuno
dei due, il fatto di essere un animale, si darebbe la stessa definizione.
“Paronime”, infine, si dicono le cose che vengono nominate in base a un certo nome
da cui, però, differiscono per la terminazione. Ad esempio, il grammatico deriva dalla
grammatica e [15] il coraggioso dal coraggio.
Sommario
In questo primo capitolo, Aristotele presenta una classificazione tripartita che spiega
le nozioni di omonimia, sinonimia e paronimia.
1. [1 a 1-6] Omonime si dicono le cose che hanno lo stesso nome, ma la cui definizione è diversa.
2. [1 a 6-12] Sinonime si dicono le cose che hanno lo stesso nome e la stessa definizione.
3. [1 a 12-15] Paronime si dicono le cose che hanno la stessa radice di un nome,
cui segue, però, una desinenza diversa.
1. L’incipit delle Categorie aristoteliche
Il capitolo primo delle Categorie aristoteliche sembra iniziare, per così dire, ex abrupto, cosicché il lettore ha l’impressione di trovarsi subito in medias res, senza aver
ancora avuto modo di capire quale sia il vero argomento dell’opera, e quale sia il piano
dell’opera stessa. Il testo manca, infatti, di un’introduzione, di un prologo programmatico, e inizia con una precisa e concisa enunciazione di una tripartizione: quella di omonimi, sinonimi e paronimi. Tale tripartizione risulta, in un primo momento, oscura quanto alla sua funzionalità in seno all’opera, dal momento che i due capitoli subito successivi al primo non si lasceranno affatto guidare da questa prima divisione, ma presenteranno, a loro volta, altri e diversi tipi di distinzione. Si riprenderà, per la prima volta,
uno degli elementi della tripartizione iniziale, nel Capitolo 5, in cui, come verificheremo, il concetto di sinonimo sarà applicato alle sostanze, e in cui compare esplicitamente
l’avverbio “sinonimicamente” (sunwnÚmwj)1.
Appare, ad un primo sguardo, che il testo delle Categorie non sia costruito secondo
una struttura didatticamente semplice e unitaria, che faciliti l’ingresso del lettore
all’interno delle dottrine centrali dello scritto. E, infatti, questa struttura, per così dire,
“rapsodica” dei primi capitoli dell’opera ha dato adito a numerosi interrogativi da parte
degli studiosi su quali fossero i motivi per cui Aristotele avesse scelto di aprire in questo
modo il suo scritto, e quale disegno avesse seguito. Ciò che appare “rapsodico” a un
primo sguardo, tuttavia, può rivelarsi intenzionalmente strutturato, se letto all’interno
dello schema generale dell’opera. Già dal capitolo 5, infatti, il lettore avrà modo di accorgersi che le precedenti distinzioni, apparse, a tutta prima, piuttosto “sconnesse” e poco pertinenti, giocano, invece, un ruolo importante all’interno della dottrina delle categorie, cosicché, in questo modo, si getterà retroattiva luce sui primi capitoli. L’incipit
delle Categorie, in realtà, appare tanto isolato dal resto del trattato quanto schematico e
ben strutturato. I capitoli precedenti il quinto (che è dedicato alla sostanza e da cui inizia
la trattazione discorsiva e diffusa delle categorie, presentano delle classificazioni preliminari, propedeutiche all’apprendimento di quanto verrà introdotto successivamente.
La questione sorta intorno allo strano incipit delle Categorie ha una lunghissima storia che risale ai commentatori antichi. Simplicio riporta che Nicostrato si chiedeva perché Aristotele, essendosi proposto di parlare delle categorie, parta, invece, parlando di
altre cose, come omonimi, sinonimi, paronimi2. A questo interrogativo Porfirio rispondeva che, in quasi tutti i campi teoretici di studio, alcune cose vengono descritte in anticipo, perché tendono a chiarire ciò che segue, come le definizioni, gli assiomi e i postulati in geometria3. Tali classificazioni costituiscono, dunque, una sorta di elementi-base,
di prime necessarie acquisizioni per poter addentrarsi nello studio delle categorie; erano
forse distinzioni fondamentali già abbastanza note agli allievi dell’Accademia, magari
solo da capire e imparare a memoria, il che spiegherebbe la brachilogia dello stile aristotelico dei primi capitoli.
1
Questo avverbio torna in Categorie 5, 3 a 34, dove si fa esplicitamente richiamo alla nozione
di sinonimia qui trattata.
2 Cfr. Simplicio, In Cat., 21, 1 ss.
3 Cfr. Porfirio, In Cat., 60, 1 ss.; Dessippo, In Cat., 16, 18-32).
34
2. Gli omonimi
2.1. La presentazione degli omonimi
Gli enti cui può essere attribuita l’omonimia vengono presentati attraverso la descrizione della relazione che sussiste tra i loro nomi e le loro definizioni:
Omonime (`Omènuma) si dicono le cose che hanno soltanto il nome in comune (ïn
Ônoma mÒnon koinÒn), ma la definizione dell’essenza, corrispondente a quel nome, è
diversa (Ð dO kat¦ toÜnoma lÒgoj tÁj oÙs…aj ›teroj)4.
I commentatori antichi hanno cercato di far luce, prima di tutto, sui singoli termini
utilizzati da Aristotele.
Prima di tutto, il termine greco Ônoma, nome. Secondo Porfirio5, deve qui essere inteso in senso ampio. Dal momento che l’omonimia non esiste esclusivamente in relazione ai nomi intesi, in senso stretto, come sostantivi, ma esiste anche nel caso dei verbi
(andrapodisthai, ad esempio, significa sia “ridurre qualcuno in schiavitù” sia “essere ridotto da qualcuno in schiavitù”), allora “nome”, in questo caso, indicherebbe una qualsiasi parte del discorso: sostantivi, verbi, congiunzioni, etc..
Quanto al termine greco mÒnon, tradotto con l’avverbio italiano “soltanto”, secondo
Porfirio6, esso potrebbe essere interpretato in due diversi modi: come espressione di unicità, come quando diciamo “C’è solo un universo” nel senso di “Non c’è che un universo”; oppure come indicazione di un contrasto, come quando diciamo “Ha solo una
tunica” e intendiamo implicitamente dire che non ha altre cose, ad esempio un mantello.
In questo caso, Aristotele intenderebbe indicare un contrasto rispetto alla definizione/descrizione, dal momento che gli omonimi hanno in comune il nome, ma non la definizione/descrizione.
Anche il termine greco koinÒn, “comune”, secondo i commentatori antichi7, può essere usato in diversi modi. Porfirio8 elenca quattro modi, di cui il primo è quello proprio
di un comune “divisibile” e i restanti tre sono di un comune “indivisibile”: 1. comune è
qualcosa che può essere diviso in parti, come il pane, il vino o una proprietà, se è una
sola la cosa che va ad appartenere a coloro che l’hanno divisa (cioè se forma un intero);
2. comune è qualcosa che, pur non essendo divisibile in parti, viene usato da diverse
persone, ma in modo individuale e consecutivo, come ad esempio un cavallo o uno
schiavo; 3. comune è qualcosa che, mentre viene usato, appartiene a chi lo sta utilizzando, ma, dopo l’uso, torna ad essere una proprietà comune, come ad esempio il teatro; 4.
comune, infine, è qualcosa che può essere usato nello stesso tempo da più persone, senza tuttavia risultare diviso, come ad esempio la voce dell’araldo a teatro. Aristotele sta
usando l’ultima delle accezioni elencate, per cui più elementi fanno uso dello stesso intero simultaneamente, ma questo resta indiviso. Il nome Aiace, ad esempio, viene usato
sia in riferimento al figlio di Oileo sia in riferimento al figlio di Telamonio, ma resta un
intero e non viene diviso tra i due personaggi9. Dessippo10 sottolinea come, in questo
caso, sia essenziale evidenziare che l’omonimia riguarda esclusivamente il nome, altri-
4
Categorie 1, 1 a 1-2.
Cfr. Porfirio, In Cat., 61,30-62,5.
6 Cfr. Porfirio, In Cat., 62,6-16.
7 Cfr. Dessippo, In Cat., 1.12; Simplicio, In Cat., 26,11-20; Boezio, 164 D.
8 Cfr. Porfirio, In Cat., 62,17-35.
9 Cfr. Dessippo, In Cat., 19,32-20,4; cfr. anche Simplicio, In Cat., 27,12-15.
10 Cfr. Dessippo, In Cat., 18,25-33.
5
35
menti dovremmo dire che gli Aiaci hanno in comune non solo il nome, ma anche
l’essere entrambi Greci e l’essere generali e amici.
Infine, ciò che noi chiamiamo “definizione” viene espresso in greco con il sintagma
nominale, Ð λόγος tÁj oÙs…aj11, il quale può essere abbastanza fedelmente tradotto
con: «il discorso che esprime l’essenza», o «il discorso che esprime la natura della cosa», o ancora «il discorso che esprime la sostanza della cosa»12. L’aggiunta del genitivo
tÁj oÙs…aj nell’ espressione greca appena citata è oggetto di molte controversie tra gli
studiosi. Sia tra i commentatori antichi, sia tra i moderni, troviamo alcuni che la accolgono13, ed altri che, invece, la espungono, ritenendola inopportuna14. Anche tra coloro
che mantengono il genitivo, tuttavia, aleggia la credenza che, in fin dei conti, l’aggiunta
tÁj oÙs…aj sia irrilevante per l’effettiva comprensione del luogo15, dal momento che
Aristotele fa uso, per indicare la definizione, sia dell’espressione lÒgoj tÁj oÙs…aj16,
sia, semplicemente, sia del termine lÒgoj17, sia del termine ÐrismÒj18.
Inoltre, sempre nel caso in cui si mantenga l’aggiunta del genitivo, gli autori si trovano abbastanza concordi nel sostenere che nella parola oÙs…a non si deve vedere espresso il significato tecnico della categoria della sostanza19, ma l’essere della determi-
11
Categorie 1, 1 a 4; 1 a 7; 1 a 10.
Cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, 5 voll., Vita e Pensiero, Milano 1975-1980,
19978, vol. II, pp. 550-551; Reale, Introduzione a Aristotele…, p. 148.
13 L’aggiunta del genitivo tÁj oÙs…aj compare nella tradizione manoscritta più recente; in particolare, tutti i manoscritti riportano il genitivo in Categorie 1, 1 a 4, mentre solo alcuni la riportano anche in Categorie 1, 1 a 2. Tra i commentatori greci, mantengono il genitivo Olimpiodoro
e Filopono. Tra i commentatori moderni, accolgono l’aggiunta Oehler, Aristoteles Kategorien,
Berlin 1984, p. 168), Pesce, Aristotele, Le categorie…, p. 21), Ackrill (Aristotle’s Categories…,
p. 3), Apostle, Aristotle’s Categories and Propositions De Interpretatione, translated with commentaries and glossary by Apostle, Iowa 1980.
14 I commentatori più antichi, come Dessippo e Simplicio, sembrano non aver conosciuto
l’aggiunta del genitivo tÁj oÙs…aj. Tra i commentatori moderni, lo espungono Tricot (Aristote,
Organon. I: Catégories; II: De l’Interprétation, Paris 1966, vol. I, p. 2, n. 1) e Steinthal (Geschichte der Spachwissenschaft bei den Griechen und Römern, mit besonderer Rücksicht auf die
Logik, Berlin 1890-1891, p. 210).
15 Cfr. in particolare Oehler, Aristoteles Kategorien…, p. 168.
16 Cfr. Analitici secondi II, 13, 97 a 19; Parti degli animali IV, 13, 695 b 18; Metafisica Z, 11,
1037 a 24. Il fatto che l’espressione completa ricorra in altri testi aristotelici mi sembra una motivazione forte per non espungerla.
17 Cfr. Topici I 15, 107 a 20; Topici IV 10, 148 a 24. Il semplice termine lÒgoj appare, tuttavia,
piuttosto generico. È interessante l’osservazione di Simplicio, In Cat., p. 37), per cui ogni realtà
può essere indicata sia dal nome, cioè - egli osserva - in modo unitario (kat£ to monoeidšj), sia
dal lÒgoj, cioè in modo composto da una pluralità di parti (kat£ to polumeršj), e questo può
essere o descrittivo o definitorio. Se la definizione, diversamente dal nome, è composta da più
parole, anche la definizione della definizione stessa non può essere espressa da una sola parola
(lÒgoj), ma da più parole (Ð lÒgoj tÁj oÙs…aj). Se, dunque, la distinzione di Simplicio è vera,
per poter parlare precisamente di definizione risulterebbe opportuno aggiungere il genitivo tÁj
oÙs…aj.
18 Cfr. Topici I 4, 102 a 4; Metafisica Z 10, 1034 b 20; Metafisica Z 12, 1037 b 12.
19 Fin dalle prime righe del testo delle Categorie, troviamo il termine oÙs…a, sull’opportunità
del quale non tutti i critici concordano, e del quale possiamo dubitare venga, in questo luogo,
usato in senso tecnico, visto che la divisione delle categorie non è ancora stata presentata.
12
36
nazione, l’essenza in generale20. Ciò che, per ora, dobbiamo notare è che, fin dalle prime righe del testo delle Categorie, troviamo il termine oÙs…a, sull’opportunità del quale
non tutti i critici concordano, e del quale possiamo dubitare venga, in questo luogo, usato in senso tecnico, visto che la divisione delle categorie non è ancora stata presentata.
2.2. L’esempio di “animale”
Siamo in presenza di omonimi, o, se si vuole far uso del corrispondente termine medievale, di equivoci, quando due enti hanno lo stesso nome, ma la loro definizione è diversa. In altre parole, essi convergono nel nome, ma non nel significato. Per capire
l’esempio che Aristotele propone, occorre, in primo luogo, tener presente che, in greco,
il termine zùon indica non solo ciò che noi indichiamo con il termine “animale”, ma anche il dipinto o altri tipi di rappresentazioni artistiche, indipendentemente da quel che
esse rappresentino (quindi, animali e non). Il pittore veniva, infatti, chiamato zwgr£foj,
cioè disegnatore di figure dipinte21. La formula che esprimerebbe in maniera propria la
natura del vivente che viene denominato zùon (animale) sarebbe essere naturale animato oppure ciò che partecipa della vita22. Le formule con le quali viene espressa, invece,
la natura delle rappresentazioni, che vengono denominate zùa, potrebbero essere: opere
figurative oppure imitazioni del reale con colori e figure23. Tali formule rinviano, rispettivamente, da un lato, a un genere particolare di realtà naturale, dall’altro, a un genere particolare di realtà artefatta. L’omonimia (o equivocità) nasce dall’applicazione del
medesimo termine a delle realtà che appartengono a due generi diversi.
In secondo luogo, si osservi che uomo e dipinto, i due termini dell’esempio addotto
da Aristotele, risultano omonimi non in quanto considerati in se stessi, ma dal punto di
vista del loro predicato: uomo (¥nqrwpoj) e dipinto (gegrammšnon), infatti, presentano,
evidentemente, nomi diversi, ma se noi risaliamo alla realtà che essi indicano, ed attribuiamo loro un predicato, possiamo dire sia che l’essere umano (Ó ¥nqrwpoj) è un animale (zùon) sia che il dipinto (tÕ gegrammšnon), a sua volta, è uno zùon.
Nel caso dell’omonimia, abbiamo a che fare con un nome comune, cui dobbiamo
prestar particolare attenzione, dal momento che, se approfondiamo ulteriormente
l’analisi e risaliamo al significato del termine greco zùon, troviamo che, nel primo caso,
l’uomo è uno zùon, un animale, nel senso di vivente dotato di sensazione; nel secondo
caso, il dipinto è uno zùon, nel senso che è una raffigurazione artistica e, precisamente,
una configurazione di colori. Bisogna, dunque, essere molto attenti ai casi di omonimia,
poiché, se ci accorgiamo che lo stesso nome appartiene a realtà diverse, che differiscono
20
Per la distinzione tra il termine oÙs…a usato in senso lato per indicare qualsiasi essenza, e lo
stesso termine usato in senso stretto per indicare la sostanza, cfr. E. Berti, Profilo di Aristotele,
Edizioni Studium, Roma 1979, p. 71. Per una trattazione più approfondita del dibattito intorno
al sintagma Ð lÒgoj tÁj oÙs…aj rimando a Zanatta, Aristotele, Categorie…, pp. 388-391.
21 Si tratta di un elemento che quasi tutti gli studiosi sottolineano: cfr. Aristotele, Le categorie,
traduzione, introduzione e commento di D. Pesce, Liviana editrice, Padova 1966, p. 21, n. 6; Aristotle’s Categories and De Interpretatione, Translated with notes and glossary by J.L.Ackrill,
Clarendon Aristotle series, Clarendon Press, Oxford 1963, 199010, p. 71; J. Owens, The doctrine of being in the Aristotelian Metaphysics: a study in the Greek backround of mediaeval
thought, with a preface by Etienne Gilson, Pontifical institute of mediaeval studies, Toronto
1951, p. 329; Bodéüs, Aristote, Les Catégories…, pp. 74-75, n. 1.
22 Cfr. Platone, Timeo, 77 B; Aristotele, De Anima, III, 1, 412 a 13.
23 Cfr. Aristotele, Poetica 1, 1447 a 18-19.
37
sostanzialmente, si deve operare una distinzione. Sulla particolare attenzione da prestare
ai casi di identità del nome e differenza di definizione si sofferma Simplicio24, il quale
sottolinea che, se lo stesso nome appartiene a realtà diverse, occorre operare una distinzione, e indagare se queste possono essere ricondotte sotto la stessa categoria, oppure
no. L’uomo, ad esempio, viene chiamato zùon, così anche il cavallo, ed anche Socrate;
ma anche una qualsiasi immagine disegnata, secondo la lingua greca, si chiama zùon.
Tra i primi tre esempi e l’ultimo, però, c’è una grande differenza: uomo, cavallo e Socrate si dicono, ciascuno, zùon, nel senso comune di “vivente dotato di sensazione”; il
disegno, invece, si dice zùon in un senso completamente diverso, cioè come rappresentazione artistica.
Si noti come Aristotele parta dalla descrizione di un fenomeno, come l’omonimia,
che sembra meramente linguistico, ma si sposti subito al piano della realtà instaurando
una stretta connessione tra linguaggio e piano ontologico.
2.3. I diversi esempi aristotelici di omonimia
L’esempio dell’animale, presente in questo passo delle Categorie, non figura nei Topici, in cui compare un esempio diverso, anche se simile a questo: l’esempio dell’asino.
[…] asino in greco significa un animale e una suppellettile. Il discorso definitorio che si
applica al nome è infatti diverso nei due casi: da un lato si parlerà di un animale di una
certa qualità, dall’altro invece di una suppellettile di una certa qualità25.
Nel De Anima Aristotele presenta un caso di omonimia ancora diverso sia da quello
presente nel testo delle Categorie sia da quello presente nel testo dei Topici. Fa, infatti,
riferimento all’occhio inteso come parte del vivente e a quello rappresentato sulla pietra
o su un dipinto come due cose che si dicono in maniera omonima. Lo Stagirita sta spiegando
Se l’occhio fosse un animale, la sua anima sarebbe la vista, giacché questa è la sostanza
dell’occhio, sostanza in quanto forma (mentre l’occhio è materia della vista). Se
quest’essenza viene meno, non c’è più l’occhio se non per omonimia, come l’occhio di
pietra o l’occhio dipinto26.
Anche nell’opera Storia degli animali possiamo riscontrare un esempio simile in riferimento alla stella marina e ai disegni delle stelle27.
Come ben spiega Bodéüs28, gli esempi che si trovano nei Topici, nel De Anima e
nella Storia degli animali, illustrano come l’omonimia risulti dall’uso di un termine
specifico (che può essere animale, asino o stella) attraverso il quale si indica sia una realtà naturale sia un oggetto artificialmente creato, scolpito o disegnato. Quest’ultimo,
come tale, non ha le stesse funzioni dell’oggetto reale e non ne possiede, pertanto, la
stessa definizione. Nell’esempio presente nelle Categorie, invece, l’omonimia risulta da
un termine generico (zùon) che può essere attribuito a tutti gli oggetti naturali viventi
(tra cui anche l’uomo) e, nello stesso tempo, anche a tutte le rappresentazioni visive di
essi (tra cui anche quella dell’uomo).
24
Cfr. Simplicius, Aristotle’s Categories…, p. 36.
Topici I 15, 107 a 19-20: oŒon Ônoj tÒ te zùon kaˆ tÕ sceàoj: ›teroj g¦r Ð kat¦ toÜnoma lÒgoj aÙtîn.
26 De Anima II 1, 412 b 20-21.
27 Storia degli animali, V, 15, 548 a 10.
28 Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 74, n. 4.
25
38
3. I sinonimi
Vengono definite “sinonime” o, se si vuole usare il corrispondente termine medievale, “univoche”, le cose che hanno lo stesso nome e la stessa definizione. La stessa definizione sarà ripetuta più avanti nel testo, nel Capitolo 5.
Come si è detto, sono sinonime le cose di cui il nome e la definizione sono gli stessi29.
Sinonime sono le realtà, e non le parole attraverso le quali tali realtà sono designate.
Questo tipo di definizione si trova anche in Topici VI 10, 148 a 24-25:
Gli oggetti che, secondo un nome comune, ricevono un unico discorso definitorio, sono
sinonimi30.
Gli esempi di sinonimi portati da Aristotele nelle Categorie si trovano anche in Topici,
VI 6, 144 a 32-34. I due termini dell’esempio, uomo e bue risultano sinonimi non in
quanto presi in se stessi, ma dal punto di vista della loro definizione, del loro significato, del genere cui appartengono, cioè in quanto animali. Essi, infatti, hanno evidentemente nomi diversi, ma se risaliamo alla loro essenza, troviamo che possiamo chiamare
entrambi animali, cioè possiamo dar loro un nome comune. Se, procedendo ulteriormente, ci chiediamo che cosa, poi, significhi animale per ciascuno di essi, scopriamo di
usare questo termine con la stessa accezione per entrambi i casi, cioè come sostanza animata (o vivente) dotata di sensazione. L’animale ha, differentemente dalle piante, oltre che la vita vegetativa, anche quella sensitiva. Uomo e bue, cioè, risultano sinonimi,
perché vengono chiamati entrambi animali, e perché vengono entrambi definiti attraverso la nozione di animale31. Animale, cioè, si predica sia di uomo sia di bue, perché è il
genere cui sia la specie uomo sia la specie bue appartengono. Questo esempio, che Aristotele propone, non risulta casuale, alla luce di quanto seguirà nei capitoli successivi;
come vedremo, infatti, esso introduce già ai discorsi seguenti.
Come osserva Sainati, «La sinonimia di due termini si misura esclusivamente dalla
loro capacità di ricevere una comune determinazione predicativa essenziale e di accogliere pertanto il “nome” e la “definizione” di tale comune predicato. Ma ciò, per
l’appunto, significa che questa “sinonimia” di termini reciprocamente impredicabili è, in
ultima istanza, una sinonimia indiretta o mediata, che presuppone una più originaria e
radicale sinonimia di ciascuno di quei termini con l’edoj, che di essi si predica essenzialmente»32.
La sinonimia è la cifra attraverso la quale si esprimono i rapporti tra specie e genere.
[…] il genere e la specie sono sinonimi33.
Si può anche esaminare se il genere e la specie non siano sinonimi: in realtà il genere si
predica di tutte le specie secondo una designazione sinonima34.
29
Categorie 5, 3 b 7-8.
(sunènuma g¦r ïn eŒj Ð kat¦ toÜnoma lÒgoj). Cfr. anche Topici VIII 13, 162 b 37 - 163
a 1 (™n to‹j sunwnÚmoij kaˆ ™n Ósoij tÕ Ônoma kaˆ Ð lÒgoj tÕ aÙtÕ shmaine…).
31 Pesce, Aristotele. Categorie…, p. 21.
32 V. Sainati, Storia dell’Organon aristotelico, vol. I: Dai Topici al De Interpretatione, Firenze
1968, p. 173.
33 Topici IV 3, 123 a 28.
34 Topici IV 6, 127 b 5-6.
30
39
Tutti i generi si predicano in forma sinonimica delle specie, poiché queste ricevono tanto il nome quanto il discorso definitorio dei generi35.
Sono sinonimi anche la specie e gli individui in essa compresi
[…] Dal momento che la specie e l’oggetto che vi è compreso sono sinonimi36.
4. I paronimi
4.1. Caratteristiche dei paronimi
Sono dei “paronimi” le realtà che traggono la loro denominazione da qualcos’altro,
differenziandosi, però, da questa quanto alla terminazione37.
Come sottolinea Simplicio38, il caso dei paronimi si trova, per così dire, a metà strada
tra gli omonimi e i sinonimi, in quanto partecipa e manca, nello stesso tempo, di alcune
delle caratteristiche di entrambi. Facendo riferimento all’esempio che porta Aristotele, il
nome e la definizione di “grammatica” (grammatikÁ), intesa come scienza, e di
“grammatico” (Ð grammatikÕj), inteso come individuo che possiede tale scienza, non
sono gli stessi in assoluto, ma neppure sono completamente diversi tra loro. Sul piano
linguistico, essi hanno, infatti, una radice comune, ma differiscono nella desinenza; sul
piano ontologico, il “grammatico”, cioè l’uomo che conosce la scienza della grammatica, viene detto tale perché a lui può essere attribuita, appunto, la conoscenza della
grammatica; in altre parole, deriva il suo nome dalla scienza che possiede. I paronimi, in
qualche modo, esprimono l’inerenza di una certa caratteristica a una sostanza39.
35
Topici II, 2, 109 b 6-7. Cfr. Confutazioni Sofistiche 5, 167 a 24 ss.
Topici VIII, 4, 154 a 18 ss.
37 Si tenga presente che la paronimia intesa in senso aristotelico è ben distante da quella intesa
nel senso a noi contemporaneo. Per noi, infatti, la paronimia è una sorta di sinonimo del “malapropismo” - termine derivato dall’inglese “malapropos” (a sua volta derivato dal francese “mal
à propos”) che significa “inappropriato” e “in appropriatamente” -, che consiste nello scambio,
voluto o accidentale, di parole somiglianti nella forma, ma diverse nel significato. Cfr. G. Basile, Le parole nella mente: relazioni semantiche e struttura del lessico, Prefazione di Tullio De
Mauro, Franco Angeli, Milano 2001, p. 68. Nonostante la differenza si significato tra la paronimia aristotelica e la paronimia così come viene intesa oggi, resta forse la scelta traduttiva migliore quella di rendere il termine greco con un calco italiano (così Oehler, Tricot, Ackrill, Pesce, Zanatta), per non cadere negli equivoci persino peggiori cui conducono rese quali “derivativi” o “denominativi”. Come scrive Owens, The doctrine of being in the Aristotelian Metaphysics… p. 330: «“Paronimo” può essere mantenuto perché non ha un ruolo nella riflessione
metafisica, e perché il suo uso non è comune tanto da ostacolare la comprensione del preciso
senso aristotelico. “Derivativo” in questo caso si riferirebbe esclusivamente alle parole, non alle
cose. “Denominativo”, allo stesso modo, concerne solo i termini».
38 Simplicio, In Cat., 37, 1-10.
39 Secondo N. Kretzmann - A. Kenny - J. Pinborg (eds.), The Cambridge History of Later Medieval Philosophy. From the Rediscovery of Aristotle to the Disintegration of Scholasticism
(1100-1600), Cambridge University Press, Cambridge 1982, tr. it. di P. Fiorini, La logica nel
Medioevo, Jaca Book, Milano 1999, p. 41, i paronimi sono intesi come «[…] derivati dalle corrispondenti forme astratte: “bianco” da “bianchezza”, “grammatico” da “grammaticalità”, “giusto” da “giustizia” e così via». Sulla riflessione intorno ai paronimi del Medioevo, si vedano J.
Jolivet, Vues médieévales sur les paronymes, «Revue Internationale de Philosophie» 113
(1975), pp. 222-242; D. P. Henry, The De grammatico of St. Anselm: Theory of Paronymy, Publications in Mediaeval Studies, 18, University of Notre Dame Press, Notre Dame (NT) 1964.
36
40
Tre sono le condizioni che Porfirio40 annovera affinché qualcosa possa essere riconosciuto come paronimo:
1. Partecipazione della realtà: deve esserci qualcosa di cui la realtà in questione partecipa;
2. Partecipazione del nome: deve esserci un nome del quale la realtà in questione partecipa;
3. Cambiamento della forma grammaticale: il nome, se applicato alla realtà, deve differire in qualche modo nella forma grammaticale.
Seguendo Porfirio, anche Simplicio41 sostiene che tre condizioni sono necessarie affinché si dia un paronimo:
1. l’esistenza della realtà da cui il paronimo dovrebbe trarre la propria origine;
2. il nome di tale realtà;
3. la diversità della desinenza o del caso (ptèsij).
Per quel che concerne la terza condizione, e cioè la diversità della desinenza (ptèsij), si tenga presente che il termine greco ptèsij si trova ampiamente usato nei Topici42 per indicare qualsiasi tipo di variazione delle parole ottenuta attraverso la modificazione della terminazione43. Il termine ptèsij infatti, spiega Simplicio, non indica solo
ciò che per noi sono i cinque casi della declinazione, ma tutte le desinenze che derivano
da un nome, quale che sia la loro formazione (schmatismÒj): in questo modo,
l’avverbio andre…wj (coraggiosamente) è una ptèsij di ¢ndre‹oj (coraggio); un “caso” maschile può derivare da un sostantivo femminile, come, ad esempio, il termine
grammatikÕj (“grammatico”, l’individuo che possiede la grammatica) da grammatik»,
(la “grammatica” in quanto scienza); un “caso” femminile può derivare da un sostantivo
maschile, come, ad esempio, Alex£ndreia (Alessandria) deriva da Alšxandroj (Alessandro)44. In tutte queste situazioni - aggiunge Simplicio45 - si parla di ptèsij in quanto
vi si verificano gli stessi cambiamenti che avvengono nei “casi” più propriamente intesi,
attraverso simili trasformazioni (metaschmatismÒj) delle desinenze46.
Tenendo presenti le distinzioni operate da Porfirio e da Simplicio, possiamo affermare di essere in presenza di “paronimi” nel caso in cui tutte e tre le condizioni siano rispettate. “Coraggioso” (¢ndre‹oj), l’esempio addotto da Aristotele, è sicuramente un
paronimo perché rispetta le tre condizioni: esiste il coraggio, di cui tutte le cose coraggiose partecipano; e tutte le cose dette “coraggiose” partecipano del suo nome, dal momento che vengono dette “coraggiose” da “coraggio” (¢ndre…a), con un cambiamento
nella forma della desinenza (¢ndre…a termina in -a, mentre ¢ndre‹oj termina in -oj).
Se una delle tre condizioni non si realizza, non siamo in presenza di paronimi. Affinché si possa parlare di “paronimi”, infatti, le tre condizioni elencate, infatti, devono verificarsi tutte e tre insieme. Esplicativo è, in questo senso, il caso della donna che partecipa dell’arte della musica (tÁj mousikÁj tecnÁj metecousa) e viene, pertanto, chia40
Porfirio, In Cat., 69, 30-70, 5.
Simplicio, In Cat., 37, 7-10.
42 Cfr. ad esempio i luoghi Topici I 15, 106 b 29 e 107 a 1.
43 Cfr. Topici II 9, 114 a 37-38: dikaiosÚnh, d…kaioj, d…kaion, dika…wj.
44 Aristotele usa il termine ptèsij in senso talmente ampio, da usarlo, in alcuni casi, per indicare persino il modo sillogistico (cfr. Analitici Primi I, 26, 1)
45 Cfr. Simplicio, In Cat., 37, 16-18.
46 Cfr. Porfirio, In Cat., 69, 20-29; Boezio, In Cat., 167 A. Quest’ultimo rende il termine greco
tecnico metaschmatismÒj con il termine latino “transfiguratio”. Cfr. M. Chase, Simplicius. On
Aristotle Categories 1-4, p. 121 n. 388.
41
41
mata “musica” (mousikÁ), non però al modo della paronimia - poiché non viene realizzata la terza condizione, ma in quello dell’omonimia. Infatti, anche se sono realizzate le
prime due condizioni, non si potrà dire che siamo in presenza di un caso di paronimia in
quanto le due parole hanno esattamente la stessa desinenza. Si tratterà, piuttosto, di omonimia, poiché il nome è lo stesso, ma la definizione corrispondente a ciascun nome è
diversa. Abbiamo, invece, un paronimo nel caso di un uomo che partecipa dell’arte della
musica: questo viene infatti detto “musico” (mousikÒj) da “musica” (mousik»), e ciò
soddisfa tutte e le tre le condizioni della paronimia: partecipazione della cosa, partecipazione del nome, cambiamento della forma grammaticale.
In alcuni casi, può capitare che non si realizzi la seconda condizione: la partecipazione del nome. Ad esempio, una persona viene detta moralmente “retta” (spouda‹oj) in
quanto partecipa della “virtù” (¢ret»); la virtù è la cosa di cui la persona partecipa, ma,
poiché non c’è partecipazione nel nome, non si tratta di un caso di paronimia.
4.2. La partecipazione del nome come conseguenza della partecipazione della realtà
A differenza dell’omonimia e della sinonimia, che sembrano far intravedere connessioni ontologiche, la paronimia è stata, per lo più, considerata un rapporto puramente
linguistico tra termini in cui l’uno deriva dall’altro. Questa considerazione, tuttavia, non
può esaurire tutto ciò che si trova nel testo aristotelico. Anche nel caso dei paronimi, «Il
nome […] viene posto a confronto non già con un contenuto mentale, ma con la sostanza stessa della cosa designata. Si tratta di quella prospettiva realistica, propria della filosofia antica e in particolare del pensiero di Platone e di Aristotele, secondo cui il piano
del linguaggio rimanda a quello del pensiero e questo, a sua volta, al piano della realtà»47.
Come giustamente osserva Simplicio48, Aristotele, nella sua presentazione dei paronimi, nomina esclusivamente la seconda e la terza condizione, e cioè la partecipazione
del nome e la diversità della desinenza, ma è chiaro che queste due condizioni, entrambe
situate su un livello esclusivamente linguistico, ne presuppongono una ulteriore, e propedeutica a queste, che riguarda l’aspetto ontologico. Questo risulta manifesto se si
guarda agli esempi che Aristotele stesso presenta: il “grammatico” (Ð grammatikÕj)
non partecipa esclusivamente del nome della “grammatica” (grammatikÁ), dal quale
deriva il proprio nome, ma partecipa anche, anzi in primis, della grammatica stessa cioè conosce la scienza della grammatica; proprio perché partecipa della scienza della
grammatica, infatti, deriva da questa la propria denominazione. Lo stesso vale nel caso
del coraggioso. La lingua si serve dell’aggettivo sostantivato “il coraggioso” (Ð
¢ndre‹oj) per indicare un individuo che ha coraggio (¢ndre…a), e cioè per esprimere, in
modo semplice, il possesso, da parte di un individuo, della virtù del coraggio. Appare,
così, che i paronimi siano sì fenomeni linguistici, ma che servano a esprimere dei fatti,
delle relazioni tra realtà diverse49.
Come spiega Kahn, la paronimia è un tipo di relazione che implica quattro elementi:
due realtà A e B, cui corrispondono due nomi A e B, tali che l’uno, B, abbia un nome
47
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 19.
Cfr. Simplicio, In Cat., 37, 25-30.
49 «Questa affinità linguistica tra aggettivo e sostantivo ha, come è noto, un posto importantissimo nella genesi della dottrina platonica delle idee e della partecipazione. Benché la soluzione
aristotelica sia diversa, essa è egualmente realistica» (Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 21 n.
9).
48
42
simile a quello di A, da cui differisce, tuttavia, per la desinenza morfologica50. La paronimia, dunque, non può essere relegata a un ambito meramente linguistico, in quanto
«la determinazione dalla quale il paronimo viene denominato […] è primariamente una
cosa e solo secondariamente una cosa con un nome»51.
I paronimi pongono un’ulteriore questione: poiché si tratta di termini che traggono la
loro origine da altri, ci si potrebbe chiedere come si fa a riconoscere quale sia
l’elemento primario da cui, poi, segue il paronimo. Come suggerisce Simplicio52, ciò
che è primo per natura è l’elemento primario da cui deriva il paronimo: ad esempio, il
fondatore di una città è anteriore rispetto alla città fondata, e la città fondata è anteriore
rispetto ai cittadini che vi abitano; di conseguenza, da Alessandro (Alšxandroj) deriva
Alessandria (Alex£ndreia), e da Alessandria (Alex£ndreia) deriva Alessandrino (Alex£ndreÚj). In questo senso, è chiaro il riferimento ontologico che è alla base della relazione della paronimia. Diversamente da quanto accade per gli omonimi e i sinonimi,
la paronimia è una relazione asimmetrica e non biunivoca, in quanto il termine anteriore
per natura non è interscambiabile con quello che segue: «se A è paronimo di B, B non è
paronimo di A»53.
Tra i paronimi si annoverano - afferma Porfirio54 - anche i patronimici, i comparativi,
i superlativi e i diminuitivi.
4.3. Indagine lessicografica: la presenza della paronimia nel Corpus Aristotelicum
Lo spazio che Aristotele dedica alla trattazione della paronimia è piuttosto circoscritto all’interno del Corpus. Si possono riscontrare solo 19 occorrenze del lemma parènumoj, 17 nella forma avverbiale parwnÚmwj, e 2 nella forma parènuma, quasi tutte
concentrate nello scritto delle Categorie. L’avverbio parwnÚmwj occorre 6 volte nelle
Categorie, 3 volte nei Topici e una sola volta nell’Etica Eudemia. La forma parènuma
si trova una volta nelle Categorie e una volta in Fisica55.
Oltre alla frase di questo Capitolo 1 delle Categorie,
Paronime (parènuma), infine, si dicono le cose che vengono nominate in base a un
certo nome da cui, però, differiscono per la terminazione56.
in cui compare l’aggettivo sostantivato neutro plurale parènuma, all’interno di questa
stessa opera si parla di nuovo della paronimia nei Capitoli 6, 8 e 9. Gli esempi che vengono portati da Aristotele per presentare i paronimi nel Capitolo 1 sono, come si è visto,
quello del “grammatico” (che deriva da “grammatica”) e quello del “coraggioso” (che
deriva da “coraggio”). Similmente, nell’Etica Eudemia, si legge:
[…] l’audace (Ð qrasÚj) si dice in modo paronimo (parwnÚmwj) per l’audacia (par£
tÒ qr£soj)57.
50
Cfr. Ch. H. Kahn, Questions and Categories, ed. by H. Hiz, vol. I, Dordrecht-Boston 1978, p.
273.
51 Zanatta, Aristotele. Le categorie…, p. 404.
52 Simplicio, In Cat., 37, 32-38,1.
53 Zanatta, Aristotele. Le categorie…, p. 404.
54 Porphiry, Ad Gedalium, fr. 34, p. 44 Smith.
55 Cfr. R. Radice - R. Bombacigno, Aristoteles. Con CD-ROM (Lexicon 3), Biblia, Milano 2005.
56 Categorie 1, 1 a 12-15.
57 Etica Eudemia III, 1028 a 35-36.
43
Come per gli esempi riportati nelle Categorie, colui che possiede l’audacia deriva sinonimicamente la sua denominazione dal termine della determinazione che possiede differendone, però, nella desinenza. In tutti questi casi, la paronimia esprime l’inerenza di
una qualità, nella fattispecie una virtù58, a una sostanza prima, cioè a un individuo che la
possiede59.
In questo stesso senso, e cioè come rapporto tra una qualità e una sostanza qualificata, il concetto di paronimia viene più volte richiamato nel Capitolo 8.
Qualità (PoiÒthtej), quindi, sono quelle che abbiamo detto; qualificate (poi¦), invece,
sono le cose che vengono paronimicamente (parwnÚmwj) in modo conforme ad esse,
o in qualsiasi altro modo (derivano, dipendono) da esse. Nella maggior parte dei casi,
quindi, e anzi quasi in tutti, queste si dicono paronimicamente (parwnÚmwj): l’uomo
bianco (Ð leukÕj), ad esempio, deriva dalla bianchezza (¢pÕ tÁj leukÒthtoj), e il
grammatico (Ð grammatikÕj) dalla grammatica (¢pÕ tÁj grammatikÁj), e il giusto (Ð
d…kaioj) dalla giustizia (¢pÕ tÁj dikaiosÚnhj), e così in tutti gli altri casi.
Il senso è chiaro: nella maggioranza dei casi, anzi, quasi in tutti i casi, le realtà qualificate derivano la loro denominazione in modo paronimico dalle qualità che le determinano. Torna l’esempio del grammatico, già presente in Categorie 1, 1 a 14, cui si aggiungono altri due esempi, diversi da quello del “coraggioso” (il secondo esempio presente
in Categorie 1, 1 a 15): l’uomo bianco si dice in modo paronimico in riferimento alla
qualità della bianchezza che gli inerisce; il giusto si dice in modo paronimico in riferimento alla virtù della giustizia che gli inerisce.
Tale rapporto di paronimia, si diceva, sussiste in quasi tutti i casi, anche se non in tutti. Come spiega Aristotele, infatti,
In alcuni casi, tuttavia, poiché non si hanno dei nomi per le qualità, esse non possono
dirsi paronimicamente (parwnÚmwj) da queste. Ad esempio, il corridore o il pugile
vengono chiamati così per una attitudine naturale, e non perché derivano paronimicamente (parwnÚmwj) il loro nome da qualcosa. Non si hanno, infatti, dei nomi per le
qualità in virtù delle quali questi si dicono qualificati, come, invece, nel caso delle
scienze, in virtù delle quali vengono detti, a seconda della disposizione, pugili o atleti.
Si dice, infatti, scienza del pugilato e scienza della ginnastica, dalle quali coloro che
hanno queste disposizioni derivano paronimicamente (parwnÚmwj) il proprio nome. A
volte, però, anche se si ha un nome <per la qualità>, ciò che viene qualificato in virtù di
questa non vi deriva paronimicamente (parwnÚmwj) il proprio nome: l’uomo retto, ad
esempio, non deriva dalla virtù. L’uomo retto (Ð spouda‹oj) si dice tale perché possiede la virtù, ma non trae il proprio nome paronimicamente (parwnÚmwj) dalla virtù
(¢pÕ tÁj ¢retÁj). Questo, tuttavia, non accade in molti casi. Sono, dunque, dette qualificate le cose che traggono il proprio nome dalle qualità che abbiamo detto (suddette)
in maniera paronimica (parwnÚmwj) o in qualunque altro modo60.
Sono qui illustrati due casi di realtà qualificate che non derivano la loro denominazione
in modo paronimo dalla qualità che inerisce loro.
1. In un primo caso, capita che le realtà qualificate facciano riferimento ad una
specie di qualità che non costituisce né una virtù né una scienza, ma
un’attitudine o una capacità naturale che non ha un nome61. Ad esempio, il “corridore” (Ð dromikÕj) o il “pugile” (Ð puktikÕj) vengono detti tali perché ineri58
Sulla sussunzione delle virtù sotto la categoria di qualità, si veda la trattazione del Capitolo 8,
Infra, pp. ***.
59 Sul rapporto di inerenza in riferimento alla sostanza prima, si veda la trattazione del Capitolo
5, Infra, pp. ***.
60 Categorie 8, 10 a 27 - 10 b 11.
61 Sui diversi tipi di qualità, si veda la trattazione del Capitolo 8, Infra, pp. ***.
44
sce loro una attitudine naturale, e non perché derivano paronimicamente (parwnÚmwj) il loro nome dalla capacità naturale che posseggono.
2. Altre volte, invece, capita che la qualità di riferimento abbia un nome, ma la realtà qualificata non prenda la sua denominazione da essa. È questo il caso
dell’uomo moralmente retto (Ð spouda‹oj), il quale si dice tale perché possiede
la virtù (¢retÁ), ma non deriva da questa il suo nome.
Questi due casi - sottolinea Aristotele - non accadono spesso, per cui, per lo più, è giusto dire che le realtà qualificate si dicono in modo paronimico rispetto alle qualità che
ineriscono loro. In questa prospettiva, la paronimia diventa la cifra mediante la quale si
esprime l’inerenza di una determinazione qualitativa a una sostanza. Paronimo, quindi, è
qualcosa cui appartiene una certa qualità, dal nome della quale deriva la propria determinazione: coraggioso, ad esempio, è qualcuno che possiede la qualità del coraggio e
dal nome di tale qualità deriva la propria qualificazione. Paronimo, in questo senso, è
uno Øpoke…menon cui inerisce la virtù del coraggio. Come spiega Ackrill62, coraggio e
coraggioso, in ultima istanza, stanno ad indicare la stessa identica cosa; la differenza
consiste nel fatto che, mentre il termine coraggio serve ad nominarla, l’aggettivo coraggioso serve a predicarla di qualcosa o qualcuno. Su questa stessa linea di pensiero sembra situarsi anche l’Apostle63, secondo il quale Aristotele sembra considerare il paronimo come un nome di qualcosa di composto che deriva dal nome di qualcosa di semplice. Ad esempio, coraggioso indica un composto, e cioè un individuo che possiede la
qualità del coraggio; coraggio, invece, indica la qualità stessa, e non è predicabile di un
composto, cioè di un individuo che possieda tale qualità. Nel caso dei paronimi, non abbiamo più, come nel caso degli omonimo e dei sinonimi, delle coppie di realtà che avevano o lo stesso nome, ma delle entità uniche il cui nome deriva dal nome di qualcos’altro. Un derivato non può essere più separato da ciò da cui deriva: esso forma, infatti, col primo una serie coordinata64.
Sorge un’aporia: Zanatta65 scrive che il rapporto di paronimia «si verifica primariamente tra il sostantivo ed il corrispondente aggettivo, avendo essi in comune la radice e
differendo nella desinenza; di modo che esso costituisce il presupposto dottrinale sul
quale Aristotele pone la distinzione tra la sostanza e la qualità, e costituisce un primo
avvio per lo studio delle categorie». Ora, a parte il fatto che questo mi sembra non possa
valere in tutti i casi, in quanto il bianco come sostantivo che significa il colore (leukÒn)
e l’aggettivo bianco (leukÒj) che usiamo per designare l’uomo che possiede tale colore
sono paronimi e sono entrambi ascrivibili alla categoria della qualità, il dubbio più
grande sorge nel momento in cui provo a pensare all’aggettivo “umano” (anqrèpeiosj): in quanto paronimo, secondo lo Zanatta, dovrebbe essere una qualità, ma è
chiaro che fa riferimento ad una sostanza (seconda). È forse per questo tipo di problema
che Aristotele ha introdotto, nella sua tavola delle categorie, il concetto di sostanza seconda, la quale, secondo quel che l’Autore stesso afferma, sta a significare una sostanza
di una certa qualità?
La paronimia, tuttavia, non esprime esclusivamente i rapporti tra la categoria della
qualità e quella della sostanza. Questo viene manifestamente espresso nel Capitolo 7, in
cui si legge:
62
Ackrill, Aristotle’s Categories and De Interpretatione…, p. 73.
Apostle, Aristotle’s Philosophy of Mathematics…, pp. 52 e ss.
64 Cfr. Topici II 9, 114 a 35.
65 Cfr. Zanatta, Aristotele. Le categorie…, p. 402.
63
45
Le posizioni dritta (¹ ¢n£klisij), supina (¹ st£sij) e seduta (¹ kaqšdra) sono posizioni determinate, e la posizione rientra nei relativi. Invece, lo stare seduti (tÕ
¢na<kl>e…sqai), lo stare supini (˜st£nai) e lo stare sdraiati (kaqÁsqai), in sé, non
sono posizioni (qšseij), ma si dicono in maniera paronimica (parwnÚmwj) a partire
dalle posizioni dette66.
La posizione è sempre la posizione assunta da qualcuno, quindi sempre posizione di
qualcuno67 e, pertanto, rientra nella categoria dei relativi68. E relative sono, di conseguenza, anche le posizioni determinate: quella eretta, quella supina, e quella seduta. Da
queste tre posizioni derivano, in maniera paronimica, lo stare seduti, lo stare supini e lo
stare sdraiati, che, però, non sono delle posizioni, e quindi non rientrano nella categoria
dei relativi, ma fanno parte della categoria del giacere, e cioè dell’essere in una certa
posizione (ke‹sqai). Lo stesso concetto torna nel passaggio di raccordo annesso a Categorie 9:
Abbiamo parlato anche del giacere nella trattazione dei relativi, affermando che si dice
in modo paronimo (parwnÚmwj) a partire dalle posizioni69.
Attraverso la paronimia, allora, non si esprime esclusivamente una sostanza che viene
determinata dall’inerenza di qualcosa che appartiene alla categoria della qualità, ma si
può esprimere anche un rapporto che interessa due categorie entrambe estranee alla categoria della sostanza. C’è un rapporto di paronimia, infatti, tra l’essere in determinate
posizioni e le posizioni stesse. In questa prospettiva, presenta dei dubbi l’affermazione
di Simplicio70 per cui la maggior parte dei paronimi cade sotto la stessa categoria di cui
fa parte la realtà di cui partecipano: ad esempio, il qualificato (tÕ poiÒn) rientra nella
categoria della qualità (¹ poiÒthj). Tale affermazione vale per la paronimia che interessa la categoria della sostanza in rapporto a quella della qualità, ma non vale per la paronimia che interessa la categoria del giacere in rapporto a quella della relazione. Ma, forse, si può continuare a sostenere la posizione di Simplicio se si accetta che i paronimi
che interessano la categoria della qualità siano molti di più rispetto a quelli che interessano la posizione71.
4.4. Paronimia e nesso prÕj ›n
Intorno al concetto di paronimia è sorta una questione, sulla quale molti studiosi sono
intervenuti: si tratta del rapporto tra la paronimia e il nesso prÕj ›n, secondo il quale il
rapporto tra il paronimo e il termine primario sarebbe come una specie di partecipazione. Presentano questo tipo di lettura: Oehler, Apostle, Ross, The Categories, in Aristotle’s Metaphysics, vol. I, Oxford 1924, Introduction; J. Hirschberger, Paronymie und
Analogie bei Aristoteles, in «Philosophisches Jahrbuch» LXVIII (1960), pp. 191-203; J.
Hintikka, Aristotle and the Ambiguity of Ambiguity, «Inquiry» 2, 1959, pp. 137-151; G.
Patzig, Die Aristotelische Sillogistik. Logisch-philologische Untersuchungen über das
Buch A der Ersten Analytiken, Göttingen 1959. Una discussione specifica tra gli studi66
Categorie 7, 6 b 11-14.
Cfr. Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 60 n. 8.
68 Per la trattazione dei relativi, si veda il commento al Capitolo 7 delle Categorie, Infra, pp.
***.
69 Categorie 9, 11 b 10-11.
70 Cfr. Simplicio, In Cat., 38,5-10.
71 Uno scenario diverso si trova in Topici II, 109 b 4-7; 109 b 7-11; 111 a 33 - 111 b 8. Cfr. anche Fisica, 207 b 5-11.
67
46
osi è sorta intorno all’uguaglianza nella forma delle due determinazioni: la paronimia e
il nesso prÕj ›n. Si vedano, a proposito, i seguenti studi: G. E. L. Owen, Logic and
Metaphysics in some earlier Works of Aristotle, in Aristotle and Plato in the MidFourth Century, ed. by I .Düring and G. E. L. Owen, Göteborg 1960, pp. 163-190; W.
Hamlyn, Focal meaning, Proceedings of the Aristotelian Society N. S. LXVIII (1978),
pp. 1-18; E. K. Specht, Über die primäre Bedeutung der Wörter bei Aristoteles,
«Kantstudien» LI (1959/60), pp. 102-113; H. Wagner, Über das aristotelische pollacèj legÒmenon tÕ Ôn, in «Kantstudien» LIII (1960/61), pp. 75-91; F. Brentano, Von
der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles, Freiburg im Breisgau
1862, rist. Darmstadt 1960 e Hildesheim 1963; trad. it. Sui molteplici significati
dell’essere secondo Aristotele, prefazione, introduzione, traduzione dei testi greci, progettazione e impostazione editoriale di G. Reale, traduzione del testo tedesco e indici di
S. Tognoli, Vita e Pensiero, Milano 1995; K. Kahn, Questions and Categories…, pp.
227 ss.
5. Problematiche sorte intorno al primo capitolo delle Categorie
5.1. La presunta assenza di polionimi ed eteronimi
La presentazione, in questo primo capitolo delle Categorie, delle tre tipologie di rapporto tra nomi e definizioni dell’essenza riferiti agli enti, denominate rispettivamente
omonimia, sinonimia, paronimia, ha fatto sorgere delle questioni che hanno coinvolto
gli ermeneuti fin dall’antichità.
Porfirio72 si chiede come mai le tipologie presentate da Aristotele siano solo tre. Egli
spiega infatti che, poiché ogni cosa, secondo quanto affermato da Aristotele stesso, possiede sia un nome sia una definizione (horismos) o descrizione (hypographê), si vengono a creare quattro tipi di relazione tra nome e definizione/descrizione. Il primo tipo è
quello che si ha per le cose che hanno sia lo stesso nome sia la stessa definizione/descrizione e, in questo caso, siamo in presenza di sinonimia. Il secondo tipo si verifica quando due cose hanno lo stesso nome, ma la definizione/descrizione è diversa nei
due casi: si tratta dell’omonimia. Risultano, poi, sempre secondo Porfirio, altre tipologie
di relazione che Aristotele non prende in considerazione. Ci sono, infatti, cose che hanno in comune la definizione/descrizione, ma non il nome, che è invece diverso: si parla,
in questo caso, di polionimia. Quando, invece, le cose non hanno in comune né il nome
né la definizione, si ha l’eteronimia. A questi quattro tipi di relazione - spiega Porfirio va aggiunto un quinto caso, quello della paronimia, per cui una cosa deriva da un’altra
la sua radice, ma ne differisce quanto alla desinenza. Si tratta di un caso particolare rispetto agli altri in quanto il nome degli enti che vi vengono posti in relazione non è né
identico né totalmente diverso (la radice è la stessa, ma la terminazione è diversa). La
risposta di Porfirio è, come ci si aspetterebbe, che Aristotele parla esclusivamente di
omonimi, sinonimi e di paronimi, lasciando da parte polionimi ed eteronimi, perché di
questi ultimi non avrà bisogno nella successiva discussione.
Secondo la testimonianza di Simplicio73, Boezio riporta che Speusippo74 aveva adottato una divisione capace di sussumere tutti gli enti designati da un nome sotto le due
grandi categorie di tautonimi - quelli designati dallo stesso nome - e di eteronimi - quelli
72
Cfr. Porfirio, In Cat., 38-39, 15-35.
Cfr. Simplicio, In Cat., 38, 19-24.
74 Cfr. Fr. 34a Lang.
73
47
designati da nomi diversi -. Dei tautonimi alcuni sono omonimi - quelli che hanno lo
stesso nome, ma una definizione diversa, altri sinonimi - quelli che hanno sia lo stesso
nome sia la stessa definizione. Degli eteronimi, alcuni sono eteronimi in senso stretto,
altri polionimi, altri ancora paronimi. Secondo Boezio, Aristotele avrebbe derivato la
sua divisione da quella di Speusippo. Il fatto che Aristotele abbia mutuato la riflessione
intorno alle relazioni tra “espressione linguistica” (Ônoma) e “determinazione
dell’essenza” (lÒgoj) dall’ambiente accademico viene sottolineato anche da Krämer,
secondo il quale «Il metodo della distinzione dei significati, di cui si serve continuamente l’analisi dell’essere della filosofia prima aristotelica, quando spiega la molteplicità dei
significati delle parole Ôn, oÙs…a o ¢rc», è di origine dialettica. Esso è in stretta relazione con la distinzione fra l’espressione linguistica (Ônoma) e la determinazione
dell’essenza (lÒgoj) che si trova nella dialettica platonica e come tale è stato di conseguenza sistematicamente fissato nell’Accademia con una elencazione sistematica dei
differenti tipi (sinonimia, omonimia, polionimia, paronimia, eteronimia); e Aristotele
attinge, appunto, a questa tipologia»75. Lo Stagirita, tuttavia, pur rifacendosi alla distinzione accademica, la mutua trasformandola criticamente; in lui, infatti, scompaiono la
polionimia e l’eteronimia. Se queste ultime comparissero in altri luoghi aristotelici, sarebbe inevitabile chiedersi come mai nelle Categorie non vengano citate; ma se, come
di fatto è, Aristotele non le menziona mai, è perché non le ha accolte nel suo pensiero in
quanto non pongono difficoltà intorno alla comprensione dei significati.
5.2. L’ordine di presentazione
Poiché il caso dei sinonimi, che convengono sia nel nome sia nella definizione/descrizione, sembra più chiaro e semplice di quello dell’omonimia, Porfirio si chiede
come mai Aristotele inizi la trattazione di questo primo capitolo partendo dagli omonimi e non piuttosto dai sinonimi. La risposta del filosofo neoplatonico è che l’omonimia
viene trattata per prima perché è un concetto fondamentale in Aristotele, dal momento
che, da un lato, l’essere stesso è omonimo, e, dall’altro, le stesse predicazioni (katêgoriai, categorie) vengono dette omonimicamente “predicazioni” di ciò di cui sono predicate76. In Dessippo77 si trova solo la seconda parte della risposta, relativa alle predicazioni, che Porfirio dà all’obiezione; Simplicio78 attribuisce la stessa risposta a Giamblico, dal quale sia lui sia Dessippo sembrano dipendere.
75
H. Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle
dottrine non scritte di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1982, 2001 , p. 226.
76 Cfr. Boezio, 166 C.
77 Cfr. Dessippo, In Cat., 17, 20-30.
78 Cfr. Simplicio, In Cat., 23, 25 - 24, 5.
6
48
Capitolo Secondo
“Dirsi di” un soggetto ed “essere in” un soggetto
Tîn legomšnwn t¦ mOn kat¦ sumplok¾n lšgetai, t¦ dO ¥neu sumplokÁj. t¦ mOn
oân kat¦ sumplok»n, oŒon ¥nqrwpoj tršcei, ¥nqrwpoj nik´: t¦ dO ¥neu sumplokÁj, oŒon ¥nqrwpoj, boàj, tršcei, nik´.
[20] Tîn Ôntwn t¦ mOn kaq' Øpokeimšnou tinÕj lšgetai, ™n ØpokeimšnJ dO
oÙden… ™stin, oŒon ¥nqrwpoj kaq' Øpokeimšnou mOn lšgetai toà tinÕj ¢nqrèpou, ™n
ØpokeimšnJ dO oÙden… ™stin: t¦ dO ™n ØpokeimšnJ mšn ™sti, kaq' Øpokeimšnou dO
oÙdenÕj lšgetai, - ™n ØpokeimšnJ dO lšgw Ö œn tini m¾ æj mšroj [25] Øp£rcon
¢dÚnaton cwrˆj enai toà ™n ú ™st…n, - oŒon ¹ tˆj grammatik¾ ™n ØpokeimšnJ mšn
™sti tÍ yucÍ, kaq' Øpokeimšnou dO oÙdenÕj lšgetai, kaˆ tÕ tˆ leukÕn ™n
ØpokeimšnJ mšn ™sti tù sèmati, - ¤pan g¦r crîma ™n sèmati, - kaq'Øpokeimšnou
dO oÙdenÕj lšgetai: t¦ dO kaq' Øpokeimšnou te [1 b 1] lšgetai kaˆ ™n ØpokeimšnJ
™st…n, oŒon ¹ ™pist»mh ™n ØpokeimšnJ mšn ™sti tÍ yucÍ, kaq' Øpokeimšnou dO
lšgetai tÁj grammatikÁj: t¦ dO oÜte ™n ØpokeimšnJ ™stˆn oÜte kaq'Øpokeimšnou
lšgetai, oŒon Ð tˆj ¥nqrwpoj À Ð tˆj [5] †ppoj, - oÙdOn g¦r tîn toioÚtwn oÜte ™n
ØpokeimšnJ ™stˆn oÜte kaq' Øpokeimšnou lšgetai: - ¡plîj dO t¦ ¥toma kaˆ kn
¢riqmù kat' oÙdenÕj Øpokeimšnou lšgetai, ™n ØpokeimšnJ dO œnia oÙdOn kwlÚei
enai: ¹ g¦r tˆj grammatik¾ tîn ™n ØpokeimšnJ ™st…n.
Delle cose che si dicono, alcune si dicono secondo connessione, altre senza connessione. Sono dette secondo connessione cose come, ad esempio, “l’uomo corre”, “l’uomo
vince”, mentre sono dette senza connessione cose come, ad esempio, “uomo”, “bue”,
“corre”, “vince”.
[20] Delle realtà, alcune si dicono di un soggetto, ma non sono in un soggetto. Ad
esempio, “uomo” si dice di un soggetto, cioè di un determinato uomo, ma non è in nessun soggetto. Altre, invece, sono in un soggetto, ma non si dicono di nessun soggetto.
Dico in un soggetto ciò che, appartenendo a qualcosa, non però come una sua parte,
[25] è impossibile che sussista separatamente da ciò in cui è. Ad esempio, un certo tipo
di grammatica è in un soggetto, cioè nell’anima, ma non si dice di nessun soggetto, e un
determinato bianco è in un soggetto, cioè nel corpo - ogni colore, infatti, è in un corpo -,
ma non si dice di nessun soggetto. Altre cose ancora si dicono di un soggetto [1 b 1] e
sono in un soggetto. Ad esempio, la scienza è in un soggetto, cioè nell’anima, e si dice
di un soggetto, cioè della grammatica. Altre cose, infine, non sono in un soggetto e neppure si dicono di nessun soggetto, come, ad esempio, un determinato uomo o un determinato [5] cavallo: nessuno di questi, infatti, è in un soggetto né si dice di alcun soggetto. In breve, gli individui e ciò che è numericamente uno non si dicono di nessun soggetto; nulla, però, impedisce che alcuni di essi siano in un soggetto. Una determinata
grammatica, infatti, è in un soggetto.
Sommario
Il capitolo può essere suddiviso in due parti.
I. Nella Prima Parte (1 a 16-19), Aristotele divide le cose che vengono dette in due
grandi gruppi: quelle che si dicono secondo connessione (“l’uomo corre”, “l’uomo vince”) e quelle che si dicono senza connessione (“uomo”, “bue”, “corre”, “vince”).
II. Nella Seconda Parte (1 a 20 - b 9), Aristotele procede alla divisione delle realtà in
quattro gruppi:
1. [1 a 20-22] Realtà che si dicono di un soggetto, ma non sono in un soggetto. Ad
esempio, “essere umano” si dice di un determinato essere umano, ma non è in nessun
soggetto.
2. [1 a 23-30] Realtà che sono in un soggetto, ma non si dicono di nessun soggetto.
Ad esempio, un certo tipo di grammatica è in un soggetto, cioè nell’anima, ma non si
dice di nessun soggetto; similmente, un determinato bianco è in un soggetto, cioè nel
corpo, ma non si dice di nessun soggetto.
3. [1 b 1-2] Realtà che sono dette di un soggetto e sono in un soggetto. Ad esempio,
la scienza è in un soggetto, cioè nell’anima, e si dice di un soggetto, cioè della grammatica.
4. [1 b 3-5] Realtà che non sono dette di un soggetto e non sono in un soggetto. Ad
esempio, un determinato uomo o un determinato cavallo.
1. I legÒmena e la loro “connessione”
1.1. I legÒmena: realtà significate o espressioni significanti?
Nella prima parte di questo capitolo, Aristotele divide in due gruppi le “cose che
vengono dette” (Tîn legomšnwn): quelle che si dicono secondo connessione e quelle
che si dicono senza connessione. Queste ultime saranno poi divise in dieci categorie1.
Già nell’antichità l’espressione Tîn legomšnwn suscitò un ampio dibattito: ci si chiedeva se dovessero essere intesi come le cose espresse dal lÒgoj o, piuttosto, le espressioni
significanti del lÒgoj. Simplicio2 complessifica ulteriormente il quadro delle possibili
interpretazioni dei legÒmena, affermando che essi potrebbero essere letti in quattro sensi diversi:
1. come le realtà (pr£gmata) su cui vertono i discorsi, quindi le realtà in quanto espresse dalle parole;
2. come le nozioni (noÁmata) che riguardano le cose, i concetti che fanno riferimento a delle realtà;
3. come le espressioni (lšxij) significanti;
4. come qualsiasi tipo di espressione, anche quelle senza significato, le quali, pur
non avendo un corrispettivo nella realtà, cionondimeno, possono essere proferite.
Seguendo l’autorità di Alessandro di Afrodisia, Simplicio si pone a favore
dell’interpretazione dei legÒmena intesi non come le realtà significate, ma come le espressioni significanti, espressioni, cioè, considerate precisamente nella loro proprietà
fondamentale di significare la realtà3. E il fatto che i legÒmena debbano essere interpre-
1
Cfr. Categorie 4, 1 b 25-27.
Cfr. Simplicio, In Cat., 41, 6-15.
3 Cfr. Simplicio, In Cat., 10, 8-9; 41, 21-28.
2
50
tati secondo la lettura abbracciata da Simplicio sembra confermato dal fatto che, poco
più avanti, Aristotele dirà:
Ciascuna delle cose che si dicono senza connessione indica (shma…nei) o una sostanza
o una quantità o una qualità o una relazione o un luogo o un tempo o una posizione o
un avere o un fare o un subire4.
I legÒmena senza connessione indicano, esprimono, significano delle realtà; se fossero
stati delle realtà essi stessi, non si sarebbe detto che indicano, esprimono, significano
delle realtà, ma, piuttosto, che lo sono. Inoltre, la differenza che Aristotele pone tra le
realtà espresse dalle parole e i legÒmena che si riferiscono alla realtà appare chiara
all’inizio della seconda parte del Capitolo 2, in cui Aristotele divide in quattro gruppi
non più i legÒmena, ma gli Ônta5, e cioè gli enti, le realtà, le cose, considerate in quanto
espresse dalle parole.
Interagiscono, sullo sfondo della riflessione aristotelica, almeno quattro livelli:
1. quello ontologico, il piano delle realtà, dei pr£gmata e degli Ônta;
2. quello logico, il piano dei concetti (noÁmata) che hanno sede nell’intelletto e che
hanno come riferimento le realtà;
3. quello linguistico, il piano delle parole, delle cose che si dicono (legÒmena);
4. quello più propriamente “verbale”, il piano delle fînai.
Questi livelli non sono tra loro separati, ma pienamente comunicanti. Le realtà significate dalle espressioni e le espressioni significanti la realtà sono, in ultima analisi, un
tutt’uno, dal momento che vige, nel pensiero aristotelico, un sostanziale isomorfismo di
pensiero, linguaggio e realtà. «Le cose dette, i legÒmena, aprono una via che va al cuore
della natura delle cose; ed è la natura delle cose stessa ad esprimerle. Essere “peripatetici” significa attenersi attentamente ai modi in cui si dicono le cose e sforzarsi di “rispondere” al dirsi delle cose nei modi che rendono giustizia a ciò che è stato detto. Questa abitudine a radicare il pensiero nelle cose si chiama respons-abilità (responseability). La metodologia peripatetica, in quanto “legomenologia”, è la pratica filosofica
della respons-abilità ontologica orientata verso e attenta al dirsi delle cose. La responsabilità ontologica entra in gioco ogni qual volta inizia ad essere articolata l’espressione
delle cose»6.
1.2. La “connessione” (sumplokÁ)
I legÒmena, si diceva, possono essere detti secondo connessione oppure senza connessione. Il termine «connessione» (sumplokÁ), qui usato da Aristotele, era stato già
usato da Platone (forse il primo ad averlo usato nel senso in cui lo usa in questo passo lo
Stagirita), nel Sofista7, insieme al termine sÚnqesij8. In questo passo, il filosofo ateniese spiega, per bocca dello Straniero di Elea, che «Perché […] un gruppo di parole si costituisca come discorso o proposizione (avente un significato e suscettibile di essere vera o falsa), è necessario che adempia la regola sintattica di connettere almeno un nome e
un verbo. Platone non nega che le singole parole che formano una stringa di nomi o di
4
Categorie 4, 1 b 25-27.
Cfr. Categorie 1 a 20.
6 C. P. Long, Aristotle on the Nature of Truth, Cambridge University Press, New York 2011, p.
7.
7 Cfr. Platone, Sofista, 261 D - 263 B.
8 Cfr. Platone, Sofista, 263 D. Questo stesso termine ricorre anche in Cratilo, 431 C 1 per indicare la proposizione come composizione di nomi e verbi.
5
51
verbi abbiano un significato ciascuna per sé, ma ritiene che esse, sia assunte singolarmente sia nella loro successione, non “concludono qualcosa”, non sono complete, non
esprimono reali stati di fatto. Si dà luogo ad un discorso informativo, avente senso compiuto, soltanto combinando, in una proposizione, parole dei due diversi tipi»9. Il discorso apofantico si forma dall’intreccio ben ordinato di nomi, che indicano enti, e di verbi,
che indicano l’essere o l’agire di un ente. Platone intende mostrare che una proposizione
non è una lista sconnessa di nomi o di verbi, ma il risultato dell’ordinata combinazione
di un sostantivo, che indica un ente, e di un verbo, che indica un’azione10. La sumplokÁ
non è, quindi, un qualsiasi tipo di connessione, di unione, di composizione tra parole,
ma precisamente quella connessione che ci permette di poter attribuire verità o falsità
all’enunciato costituito.
Possiamo ritrovare questa stessa linea di pensiero nel De Interpretatione.
[…] il falso e il vero consistono nell’unione (sÚnqesin) e nella separazione
(dia…resin). In sé considerati, i nomi (ÑnÒmata) e i verbi (·»mata), infatti, assomigliano alla nozione (no»mati) che non ha né unione né separazione, come, ad esempio,
“uomo” o “bianco”, quando mancano delle precisazioni: in tal caso, non si dà né falsità
né verità11.
I nomi e verbi, presi in se stessi, quando non siano né congiunti né separati da nulla, sono delle semplici nozioni che prescindono dal vero e dal falso12. Nel Capitolo 4 Aristotele, dopo aver presentato le dieci categorie e aver addotto degli esempi per ciascuna di
esse, spiega:
Ciascuna delle suddette cose, considerata per se stessa, non rientra in nessuna affermazione. è attraverso la connessione reciproca di esse che si ha l’affermazione. Ogni affermazione, infatti, appare vera oppure falsa, mentre nessuna delle cose che si dicono
senza connessione è vera oppure falsa, come, ad esempio, uomo, bianco, corre, vince13.
Nelle dieci categorie, rientrano le cose dette senza connessione, le quali, pertanto, prescindono dalla suscettibilità di verità o di falsità. Perché si dia un enunciato suscettibile
9
G. Movia, Apparenze, essere e verità. Commentario storico-filosofico al Sofista di Platone,
Vita e Pensiero, Milano 1991, 1994 , pp. 433-434.
10 Per una trattazione analitica di questo tema nel Sofista di Platone, si veda Movia, Apparenze,
essere e verità…, pp. 431-437.
11 De Interpretatione 1, 16 a 12-16.
12 Ogni termine degli enunciati, se separato e considerato per se stesso, è un nome, nel senso
che fissa un preciso riferimento noetico. In questo senso, la cosa vale anche per i verbi. La giustificazione di questa tesi, come sottolinea Sadun Bordoni, Linguaggio e realtà in Aristotele…,
p. 82, viene addotta da Aristotele in un breve inciso presente in De Interpretatione 2, 16 b 2021: «I verbi (·»mata), in quanto tali, detti per sé (kaq’aØt¦ legÒmena), sono dei nomi e significano qualcosa (ÑnÒmat£ ™sti kaˆ shma…nei ti) - infatti, chi li dice arresta il suo pensiero
(t¾n di£noian), e chi li ascolta acquieta il proprio». Il “fermarsi” dell’intelletto, «[…] nel flusso
sensibile del linguaggio, è dunque presentato come indizio della presenza di un nome, e perciò
dell’indicazione di un oggetto» (Sadun Bordoni, Linguaggio e realtà in Aristotele…, p. 82).
Nomi e verbi rappresentano concetti (no»mata): «[…] un nóema risulta […] proprio il riferimento a un oggetto, atto nel quale l’anima si arresta, cioè coglie un tutto in sé concluso, non insaturo, come un predicato, e lo esprime tramite un nome (o un rhêma in quanto nome): possiamo anzi dire che la funzione della parola consiste nel fissare, in un’entità oggettiva e partecipabile qual essa è, questo riferirsi dell’anima a un dato, colto come un oggetto unitario» (Sadun
Bordoni, Linguaggio e realtà in Aristotele…, p. 83).
13 Categorie 4, 2 a 5-10.
2
52
di verità o di falsità, però, non basta che si dia un’unione di termini, qualsiasi essa sia,
seppur dotata di significato. La connessione deve essere posta precisamente tra un nome
e qualcosa che indichi l’essere o l’agire.
[…] “becco-cervo” significa sì qualcosa, ma non indica ancora qualcosa di vero o di
falso, se non è stato aggiunto l’essere o il non-essere con una determinazione assoluta o
temporale14.
Non tutte le unioni di termini danno luogo ad un discorso suscettibile di verità o falsità.
Se, invece, creiamo un collegamento tra nome e verbo, tra un soggetto e un predicato, e
affermiamo o neghiamo qualcosa di qualcos’altro, allora, attraverso l’atto del giudizio,
abbiamo un’enunciazione o proposizione. Il vero e il falso nascono con il giudizio. Questo, infatti, esprime sempre affermazione o negazione, ed è quindi vero (se congiunge
ciò che è realmente congiunto o disgiunge ciò che è realmente disgiunto) oppure falso
(se congiunge ciò che non è realmente congiunto o disgiunge ciò che non è realmente
disgiunto)15.
Non ogni discorso (lÒgoj) è dichiarativo (¢poqntikÕj), ma solo quello in cui sussiste
un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in ogni discorso: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non risulta né vera né falsa16.
Non a tutti i tipi di discorso competono il vero o il falso, ma esclusivamente a quelli dichiarativi, apofantici. «Tali discorsi, dai quali, come si è visto, è ad esempio esclusa la
preghiera, pertengono non alla retorica e alla poetica, ma solamente a quell’ambito superiore (logico-ontologico) che ha appunto a che fare col vero e col falso»17.
Tornando al testo delle Categorie, è chiaro che Aristotele intende per «connessione»
(sumplokÁ) non un qualsiasi tipo di collegamento tra parole, ma precisamente, nel senso tecnico spiegato nel De Interpretatione, l’intreccio ordinato di soggetti e predicati,
che dà origine a un enunciato, di senso compiuto. Ciò risulta maggiormente chiaro dagli
esempi, in cui si connettono dei nomi (“uomo”) con dei verbi (“corre”, “vince”), formando un discorso dichiarativo.
Secondo quanto rileva Pesce, la distinzione aristotelica tra cose dette secondo connessione e cose dette senza connessione è «alquanto grossolana, perché frettolosa»18; e
aggiunge che, come nota anche Boezio, cose dette secondo connessione sono anche espressioni come, ad esempio, “o Socrate o Platone”. In risposta al rilievo di Pesce, si
deve osservare che, da un lato, essendo le Categorie un testo esoterico non destinato alla pubblicazione, il suo Autore non può essere tacciato di frettolosità, e, dall’altro, che è
chiaro che alcune parti del discorso, anche se separate, risultano ancora dotate di significato, come, ad esempio, “uomo” oppure “animale terrestre bipede” - una definizione
che, in quanto tale, costituisce un’unità semantica -, ma queste non costituiscono ancora
14
De Interpretatione 1, 16 a 16-18.
Cfr. Metafisica E 4, 1027 b 20-23: «Il vero è l’affermazione di ciò che è realmente congiunto
e la negazione di ciò che è realmente diviso; il falso, invece, è la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione».
16 De Interpretatione 4, 17 a 2-4.
17 A. Cazzullo, La verità della parola. Ricerca sui fondamenti filosofici della metafora in Aristotele e nei contemporanei, Jaca Book, Milano 1987, rist. 1992, pp. 178-179.
18 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 24 n. 2.
15
53
un giudizio, il quale nasce, come abbiamo visto, solo dall’intervento di una sumplokÁ19.
Dessippo20 pone la questione per cui alcuni hanno criticato la divisione aristotelica in
cose dette con connessione e cose dette senza connessione, in quanto non tutte le cose
rientrerebbero in uno di questi gruppi: “quell’uomo cammina”, ad esempio, non sarebbe
detto con connessione perché manca di una congiunzione grammaticale; “uomo” e “bue”, a loro volta, non sarebbero senza connessione perché anche i nomi stessi possiedono
un certo tipo di connessione, di lettere e di sillabe. A questo problema, Dessippo risponde che coloro che sollevano tale aporia considerano la connessione come un’espressione
che comporta necessariamente una congiunzione grammaticale, seguendo, in questo
modo, l’uso Stoico21. Aristotele, invece, userebbe il termine sumplokÁ da un lato in
senso più ampio, indicando con esso la modalità di connessione delle parti di un discorso apofantico, dall’altro, in senso più stretto, escludendo la combinazione di lettere e sillabe all’interno di ogni singola parola. Porfirio22 spiega che le cose possono essere dette
con connessione in due modi: o tramite una congiunzione coordinante, come, ad esempio, nel caso di “Socrate e Platone”, oppure in un’espressione in cui i termini connessi
siano l’uno l’accidente dell’altro, come, ad esempio, nel caso in cui intendiamo connettere il camminare a Socrate senza usare congiunzioni grammaticali e diciamo “Socrate
cammina”.
1.3. Le “cose dette secondo connessione”
Gli esempi portati da Aristotele in riferimento alle cose dette secondo connessione si
limitano ad associare dei nomi e dei verbi. Noi possiamo constatare, tuttavia, che il linguaggio può associare, ad esempio, anche:
1. un nome e un aggettivo (“l’uomo bianco”);
2. due nomi in modo da dare vita a un nome composto23 (i peplegmšna);
3. una preposizione e un luogo24.
Il primo caso può rientrare nel discorso apofantico, qualora sia omesso il verbo essere,
sia in senso copulativo sia in senso esistenziale, dal momento che, in quel caso,
l’enunciato sarebbe suscettibile di verità o di falsità. Il secondo caso è quello illustrato
nel De Interpretatione, sopra citato25: un nome composto può sì significare qualcosa,
ma non indica ancora qualcosa di vero o di falso, se non vi viene aggiunta un’azione
oppure l’essere o il non-essere attraverso una determinazione assoluta o temporale. Nel
19
Cfr. De Interpretatione 5, 17 a 8-15: «Il primo discorso dichiarativo, che sia unitario, è
l’affermazione; in seguito viene la negazione. Ogni altro discorso è invece unitario per un collegamento. È del resto necessario, che ogni discorso dichiarativo derivi da un verbo o da una flessione del verbo; in realtà, anche il discorso definitorio dell’uomo, quando non sia stato aggiunto
“è”, o “era”, o “sarà”, o qualcosa di simile, non risulta ancora un discorso dichiarativo. Per tale
ragione, inoltre, l’espressione “animale terrestre bipede”, costituisce un’unità, e non invece una
molteplicità. Essa risulterà una, in realtà, non certo per il fatto che i suoi termini siano stati enunciati in una successione immediata».
20 Cfr. Dessippo, In Cat., 22, 12-25.
21 Cfr. il termine sumplektikos sundesmos in Crisippo, SVF 2.207.
22 Cfr. Porfirio, In Cat., 71, 4-15.
23 Cfr. De Interpretatione 2, 16 a 23-24.
24 Cfr. Categorie 4, 2 a 4-7.
25 Cfr. De Interpretatione 1, 16 a 16-18. Cfr. Supra, p. ***.
54
caso dei nomi composti per sé considerati, come anche nel caso delle definizioni, costituite sì da più termini, ma formanti comunque un’unità, tuttavia, non abbiamo a che fare
con enunciati di cui possiamo stabilire la verità e la falsità, come accade per la proposizione formata da un sostantivo e da un verbo26. Il terzo caso è quello proprio di espressioni che indicano complementi di stato in luogo, quali gli esempi portati da Aristotele
rispettivamente per la categorie del “dove”: “al Liceo”27, “in piazza”28. Tali espressioni,
pur essendo costituite da più termini, sono considerate come unitarie perché solo in
quanto considerate insieme costituiscono una determinazione di luogo, e si riferiscono,
quindi, ad una sola categoria29.
Ammonio30 fa notare come l’ordine delle classificazioni che Aristotele sta presentando non siano casuali. Egli collocherebbe le cose dette secondo connessione prima di
quelle dette senza connessione in modo da menzionare per ultime quelle cui è interessato e che andrà ad analizzare (e saranno divise in dieci categorie). E, nel momento in cui
vengono elencati degli esempi per le cose dette senza connessione, Aristotele sarebbe
attento a presentare prima due nomi in sequenza e poi due verbi in sequenza in modo da
non dare la possibilità al pubblico di associare un nome con un verbo, pensando, così,
che si tratti di cose dette con connessione. Tale annotazione potrebbe risultare interessante come testimonianza che il testo delle Categorie è uno scritto esoterico formato da
“appunti” di lezioni orali. Nel testo greco, infatti, i termini degli esempi sono separati da
segni di interpunzione e l’eventuale possibilità di associare il nome con il verbo sarebbe
stata minima; nell’oralità, invece, il problema si sarebbe presentato in tutta la sua importanza.
Simplicio, prima di seguire la stessa spiegazione data da Ammonio, e accolta da Filopono, propone due giustificazioni diverse al fatto che Aristotele nomini prima le cose
dette con connessione e poi quelle senza connessione. In una prima ipotesi, le cose con
connessione sarebbero quelle sensibili, composte; le cose senza connessione, invece, sarebbero i principi delle cose sensibili, i quali sono semplici. Questa motivazione, tuttavia, deve essere sembrata poco pertinente allo stesso Simplicio; basti pensare al fatto
che, nelle dieci categorie che Aristotele elenca, ha posto la sostanza prima, cioè la sostanza composta, individuale. In una seconda ipotesi, Aristotele intenderebbe presentare
le cose semplici come negazione di quelle che si dicono con connessione, e una negazione non può essere adeguatamente conosciuta se non si conosce prima ciò di cui è,
appunto, negazione.
2. I quattro gruppi di realtà
Subito dopo aver operato una distinzione tra le cose dette secondo connessione e le
cose dette senza connessione, Aristotele presenta una quadruplice classificazione degli
enti, che si rivela molto importante per lo studio della dottrina delle categorie e, in particolare, della sostanza.
26
Cfr. Categorie 4, 2 a 4-7.
Categorie 4, 2 a 1.
28 Categorie 4, 2 a 1-2.
29 Cfr. Zanatta, Aristotele. Le categorie…, p. 416.
30 Cfr. Ammonio, In Cat., 24, 15-21.
27
55
Simplicio31 riporta che questa parte era stata considerata poco coerente con quanto
Aristotele aveva trattato nei paragrafi precedenti, e, per questo motivo, le Categorie sarebbero state viste come una mera raccolta di appunti. Simplicio non è affatto d’accordo
con una simile considerazione, dal momento che, a suo avviso, poiché lo scopo di Aristotele è quello di trattare espressioni semplici e generali che significano realtà semplici
e generali, si tratterebbe di un ottimo ordine espositivo far precedere la divisione delle
realtà nel massimo numero possibile (sembra, infatti, che fosse impossibile trovare un
numero di gruppi maggiore di dieci; in altri luoghi, Aristotele elenca un numero minore
di categorie, ma mai presenta un numero maggiore32) da una divisione nel minor numero possibile, cioè in un numero di gruppi più piccolo possibile, che potesse, però, ricomprendere tutte le realtà. I quattro gruppi, inoltre, potrebbero essere ricompresi in una
divisione dicotomica: da una parte, ciò che è autosussistente e non ha bisogno di
null’altro per esistere; dall’altra, ciò che può esistere solamente in altro. In questo modo,
si avrebbero persino delle simbologie numeriche che formerebbero un quadro perfetto:
la decade sarebbe contenuta nella tetrade, e la tetrade sarebbe contenuta nella diade33.
2.1. “Dirsi di” ed “essere in”: predicazione e inerenza
Subito dopo aver operato una distinzione tra le cose dette secondo connessione e le
cose dette senza connessione, Aristotele presenta una quadruplice classificazione degli
enti, che si rivela molto importante per lo studio della dottrina delle categorie e, in particolare, della sostanza.
Prima di osservare in che cosa consista, più precisamente, ognuno dei quattro gruppi,
occorre, subito, notare come questa “tetrarchia dell’essere” risulti dalla combinazione di
due modi fondamentali di connettere i termini tramite sumplok», e cioè quelli che Aristotele chiama “dirsi di” e “essere in”. Poiché Aristotele è il primo filosofo ad usare
queste due locuzioni in senso tecnico, attribuendo loro un particolare significato, era necessario che egli chiarisse cosa esse indicassero precisamente34.
“Dirsi di” e “essere in” sono due tipi di predicazione: il “dirsi di un soggetto” indica
qualcosa che è detto, che, appunto, viene predicato di un soggetto (kaq/Øpokeimšnou),
ed esprime precisamente qualcosa che appartiene all’essenza del soggetto; l’“essere in”
indica il caso di qualcosa che è presente, o inerente, in un soggetto, e che non potrebbe
esistere separatamente da ciò in cui è35: per questa inseparabilità dal sostrato in cui è, e,
dunque, l’impossibilità di sussistere al di là di esso, questo tipo di predicazione è proprio delle determinazioni accidentali. Sulla differenza tra “dirsi di” e “essere in”, data
l’importanza della questione, tornerò nei capitoli seguenti. Qui, tuttavia, per capire la
distinzione aristotelica, ed anche per comprendere da dove le “categorie” derivino il
31
Cfr. Simplicio, In Cat., 44, 1-17.
Due sono le liste delle categorie che Aristotele presenta nelle sue opere. L’una, di dieci categorie, presente in Categorie 4, 1 b, e, quasi identica, anche in Topici I, 9, 103 b; l’altra, di otto
categorie, presente in Metafisica D 7, 1017 a 25. Cfr. D. A. Badareu, Les catégories d’Aristote,
«Revue Roumaine des Science Sociales. Série Philosophique et Logique», 8 (1964), pp. 127142.
33 Secondo Simplicio, In Cat., 51, 3-4, Aristotele avrebbe ripreso la divisione in dieci generi dai
Pitagorici.
34 Cfr. Simplicio, In Cat., p. 65.
35 Spiega Aristotele in Categorie 1 a 24-26: «Dico “in un soggetto” ciò che, esistendo in qualcosa non come sua parte, è impossibile che sia separato da ciò in cui è».
32
56
proprio nome, mi sembra opportuno un richiamo agli Analitici posteriori. Lo Stagirita
spiega che cosa si intenda precisamente con il concetto di kathgore‹n (“predicare”,
“aggiungere ad un termine un predicato”), da cui la parola “categorie” deriva, ed assumerebbe, dunque, il significato di “predicati”. Il passo mi sembra importante e credo sia
utile leggerlo quasi integralmente, poiché contiene molti aspetti che incontreremo di
nuovo nel corso nel corso dell’analisi delle Categorie.
È effettivamente possibile dire, secondo verità, che ciò che è bianco cammina, che un
dato oggetto grande è legno, e , per un altro verso, che il legno è grande, che l’uomo
cammina. Ad essere precisi, tuttavia, altro è l’esprimersi nel primo modo, altro
l’esprimersi nel secondo. In realtà, quando dico che ciò che è bianco è legno, intendo
riferirmi al fatto che ciò che cui è accaduto di essere bianco è legno, ma non voglio affermare che ciò che è bianco sia il sostrato del legno. […] Quando, invece, dico che il
legno è bianco, […] il legno è il sostrato, precisamente ciò che è diventato bianco, senza essere null’altro se non proprio ciò che è legno, oppure proprio ciò che è un certo legno. Se occorre che noi fissiamo normativamente il senso delle parole, chiamiamo
dunque “predicazione” (kathgore‹n) questo secondo tipo di riferimento, e non designiamo in alcun modo il primo tipo con il nome di predicazione, o almeno parliamo in
tal caso non già senz’altro di predicazione, bensì di predicazione per accidente (kat¦
sumbebhkÕj kategore‹n)36.
Aristotele ci sta dicendo che, quando parliamo, nella vita di tutti i giorni, ci avvaliamo, inconsapevolmente, di due tipi di predicazione, cioè di due modi di connettere un
predicato ad un termine: possiamo, infatti, ad esempio, dire “ciò che è bianco è legno”
oppure “il legno è bianco”. Se andiamo ad analizzare il significato di queste due espressioni, ci accorgiamo che esse, in realtà, stanno ad indicare la stessa cosa. Però, quando
io affermo “ciò che è bianco è legno”, non intendo dire il legno sia un accidente che si
predica del bianco, che, cioè, il bianco sia un qualcosa che esista per sé, come sostrato,
cui può accadere di essere legno; intendo, invece, dire che quel dato oggetto che vedo
bianco è un legno, e cioè, più propriamente: “quel legno è bianco”. Quel che è chiaro è
che Aristotele sta prendendo in considerazione quei tipi di predicazione che consentono
di connettere delle determinazioni accidentali a dei sostrati (un accidente, infatti, ha
sempre bisogno di inerire ad una sostanza37); questo, linguisticamente, può essere fatto
interscambiabilmente nei due modi che abbiamo appena visto, ma, a voler essere precisi, il secondo modo è l’unico corretto. Si tratta di una maggiore precisione formale nel
comporre una proposizione, che riflette, in maniera migliore, ciò che accade realmente
nelle cose. Se io intendo predicare la determinazione qualitativa accidentale “bianco” di
un legno, sarò molto più precisa se, nella frase, assegnerò a quest’ultimo il ruolo di soggetto, poiché, nella realtà dei fatti, esso si presenta come il sostrato che accoglie
l’accidente. Il sostrato dovrebbe avere sempre il ruolo di soggetto, mentre gli accidenti
dovrebbero avere sempre il ruolo di predicati. Questo non significa affatto che, allora, il
primo modo di predicazione sia da espungere come scorretto e traviante. Aristotele è
sempre molto attento al modo comune di pensare e di esprimersi; le sue analisi, volte a
portare il linguaggio ad una sempre maggiore consapevolezza del contatto con la realtà,
non vogliono, in alcun modo, andare a sostituire le espressioni che vengono quotidia36
Analitici secondi I 22, 83 a 1-17 (corsivo mio).
Cfr. Analitici secondi I 22, 83 a 24-28: «Inoltre, ciò che esprime la sostanza è ciò che esprime
la cosa stessa o una certa determinata cosa della quale si predica; invece, ciò che non esprime la
sostanza, ma si dice di qualcos’altro che è un sostrato, il quale non è né uguale a quello né uguale ad una determinazione di quello, sono accidenti, come, per esempio, il bianco detto
dell’uomo».
37
57
namente usate e che si rivelano improprie, ma aiutano a capire i rapporti tra le regole
che vigono nel linguaggio e quelle che vigono nelle cose. Aristotele non dice, dunque,
che una frase del tipo “quella cosa che è bianca è legno” non deve essere usata, ma deve
essere sostituita, in un linguaggio formalizzato, dalla più corretta “il legno è bianco”38;
egli dice, semplicemente, che, se proprio «occorre che fissiamo normativamente il senso
delle parole», solo al secondo enunciato spetta il nome di predicazione (kathgore‹n),
mentre non possiamo designare la prima affermazione semplicemente con la parola
predicazione (kathgore‹n), ma, semmai, possiamo parlare di predicazione per accidente (kat¦ sumbebhkÕj kategore‹n).
Torniamo ora al testo delle Categorie. Qui Aristotele ci presenta due modi attraverso
i quali possiamo connettere le cose: il “dirsi di” e l’”essere in”: con il primo (lšgetai),
attribuiamo ad un sostrato ciò che appartiene alla sua essenza; con il secondo connettiamo una certa determinazione accidentale ad un sostrato, dicendo che essa inerisce a
questo, dal quale non potrebbe essere separata senza cessare di esistere.
Facciamo ora interagire ciò che lo Stagirita dice negli Analitici secondi e quanto troviamo nelle Categorie. C’è un “dirsi di” (lšgetai) che indica sempre una predicazione
essenziale, attribuisce, cioè, ad un soggetto un predicato che gli appartiene per essenza.
C’è, poi, un “essere in”, che è il modo di esistenza degli accidenti, i quali non sussistono
se separati dal sostrato cui ineriscono. Quest’ultimo status, proprio degli accidenti, può
essere linguisticamente espresso in due modi: attraverso una predicazione (kathgore‹n),
semplicemente, senza ulteriori specificazioni, se pongo il sostrato come soggetto della
frase (“Il legno è bianco”); oppure attraverso una predicazione per accidente (kat¦
sumbebhkÕj kategore‹n), se pongo, impropriamente, il sostrato nel ruolo di predicato
(“Quel bianco è legno”). Sul rapporto tra analisi logico-linguistica e analisi ontologica
nella trattazione delle Categorie, data l’importanza della questione, tornerò più diffusamente. Tuttavia, mi sembra opportuno notare, fin da ora, come lo studio aristotelico non
si situi affatto, come alcuni hanno creduto, solo ad un livello linguistico-grammaticale,
ma sia, piuttosto, volto ad evidenziare gli scarti e le aderenze tra i due piani, linguistico
ed ontologico. La predicazione e la predicazione accidentale indicano, sul piano linguistico-predicazionale, il modus existendi degli accidenti, che, al livello ontologico, si presenta come un “essere in”39.
Sempre continuando a confrontare gli Analitici secondi e le Categorie, possiamo
chiederci: perché, in quest’ultima opera, Aristotele aggiunge un terzo tipo di predicazione, la predicazione essenziale, ai due che abbiamo visto nel primo scritto? La predicazione “tout court” e la predicazione accidentale possono essere entrambe ricondotte,
38
In un linguaggio formalizzato, una frase del tipo “quella cosa che è bianca è legno” deve essere sempre sostituita dalla più corretta “il legno è bianco”. Nel linguaggio comune, invece, cioè
quando si parla quotidianamente, non si tratta di un errore preferire la prima frase alla seconda.
C’è, dunque, una distinzione tra il linguaggio comune e il linguaggio formalizzato e purificato.
39 Berti, Profilo…, p. 69, riferendosi al “dirsi di” e all’ “essere in”, afferma che «gli interpreti
hanno indicato il primo tipo di predicazione col nome di predicazione vera e propria, o predicazione essenziale, e il secondo col nome di inerenza, o predicazione accidentale». Questo, alla
luce delle analisi che stiamo conducendo, non risulta completamente corretto. Aristotele chiama,
infatti, predicazione essenziale solo una parte della predicazione, termine con il quale viene indicata anche la predicazione formalizzata delle determinazioni accidentali. La predicazione accidentale, a sua volta, non riveste tutto l’ambito dell’ “essere in”, ma indica solo il modo improprio di esprimere l’ “essere in”, ponendo l’accidente come soggetto ed il sostrato come predicato.
58
alla luce di quanto si dice nelle Categorie, all’ “essere in”; sembrerebbe, pertanto, che
la predicazione, in generale, riguardi soltanto gli accidenti: e, infatti, solo gli accidenti
sono dei veri predicati (kathgor…ai), tant’è vero che la predicazione accidentale, in cui
gli accidenti hanno il ruolo di soggetti, è stata dichiarata impropria. Le categorie sono,
allora, nient’altro che accidenti? No, perché c’è un caso in cui perfino la sostanza può
assumere, questa volta, però, in maniera legittima, e non, come sopra, per accidente, il
ruolo di predicato. Ma non solo per questo, ma anche per il fatto che non può esistere
(piano ontologico) nessun oggetto che non sottostia a delle categorie nel senso che ogni
realtà sta nel tempo, nello spazio, ha certe caratteristiche etc. Sembra che ci sia una contraddizione tra: l’accidentalità dell’inerenza e la necessità della stessa. In realtà, la questione si spiega bene col fatto che se è accidentale poniamo che x sia bianco, è però necessario che esso abbia una certa qualità e le altre categorie etc.
In realtà, infatti, un termine potrà essere predicato come sostanza, per esempio come
genere o come differenza di ciò di cui si predica (kathgorhq»setai)40.
Il caso in cui il genere, la specie o la differenza specifica, che sono, come vedremo,
sostanze seconde, si predicano di un soggetto, che è, a sua volta, sostanza, darà luogo
alla predicazione che abbiamo chiamato essenziale, poiché essa non aggiunge una determinazione accidentale al soggetto. Non si tratta, per dirla con Kant, di un giudizio
sintetico, ma indica ciò che è già contenuto, per essenza, nel soggetto: si tratta, riprendendo di nuovo Kant, di una sorta di giudizio analitico a priori.
A questo punto, lasciando da parte la predicazione accidentale, valida solo sul piano
linguistico comune, e incapace di dimostrare alcunché se usata all’interno di un sillogismo, soffermiamoci sulla predicazione in generale: questa può essere predicazione tout
court, se un accidente viene predicato di una sostanza; oppure predicazione essenziale,
se una sostanza (prima) viene predicata di un’altra sostanza (seconda).
E così, il predicato è un termine come “bianco”, mentre ciò di cui si predica qualcosa è
un termine come “legno”. Supponiamo, dunque, che il predicato, rispetto a ciò di cui si
predica, si predichi sempre semplicemente, e non già per accidente: è infatti in questo
modo che le dimostrazioni dimostrano. Di conseguenza, quando una sola determinazione si predica di un solo oggetto, essa o è immanente all’essenza dell’oggetto, oppure
dichiara che l’oggetto ha una qualità, o che ha una quantità, o che è in una relazione, o
che opera qualcosa, o che subisce qualcosa, o che è in un certo luogo, o che è in un certo tempo41.
Quando abbiamo a che fare con un predicato (kathgor…a), questo può essere o «immanente all’essenza dell’oggetto», ed essere, dunque, un predicato essenziale, cioè una
sostanza (seconda); oppure può indicare una determinazione accidentale, ad esempio,
una qualità, una quantità, una relazione, un agire, un patire, un luogo, un tempo. Tutte
queste e la sostanza (seconda) sono, allo stesso titolo, predicati (kathgor…ai) cioè: categorie.
2.2. Quattro gruppi di realtà
Dopo aver fatto luce sui significati del “dirsi di” e dell’ “essere in”, occorre, almeno
brevemente, vedere in che cosa consista la divisione in quattro tipi di enti su cui mi sono
soffermata poco fa.
40
41
Analitici secondi I 22, 83 a 39 - b 1.
Analitici secondi I 22, 83 a 17-23.
59
2.2.1. Primo gruppo
Il primo gruppo, come abbiamo visto, comprende gli enti che si dicono di un soggetto, ma non sono in un sostrato. Stando a ciò che abbiamo appena osservato riguardo al
“dirsi di” e all’“essere in”, questi enti, in quanto si dicono di un soggetto, sono predicati
essenziali del soggetto, appartengono, cioè, alla sua essenza e possono essere usati per
darne la definizione; in quanto non sono in un sostrato, non indicano determinazioni accidentali. Uomo, ad esempio, si dice di un soggetto, cioè di un certo uomo, di un individuo esistente, poiché ogni determinato uomo è un uomo, cioè appartiene essenzialmente
alla specie uomo. Poi, non è in nessun sostrato, poiché a nessuno capita di essere, accidentalmente, un uomo, ed inoltre uomo non si esaurisce in un singolo uomo, non si identifica con un unico individuo, ma si predica di più soggetti, cioè di tutti gli uomini,
ed è, pertanto, separabile dal sostrato di cui si predica. Questo primo gruppo, poiché
comprende quegli enti che, in quanto non sono in un sostrato, sono sostanza, e, in quanto si dicono di un soggetto, sono universali (poiché si predicano di più soggetti), è
l’insieme delle sostanze universali che, come vedremo, sono chiamate da Aristotele, sostanze seconde.
Simplicio42 riporta le obiezioni che Lucio e il suo circolo muovevano al fatto che,
come viene indicato da Aristotele, ciò che è in un soggetto non è in esso come una sua
parte43: se diciamo che gli elementi che completano una sostanza sono “parti” di quella
sostanza, e che ciò che completa l’essere di un corpo sensibile è il colore, la forma, la
grandezza - un corpo senza colore e senza forma non potrebbe esistere -, allora ci troviamo di fronte all’alternativa: o non possiamo affermare che tali elementi sono in un
sostrato, oppure non è corretto negare che esse siano nel sostrato in guisa di parti. Porfirio44 avrebbe risolto la questione ponendo due tipi di sostrato45. Un primo significato di
sostrato è la materia avulsa dalla qualità (hê … apoios hulê), che per Aristotele è la materia in potenza (la potenzialità); il secondo significato, invece, è ciò che entra
nell’essere come qualcosa di comunemente o individualmente qualificato. Nel caso del
primo significato, ogni colore, ogni forma e ogni qualità sono nella materia prima come
in un sostrato, e non come parti di essa: nel secondo caso, invece, non tutte le qualità
sono nel sostrato, ma solamente quelle che non ne completano la sostanza. Ad esempio,
il bianco nel caso della lana è in un sostrato; nel caso della neve, invece, non è in un sostrato, ma “completa” la sostanza in guisa di parte. Similmente, il calore è una parte della sostanza del fuoco, ma è nel ferro come in un sostrato, dal momento che può comparire e scomparire dal ferro senza per questo implicare la distruzione del ferro stesso. La
risposta di Simplicio alla soluzione porfiriana mi sembra molto pertinente: se è in un sostrato solo ciò che può essere aggiunto o tolto a qualcosa, allora Aristotele non sta includendo tutte le categorie entro le due classi dell’ “essere in un sostrato” e del “non essere in un sostrato”, poiché, se il “non essere in un sostrato indica la sostanza, l’“essere
in un sostrato” non indica tutte le qualità, ma solo quelle avventizie, cosicché non risulterebbero compresi tutti i generi46. Si potrebbe forse dire che le qualità non avventizie,
42
Cfr. Simplicio, In Cat., 48, 1 ss.
Cfr. Plotino, Enneadi VI, 3, 5; P. Moreaux 1984, 537-8; Dessippo 23,17-24.
44 Cfr. Porfirio, Ad Gedalium fr. 55.
45 Cfr. Proclus, In Tim. Vol. I, 387. 5 ss. Diehl, commentario di I. Hadot 1978, 81 ss.
46 Cfr. Simplicio, On Cat…., p. 131, n. 515: in realtà, Simplicio sbaglia questo punto, perché la
divisione non fallirebbe nel comprendere tutte le categorie, ma nell’abbracciare tutte le proprietà
che fanno parte di una qualsiasi categoria, in quanto escluderebbe quelle essenziali.
43
60
ma che completano la sostanza, essendo parti di essa, siano esse stesse delle sostanze
(Aristotele stesso afferma che le parti delle sostanze sono, a loro volta, delle sostanze).
Questa potrebbe essere la motivazione per cui Aristotele non chiama la sostanza “sostrato”, ma ciò che “non è in un sostrato”, in modo da poter includervi anche le qualità.
2.2.2. Secondo gruppo
Il secondo gruppo comprende le cose che sono in un sostrato, dunque sono determinazioni accidentali, e che non si dicono di nessun soggetto, dunque non sono predicati
universali, che possono, cioè essere connessi a più cose. Questi enti, in quanto sono in
un sostrato, indicano degli accidenti e, in quanto non si dicono di un soggetto, non sono
comuni, ma particolari. Il secondo gruppo può essere, allora, detto l’insieme degli accidenti particolari. Ad esempio, una certa dottrina grammaticale è in un sostrato, cioè
nell’anima, poiché non potrebbe essere separata da questa senza cessare di esistere, ma
non si dice di nessun soggetto, poiché essa non è un universale predicabile, ma è già essa stessa una particolarizzazione della scienza.
2.2.3. Terzo gruppo
Nel terzo gruppo si trovano le cose che sia sono dette di un soggetto, dunque sono
predicati comuni, sia sono in un sostrato, dunque sono predicazioni accidentali. Si tratta,
pertanto, degli accidenti universali. Ad esempio, la scienza è in un sostrato, cioè
nell’anima, poiché non potrebbe esistere una scienza se non ci fosse un sostrato a supportarla, e si dice di un altro soggetto, ad esempio della grammatica, poiché la dottrina
grammaticale è una particolarizzazione della scienza.
3.2.4. Quarto gruppo
Il quarto gruppo, infine, comprende le cose che né sono dette di un soggetto, dunque
non sono predicati comuni, né sono in un sostrato, dunque non sono determinazioni accidentali: sono, pertanto, sostanze particolari, come, ad esempio, un certo uomo o un
certo cavallo. Esse non sono predicabili e, perciò, non possono essere propriamente
chiamate “categorie”, che in greco vuol dire “predicati”. Nel linguaggio di tutti i giorni,
tuttavia, può accadere che siano predicate, ma sempre e solo per accidente (kat¦ sumbebhkÕj kategore‹n).
Come sottolinea giustamente Bodéüs47, queste realtà hanno la particolarità di poter
essere designate attraverso dei nomi propri, come, ad esempio, Socrate o Bucefalo, qualora si tratti di un essere umano o di un animale domestico. Aristotele, tuttavia, non addita, tra gli esempi, dei nomi propri, e il motivo di questo silenzio risiede nel fatto che
non esistono davvero dei nomi per ciascun individuo, in quanto essi sono esclusivamente convenzionali e attribuiti per scelta48.
47
48
Cfr. Bodéüs, Aristote. Les Catégories…, p. 4, n. 3.
Cfr. Metafisica Z 10, 1035 b 2-3: m¾ enai ‡dion Ônoma to‹j kaq\ ›kaston.
61
Per avere uno schema dei quattro gruppi appena presentati, riporto la seguente tabella:
gruppo
1.
2.
3.
4.
“Essere in”
No
(sostanza)
Sì
(accidente)
Sì
(accidente)
No
(sostanza)
“Dirsi di”
Sì
(universale)
No
(particolare)
Sì
(universale)
No
(particolare)
62
Capitolo Terzo
Generi subordinati e generi non subordinati
[1 b 10] “Otan ›teron kaq' ˜tšrou kathgorÁtai æj kaq' Øpokeimšnou, Ósa kat¦
toà kathgoroumšnou lšgetai, p£nta kaˆ kat¦ toà Øpokeimšnou ·hq»setai: oŒon
¥nqrwpoj kat¦ toà tinÕj ¢nqrèpou kathgore‹tai, tÕ dO zùon kat¦ toà ¢nqrèpou:
oÙkoàn kaˆ kat¦ toà tinÕj ¢nqrèpou tÕ zùon [15] kathgorhq»setai: Ð g¦r tˆj
¥nqrwpoj kaˆ ¥nqrwpÒj ™sti kaˆ zùon.
tîn ˜terogenîn kaˆ m¾ Øp' ¥llhla tetagmšnwn ›terai tù e‡dei kaˆ aƒ diafora…, oŒon zóou kaˆ ™pist»mhj: zóou mOn g¦r diaforaˆ tÒ te pezÕn kaˆ tÕ pthnÕn
kaˆ tÕ œnudron kaˆ tÕ d…poun, ™pist»mhj dO oÙdem…a toÚtwn: oÙ g¦r [20]
diafšrei ™pist»mh ™pist»mhj tù d…pouj enai.
tîn dš ge Øp' ¥llhla genîn oÙdOn kwlÚei t¦j aÙt¦j diafor¦j enai: t¦ g¦r
™p£nw tîn Øp' aÙt¦ genîn kathgore‹tai, éste Ósai toà kathgoroumšnou diafora… e„si tosaàtai kaˆ toà Øpokeimšnou œsontai.
[1 b 10] Quando una cosa si predica di un’altra come di un soggetto, tutto ciò che si
dice del predicato si dirà anche del soggetto. Ad esempio, “uomo” si dice di un determinato uomo, e “animale” si dice dell’uomo; quindi “animale” [15] si dirà anche di un determinato uomo. Un determinato uomo, infatti, è sia “uomo” sia “animale”.
Se i generi sono diversi e non subordinati l’uno all’altro, anche le differenze specifiche sono diverse, come, ad esempio, quelle di “animale” e di “scienza”: differenze di
“animale” sono, infatti, “terrestre”, “volatile”, “acquatico” e “bipede”, ma nessuna di
queste è una differenza della scienza; [20] una scienza, infatti, non differisce dall’altra
perché è bipede.
Se, invece, i generi sono subordinati gli uni agli altri, nulla impedisce che le differenze siano le stesse. I generi superiori, infatti, si predicano dei generi inferiori, cosicché
le differenze del predicato lo saranno anche del soggetto.
Sommario
Schematizzando la struttura del ragionamento aristotelico, il capitolo può essere diviso in tre parti
1. Nella prima parte [1 b 10-15], viene enunciata la regola generale che riguarda la
predicazione del “dirsi di”: quando una cosa “si dice di” un soggetto, tutto ciò che
si dice del predicato si dirà anche del soggetto. Segue un esempio che esprime tale
legge: poiché “animale” si dice di “uomo”, e “uomo”, a sua volta, si dice di un determinato uomo, allora anche “animale” si dirà di un determinato uomo e, di fatti,
un determinato uomo è sia un uomo sia un animale. Utilizzando l’esempio
dell’uomo e dell’animale, si è fatto ricorso a quei tipi di rapporti che intercorrono
tra il genere, i sottogeneri, le specie e le differenze, tra i quali spesso risiede una
relazione di predicazione di tipo “dirsi di”. Due sono i casi che possono presentarsi.
2. Nella seconda parte del capitolo [1 b 16-20], troviamo il primo caso: se i generi e
i sottogeneri sono diversi e non sono subordinati l’uno all’altro, anche le differenze specifiche che li riguardano sono diverse; ad esempio, “animale” e “scienza”
sono due generi completamente diversi e non sono l’uno il sottogenere dell’altro;
di conseguenza, le differenze specifiche che riguardano il genere “animale”, quali,
ad esempio, “terrestre”, “volatile”, “acquatico” e “bipede”, non sono in alcun modo differenze che possano appartenere al genere della scienza.
3. Nella terza e ultima parte del capitolo [1 b 20-24], viene presentato il secondo caso: se siamo in presenza di uno o più sottogeneri subordinati allo stesso genere,
può capitare che le differenze specifiche siano le stesse. In questo caso, infatti, il
genere superiore si predica del sottogenere, di modo che le differenze del predicato risulteranno essere differenze anche del soggetto.
1. La regola della predicazione
Nel presente capitolo, Aristotele presenta la norma che regola la predicazione, e cioè
il rapporto del “dirsi di” presentato e illustrato nel capitolo appena precedente. Infatti,
dopo aver precedentemente distinto l’inerenza e la predicazione, in questa sezione, Aristotele analizza i rapporti che si vengono a istaurare tra gli elementi legati dalla relazione del “dirsi di” un soggetto, la predicazione che caratterizza la relazione tra specie e
genere.
Il verbo greco qui utilizzato per “dirsi di” è kathgore…sqai (essere imputabile, essere
predicato, affermato, asserito), seguito dal complemento kat£ tinoj (a qualcosa), ed è
un altro modo di esprimere quel “dirsi di” qualcosa (lšgesqai kat£ tinoj) di cui Aristotele ha parlato sopra. Entrambe le espressioni possono indicare l’attribuzione di un
qualsiasi semplice predicato1. In questo caso, però, il verbo indica non un predicato
semplice, ma precisamente un predicabile, e cioè uno dei cinque predicabili, così come
Porfirio li intese e li presentò nella sua Isagoge: genere, specie, differenza, proprio e
accidente2. Questo risulta evidente dall’aggiunta dell’espressione æj kaq\Øpokeimšnou
(predicarsi di un soggetto).
La regola generale che riguarda la predicazione del “dirsi di” un soggetto è la seguente: quando una cosa “si dice di” un soggetto, tutto ciò che si dice del predicato si dirà
anche del soggetto. La stessa regola è esposta, con delle variazioni, nei Topici:
[…] il genere, infatti, si predica di tutto ciò che cade sotto la medesima specie3.
Nel passo delle Categorie, Aristotele non fa espressamente ricorso ai concetti di genere
e specie come nei Topici e non dice specificatamente che il genere, che si dice della
specie, si dice anche del soggetto individuale - ad esempio, poiché “animale”, che indica
un genere, si dice di “uomo”, che indica una specie, e “uomo” si dice di un determinato
1
Cfr. Categorie 2 a 31-32, 2 b 31, 3 a 1-2.
cfr. Porphyre, Isagoge, texte grec, traduction française en vis-à-vis, texte latin, introduction et
notes par A. de Libera, Vrin, « Sic et Non », Paris 1998, p. XX.
3 Topici IV 1, 120 b 19-20, tÕ g¦r gšnoj kat¦ p£ntwn tîn ØpÕ tÕ aÙtÕ edoj. Cfr. anche
Topici IV 2, 122 a 5-6.
2
64
uomo quale “Callia”, allora “animale” si dirà anche di “Callia” -, ma indica, più in generale, che ciò che si dice del predicato si dirà anche del soggetto. Nei Topici Aristotele
presenta un caso specifico; qui osserva che qualsiasi tipo di attribuzione che riguardi
l’essenza (genere, specie, differenza specifica) si applichi al predicato, si applicherà anche al soggetto. Il dato importante è che la regola vale solo nel caso di predicati immanenti all’essenza. Non ha peso, pertanto, l’obiezione presentata da Ammonio4, secondo
la quale se è vero che ciò che si dice del predicato si dice anche del soggetto, e poiché
“genere” si predica di “animale” e “animale” di “uomo”, allora anche “genere” si predicherà di “uomo”. La risposta all’obiezione è che questo non è affatto ciò che intende dire Aristotele, il quale pensa a “ciò che si dice del predicato” come a ciò che gli viene attribuito come caratterizzante la sua essenza. Infatti, se qualcosa viene predicato di un
predicato in maniera accidentale, in nessun modo esso potrà anche essere detto del soggetto. Genere, infatti, viene predicato accidentalmente e relativamente di “animale”, e
non in quanto appartiene all’essenza di esso. Si tratta, dunque, della tipologia di attribuzione illustrata come “dirsi di” nella sezione precedente. «La legge cioè che qui si enuncia vale soltanto per il caso della predicazione essenziale e non per quello della predicazione accidentale»5.
Il solo esempio portato da Aristotele per illustrare la regola generale appena presentata riguarda esseri sostanziali, e cioè elementi che appartengono alla categoria della sostanza. “Uomo”, che indica la specie, si dice di un determinato uomo, cioè di un individuo, ad esempio “Callia” o “Socrate”; “animale”, che indica il genere, si dice di “uomo”. “Animale” si dirà, quindi, anche di un determinato uomo. Un determinato uomo,
infatti, è sia uomo, in quanto appartenente a questa specie, sia animale, in quanto appartenente a questo genere6.
Bodéüs7 ricorda come ci si sia lungamente posti l’interrogativo se la conclusione presentata in Categorie 1 b 14 sia effettivamente logicamente cogente. Si tratta della conclusione (C si dice di A) di due premesse (la maggiore: B si dice di A, e la minore: C si
dice di B), in cui il termine medio B si dispone diametricalmente da sinistra a destra
come nel sillogismo di prima figura. Ci si è, tuttavia, chiesti se tale conclusione, valida
dal punto di vista logico, fosse altrettanto vera dal punto di vista ontologico e se
l’espressione “predicarsi di qualcosa come di un soggetto” fosse transitiva e avesse lo
stesso significato in ognuno dei passaggi del ragionamento logico. La subordinazione
della specie al genere, infatti, è un tipo di relazione particolare, diversa, ad esempio, dalla relazione di un elemento con una qualsiasi collettività. In questo caso, tuttavia, sia per
quanto riguarda la specie sia per quanto riguarda il genere, “dirsi di” un soggetto ha nei
due casi lo stesso significato. “Animale” designa un’unità generica che si attribuisce
all’uomo e ad altre specie, analogamente al modo in cui “uomo” designa un’unità specifica che si attribuisce a un determinato uomo e ad altri individui della stessa specie. E
l’individuo risulta essere sia uomo sia animale non perché appartiene a due collettività
separate, di cui l’una più ristretta (la specie) e l’altra più ampia (il genere), ma in quanto
sono esse stesse subordinate l’una all’altra, e che la definizione di uomo (animale razio4
Ammonio, In Cat., 31, 1-12.
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 28, n. 1.
6 «[…] nella definizione, basta fermarsi al genere prossimo, in quanto in questo sono già necessariamente inclusi tutti gli altri generi sotto cui quello prossimo viene sussunto» (Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 28, n. 2).
7 Cfr. Bodéüs, Aristote, Les Catégories…, p. 83, n. 8.
5
65
nale) contiene quella di animale (corpo vivente). Questo concetto è ben espresso nei Topici:
È infatti necessario che i discorsi definitori dei generi si predichino della specie e degli
oggetti che partecipano della specie8.
1.1. I generi non subordinati
Primo caso che Aristotele prende in considerazione: se i generi e i sottogeneri sono
diversi e non sono subordinati l’uno all’altro, anche le differenze specifiche che li riguardano sono diverse. Animale e scienza, ad esempio, sono due generi completamente
diversi e non sono l’uno il sottogenere dell’altro. Le differenze specifiche9 che riguardano l’animale, quali, ad esempio, terrestre, volatile, acquatico e bipede, non sono, pertanto, in alcun modo differenze che possano appartenere alla scienza. Le linee 1 b 16-17
(tîn... ™pist»mh) si leggono, con una variante (˜terîn genîn a posto di ˜terogenîn),
in Topici I, 15, 107 b 19-2010. Nel passo delle Categorie, i generi vengono considerati in
senso relativo, in quanto con il termine “genere” vengono intesi anche il “sottogenere” e
la “specie superiore”11, altrimenti non si capirebbe in quale modo un genere, inteso in
senso stretto, potrebbe essere subordinato a un altro genere. «Generi e specie si pongono
entro due limiti estremi: quello superiore dei generi sommi, che non possono in nessun
modo essere considerati specie di generi ancora più ampi, e quello inferiore delle specie
infime, che non possono in nessun modo essere considerate generi di specie ancora più
ristretti, perché al di sotto di esse non vi sono che gli individui, e cioè esseri che si differenziano tra loro soltanto per numero e non per specie (o, che è lo stesso, per caratteri
accidentali e non per caratteri essenziali). Tra questi due limiti si pongono i generi subalterni che sono specie rispetto ai generi superiori e generi rispetto alle specie inferiori»12.
Come esempi di generi diversi e non subordinati l’uno all’altro, si portano due realtà
appartenenti l’una alla categoria della sostanza (l’animale) e l’altra alla categoria dei relativi (la scienza) e che, pertanto, risultano irriducibili. Per quanto riguarda gli esempi
delle differenze dei sottogeneri dell’animale, Aristotele elenca, dapprima, tre differenze
basate sul luogo (terrestre, volatile, acquatico), e poi inserisce deliberatamente un tipo di
differenza completamente diversa, basata sulla quantità di piedi (bipede), probabilmente, come spiega Ammonio13, con l’intenzione di mostrare come risulti del tutto irrilevante prendere in considerazione un tipo di differenza piuttosto che un altro. “Bipede”
non può essere considerata una differenza specifica propriamente detta né dell’uccello
né dell’uomo, ma un sottogenere comune.
8
Topici IV 2, 122 b 9-10: ¢n£gkh g¦r toÝj tîn genîn lÒgouj kethgore‹sqai toà e‡douj
kaˆ tîn metecÒntwn toà e‡douj.
9 «Differenze sono quei caratteri che, entro uno stesso genere, contraddistinguono le varie
specie. Perciò la definizione di una cosa si ottiene indicandone il genere prossimo e la differenze
specifica» (Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 28, n. 5).
10 Si confronti anche Topici VI 6, 144 b 12-14.
11 Sui rapporti tra generi e specie intesi non in senso tecnico si veda il caso della qualità nella
trattazione del Capitolo 8, Infra, pp. ***.
12 Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 27.
13 Cfr. Ammonio, In Cat., p. 42.
66
In riferimento ai rapporti tra generi e specie, in Topici I 15, 107 b 19-35, Aristotele
presenta due casi che non vengono presi in considerazione nel passo delle Categorie. In
breve, nei Topici, Aristotele mette in correlazione una delle nozioni presentate nel primo
capitolo delle Categorie con la questione dei rapporti tra generi e sottogeneri subordinati
e non subordinati l’uno all’altro presentata in questo terzo capitolo. Si tratta
dell’omonimia che può verificarsi sia per le specie sia per i generi. Nel caso di generi
diversi e non subordinati l’uno all’altro, spiega Aristotele, sono diversi anche i sottogeneri e le differenze; può, tuttavia, capitare che anche ci siano differenze che, pur avendo
lo stesso nome, appartengono a due generi completamente diversi. Ad esempio,
l’“acuto” è un omonimo che appartiene, come differenza, sia alla voce sia agli angoli.
D’altro canto, l’omonimia può anche presentarsi in riferimento al genere. Ad esempio, il
colore è un genere omonimo, in quanto sono differenze del colore sia quelle che riguardano i corpi sia quelle che riguardano le melodie, ma, mentre le differenze del primo tipo consistono in ciò che è in grado di disperdere e di comprimere il flusso della visione,
le differenze del secondo tipo consistono in qualcosa di completamente diverso. Poiché
le differenze dei generi che risultano medesimi devono risultare essere stesse medesime,
nel caso in cui il nome del genere sia lo stesso, ma le differenze siano diverse, ci deve
essere una omonimia. Aristotele precisa, inoltre, che occorre osservare se le nozioni indicate dallo stesso nome siano le stesse oppure non indichino, ad esempio, l’una una
specie e l’altra una differenza. Ad esempio, il chiaro riferito ai corpi è una specie, in
quanto è una sorta di colore, mentre quello riferito alla voce è una differenza, e infatti
una voce differisce dall’altra per la chiarezza o meno del timbro.
1.2. I generi subordinati
Viene qui presentato il secondo caso: se siamo in presenza di uno o più sottogeneri
subordinati allo stesso genere, può capitare che le differenze specifiche siano le stesse.
In questo caso, infatti, il genere superiore si predica del sottogenere, di modo che le differenze del predicato risulteranno essere differenze anche del soggetto. Come ha giustamente sottolineato Bodéüs14, l’assenza di esempi ci potrebbe fare pensare che Aristotele stia presentando un tipo di tesi molto evidente o già trattata precedentemente in altre
lezioni o in altri scritti; in ogni caso, si starebbe rivolgendo a un pubblico che era in
grado di poter capire senza bisogno di esempi. Infatti, se le Categorie rappresentassero
uno scritto di carattere divulgativo, ci sarebbero molti esempi e molte spiegazioni; al
contrario, invece, la forma è, come si può notare, estremamente serrata ed ellittica.
L’affermazione che si trova in 1 b 23-24,
[…] le differenze del predicato lo saranno anche del soggetto15.
corrisponde a una formula molto simile che si trova nel quarto libro dei Topici:
Tutti i generi superiori si predicano di quelli inferiori16
e ha causato una forte difficoltà nell’interpretazione del passo. Il passo indica che, dal
momento che il genere (ad esempio, animale) e la formula attraverso la quale lo si descrive (corpo vivente) possono essere attribuiti alla specie (ad esempio, uomo), allora
14
Bodéüs, Aristote. Catégories…, p. 84, n. 3.
Categorie 3, 1 b 23-24: Ósai toà kathgoroumšnou diafora… e„si tosaàtai kaˆ toà
Øpokeimšnou œsontai.
16 Topici VI, 5, 143 a 21-22, p£nta t¦ ™p£nw gšnh tîn Øpok£tw kathgore‹tai.
15
67
possiamo dire, in termini generali, che il genere e la formula del genere superiore possono essere attribuiti a un genere inferiore. Fin dall’antichità si è lungamente discusso
intorno a tale proposizione. Simplicio17 riporta che Porfirio, Nicostrato, Erminio e i suoi
successori hanno mosso delle obiezioni alla frase aristotelica in questione. Se consideriamo, ad esempio, come genere e sottogenere subordinato, “animale” e “animale razionale”, poiché le differenze di “animale” sono “razionale” e “irrazionale”, non si capisce
come sia possibile che una parte di “animale razionale” sia razionale, mentre un’altra sia
irrazionale; in breve, “irrazionale” non può costituire una differenza di “animale razionale”. Avendo rilevato lo stesso problema, Boezio ha addirittura proposto di emendare
il testo aristotelico, scambiando i termini Øpoke…menon (soggetto) e kathgoroumšnon
(predicato) in Categorie 3, 1 b 23-25 alla maniera seguente:
Di modo che le differenze del soggetto lo saranno anche del predicato.
Poiché il più universale contiene il più particolare, i sottogeneri, le specie e le differenze
appartengono al genere, anche se, nel caso predicato, essi non vengono detti in modo
tanto universale quanto accade nel caso del soggetto. Ad esempio, «razionale» si predica di ogni uomo, ma non di ogni animale; alcuni animali, infatti, sono razionali, e altri
non lo sono. La proposta dell’emendazione si ritrova anche in studiosi moderni, quale
Ackrill18.
Il modo di risolvere l’aporia mi sembra possa risiedere, seguendo Porfirio19 nel distinguere due tipologie di sottogruppi che rientrano in un genere:
1. le differenze “divisive” (diairštikai), ad esempio “razionale” e “irrazionale”,
2. e le differenze “costitutive” (sustatˆkai), ad esempio “sensibile” e “semovente”20.
Le prime dividono il genere: una parte di “animale” è razionale, e un’altra è irrazionale;
non tutte le differenze divisive del predicato, dunque, appartengono anche al soggetto, e,
in ogni caso, non lo sono quelle opposte: se, infatti, “razionale” appartiene all’uomo,
non gli apparterrà, di conseguenza, “irrazionale”. Le differenze costitutive del predicato,
invece, appartengono anche al soggetto: “sensibile” e “semovente”, ad esempio, si predicano sia dell’uomo sia degli animali. La frase
nulla impedisce che le differenze siano le stesse21
significa allora che non tutte le differenze del predicato appartengono al soggetto, ma
solo le differenze costitutive e, delle differenze divisive, solo quelle più proprie a ciò
che è maggiormente particolare. La formula adottata da Aristotele “nulla impedisce” è
alquanto particolare. Ammonio22 sottolinea la correttezza della formula, in quanto i generi subordinati non possiedono necessariamente le stesse differenze. «Ed infatti, per
valerci degli esempi di Boezio, a seconda che differenze di animale siano considerati razionale/irrazionale o erbivoro/carnivoro, esse non varranno o varranno anche per uccel-
17
Cfr. Simplicio, In Cat., 58, 24 ss.
Cfr. Ackrill, Aristotle’s Categories…, p. 77.
19 Cfr. Porfirio, Isagoge, 10, 1-21.
20 Giamblico, fr. 18, vol. 2, p. 14, Dalsgaard Larsen, chiama “generiche” (genik£i) le differenze
costitutive del genere e “specifiche” (e„dik¦i) quelle divisive.
21 Categorie 3, 1 b 21-22.
22 Cfr. Ammonio, In Cat., p. 42.
18
68
lo»23. Infatti, le differenze essenziali dei generi subordinati l’uno all’altro sono sempre
le stesse, ma le differenze accidentali non lo sono altrettanto. Tuttavia, scrivendo che
I generi superiori si predicano dei generi inferiori24
Aristotele sembra non fare alcun distinguo, per cui sia le differenze divisive sia quelle
costitutive dei generi superiori risultano le stesse di quelli inferiori.
2. La regola della predicazione e le dieci categorie
È possibile stabilire una connessione tra questo terzo capitolo e il successivo quarto
capitolo, in cui Aristotele presenterà le dieci categorie. Come argomenta Simplicio25, se
le differenze di alcuni generi presi in considerazione non sono le stesse, e le specie non
sono identiche, allora quei generi risultano diversi tra loro e non subordinati l’uno
all’altro. Allo stesso modo, se si mostra che le differenze e le specie delle dieci categorie sono diverse, allora le categorie risultano generi diversi tra loro e non subordinati
l’uno all’altro. In questo senso, secondo Simplicio, la classificazione preliminare presentata nel capitolo terzo risulterebbe utile alla dottrina delle categorie.
2.1. L’essere e l’uno non sono dei generi
Da questa argomentazione, risulta anche chiaro il motivo per cui non possono in alcun modo essere annoverati tra i generi l’essere e l’uno, in quanto i dieci generi sommi
(categorie) devono essere interamente differenti e non devono avere nulla in comune
l’uno con l’altro. L’essere e l’uno, al contrario, sono comuni a molte cose26.
Come si vedrà nella trattazione della categoria della sostanza, cui rimando27, la caratterizzazione aristotelica della sostanza prima è tesa a negare la sostanzialità di qualsiasi
tipo di universale, da cui segue che neppure l’essere e l’uno possono essere considerati
sostanze. La natura dell’essere e dell’uno è molto simile e vicina. Aristotele tratta
dell’essere e dell’uno come strettamente connessi: essi
sono una medesima ed identica natura, in quanto si implicano reciprocamente l’un
l’altro […]. Infatti, significano la medesima cosa le espressioni “uomo” e “è uomo”; e
non si dice nulla di diverso raddoppiando l’espressione “un uomo” in quest’altra: “è un
uomo”. È evidente, infatti, che l’essere dell’uomo non si separa dall’unità dell’uomo
[…], l’uno non è affatto qualcosa di diverso al di là dell’essere (oÙdOn ›teron tÕ ān
par¦ tÕ Ôn)28.
L’essere e l’uno si implicano necessariamente l’un l’altro; poiché, infatti, qualsiasi tipo
di ente che esiste, esiste in quanto è uno e determinato, l’essere e l’uno devono necessariamente predicarsi di tutte le cose; essi, dunque, risultano essere ciò che c’è di più universale29. Poiché ogni singola cosa è, insieme, una ed essere, la sostanza degli enti non
23
Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 29, n. 6.
Categorie 3, 1 b 22.
25 Cfr. Simplicio, In Cat., 59, 34 - 60, 2.
26 Cfr. Alessandro di Afrodisia, In Top., 301, 19 ss.
27 Cfr. la trattazione della sostanza nel Capitolo 5, Infra, pp. ***.
28 Metafisica G 2, 1003 b 22-32. Cfr. Etica Nicomachea, 1096 a 34 - b 2: «Si potrebbe porre la
questione di che cosa mai essi vogliano dire con “cosa in sé”, dal momento che in “uomo in sé”
e in “uomo” uno e identico è il significato, quello di uomo».
29 Metafisica B 4, 1001 a 20-22: «L’essere e l’uno sono ciò che c’è di più universale».
24
69
può, in alcun modo, consistere nell’essere o nell’uno, perché quest’ultimi, appartenendo
a tutto ciò che esiste, non determinerebbero nulla e non manifesterebbero affatto qualcosa di peculiare alla cosa stessa. A negare il fatto che ciò che è comune possa essere
sostanza interviene anche un fattore, per così dire, “topico”, per cui che è numericamente uno ed individuale non può trovarsi, contemporaneamente, in più luoghi, mentre ciò
che è comune sì, dal momento che appartiene a più cose, che si trovano in posti diversi.
[…] nulla di ciò che è comune è sostanza. La sostanza, infatti, non appartiene a
null’altro se non a se medesima o al soggetto che la possiede e di cui essa è sostanza.
Inoltre, ciò che è uno non può essere ad un tempo in molteplici luoghi; invece, ciò che
è comune si trova ad un tempo in molteplici luoghi30.
Se la negazione della sostanzialità vale per tutto ciò che è comune e per gli universali
quali, come abbiamo visto sopra, i generi e le specie, a fortiori essa vale anche per
l’essere e l’uno, che sono i predicati più universali e che non sono generi, ma essi stessi
si predicano persino dei generi e delle specie, che costituiscono le loro divisioni.
Se nessuno degli universali può essere sostanza […], e se l’essere stesso non può essere
una sostanza nel senso di qualcosa di uno e determinato esistente oltre la molteplicità
delle cose, in quanto esso è a tutte comune (koinÕn), ma è solo un predicato (kathgÒrhma mÒnon): ebbene, allora è evidente che non può essere sostanza neppure l’uno, perché l’essere e l’uno sono i predicati più universali (kaqÒlou kathgore‹tai m£lista
p£ntwn). Pertanto i generi non sono realtà e sostanze separate (χωρισταὶ) dalle altre
cose; e, anzi, l’uno non può nemmeno essere un genere, come non possono esserlo né
l’essere né la sostanza31.
L’uno, l’essere e la sostanza prima non possono essere generi, evidentemente, per
motivi differenti. L’uno e l’essere perché sono tanto universali da predicarsi anche dei
generi stessi e delle specie, oltre che degli individui; la sostanza perché, come si vedrà, è
un tÒde ti ed esprime qualcosa di individuale e di determinato.
30
Metafisica Z 16, 1040 b 23-24.
Metafisica I 2, 1053 b 16-24. Sull’impossibilità che l’essere e l’uno siano generi, cfr. anche:
Metafisica B 3, 998 b 17-28; Metafisica H 6, 1045 b 5-7; Metafisica K 1, 1059 b 27-34; Analitici secondi II 7, 92 b 14; Topici IV 1, 121 a 10-19.
31
70
Capitolo Quarto
Presentazione delle dieci categorie
[25] Tîn kat¦ mhdem…an sumplok¾n legomšnwn ›kaston ½toi oÙs…an shma…nei
À posÕn À poiÕn À prÒj ti À poÝ À potO À ke‹sqai À œcein À poie‹n À p£scein.
œsti dO oÙs…a mOn æj tÚpJ e„pe‹n oŒon ¥nqrwpoj, †ppoj: posÕn dO oŒon d…phcu,
tr…phcu: poiÕn dO oŒon leukÒn, grammatikÒn: prÒj ti dO [2 a 1] oŒon dipl£sion,
¼misu, me‹zon: poÝ dO oŒon ™n Luke…J, ™n ¢gor´: potO dO oŒon cqšj, pšrusin:
ke‹sqai dO oŒon ¢n£keitai, k£qhtai: œcein dO oŒon Øpodšdetai, éplistai: poie‹n dO
oŒon tšmnein, ka…ein: p£scein dO oŒon tšmnesqai, ka…esqai.
[5] ›kaston dO tîn e„rhmšnwn aÙtÕ mOn kaq' aØtÕ ™n oÙdemi´ kataf£sei
lšgetai, tÍ dO prÕj ¥llhla toÚtwn sumplokÍ kat£fasij g…gnetai: ¤pasa g¦r
doke‹ kat£fasij ½toi ¢lhq¾j À yeud¾j enai, tîn dO kat¦ mhdem…an sumplok¾n
legomšnwn oÙdOn oÜte ¢lhqOj oÜte yeàdÒj ™stin, [10] oŒon ¥nqrwpoj, leukÒn,
tršcei, nik´.
[25] Ciascuna delle cose che si dicono senza alcuna connessione indica o una sostanza o una quantità o una qualità o una relazione o un luogo o un tempo o una posizione o un avere o un fare o un subire.
Sostanza è, in un abbozzo, ad esempio, “uomo”, “cavallo”; quantità è, ad esempio,
“di due cubiti”, “di tre cubiti”; qualità è, ad esempio, “bianco”, “grammatico”; relazione
è, [2 a 1] ad esempio, “doppio”, “mezzo”, “maggiore”; luogo è, ad esempio, “al Liceo”,
“in piazza”; tempo è, ad esempio, “ieri”, “l’anno scorso”; posizione è, ad esempio, “sta
disteso”, “sta seduto”; avere è, ad esempio, “porta le scarpe”, “è armato”; fare è, ad esempio, “tagliare”, “bruciare”; patire è, ad esempio, “essere tagliato”, “essere bruciato”.
[5] Ciascuna delle realtà di cui abbiamo detto, considerata per se stessa, non rientra
in nessuna affermazione; è attraverso la connessione reciproca di esse che si ha
l’affermazione. Ogni affermazione, infatti, appare vera oppure falsa, mentre nessuna
delle cose che si dicono senza connessione è vera oppure falsa, come, [10] ad esempio,
“uomo”, “bianco”, “corre”, “vince”.
Sommario
Il capitolo può essere suddiviso in tre parti.
I. Nella prima parte [1 b 25-27], sono elencate le dieci categorie, i generi sommi
che vengono indicati dalle cose dette senza connessione - cioè in sé e per sé
considerate, e non inserite in un discorso apofantico -, e sono: 1. la sostanza
(oÙs…a), 2. la quantità (posÕn), 3. la qualità (poiÕn), 4. la relazione (prÒj ti),
5. il luogo (poÝ), 6. il tempo (potO), 7. la posizione (ke‹sqai), 8. l’avere
(œcein), 9. il fare (poie‹n) e 10. il subire (p£scein).
II. Nella seconda parte [1 b 27 - 2 a 4], Aristotele offre un paio di esempi per ciascuna delle dieci divisioni: 1. per la sostanza: “uomo”, “cavallo” -; 2. per la
quantità: “di due cubiti”, “di tre cubiti”; 3. per la qualità: “bianco”, “grammatico”; 4. per la relazione: “doppio”, “mezzo”, “maggiore”; 5. per il luogo: “al
Liceo”, “in piazza”; 6. per il tempo: “ieri”, “l’anno scorso”; 7. per la posizione: “sta disteso”, “sta seduto”; 8. per l’avere: “porta le scarpe”, “è armato”; 9.
per l’agire: “tagliare”, “bruciare”; 10. per il patire: “essere tagliato”, “essere
bruciato”.
III. Nella terza parte [2 a 5-10] si spiega che le categorie vengono presentate come
«cose che si dicono senza connessione», cioè come i diversi predicati di cui
facciamo uso nel parlare, presi in considerazione per se stessi, separatamente
dai singoli enunciati che possiamo comporre unendoli ad un soggetto. Solo
attraverso la connessione di tali elementi otteniamo delle affermazioni, e solo
intorno alle affermazioni possiamo avere un contenuto di verità o di falsità,
che, invece, non può esserci in riferimento ai singoli elementi presi in se stessi.
1. La presentazione delle dieci categorie
Dopo la quadruplice classificazione degli enti del Capitolo 2, e la presentazione dei
rapporti tra gli elementi uniti dalla predicazione “dirsi di” un soggetto del Capitolo 3,
Aristotele presenta, in questo Capitolo 4, le categorie, in numero di dieci.
Nella precedente sezione, è stato mostrato come la relazione «soggetto-predicato corrisponda a quella specie-genere e come specie e generi si subordinino gli uni agli altri
fino a giungere ai generi sommi. Questi ultimi, proprio perché sommi, potranno fungere
soltanto da predicati; sono dunque i predicati per eccellenza, le categorie, giacché la parola greca categoria non vuol dire altro che predicato»1. Tutti i predicati possibili, infatti, possono essere sussunti sotto dei generi universalissimi, detti, appunto, «generi della
predicazione» (gšnh kathgor…aj o gšnh kathgoriîn) o “predicazioni” per antonomasia, cioè, appunto “categorie”. «Come generi sommi, le categorie sono le sezioni ultime
della realtà, in cui vengono ad incasellarsi, nel loro progressivo moto di ordinamento
secondo rapporti di coordinazione e di subordinazione, tutti i generi e le specie»2.
Il significato delle espressioni “dette senza connessione”, ovvero delle categorie o generi sommi, viene guadagnato, come scrive Simplicio3 attraverso tre vie o, si potrebbe
dire, tre fasi ascendenti, mediante le quali si raggiunge una conoscenza progressivamente più dettagliata:
1. la sola denominazione (Ñnomas…a), come nel semplice elenco delle categorie di
Categorie 4, 1 b 25-27;
2. l’uso degli esempi (Øpodeigm£ta), presentati in Categorie 4, 1 b 27 - 2 a 4, che si
riscontrano nella realtà conosciuta attraverso i sensi;
3. i concetti (œnnoia) che si avviano verso una sistemazione tecnica più accurata.
1
Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 31.
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 31.
3 Cfr. Simplicio, In Cat., 60, 22-30.
2
72
In questo quarto capitolo, Aristotele presenta i dieci generi sommi attraverso la denominazione e l’uso degli esempi, ma, nei capitoli successivi, durante la trattazione dei singoli generi, egli cercherà di attingere ai concetti.
Come espressamente detto nella terza parte del Capitolo4, le categorie sono cose che
si dicono senza connessione, e cioè unità che, prese isolatamente, significano qualcosa,
ma non sono suscettibili di verità o di falsità. Ciascuna delle realtà che rientrano nelle
dieci categorie,
considerata per se stessa, non rientra in nessuna affermazione (™n oÙdemi´ kataf£sei)5.
Il termine qui utilizzato per affermazione è kat£fasij, ed è usato nel suo significato
generico ed equivale al discorso apofantico o predicativo; perciò non esclude, ma include la negazione (¢pÒfasij). Si tratta della tesi esposta, in altri termini, nel quarto capitolo del De Interpretatione:
«una parte [del discorso], se separata, è indicativa qualche cosa… ma mai a titolo di
affermazione. Intendo dire che “uomo”, ad esempio, significa qualcosa, ma non che
questo qualcosa è oppure non è»6.
Le affermazioni, diversamente dalle cose dette senza connessione, hanno un valore di
verità. Non tutto ciò che si dice secondo connessione, tuttavia, è necessario che sia vero
oppure falso. Come viene spiegato in modo più diffuso nel De Interpretatione7, non tutti
i discorsi risultano dichiarativi, ma soltanto quelli in cui sussiste un’enunciazione vera
oppure falsa. La preghiera, ad esempio, è sì un discorso, ma non un’enunciazione cui
possa essere attribuita la verità o la falsità8. Come sottolinea Bodéüs9, le distinzioni categoriali, corrispondenti alle cose che vengono dette senza connessione, vengono presentate in contrasto con la distinzione tra il vero e il falso, che sussistono solo nel momento in cui ha luogo una connessione. Questo contrasto richiama il modo in cui, in
Metafisica D 7, vengono presentati i quattro significati dell’essere: lo studio delle categorie si limita esclusivamente all’essere considerato in sé, e non considera gli altri tre
significati, non solo l’essere vero e il non-essere come falso, ma anche l’essere come
accidente, l’essere in potenza e l’essere in atto.
1.1. Gli esempi addotti per ciascuna delle dieci categorie
«Nota Boezio che le categorie, essendo generi sommi, non possono venir definite,
perché definire significa ricondurre una cosa al suo genere prossimo, indicandone poi la
differenza specifica. Ecco perché Aristotele, per caratterizzarle, ricorre a degli esempi;
più tardi, nella trattazione specifica che dedicherà a ciascuna di esse, si varrà, per lo
stesso fine, di alcune proprietà fondamentali»10.
4
Cfr. Categorie 4, 2 a 4-10.
Categorie 4, .
6 De Interpretatione 4, 16 b 26-29.
7 Cfr. De Interpretatione 4, 17 a 2-3.
8 Per la trattazione delle cose dette senza connessione e la loro non suscettibilità di verità e di
falsità, si veda la trattazione del Capitolo 2, Infra, pp. ***. Intorno al vero e all’errore, si vedano
Metafisica E 4 e Q 10.
9 Cfr. Bodéüs, Aristote. Categories…, p. 87, n. 9.
10 Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 31-32, n. 1.
5
73
Aristotele presenta, come esempi della prima categoria, due elementi che rientrano
nel primo dei quattro gruppi che abbiamo analizzato: sono, cioè, sostanze “universali”,
o meglio, come si vedrà nel Capitolo 5, di “sostanze seconde”11. Non è certo un caso
che lo Stagirita non indichi qui nessuna sostanza particolare, appartenente al quarto
gruppo, poiché, come abbiamo avuto modo di esplicare, tra le cose che non sono in un
sostrato, solo le sostanze universali possono legittimamente fungere da predicati. Gli individui, infatti, non sono predicabili, perché non determinano, ma sono determinati; non
definiscono, ma sono definiti. Essi guadagnano il loro posto all’interno della trattazione
delle categorie perché, impropriamente, nel linguaggio, e, precisamente, nella predicazione accidentale, possono eccezionalmente assumere il ruolo di predicato, ma, soprattutto, perché tutte le categorie fanno necessario riferimento a dei soggetti, che sono gli
individui. Questa osservazione si rivelerà di grande importanza nel momento in cui affronteremo la distinzione tra sostanze prime e sostanze seconde e il rapporto che intercorre tra la sostanza e gli accidenti12.
I due esempi indicati per la categoria del luogo ricordano quelli utilizzati in Fisica
IV, 219 b 20-21:
I sofisti ritengono che un Corisco sia al Liceo e un altro Corisco sia in piazza (oƒ sofistaˆ lamb£nousin ›teron tÕ Kor…skon ™n Luke…J enai kaˆ tÕ Kor…skon ™n
¢gor´).
Gli esempi dell’avere qui riportati fanno riferimento solo a dei casi particolari
dell’avere inteso in generale, che possiede diversi significati, come si legge in Metafisica D 23, 1023 a 8-25. L’avere potrebbe essere connesso non solo a ciò che si indossa,
ma anche all’aspetto esterno di una persona, come l’avere il sorriso o l’avere un’aria assonnata.
Gli esempi riportati nel caso della categoria del subire riguardano le operazioni mediche e chirurgiche, descrivono delle azioni esercitate su un paziente o subite da un paziente nel senso medico del termine. Lo stesso tipo di esempi si trova in Topici III 1,
116 b 8-9.
2. Obiezioni degli interpreti alla divisione delle categorie
Sulla divisione delle categorie nel numero di dieci, molti interpreti, fin dall’antichità,
hanno discusso intorno alla scelta del numero. Seguendo Simplicio13, potremmo dividere le obiezioni che venivano mosse nell’antichità in tre grandi gruppi:
1. numero eccessivo delle divisioni;
2. numero difettivo;
3. introduzione di alcuni generi a posto di altri.
Ci sono stati anche alcuni che hanno mosso, nello stesso tempo, due di queste obiezioni.
1.1. Tra coloro che rimproverano ad Aristotele di aver posto un numero eccessivo di
divisioni14, ci sono alcuni che dicono che egli ha commesso un errore nell’opporre
l’agire (tÕ poie‹n) al patire (tÕ p£scein), dal momento che entrambi potrebbero essere
riportati al singolo genere sommo del movimento. A tale obiezione Simplicio, seguendo
11
Cfr. Infra, pp. ***.
Cfr. Infra, pp. ***.
13 Cfr. Simplicio, In Cat., 62, 30 - 63, 5; si veda anche Porfirio, In Cat., 86, 22 - 24.
14 Cfr. Dessippo, In Cat., 30, 35 - 31, 2.
12
74
Dessippo15, risponde che ciò che agisce, in quanto appunto agisce, è causa di movimento per la cosa su cui agisce, ma in se stesso resta immobile e non subisce nulla. L’essere
mosso ricade nella sfera del patire, mentre ciò che muove restando immobile cade nella
sfera dell’agire. Accade, tuttavia, che alcune entità che agiscono e che si trovano
nell’ambito sensibile si muovano accidentalmente, e questo perché esse contengono in
se stesse entrambi gli elementi: quello del muovere e quello dell’essere mosso, ed essi
possono talora coincidere e avvenire simultaneamente.
1.2. Altri interpreti, che Simplicio16 addita in Senocrate, in Andronico e nei loro seguaci, hanno mosso ad Aristotele l’accusa di eccesso e superfluità apportando una motivazione diversa dalla precedente.
1.2.1. Tra questi, alcuni includono tutte le dieci categorie in due grandi generi: quello
delle cose che sono per sé (kaq\aØt¦) e quello delle cose relative (prÒj ti) e, pertanto,
considerano eccessivo, da questo punto di vista, il numero di generi presentato dallo
Stagirita.
1.2.1 Altri includono tutte le dieci categorie in due grandi generi, diversi dai precedenti, e cioè, da un lato, nel genere della sostanza (oÙs…a)17 e, dall’altro, nel genere
dell’accidente. Si tratta di generi che possono essere sovrapposti ai precedenti, in quanto
ciò che è in primo luogo e in massimo grado per sé è la sostanza, e ciò che è relativo e
non può esistere se non in relazione a qualcosa di altro da sé è l’accidente. Tali divisioni
dicotomiche toccano in qualche modo una distinzione che non si distanzia da quella aristotelica, e in questo non si può dire che essi siano in errore, ma soltanto che riportano
una tesi parziale, in quanto uniscono in una sola classe le nove categorie non sostanziali.
Tali interpreti, tuttavia, hanno trascurato la distinzione tra universale e particolare, e in
questo hanno proposto una lettura scorretta della dottrina aristotelica18.
2. Il secondo gruppo di interpreti, che Simplicio19 presenta come i seguaci di Nicostrato, obietta che la divisione aristotelica in dieci categorie sia incompleta. Essi si chiedono, infatti, come mai se, da un lato, Aristotele distingue l’agire dal patire, non distingua anche il possesso dall’essere posseduto. A tale obiezione si deve rispondere che Aristotele non ha semplicemente omesso la distinzione da loro proposta, ma ha attribuito
l’“essere posseduto” alla categoria dell’“essere in una posizione”. Poniamo, ad esempio,
che qualcuno abbia (porti) uno scudo: si può dire che lo scudo viene posseduto (portato)
perché si trova in una certa posizione; la posizione, dunque, non è altro che una disposizione delle cose che sono possedute.
3. Il terzo gruppo di interpreti obietta ad Aristotele di aver introdotto alcune categorie
a posto di altre. La categoria di movimento, ad esempio, avrebbe potuto sostituire quelle
di agire e patire. A tali interpreti si deve rispondere che la potenza e l’attualità devono
essere pensate come omonimicamente attribuite all’interno delle diverse categorie. Il
movimento, procedendo dalla potenza all’atto, si declina diversamente a seconda che si
situi all’interno dell’area della qualità (alterazione) piuttosto che della quantità (aumento
15
Cfr. Simplicio, In Cat., 31, 6.
Cfr. Simplicio, In Cat., 63, 22 ss.
17 Come sottolinea J. Dillon, in Dexippus, On Aristotle Categories…, p. 64, n. 112, è interessante notare come Dessippo traduca il termine greco oÙs…a usato da Aristotele e dagli interpreti di
cui si sta riportando il pensiero con il termine Øpoke…menon (soggetto), che pure si trova in Aristotele e che è diventato il termine stoico per indicare la sostanza.
18 Cfr. Dessippo, In Cat., 31, 15-19; Simplicio, In Cat., 63, 22 ss.
19 Cfr. Simplicio, In Cat., In Cat., 64, 13.
16
75
e diminuzione) o di qualsiasi altra categoria. Essendo comune alle diverse categorie,
non è possibile fare del movimento una determinata categoria. E neppure l’opposto del
movimento, la quiete, può essere una determinata categoria, perché essa, propriamente
parlando, non appartiene al mondo sensibile e alle realtà generate, ma al mondo soprasensibile e intellegibile20.
Gli Stoici, dal canto loro, ritengono che il numero dei generi sommi possa essere ridotto a quattro:
1. i sostrati (Øpoke…mena),
2. i qualificati (po…a),
3. le realtà disposte in un determinato modo (pwj œconta),
4. i relativi (prÒj ti pwj œconta).
Le categorie della quantità, del tempo e del luogo vengono incluse nella categoria
delle realtà disposte in un determinato modo, perché, ad esempio, “di tre cubiti”,
“l’anno scorso”, “nel Liceo”, “essere seduto” non sono che modi diversi della disposizione. Nessuna di queste categorie, tuttavia, come rivela giustamente21 Dessippo,
può essere omessa per essere classificata nel comune sommo genere della “disposizione”.
20
Sulla quiete come possibile categoria, si veda anche Dessippo, In Cat., I, 39, 34, 17-19; Plotino, Enneadi VI, 1, 25 ss.
21 Cfr. Dessippo, In Cat., 34, 20 ss.
76
Capitolo Quinto
La sostanza
OÙs…a dš ™stin ¹ kuriètat£ te kaˆ prètwj kaˆ m£lista legomšnh, ¿ m»te kaq'
Øpokeimšnou tinÕj lšgetai m»te ™n ØpokeimšnJ tin… ™stin, oŒon Ð tˆj ¥nqrwpoj À Ð
tˆj †ppoj. deÚterai dO oÙs…ai lšgontai, ™n oŒj e‡desin aƒ prètwj oÙs…ai legÒmenai
Øp£rcousin, taàt£ te kaˆ t¦ tîn e„dîn toÚtwn gšnh: oŒon Ð tˆj ¥nqrwpoj ™n e‡dei
mOn Øp£rcei tù ¢nqrèpJ, gšnoj dO toà e‡douj ™stˆ tÕ zùon: deÚterai oân aátai
lšgontai oÙs…ai, oŒon Ó te ¥nqrwpoj kaˆ tÕ zùon. - fanerÕn dO ™k tîn e„rhmšnwn
Óti tîn kaq' Øpokeimšnou legomšnwn ¢nagka‹on kaˆ toÜnoma kaˆ tÕn lÒgon kathgore‹sqai toà Øpokeimšnou: oŒon ¥nqrwpoj kaq' Øpokeimšnou lšgetai toà tinÕj
¢nqrèpou, kaˆ kathgore‹ta… ge toÜnoma, - tÕn g¦r ¥nqrwpon kat¦ toà tinÕj
¢nqrèpou kathgor»seij: - kaˆ Ð lÒgoj dO toà ¢nqrèpou kat¦ toà tinÕj ¢nqrèpou
kathgorhq»setai, - Ð g¦r tˆj ¥nqrwpoj kaˆ ¥nqrwpÒj ™stin: - éste kaˆ toÜnoma
kaˆ Ð lÒgoj kat¦ toà Øpokeimšnou kathgorhq»setai. tîn d' ™n ØpokeimšnJ Ôntwn
™pˆ mOn tîn ple…stwn oÜte toÜnoma oÜte Ð lÒgoj kathgore‹tai toà Øpokeimšnou:
™p' ™n…wn dO toÜnoma mOn oÙdOn kwlÚei kathgore‹sqai toà Øpokeimšnou, tÕn dO
lÒgon ¢dÚnaton: oŒon tÕ leukÕn ™n ØpokeimšnJ ×n tù sèmati kathgore‹tai toà
Øpokeimšnou, - leukÕn g¦r sîma lšgetai, - Ð dO lÒgoj toà leukoà oÙdšpote kat¦
toà sèmatoj kathgorhq»setai. - t¦ d' ¥lla p£nta ½toi kaq' Øpokeimšnwn lšgetai
tîn prètwn oÙsiîn À ™n Øpokeimšnaij aÙta‹j ™st…n. toàto dO fanerÕn ™k tîn kaq'
›kasta proceirizomšnwn: oŒon tÕ zùon kat¦ toà ¢nqrèpou kathgore‹tai, oÙkoàn
kaˆ kat¦ toà tinÕj ¢nqrèpou, - e„ g¦r kat¦ mhdenÕj tîn tinîn ¢nqrèpwn, oÙdO
kat¦ ¢nqrèpou Ólwj: - p£lin tÕ crîma ™n sèmati, oÙkoàn kaˆ ™n tinˆ sèmati: e„
g¦r m¾ ™n tinˆ tîn kaq' ›kasta, oÙdO ™n sèmati Ólwj: éste t¦ ¥lla p£nta ½toi
kaq' Øpokeimšnwn tîn prètwn oÙsiîn lšgetai À ™n Øpokeimšnaij aÙta‹j ™st…n. m¾
oÙsîn oân tîn prètwn oÙsiîn ¢dÚnaton tîn ¥llwn ti enai: p£nta g¦r t¦ ¥lla
½toi kaq' Øpokeimšnwn toÚtwn lšgetai À ™n Øpokeimšnaij aÙta‹j ™st…n: éste m¾
oÙsîn tîn prètwn oÙsiîn ¢dÚnaton tîn ¥llwn ti enai.
Tîn dO deutšrwn oÙsiîn m©llon oÙs…a tÕ edoj toà gšnouj: œggion g¦r tÁj
prèthj oÙs…aj ™st…n. ™¦n g¦r ¢podidù tij t¾n prèthn oÙs…an t… ™sti, gnwrimèteron kaˆ o„keiÒteron ¢podèsei tÕ edoj ¢podidoÝj À tÕ gšnoj: oŒon tÕn tin¦
¥nqrwpon gnwrimèteron ¨n ¢podo…h ¥nqrwpon ¢podidoÝj À zùon, - tÕ mOn g¦r
‡dion m©llon toà tinÕj ¢nqrèpou, tÕ dO koinÒteron, - kaˆ tÕ tˆ dšndron ¢podidoÝj
gnwrimèteron ¢podèsei dšndron ¢podidoÝj À futÒn.
œti aƒ prîtai oÙs…ai di¦ tÕ to‹j ¥lloij ¤pasin Øpoke‹sqai kaˆ p£nta t¦ ¥lla
kat¦ toÚtwn kathgore‹sqai À ™n taÚtaij enai di¦ toàto m£lista oÙs…ai
lšgontai: æj dš ge aƒ prîtai oÙs…ai prÕj t¦ ¥lla œcousin, oÛtw kaˆ tÕ edoj prÕj
tÕ gšnoj œcei: - ØpÒkeitai g¦r tÕ edoj tù gšnei: t¦ mOn g¦r gšnh kat¦ tîn e„dîn
kathgore‹tai, t¦ dO e‡dh kat¦ tîn genîn oÙk ¢ntistršfei: - éste kaˆ ™k toÚtwn
tÕ edoj toà gšnouj m©llon oÙs…a. - aÙtîn dO tîn e„dîn Ósa m» ™sti gšnh, oÙdOn
m©llon ›teron ˜tšrou oÙs…a ™st…n: oÙdOn g¦r o„keiÒteron ¢podèsei kat¦ toà
tinÕj ¢nqrèpou tÕn ¥nqrwpon ¢podidoÝj À kat¦ toà tinÕj †ppou tÕn †ppon.
æsaÚtwj dO kaˆ tîn prètwn oÙsiîn oÙdOn m©llon ›teron ˜tšrou oÙs…a ™st…n:
oÙdOn g¦r m©llon Ð tˆj ¥nqrwpoj oÙs…a À Ð tˆj boàj.
E„kÒtwj dO met¦ t¦j prètaj oÙs…aj mÒna tîn ¥llwn t¦ e‡dh kaˆ t¦ gšnh
deÚterai oÙs…ai lšgontai: mÒna g¦r dhlo‹ t¾n prèthn oÙs…an tîn
kathgoroumšnwn: tÕn g¦r tin¦ ¥nqrwpon ™¦n ¢podidù tij t… ™stin, tÕ mOn edoj À
tÕ gšnoj ¢podidoÝj o„ke…wj ¢podèsei, - kaˆ gnwrimèteron poi»sei ¥nqrwpon À
zùon ¢podidoÚj: - tîn d' ¥llwn Ó ti ¨n ¢podidù tij, ¢llotr…wj œstai ¢podedwkèj,
oŒon leukÕn À tršcei À Ðtioàn tîn toioÚtwn ¢podidoÚj: éste e„kÒtwj taàta mÒna
tîn ¥llwn oÙs…ai lšgontai. œti aƒ prîtai oÙs…ai di¦ tÕ to‹j ¥lloij ¤pasin
Øpoke‹sqai kuriètata oÙs…ai lšgontai: æj dš ge aƒ prîtai oÙs…ai prÕj t¦ ¥lla
p£nta œcousin, oÛtw t¦ e‡dh kaˆ t¦ gšnh tîn prètwn oÙsiîn prÕj t¦ loip¦ p£nta
œcei: kat¦ toÚtwn g¦r p£nta t¦ loip¦ kathgore‹tai: tÕn g¦r tin¦ ¥nqrwpon ™re‹j
grammatikÒn, oÙkoàn kaˆ ¥nqrwpon kaˆ zùon grammatikÕn ™re‹j: æsaÚtwj dO kaˆ
™pˆ tîn ¥llwn.
KoinÕn dO kat¦ p£shj oÙs…aj tÕ m¾ ™n ØpokeimšnJ enai. ¹ mOn g¦r prèth
oÙs…a oÜte kaq' Øpokeimšnou lšgetai oÜte ™n ØpokeimšnJ ™st…n. tîn dO deutšrwn
oÙsiîn fanerÕn mOn kaˆ oÛtwj Óti oÙk e„sˆn ™n ØpokeimšnJ: Ð g¦r ¥nqrwpoj kaq'
Øpokeimšnou mOn toà tinÕj ¢nqrèpou lšgetai, ™n ØpokeimšnJ dO oÙk œstin, - oÙ
g¦r ™n tù tinˆ ¢nqrèpJ Ð ¥nqrwpÒj ™stin: - æsaÚtwj dO kaˆ tÕ zùon kaq'
Øpokeimšnou mOn lšgetai toà tinÕj ¢nqrèpou, oÙk œsti dO tÕ zùon ™n tù tinˆ
¢nqrèpJ. œti dO tîn ™n ØpokeimšnJ Ôntwn tÕ mOn Ônoma oÙdOn kwlÚei kathgore‹sqa… pote toà Øpokeimšnou, tÕn dO lÒgon ¢dÚnaton: tîn dO deutšrwn oÙsiîn
kathgore‹tai kaˆ Ð lÒgoj kat¦ toà Øpokeimšnou kaˆ toÜnoma, - tÕn g¦r toà
¢nqrèpou lÒgon kat¦ toà tinÕj ¢nqrèpou kathgor»seij kaˆ tÕn toà zóou. - éste
oÙk ¨n e‡h oÙs…a tîn ™n ØpokeimšnJ. - oÙk ‡dion dO oÙs…aj toàto, ¢ll¦ kaˆ ¹ diafor¦ tîn m¾ ™n ØpokeimšnJ ™st…n: tÕ g¦r pezÕn kaˆ tÕ d…poun kaq' Øpokeimšnou
mOn lšgetai toà ¢nqrèpou, ™n ØpokeimšnJ dO oÙk œstin, - oÙ g¦r ™n tù ¢nqrèpJ
™stˆ tÕ d…poun oÙdO tÕ pezÒn. - kaˆ Ð lÒgoj dO kathgore‹tai Ð tÁj diafor©j kaq'
oá ¨n lšghtai ¹ diafor£: oŒon e„ tÕ pezÕn kat¦ ¢nqrèpou lšgetai, kaˆ Ð lÒgoj toà
pezoà kathgorhq»setai toà ¢nqrèpou, - pezÕn g£r ™stin Ð ¥nqrwpoj. - m¾
tarattštw dO ¹m©j t¦ mšrh tîn oÙsiîn æj ™n Øpokeimšnoij Ônta to‹j Óloij, m»
pote ¢nagkasqîmen oÙk oÙs…aj aÙt¦ f£skein enai: oÙ g¦r oÛtw t¦ ™n
ØpokeimšnJ ™lšgeto t¦ æj mšrh Øp£rconta œn tini.
`Up£rcei dO ta‹j oÙs…aij kaˆ ta‹j diafora‹j tÕ p£nta sunwnÚmwj ¢p' aÙtîn
lšgesqai: p©sai g¦r aƒ ¢pÕ toÚtwn kathgor…ai ½toi kat¦ tîn ¢tÒmwn kathgoroàntai À kat¦ tîn e„dîn. ¢pÕ mOn g¦r tÁj prèthj oÙs…aj oÙdem…a ™stˆ kathgor…a, - kat' oÙdenÕj g¦r Øpokeimšnou lšgetai: - tîn dO deutšrwn oÙsiîn tÕ mOn
edoj kat¦ toà ¢tÒmou kathgore‹tai, tÕ dO gšnoj kaˆ kat¦ toà e‡douj kaˆ kat¦
toà ¢tÒmou: æsaÚtwj dO kaˆ aƒ diaforaˆ kaˆ kat¦ tîn e„dîn kaˆ kat¦ tîn
¢tÒmwn kathgoroàntai. kaˆ tÕn lÒgon dO ™pidšcontai aƒ prîtai oÙs…ai tÕn tîn
e„dîn kaˆ tÕn tîn genîn, kaˆ tÕ edoj dO tÕn toà gšnouj. - Ósa g¦r kat¦ toà
kathgoroumšnou lšgetai, kaˆ kat¦ toà Øpokeimšnou ·hq»setai: - æsaÚtwj dO kaˆ
tÕn tîn diaforîn lÒgon ™pidšcetai t£ te e‡dh kaˆ t¦ ¥toma: sunènuma dš ge Ãn
ïn kaˆ toÜnoma koinÕn kaˆ Ð lÒgoj Ð aÙtÒj. éste p£nta t¦ ¢pÕ tîn oÙsiîn kaˆ
tîn diaforîn sunwnÚmwj lšgetai.
P©sa dO oÙs…a doke‹ tÒde ti shma…nein. ™pˆ mOn oân tîn prètwn oÙsiîn
¢namfisb»thton kaˆ ¢lhqšj ™stin Óti tÒde ti shma…nei: ¥tomon g¦r kaˆ kn ¢riqmù
tÕ dhloÚmenÒn ™stin. ™pˆ dO tîn deutšrwn oÙsiîn fa…netai mOn Ðmo…wj tù sc»mati
78
tÁj proshgor…aj tÒde ti shma…nein, Ótan e‡pV ¥nqrwpon À zùon: oÙ m¾n ¢lhqšj ge,
¢ll¦ m©llon poiÒn ti shma…nei, - oÙ g¦r ›n ™sti tÕ Øpoke…menon ésper ¹ prèth
oÙs…a, ¢ll¦ kat¦ pollîn Ð ¥nqrwpoj lšgetai kaˆ tÕ zùon: - oÙc ¡plîj dO poiÒn
ti shma…nei, ésper tÕ leukÒn: oÙdOn g¦r ¥llo shma…nei tÕ leukÕn ¢ll' À poiÒn, tÕ
dO edoj kaˆ tÕ gšnoj perˆ oÙs…an tÕ poiÕn ¢for…zei, - poi¦n g£r tina oÙs…an
shma…nei. - ™pˆ ple‹on dO tù gšnei À tù e‡dei tÕn ¢forismÕn poie‹tai: Ð g¦r zùon
e„pën ™pˆ ple‹on perilamb£nei À Ð tÕn ¥nqrwpon.
`Up£rcei dO ta‹j oÙs…aij kaˆ tÕ mhdOn aÙta‹j ™nant…on enai. tÍ g¦r prètV
oÙs…v t… ¨n e‡h ™nant…on; oŒon tù tinˆ ¢nqrèpJ oÙdšn ™stin ™nant…on, oÙdš ge tù
¢nqrèpJ À tù zóJ oÙdšn ™stin ™nant…on. oÙk ‡dion dO tÁj oÙs…aj toàto, ¢ll¦ kaˆ
™p' ¥llwn pollîn oŒon ™pˆ toà posoà: tù g¦r dip»cei oÙdšn ™stin ™nant…on, oÙdO
to‹j dška, oÙdO tîn toioÚtwn oÙden…, e„ m» tij tÕ polÝ tù Ñl…gJ fa…h ™nant…on
enai À tÕ mšga tù mikrù: tîn dO ¢fwrismšnwn posîn oÙdOn oÙdenˆ ™nant…on
™st…n.
Doke‹ dO ¹ oÙs…a oÙk ™pidšcesqai tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton: lšgw dO oÙc Óti
oÙs…a oÙs…aj oÙk œsti m©llon oÙs…a,- toàto mOn g¦r e‡rhtai Óti œstin, - ¢ll' Óti
˜k£sth oÙs…a toàq' Óper ™stˆn oÙ lšgetai m©llon kaˆ Âtton: oŒon e„ œstin aÛth ¹
oÙs…a ¥nqrwpoj, oÙk œstai m©llon kaˆ Âtton ¥nqrwpoj, oÜte aÙtÕj aØtoà oÜte
›teroj ˜tšrou. oÙ g£r ™stin ›teroj ˜tšrou m©llon ¥nqrwpoj, ésper tÕ leukÒn
™stin ›teron ˜tšrou m©llon leukÒn, kaˆ kalÕn ›teron ˜tšrou m©llon: kaˆ aÙtÕ dO
aØtoà m©llon kaˆ Âtton lšgetai, oŒon tÕ sîma leukÕn ×n m©llon leukÕn lšgetai
nàn À prÒteron, kaˆ qermÕn ×n m©llon qermÕn kaˆ Âtton lšgetai: ¹ dš ge oÙs…a
oÙdOn lšgetai, - oÙdO g¦r ¥nqrwpoj m©llon nàn ¥nqrwpoj À prÒteron lšgetai,
oÙdO tîn ¥llwn oÙdšn, Ósa ™stˆn oÙs…a: - éste oÙk ¨n ™pidšcoito ¹ oÙs…a tÕ
m©llon kaˆ Âtton.
M£lista dO ‡dion tÁj oÙs…aj doke‹ enai tÕ taÙtÕn kaˆ ān ¢riqmù ×n tîn
™nant…wn enai dektikÒn: oŒon ™pˆ mOn tîn ¥llwn oÙdenÕj ¨n œcoi tij proenegke‹n
[Ósa m» ™stin oÙs…a], Ö ān ¢riqmù ×n tîn ™nant…wn dektikÒn ™stin: oŒon tÕ crîma,
Ó ™stin ān kaˆ taÙtÕn ¢riqmù, oÙk œstai leukÕn kaˆ mšlan, oÙdO ¹ aÙt¾ pr©xij
kaˆ m…a tù ¢riqmù oÙk œstai faÚlh kaˆ spouda…a, æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn
¥llwn, Ósa m» ™stin oÙs…a. ¹ dš ge oÙs…a ān kaˆ taÙtÕn ¢riqmù ×n dektikÕn tîn
™nant…wn ™st…n: oŒon Ð tˆj ¥nqrwpoj, eŒj kaˆ Ð aÙtÕj ên, ÐtO mOn leukÕj ÐtO dO
mšlaj g…gnetai, kaˆ qermÕj kaˆ yucrÒj, kaˆ faàloj kaˆ spouda‹oj. ™pˆ dO tîn
¥llwn oÙdenÕj fa…netai tÕ toioàton, e„ m» tij ™n…staito tÕn lÒgon kaˆ t¾n dÒxan
f£skwn tîn toioÚtwn enai: Ð g¦r aÙtÕj lÒgoj ¢lhq»j te kaˆ yeud¾j enai doke‹,
oŒon e„ ¢lhq¾j e‡h Ð lÒgoj tÕ kaqÁsqa… tina, ¢nast£ntoj aÙtoà Ð aÙtÕj oátoj
yeud¾j œstai: æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tÁj dÒxhj: e„ g£r tij ¢lhqîj dox£zoi tÕ
kaqÁsqa… tina, ¢nast£ntoj aÙtoà yeudîj dox£sei t¾n aÙt¾n œcwn perˆ aÙtoà
dÒxan. e„ dš tij kaˆ toàto paradšcoito, ¢ll¦ tù ge trÒpJ diafšrei: t¦ mOn g¦r ™pˆ
tîn oÙsiîn aÙt¦ metab£llonta dektik¦ tîn ™nant…wn ™st…n, - yucrÕn g¦r ™k
qermoà genÒmenon metšbalen [ºllo…wtai g£r], kaˆ mšlan ™k leukoà kaˆ spouda‹on
™k faÚlou, æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn ›kaston aÙtÕ metabol¾n decÒmenon
tîn ™nant…wn dektikÒn ™stin: - Ð dO lÒgoj kaˆ ¹ dÒxa aÙt¦ mOn ¢k…nhta p£ntV
p£ntwj diamšnei, toà dO pr£gmatoj kinoumšnou tÕ ™nant…on perˆ aÙt¦ g…gnetai: Ð
mOn g¦r lÒgoj diamšnei Ð aÙtÕj tÕ kaqÁsqa… tina, toà dO pr£gmatoj kinhqšntoj
ÐtO mOn ¢lhq¾j ÐtO dO yeud¾j g…gnetai: æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tÁj dÒxhj. éste tù
trÒpJ ge ‡dion ¨n e‡h tÁj oÙs…aj tÕ kat¦ t¾n aØtÁj metabol¾n dektik¾n tîn
™nant…wn enai, - e„ d» tij kaˆ taàta paradšcoito, t¾n dÒxan kaˆ tÕn lÒgon dektik¦ tîn ™nant…wn enai. oÙk œsti dO ¢lhqOj toàto: Ð g¦r lÒgoj kaˆ ¹ dÒxa oÙ tù
79
aÙt¦ dšcesqa… ti tîn ™nant…wn enai dektik¦ lšgetai, ¢ll¦ tù perˆ ›terÒn ti tÕ
p£qoj gegenÁsqai: - tù g¦r tÕ pr©gma enai À m¾ enai, toÚtJ kaˆ Ð lÒgoj ¢lhq¾j
À yeud¾j enai lšgetai, oÙ tù aÙtÕn dektikÕn enai tîn ™nant…wn: ¡plîj g¦r
oÙdOn Øp' oÙdenÕj oÜte Ð lÒgoj kine‹tai oÜte ¹ dÒxa, éste oÙk ¨n e‡h dektik¦ tîn
™nant…wn mhdenÕj ™n aÙto‹j gignomšnou: - ¹ dš ge oÙs…a tù aÙt¾n t¦ ™nant…a
dšcesqai, toÚtJ dektik¾ tîn ™nant…wn lšgetai: nÒson g¦r kaˆ Øg…eian dšcetai,
kaˆ leukÒthta kaˆ melan…an, kaˆ ›kaston tîn toioÚtwn aÙt¾ decomšnh tîn
™nant…wn enai dektik¾ lšgetai. éste ‡dion ¨n oÙs…aj e‡h tÕ taÙtÕn kaˆ ān ¢riqmù
×n dektikÕn enai tîn ™nant…wn. perˆ mOn oân oÙs…aj tosaàta e„r»sqw.
Sostanza, nel senso più proprio e in primo luogo e soprattutto, è quella che non si dice di nessun soggetto né è in nessun soggetto, come, ad esempio, un determinato uomo
o un determinato cavallo.
Sostanze seconde, invece, si dicono le specie cui appartengono le sostanze dette
prime, e i generi di queste specie. Un determinato uomo, ad esempio, appartiene alla
specie uomo, e il genere di questa specie è l’animale. Queste, dunque, come l’uomo e
l’animale, si dicono sostanze seconde. Per quanto detto, risulta evidente che, delle cose
che si dicono di un soggetto, è necessario che sia il nome sia la definizione si predichino
del soggetto. Uomo, ad esempio, si dice di un soggetto, cioè un determinato uomo, e si
predica il nome - predicherai, infatti, l’uomo di un determinato uomo - ed anche la definizione dell’uomo sarà predicata di un determinato uomo; un determinato uomo, infatti,
è uomo, cosicché sia il nome sia la definizione saranno predicate del soggetto.
Delle cose che, invece, sono in un soggetto, per lo più né il nome né la definizione si
predicano del soggetto. Tuttavia, per alcune di esse, nulla impedisce che il nome si predichi del soggetto, mentre resta impossibile che venga predicata la definizione. Il bianco, ad esempio, pur essendo in un soggetto, e cioè nel corpo, si predica del soggetto - un
corpo, infatti, si dice bianco -, ma la definizione di bianco non si predicherà mai del
corpo.
Tutte le altre cose o si dicono delle sostanze prime come di soggetti o sono in queste
come in soggetti. Questo risulterà evidente attraverso gli esempi che prendiamo in considerazione per ciascuno dei casi. Animale, ad esempio, si predica dell’uomo, e, quindi,
anche di un determinato uomo; se, infatti, non si predicasse di nessun determinato uomo, non si predicherebbe neppure dell’uomo in generale. E, per altro verso, il colore è
in un corpo e, quindi, anche in un determinato corpo; se, infatti, non fosse in un determinato corpo individuale, non sarebbe neppure in un corpo in generale. Tutte le cose, di
conseguenza, o si dicono delle sostanze prime come di soggetti o sono in esse come in
soggetti. Se, dunque, non ci fossero le sostanze prime, sarebbe impossibile l’esistenza di
qualcuna delle altre cose. Tutte le altre cose, infatti, o si dicono delle sostanze prime
come di soggetti o sono in esse come in soggetti; di conseguenza, se non ci fossero le
sostanze prime, sarebbe impossibile l’esistenza di qualcuna delle altre cose.
Quanto alle sostanze seconde, la specie è maggiormente sostanza del genere, perché
è più vicina alla sostanza prima. Se, infatti, si dovesse spiegare che cos’è la sostanza
prima, lo si esporrebbe in maniera più chiara e appropriata indicando la specie piuttosto
che il genere. Ad esempio, si spiegherebbe in maniera più appropriata un determinato
uomo dicendo che è un uomo piuttosto che un animale - il primo termine, infatti, è più
proprio di un determinato individuo, mentre il secondo è più comune -; e, se si volesse
80
dare la spiegazione di albero, si darebbe una spiegazione più evidente dicendo che è un
albero piuttosto che una pianta.
Inoltre, le sostanze prime, per il fatto di fungere da soggetto di tutte le altre cose e
tutte le altre cose si predicano di esse o sono in esse, vengono dette “sostanze” in senso
primario. E, nello stesso rapporto in cui le sostanze prime stanno nei confronti di tutte le
altre cose, così la specie sta nei confronti del genere. La specie, infatti, funge da soggetto nei confronti del genere, dal momento che, mentre i generi si predicano delle specie,
le specie non possono, invece, predicarsi del genere. Per tali ragioni, la specie è maggiormente sostanza rispetto al genere.
Per quanto riguarda, invece, le specie stesse che non sono generi, nessuna di esse è
maggiormente sostanza rispetto all’altra. E in effetti non si darà affatto una spiegazione
più appropriata di un determinato uomo dicendo che è un uomo di quella che si darà di
un determinato cavallo dicendo che è un cavallo. Allo stesso modo, tra le sostanze prime, nessuna sarà maggiormente sostanza rispetto a un’altra, poiché un determinato uomo non è affatto maggiormente sostanza rispetto ad un bue.
Giustamente, dunque, dopo le sostanze prime, vengono dette sostanze seconde solamente le specie e i generi, dal momento che, tra i predicati, solo questi manifestano la
sostanza prima. Se, infatti, spiegasse che cosa sia un determinato uomo, lo si farebbe in
modo più appropriato indicando la specie piuttosto che il genere, e si fornirebbe una nozione più precisa dicendo che è un uomo piuttosto che un animale. Se, invece, si indicasse una delle altre cose, ad esempio, “bianco” o “corre” o altre cose simili, se ne darebbe una spiegazione impropria. Tra tutte le altre cose, dunque, solo le specie e i generi
si dicono sostanze. Inoltre, le sostanze prime vengono dette sostanze nel senso più proprio perché fungono da soggetto a tutte le altre cose. E nello stesso rapporto in cui le sostanze prime stanno rispetto a tutte le altre cose, così le specie e i generi delle sostanze
prime stanno rispetto a tutte le altre cose, poiché tutte le altre cose si predicano di quelli:
infatti, dire che un determinato uomo è grammatico è dire grammatico anche uomo e animale, e così avviene in tutti gli altri casi.
Il carattere comune a ogni sostanza è il fatto di non essere in nessun sostrato: la sostanza prima, infatti, non si dice di un soggetto né è in un soggetto; quanto alle sostanze
seconde, risulta chiaro che non sono in un soggetto anche per le ragioni che seguono.
Uomo si dice di un soggetto, cioè un determinato uomo, ma non è in un soggetto, poiché uomo non è in un determinato uomo1. Allo stesso modo, animale si dice di un soggetto, cioè un determinato uomo, ma animale non è in un determinato uomo2. Inoltre,
per quanto riguarda le cose che sono in un soggetto, nulla impedisce che, in certi casi, il
nome si predichi del soggetto, mentre è impossibile che si predichi la definizione. Delle
sostanze seconde, invece, sia il nome sia la definizione vengono predicati del soggetto:
sia la definizione di uomo sia quella di animale, infatti, si predicano di un determinato
uomo. Di conseguenza, la sostanza non potrebbe essere tra le cose che sono in un soggetto. Questo carattere, però, non è esclusivo della sostanza; anche la differenza, infatti,
è tra le cose che non sono in un soggetto. “Terrestre” e “bipede”, infatti, si dicono di un
soggetto, cioè dell’uomo, ma non sono in un soggetto, poiché terrestre e bipede non sono nell’uomo. E anche la definizione della differenza si predica di ciò di cui è detta la
differenza. Ad esempio, se terrestre si dice di uomo, anche la definizione di terrestre si
predicherà dell’uomo; l’uomo, infatti, è terrestre.
1
2
Cfr. Categorie 2, 1 a 21-22.
Cfr. Cfr. Categorie 3, 1 b 13-15.
81
D’altra parte, non ci deve turbare il fatto che le parti delle sostanze siano nelle sostanze intere come in soggetti, e non dobbiamo per questo essere costretti a dire che, allora, esse non sono sostanze. Le cose che sono in un soggetto, infatti, non si definivano
come cose che sono in qualcosa in quanto parti.
Appartiene alle sostanze e alle differenze il fatto che tutte le cose che discendono da
esse siano dette in modo sinonimico. Tutte le cose che discendono da esse, infatti, si
predicano o degli individui o delle specie. Dalla sostanza prima non discende nessun
predicato - infatti non si dice di nessun soggetto -; tra le sostanze seconde, invece, la
specie si predica dell’individuo e il genere si predica sia della specie sia dell’individuo.
Allo stesso modo, anche le differenze si predicano sia delle specie sia degli individui. E
le sostanze prime accolgono la definizione sia delle specie sia dei generi; e la specie accoglie quella del genere. Infatti, tutte le cose che si dicono del predicato si diranno anche del soggetto; allo stesso modo, le specie e gli individui accolgono la definizione delle differenze. Sinonime, come si era detto, sono le cose di cui il nome è comune e la definizione è la stessa; ne risulta che tutte le cose che discendono dalle sostanze e dalle
differenze vengono dette in maniera sinonimica.
Ogni sostanza sembra significare un qualcosa di determinato. Questo è incontestabilmente vero per quanto concerne le sostanze prime, poiché ciò che si indica è qualcosa
di individuale e numericamente uno. Per quanto concerne, invece, le sostanze seconde,
sembrerebbe, a causa della forma dell’espressione, che anche in questo caso venga egualmente indicato qualcosa di determinato, come quando si dice uomo o animale, ma,
in realtà, esse indicano piuttosto una determinata qualità. In questo caso, infatti, il soggetto non è uno come nel caso della sostanza prima, ma uomo e animale si dicono di
molteplici cose. Le sostanze seconde non indicano, però, una determinata qualità in senso assoluto, come nel caso di bianco. Bianco, infatti, non indica nient’altro che la qualità, mentre il genere e la specie definiscono la qualità che concerne la sostanza, poiché
indicano una sostanza di una determinata qualità. Con il genere, però, si dà una definizione che abbraccia più elementi rispetto a quella fornita con la specie; animale, infatti,
comprende un maggior numero di casi rispetto a uomo.
Appartiene alle sostanze anche il non avere dei contrari. Infatti, che cosa potrebbe essere contrario alla sostanza prima? Nulla è contrario, ad esempio, ad un determinato
uomo, e neppure qualcosa di contrario a uomo o ad animale. Questo carattere, tuttavia,
non è proprio esclusivamente della sostanza, ma appartiene a molte altre cose, come, ad
esempio, la quantità. Nulla, infatti, è contrario a lungo due cubiti né a dieci né a nessun’altra cosa di questo genere, a meno che non si dica che molto è contrario a poco o
che grande è contrario a piccolo. Ma nel caso delle quantità determinate nessuna è contraria a un’altra.
Sembra poi evidente che la sostanza non ammetta il più e il meno. Non intendo dire
che una sostanza non può essere maggiormente sostanza rispetto ad un’altra - questo,
infatti, è già stato detto che accade -, ma che ogni sostanza non può essere detta ciò che
è in misura maggiore o minore. Ad esempio, se questa sostanza è un uomo, non potrà
essere uomo in misura maggiore o minore né uomo rispetto a se stesso né uomo rispetto
ad un altro. Un uomo, infatti, non può essere uomo in misura maggiore o minore rispetto ad un altro, come il bianco può essere più bianco rispetto ad un altro bianco, e il bello
può essere più bello rispetto a un altro bello. D’altra parte, una cosa può anche essere
detta ciò che è in misura maggiore o minore rispetto a se stessa, come, ad esempio, il
corpo può essere detto adesso più bianco rispetto a prima, e ciò che è caldo può essere
detto più o meno caldo. Questo certamente non accade nel caso della sostanza, poiché
82
uomo non si dice ora maggiormente uomo rispetto a prima, e lo stesso non accade per
nessuna altra cose che sia sostanza. La sostanza, perciò, non può accogliere il più e il
meno.
Ma il carattere che risulta maggiormente proprio della sostanza è il poter accogliere i
contrari, pure restando identica e numericamente una. Tra tutte le altre cose che non sono sostanza, non se ne potrebbe trovare una che, restando numericamente una, possa accogliere i contrari. Il colore, ad esempio, che è uguale a se stesso e numericamente uno,
non sarà bianco o nero, né la stessa azione, numericamente una, sarà sia buona sia cattiva, e lo stesso vale in tutti gli altri casi che non trattino di sostanze. La sostanza, invece,
pur restando identica e numericamente una, può accogliere i contrari. Un determinato
uomo, ad esempio, pur restando identico e uno, può essere in alcuni casi bianco in altri
nero, e talora caldo talora freddo, e talora buono e talora cattivo. Questo non si dà in
nessun altro caso, a meno che non si sollevi l’obiezione per cui il discorso e l’opinione
rientrerebbero in questo genere di cose. Lo stesso discorso, infatti, sembra essere sia vero sia falso: ad esempio, se è vero il discorso per cui un tale è seduto, quando quel tale si
alzerà, lo stesso discorso risulterà falso. E lo stesso vale nel caso dell’opinione. Se infatti qualcuno ha l’opinione vera che un tale sta seduto, quando quel tale si alzerà, egli avrà
un’opinione falsa se continuerà ad avere la stessa opinione su di lui. Anche se si accettasse l’obiezione, la situazione sarebbe diversa nei due casi: nel caso delle sostanze, è
trasformando se stesse che esse possono ricevere i contrari - infatti ciò che da caldo diventa freddo, o nero da bianco, o buono da cattivo, si è trasformato (poiché si è alterato), e lo stesso accade in tutti gli altri casi in cui ciascuna cosa, subendo un mutamento,
può accogliere i contrari; il discorso e l’opinione, invece, restano in se stessi sempre assolutamente immobili, ed è grazie al mutamento della cosa cui si riferiscono che ha luogo un contrario. Di fatti il discorso per cui un tale è seduto resta identico, ma, al mutare
del fatto cui si fa riferimento, diventa a volte vero a volte falso. E lo stesso vale per
l’opinione. Quindi è grazie alla modalità in cui ciò avviene che la sostanza risulta capace di accogliere i contrari grazie ad una sua trasformazione. E se si ammettesse che anche il discorso e l’opinione siano capaci di accogliere i contrari, non saremmo nel vero.
Il discorso e l’opinione, infatti, non si dicono capaci di accogliere i contrari in quanto
sono essi stessi ad accogliere qualcosa, ma solo in quanto l’affezione avviene in qualcos’altro, poiché è per il fatto che l’oggetto si dia o non si dia che il discorso si dice vero o falso, non per il fatto di essere capace di accogliere in sé i contrari. Infatti, in senso
assoluto, né il discorso né l’opinione vengono modificati da nulla, e quindi, non avvenendo nulla in essi stessi, non potrebbero essere capaci di accogliere i contrari. La sostanza, invece, poiché è essa stessa ad accogliere i contrari, si dice che sia capace di accogliere i contrari. Essa, infatti, accoglie sia la malattia sia la salute, sia la bianchezza
sia la nerezza, e, per il fatto che sia essa stessa ad accogliere ciascuna di queste cose, si
dice capace di accogliere i contrari. Carattere proprio della sostanza, quindi, è la capacità di accogliere i contrari, pure restando identica e numericamente una. Queste sono le
questioni che riguardano la sostanza.
Sommario
Il capitolo quinto delle Categorie è dedicata allo studio e all’analisi della categoria
della sostanza. Essa può essere divisa in due sezioni.
83
I.
Nella prima, Categorie 5, 2 a 11 - 3 a 6, Aristotele spiega che cos’è la sostanza,
quali sono i due significati di sostanza e quali sono i rapporti che intercorrono
tra i diversi tipi di sostanza e tra la categoria della sostanza e le restanti categorie.
II. Nella seconda sezione, Categorie 5, 3 a 7 - 4 b 19, l’Autore presenta e analizza
le proprietà e le caratteristiche della sostanza. Ciascuna delle due parti può essere suddivisa, a sua volta, in ulteriori sottosezioni, secondo lo schema seguente.
Prima sezione (2 a 11 - 3 a 6): che cos’è la sostanza; sostanze prime e sostanze seconde; rapporti che intercorrono tra i diversi tipi di sostanza e tra la categoria della sostanza e le restanti categorie.
1. Presentazione di che cosa è la sostanza (Categorie, 2 a 11-19);
1.1 La sostanza prima (Categorie, 2 a 11-14);
1.2 La sostanza seconda (Categorie, 2 a 14-19);
2. Predicazione del nome e della definizione in riferimento alle cose che si dicono di
un soggetto e alle cose che sono in un soggetto (Categorie, 2 a 19-34);
2.1 Predicazione del nome e della definizione in riferimento alle cose che si dicono di
un soggetto (Categorie, 2 a 19-27);
2.2 Predicazione del nome e della definizione in riferimento alle cose che sono in un
soggetto (Categorie, 2 a 27-34);
3. Precisazione dei rapporti che intercorrono tra le sostanze prime e le sostanze seconde da un lato, e tra le sostanze prime e le altre categorie dall’altro (Categorie, 2 a 27
- 2 b);
4. Gradi di sostanzialità della sostanza seconda. La specie è più sostanza del genere
(Categorie, 2 b 7-22)
4.1 La specie è più vicina alla sostanza prima (Categorie, 2 b 7-14);
4.2 La specie funge da sostrato al genere (Categorie, 2 b 15-22);
5. Pari grado di sostanzialità delle sostanze dello stesso livello (Categorie, 2 b 22-28);
6. Ancora sui rapporti tra sostanze prime e seconde e sul primato della categoria della
sostanza (Categorie, 2 b 29 - 3 a 6);
Seconda Parte: proprietà e caratteristiche della sostanza (Categorie, 3 a 7 - 4 b 19);
1. Prima caratteristica: carattere comune a ogni sostanza è il non essere in nessun
soggetto (Categorie, 3 a 7 - 3 b 9);
2. Seconda caratteristica: la sostanza è qualcosa di determinato (Categorie, 3 b 1023);
3. Terza caratteristica: la sostanza non ha contrari (Categorie, 3 b 24-32);
4. Quarta caratteristica: la sostanza non ammette il più e il meno (Categorie, 3 b 33 4 a 9);
5. Quinta caratteristica: la sostanza ammette i contrari, restando la stessa e numericamente una (Categorie, 4 a 10 - 4 b 19).
1. La presentazione di che cosa è la sostanza (Categorie 5, 2 a 11-19)
1.1. La sostanza prima (Categorie, 2 a 11-14)
84
Prima tra tutte le categorie, la sostanza appare come un concetto originario e primo; e
così si rivela nel corso della trattazione di quella che viene tradizionalmente considerato
il capitolo 5 delle Categorie, che prende avvio da questa considerazione fondamentale
intorno alla sostanza. Intorno a quest’ultima affermazione, credo sia necessario presentare subito due osservazioni. La prima è che la sostanza viene qui presentata essenzialmente in forma negativa, escludendo che essa possa dirsi di un soggetto o essere in un
soggetto. Aristotele si pronuncia più volte in questi termini:
La sostanza prima né è detta di un soggetto né è in un soggetto3.
La sostanza non potrebbe essere tra le cose che sono in un soggetto4.
Dalla sostanza prima non discende nessun predicato; infatti non è detta di nulla
come soggetto5.
Questa prima annotazione ci permette di identificare la sostanza, nel suo significato più
proprio, con l’ultimo raggruppamento della quadruplice classificazione degli enti presentata nel capitolo secondo6, il quale comprende, appunto, gli enti ai quali sono negati
tutti e due i tipi di predicazione “dirsi di” (tÒ m» kaq' Øpokeimšnou lšgesqai) e “essere in” (tÒ m» ™n ØpokeimšnJ enai).
Sostanza, nel senso più proprio, e in primo luogo e soprattutto, è quella che non si dice
di nessun soggetto né è in nessun soggetto, come, ad esempio, un determinato uomo o
un determinato cavallo7.
3
Categorie 5, 3 a 7-10.
4
Categorie 5, 3 a 20-2.
5 Categorie 5, 3 a 36-37.
6
Cfr. Categorie 2, 1 a 20 - 1 b 5.
Categorie 5, 2 a 11-14. Come sottolinea F. Guadalupe Masi, Sostanza prima e sostanze seconde, in Bonelli - Masi, Studi sulle Categorie di Aristotele…, pp. 95-112, pp. 102-103, la traduzione di questo passo può far assumere al testo connotazioni diverse. Da un lato, Zanatta e Pellegrin-Crubellier, seguiti da Guadalupe Masi, intendono ¹ kuriètat£... legomšnh come predicato nominale di ™stin, che equivarrebbe a tÕ kuriètat£... legomšnon, ma al femminile per
attrazione. Ad esempio, Guadalupe Masi, Sostanza prima e sostanze seconde…, p. 95, traduce:
«Sostanza è quella che si dice principalmente, primariamente e massimamente, la quale né si
dice di qualche soggetto né è in un soggetto, per esempio un certo uomo o un certo cavallo».
Similmente traduce Zanatta, Aristotele. Le categorie…, p. 305: «Sostanza è quella detta nel senso più proprio e in senso primario e principalmente, la quale né si dice di qualche soggetto né è
in qualche soggetto: ad esempio, un certo uomo o un certo cavallo». Dall’altro lato, altri commentatori, come Pesce, Ackrill e Antiseri, collegano ™stin al pronome relativo ¿, facendo di ¹
kuriètat£... legomšnh un’apposizione di oÙs…a. Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 36, traduce: «Sostanza, quella che così viene chiamata più propriamente, principalmente e massimamente, è quel che né si dice di qualche soggetto né è in qualche soggetto, ad esempio un certo
uomo o un certo cavallo». Antiseri, Aristotele. Le categorie…, pp. 43-44, traduce: «Sostanza,
nel senso più fondamentale, proprio e principale del termine, è quella che né si dice di qualche
soggetto né è in qualche soggetto: per esempio, un determinato uomo o un determinato cavallo». Ackrill, Aristotle’s Categories and De Interpretatione…, p. 5, rende il passo con: «A substance - that which is called a substance most strictly, primarily, and most of all - is that which
is neither said of a subject nor in a subject, e.g. the individual man or the individual horse». Secondo Guadalupe Masi, Sostanza prima e sostanze seconde…, pp. 102-103, il primo tipo di traduzione sottolineerebbe il fatto che la sostanza si dice in un senso primario e, in base a questa
interpretazione, «[…] le determinazioni negative del non dirsi di e del non essere in […] spiegherebbero perché il termine “sostanza” venga attribuito a pieno titolo a individui concreti e già
7
85
La presentazione del concetto aristotelico di sostanza, dunque, presuppone la conoscenza della “tetrarchia dell’essere” presentata nel capitolo 2 delle Categorie; presuppone, cioè, la distinzione tra oÙs…a e sumbebhkÒta, tra sostanza e accidenti8. Questo non
significa che il concetto di sostanza presupponga qui il concetto di accidente, che, cioè,
ciò che è primario ed essenziale presupponga ciò che è secondario, inferiore e dipendente, ma vuol semplicemente dire che la distinzione tra sostanza ed accidenti è una distinzione fondamentale e risolutiva, e che ciò che non è sostanza è accidente, e viceversa.
Secondo questa visione esclusivista (di tipo aut-aut) mi sembra che anche Simplicio
interpreti la forma negativa con cui Aristotele presenta la sostanza. Il commentatore afferma, in primo luogo, che lo Stagirita non sta dando una definizione di sostanza, ma
una descrizione di essa, per quanto, poi, anche le definizioni, a volte, possano essere date via negationis9; in secondo luogo, egli presenta un esempio: se fossero conosciute solo tre specie di animali, quali, ad esempio, cavallo, cane e uomo, sarebbe giusto dire che
ciò che non è né cavallo né cane, è uomo, e, poiché si conoscerebbero i primi due, anche
il terzo lo sarebbe. Lo stesso, secondo Simplicio, vale per la sostanza: dopo che sono
stati presentati il dirsi di e l’essere in, si potrà facilmente capire ciò che né “si dice di”
né “è in”10. La sostanza, dunque, viene subito presentata come ciò che più si allontana e
meglio si distingue dall’accidente; per rendere questa descrizione più comprensibile, Aristotele ha prima spiegato la distinzione tra “dirsi di” e “essere in” e la classificazione
degli enti che ne deriva.
di per sé determinati. La ragione di ciò consisterebbe nel fatto che la sostanza in senso proprio è
ciò che esiste separatamente e non dipende da altro né logicamente né ontologicamente» (Guadalupe Masi, Sostanza prima e sostanze seconde…, p. 102). In base a una seconda interpretazione, invece, «[…] l’interesse di Aristotele non sarebbe tanto quello di distinguere due significati del termine “sostanza”, quanto quello di indicare nella sostanza in generale il riferimento
ultimo di ogni discorso e di indicare in modo più particolare, attraverso i criteri del non dirsi di e
del non essere in, il soggetto di ogni discorso nell’individuo concreto e già di per sé determinato» (Guadalupe Masi, Sostanza prima e sostanze seconde…, p. 102; cfr. Pellegrin-Crubellier,
Aristote. Catégories…, pp. 220-221, n. 1). In breve, secondo Guadalupe-Masi, la seconda interpretazione, ponendo l’enfasi sul livello linguistico, piuttosto che su due sensi del termine “sostanza”, eliminerebbe, o almeno ridurrebbe, la problematica della «[…] legittimità della distinzione di due tipi di sostanza all’interno della prima categoria» (Guadalupe Masi, Sostanza prima
e sostanze seconde…, p. 103) e, quindi, anche quella del rapporto con Metafisica Z, che che nega ai generi e alle specie - nelle Categorie classificate come sostanze seconde - il carattere di
sostanza). A me sembra, tuttavia, che, sulla base del testo aristotelico, non sia possibile mostrare
qui un primato dell’aspetto puramente linguistico su quello ontologico. Per quanto, infatti, la sostanza prima venga presentata facendo ricorso a delle formule che esprimono dei rapporti linguistico-logici, essa indica gli individui, che costituiscono, al tempo stesso, la realtà cui tutte le
altre cose fanno riferimento e il soggetto cui si riferisce ogni discorso. Come scrive la stessa
Guadalupe-Masi, infatti, «[…] dato che ogni determinazione del linguaggio esprime una determinazione della realtà, o, altrimenti detto, dato che ogni determinazione della realtà diversa dalla sostanza individuale può essere ridotta a un predicato della sostanza individuale, allora anche
tutta la realtà dipende dalla sostanza individuale» (Sostanza prima e sostanze seconde…, p.
103).
8 Cfr. capitolo secondo, supra, pp. ***.
9 Simplicio, In Cat…, 81, 20 ss.: «Aristotele non spiega che cos’è la sostanza, ma cosa non è. In
primo luogo, si dovrebbe sapere che una cosa del genere non è una definizione, ma una descrizione. Tuttavia, alcune definizioni vengono date per via negativa».
10 Cfr. Simplicio, In Cat…, 81, 27 ss..
86
La forma negativa, tuttavia, non dovrebbe essere ulteriormente sottolineata, ma calibrata e relativizzata a seconda del contesto, dal momento che Aristotele non si pronuncia sulla sostanza sempre in questo modo. Da un lato, all’interno dello stesso capitolo 5
delle Categorie, lo Stagirita scrive, in forma positiva:
Ogni sostanza sembra significare un qualcosa di determinato11.
D’altro canto, a ulteriore conferma che la forma negativa non è, per l’Autore, l’unica
maniera possibile di presentare la sostanza, possiamo trovare la definizione in forma positiva anche in altre opere aristoteliche. Nella Metafisica, ad esempio, che pure presenta,
in molti luoghi, la sostanza in forma negativa, si legge:
I caratteri della sostanza sono soprattutto l’essere separato (cwristÕn) e l’essere un alcunché di determinato (tÕ tÒde ti)12.
Similmente nelle Confutazioni sofistiche si legge:
Soprattutto a ciò che è uno e alla sostanza sembrano seguire un qualcosa di determinato
e l’essere13.
La maggior parte delle volte, tuttavia, la formulazione negativa e quella positiva
vengono intrecciate, come se, per ben comprendere il concetto di sostanza, ci fosse bisogno di far interagire i due diversi punti di vista sulla stessa realtà. La sostanza, infatti,
viene, sì presentata come ciò che non si dice di un soggetto né è in un soggetto, ma anche come ciò di cui tutte le altre cose si dicono o in cui tutte le altre cose sono. Aristotele ritorna su questo concetto in più luoghi delle Categorie14. E, similmente, in Metafisica Z, 3, 1029 a 7-9 si legge che:
Si è detto in sintesi che cos’è la sostanza: essa è ciò che non viene predicato di nessun
soggetto, ma è ciò di cui tutto il resto viene predicato.
In termini analoghi si esprimono Metafisica D, 8, 1017 b 13-14
tutte queste cose si dicono sostanze perché non vengono predicate di un sostrato, mentre di esse viene predicato tutto il resto;
e Metafisica Z, 3, 1028 b 36-37:
il sostrato è ciò di cui vengono predicate tutte le altre cose, mentre esso non viene predicato di nessun’altra.
1.2. Le sostanze seconde (Categorie, 2 a 14-19)
Dopo aver presentato la sostanza prima attraverso i due caratteri negativi, per cui essa né si dice di un soggetto né è in un soggetto, Aristotele introduce un secondo senso di
sostanza, che prende, appunto, il nome di “sostanza seconda”, e il cui concetto è derivato da quello di sostanza prima.
Sostanze seconde sono, per Aristotele, le specie e i generi15. Per essere sostanze,
stando alla definizione appena data della sostanza prima, esse non dovrebbero né dirsi di
11
Categorie 5, 3 b 10.
12
Metafisica Z 3, 1029 a 27-28.
Confutazioni Sofistiche, 69 a 35-36.
14 Cfr. Categorie 5, 2 a 34-35, Categorie 5, 2 b 3-5, Categorie 5, 2 b 5-9, Categorie 5, 2 b 1517, Categorie 5, 2 b 37 - 3 a 11.
15 «Si ricordi che il termine greco che traduciamo con sostanza significa anche essenza e vale in
generale quanto quello che è. Specie e generi, corrispondendo ai predicati essenziali, poiché ri13
87
un soggetto né essere in un soggetto. Ma è evidente che noi diciamo, ad esempio, la
specie uomo dell’individuo16, e il genere animale sia della specie uomo sia
dell’individuo. È chiaro, dunque, che il primo dei requisiti necessari per essere sostanza
prima non viene soddisfatto dai generi e dalle specie, i quali, nondimeno, continuano ad
essere chiamati, dal nostro autore, sostanze. In che senso, allora, i generi e le specie
vengono elevati al rango di sostanze? Essi sono sì sostanze, ma in senso secondario, e il
loro concetto presuppone quello della sostanza prima. Le sostanze seconde sono, infatti,
i generi e le specie che si dicono delle sostanze prime. Ad esempio, se prendiamo un
certo individuo e constatiamo che la specie cui esso appartiene è quella di uomo, ed il
genere cui la specie uomo, a sua volta, appartiene, è quello di animale, possiamo concludere che uomo e animale sono sostanze seconde17.
Questo ci permette di identificare la sostanza, nel suo significato secondo, con il primo raggruppamento della quadruplice classificazione degli enti18, il quale comprende
gli enti che si dicono di un soggetto, ma non sono in un soggetto. Più precisamente, la
specie si dice dell’individuo; il genere si dice sia della specie sia dell’individuo.
Ricapitolando, allora,
1. le sostanze prime sono quelle che non si dicono di un soggetto né sono in un soggetto;
2. le sostanze seconde sono quelle che, come le sostanze prime, non sono in un soggetto, ma, diversamente da queste, si dicono di un soggetto.
Risulta, dunque, che il criterio principe per il quale un ente viene elevato al rango di sostanza è quello di non essere in un soggetto. Condizione necessaria e sufficiente affinché un ente sia sostanza tout court, senza ulteriori specificazioni, è il non essere in un
soggetto; se, poi, questo neanche si dirà di un soggetto, si tratterà di una sostanza prima;
se, invece, sarà predicabile di un soggetto, sarà una sostanza seconda.
2. Predicazione del nome e della definizione (Categorie 5, 2 a 19-34)
Come abbiamo visto, sia il nome sia la definizione delle cose che sono dette di un
soggetto vengono predicati del soggetto; in altri termini, la predicazione implica sinonimia (Categorie 5, 2 a 19-27).
Nel caso dell’inerenza, invece, nella maggior parte dei casi, né il nome né la definizione vengono predicati del soggetto (la sinonimia viene qui, in ogni caso, esclusa); a
volte, tuttavia, può succedere che si diano casi di omonimia (Categorie 5, 2 a 27-34).
Risulta evidente, dall’esempio, quanto ciò accada raramente, poiché discende da alcune
particolari inflessioni della lingua greca. Qui la grammatica italiana ci aiuta a capire
l’esempio aristotelico, senza particolari stravolgimenti. Quando noi attribuiamo una
qualità, ad esempio il colore bianco, ad una sostanza, ad esempio un corpo, affermando:
«il corpo è bianco», non intendiamo certo dire che il corpo è un colore di una superficie
che rifletta tutte le radiazioni visibili emesse dal sole, avendo assunto questa come definizione di bianco. Il discorso definitorio del bianco non potrà mai predicarsi del corpo,
perché la definizione di corpo è eterogenea rispetto alla definizione di bianco. In realtà,
velano l’essenza, la sostanza delle cose, reclamano anch’essi giustamente il nome di sostanze»
(Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 39, n. 13).
16 Cfr. Categorie, 1, 1 a 20-22.
17 Cfr. Categorie, 5, 2 a 14-19.
18 Cfr. Categorie, 2, 1 a 20 - 1 b 5.
88
è come se stessimo, più correttamente e rigorosamente, dicendo: «il bianco è nel corpo»,
cioè enunciando una predicazione di tipo «essere in». Il termine bianco, presente nelle
due affermazioni che abbiamo appena presentato, viene usato con una valenza grammaticale diversa: in un caso, in «il bianco è nel corpo», esso è un sostantivo che designa
propriamente il colore; nell’altro, in «il corpo è bianco», esso è un aggettivo attribuito
ad una sostanza che ha ricevuto il bianco come sua qualità. In greco, questo è reso possibile dal fatto che lo stesso termine, leukÕn, nel primo caso, è un aggettivo sostantivato, di genere neutro; nel secondo caso, è un aggettivo a tutti gli effetti, al genere neutro,
perché concordato con il termine, neutro, sîma, «corpo». Questo fatto, che è la coincidenza delle terminazioni del sostantivo e dell’aggettivo, è puramente casuale, e non capita molto spesso. Come rileva Bodéüs19, dicendo che il bianco si predica (kathgore‹tai) di un soggetto, e cioè del corpo, Aristotele sembra assimilare l’attribuzione a
una semplice predicazione. In realtà, sarebbe più corretto dire, come si legge in Categorie 1, 1 a 28, che è il corpo, piuttosto che l’individuo corporeo (animato o inanimato che
sia) a ricevere, in un rapporto di inerenza, il bianco. Il bianco, infatti, non esiste senza
un corpo, anche se è in se stesso, in quanto puro colore, incorporeo20. Nella definizione
del bianco rientra quella del colore, che è il genere di appartenenza; ma il corpo non può
in alcun modo essere un colore.
3. Precisazione dei rapporti che intercorrono tra le sostanze e le altre categorie (Categorie 5, 2 a 27 - 2 b)
«L’intera realtà dunque si risolve nelle sostanze prime e nei loro predicati e accidenti. L’affermazione è provata mediante una considerazione induttiva (dei casi singoli).
Ogni predicato ed ogni accidente, mediatamente o immediatamente, si riportano a quel
soggetto primo di ogni predicazione e di ogni inerenza che è la sostanza prima»21. Il
primato degli individui sostanziali, di cui si dicono i generi e le specie e cui ineriscono
gli elementi appartenenti alle altre categorie, fa di tali individui la condizione di tutto
ciò che esiste al di fuori di essi, almeno di tutto ciò che esiste all’interno del mondo naturale sensibile. Infatti, come ricorda Bodéüs22, questa dottrina di Aristotele sarebbe limitata alle sole sostanze sensibili corruttibili. I corpi celesti imperituri e inalterabili
fuorché passibili di accrescimento e diminuzione23 formano, infatti, probabilmente un
genere a sé stante, che non può essere enumerato tra le sostanze qui considerate.
L’esistenza delle sostanze incorporee separate non viene affatto qui esaminata, dal momento che, all’interno del solo mondo naturale sensibile e corruttibile, il primato assoluto è detenuto dall’individuo sostanziale sensibile.
I due esempi qui presentati da Aristotele illustrano la medesima tesi: senza le sostanze prime, non potrebbe esistere null’altro. 1. Il primo esempio si riferisce alla predicazione del “dirsi di”; 2. il secondo esempio si riferisce all’inerenza, all’”essere in”.
1. Il primo esempio si mostra come i generi non potrebbero essere predicati delle
specie, qualora non si predicassero di nessun individuo. Animale si dice
dell’uomo, e, quindi, anche di un determinato uomo; se non si predicasse di nes19
Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 91, n. 3.
Cfr. Topici VI, 12, 149 b 1.
21 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 37, n. 5.
22 Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 91, n. 2.
23 Cfr. De Caelo, I, 3.
20
89
sun determinato uomo, non si predicherebbe neppure dell’uomo in generale. Come sottolinea Bodéüs24, i generi che non si predicano di nessuna specie, semplicemente non sono dei generi, e cioè non esistono. Lo stesso si potrebbe, allora,
dire delle specie che non si predicano di nessun individuo. Tale tesi «è comprensibile, ma comporta un’implicazione; essa presuppone che il predicarsi di un
soggetto o il dirsi di un soggetto equivalga al non poter esistere separatamente da
un soggetto (individuale). Ciò equivale in parte all’“essere inerente a un soggetto”25. E questo, a sua volta, significherebbe che le sostanze seconde hanno qualcosa di non sostanziale»26.
2. Il secondo esempio fa riferimento a un qualcosa di inerente a un soggetto che, per
definizione, non può esistere separatamente da quel soggetto. Il colore esiste in
quanto è in un determinato corpo e, quindi, anche in un corpo in generale; se, infatti, il colore non inerisse a un determinato corpo individuale, non potrebbe essere in un corpo in generale.
La sostanza, intesa nel suo senso primario e più proprio, non si dice di nessun soggetto e non è in nessun soggetto, ma essa funge da soggetto a tutte le altre cose. Ora, ciò
che non ha bisogno di essere predicato (in senso lato, comprendente sia la predicazione
vera e propria sia la predicazione più debole intesa come inerenza) di nessun’altra cosa,
risulta essere qualcosa di determinato in sé, che non deve la propria sussistenza a qualcos’altro.
La sostanza è supporto sia della predicazione sia dell’inerenza. Essa, nel suo significato più proprio, viene a configurarsi come un sostrato ultimo che non è più predicabile,
fondato in se stesso, e dotato, pertanto, di autonomia. «La differenza tra gli individui e
gli attributi consiste, per dirla con Aristotele, nel fatto che un individuo a differenza di
un universale non è predicabile di niente. Gli individui sono enti impredicabili mentre
proprietà e relazioni sono enti predicabili. Siccome un ente predicabile può essere a sua
volta argomento di predicazione gli argomenti non sono identificabili con gli individui e
i predicabili non sono identificabili coi predicati»27.
La caratteristica negativa della sostanza, quella per cui essa non si dice di nessun
soggetto e non è in nessun soggetto, porta strutturalmente con sé, come contraltare, il
carattere positivo di fungere da soggetto a tutto il resto, e di essere qualcosa di determinato in sé. I due aspetti sono complementari e, poiché funzionano come facce della stessa medaglia, spesso, nei testi aristotelici, si presentano come intrecciati. Trendelenburg
si avvale del confronto con Spinoza per spiegare questa movenza. Egli scrive che la definizione della sostanza data da Spinoza, e cioè: per substantiam intelligo id, quod in se
et per se concipitur28 «è solo la formulazione perfetta ed efficace in cui culmina un processo di pensiero iniziato con Aristotele; ma anche tale definizione, apparentemente positiva e di facile comprensione, contiene in sé un elemento che può essere inteso solo
nel caso in cui la sostanza definienda costituisca il presupposto stesso della rappresentazione. Se la sostanza ha il carattere dell’autonomia, allora nell’aÙtó, nell’in se esse, la
sostanza è racchiusa come pre-pensata. Nell’assioma generale di Spinoza, che ho poco
24
Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 92, n. 5.
Cfr. Categorie, 2, 1 a 25: ¢dÚnaton cwrˆj enai toà ™n ú œsti.
26 Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 92, n. 5.
27 E. Napoli, Significato e ontologia, in AA. VV., Significato e ontologia, a cura di C. Bianchi e
A. Bottani, ed. FrancoAngeli, Milano 2003, pp. 145-160, p. 147.
28 Spinoza, Etica…, Parte Prima, Definizione III, p. 87: «Per sostanza intendo ciò che è in sé ed
è concepito per sé».
25
90
fa richiamato: omnia quae sunt in se vel in alio sunt, è di fatto impiegata la distinzione
aristotelica dell’oÙs…a e dei sumbebhkÒta, della sostanza e degli accidenti»29. In realtà,
la definizione citata da Trendelenburg è incompleta, poiché essa si presenta nel seguente
modo:
Per sostanza intendo ciò che è in se ed è concepito per sé: ovvero ciò, il cui
concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, dal quale debba essere
formato30.
La sostanza spinoziana, pertanto, ha «inseità ontologica e perseità concettuale, ossia indipendenza ontologica e autonomia concettuale»31. La sostanza aristotelica, che costituisce, specie nelle revisioni scolastico-cartesiane, i presupposti teoretici della sostanza
spinoziana, pur essendone nettamente distante, possiede sicuramente autonomia ontologica e logica.
4. Gradi di sostanzialità della sostanza seconda (Categorie 5, 2 b 7-22)
In Categorie 5, 2 b 7-22, Aristotele introduce qui un’ulteriore specificazione, interna
alle sostanze seconde. Poiché il genere e la specie sono state dette, entrambe, sostanze
seconde, bisogna chiedersi se esse lo siano nel medesimo grado. Lo Stagirita risponde
che la specie è considerata più sostanza del genere. Questo viene spiegato e giustificato
in due momenti e attraverso due tipi di argomenti32.
4.1. La specie è più vicina alla sostanza prima (Categorie 5, 2 b 7-14)
Il primo passo per cercare di spiegare il motivo per cui la specie risulta essere più sostanza rispetto al genere muove da una giustificazione di tipo gnoseologico, che discende da una considerazione dal punto di vista della nozione e della definizione.
Poiché, per Aristotele, le sostanze prime sono gli individui, e, poiché tutto ciò che si
avvicina di più all’individuo, partecipa di più della nozione di sostanza, allora, tra le sostanze seconde, la più prossima alla sostanza prima è la specie. Se immaginiamo di osservare all’interno della colonna della categoria di sostanza, troviamo che c’è un fattore
spaziale di vicinanza che colloca la specie immediatamente sopra alla sostanza prima,
cioè a ridosso degli individui; il genere, invece, risulta essere doppiamente distante dalla
sostanza prima, alla quale si rapporta solo grazie alla mediazione della specie33. Questo
29
30
Trendelenburg, Dottrina delle categorie…, p. 137.
Spinoza, Etica…, Parte Prima, Definizione III, p. 87.
31
Giancotti, in Spinoza, Etica…, p. 321, n. 5.
Cfr. Simplicius, Aristotle’s Categories…, p. 31.
33 L’invito a pensare alla sostanza prima e alle sostanze seconde come afferenti a un’unica colonna, che è quella costituita dalla categoria della sostanza, è presente anche in Zanatta, Aristotele. Le categorie…, p. 109: «il riferimento è […] alla circostanza che generi e specie si incolonnano in una sequenza la quale, procedendo dall’altro al basso, alla decrescente ampiezza (o
comprensione) dei generi fa riscontro una crescente determinazione (o intensione): cosicché
l’individuo - che sta al fondo di una tale colonna e che, per se stesso, è ineffabile - sarà maggiormente determinato dalla specie che dal genere e, tra le specie, dalla specie infima. In questo
senso la specie è sostanza “a maggior titolo” del genere perché dice il che cos’è della sostanza
prima maggiormente del genere, vale a dire più determinatamente».
32
91
primo argomento, dunque, fa riferimento ad un criterio che è quello di “prossimità” alla
sostanza prima34.
La maggiore prossimità discende dal fatto che la specie raggruppa in sé un insieme
relativamente ristretto di individui che condividono molti caratteri comuni, ed è sufficientemente caratterizzante; il genere, invece, raccogliendo tutti gli individui che rientrano nelle specie ad esso sottostanti, è tanto più variegato quanto più di larga comprensione. L’indice di sostanzialità, pertanto, cresce o diminuisce proporzionalmente al crescere o diminuire della distanza dalla sostanza prima, che è sostanza in senso principale35. Il genere appare vago, non abbastanza determinato; la specie, al confronto, risulta
più peculiare, esclusiva, precisa. Se, dunque, ci interroghiamo intorno all’essenza di un
determinato uomo, ad esempio, Socrate, ne daremo una nozione ben più precisa e soddisfacente dicendo che egli è, secondo la specie, un uomo piuttosto che, solo secondo il
genere, un animale. Allo stesso modo, se chiediamo che cosa sia un abete, ne avremo
una nozione più precisa, e, dunque, una maggiore conoscenza, se ci venisse risposto che
è un albero, piuttosto che, genericamente, una pianta. Rispetto a un abete, infatti, albero
è una gabbia concettuale più precisa rispetto a pianta, e mi permette di afferrarne meglio
la nozione. Le piante sono presentate come “generiche”, in Parti degli “animali” e anche
in Metafisica Z, 2, 1028 b 9 e Metafisica H, 1, 1042 a 9-10; e in Topici VI, 5, 143 a 2628, la pianta e l’albero vengono considerati rispettivamente come un genere superiore e
un sottogenere, inferiore.
Come fa notare Bodéüs36, in questo passo, gli aggettivi “proprio” e “comune” devono
essere intesi in senso relativo, in quanto la specie è più “propria” e meno “comune” rispetto al genere. La specie e il genere, infatti, in quanto universali, sono, in senso assoluto, entrambi comuni perché appartengono a molteplici cose37; e nessuno dei due, in
senso assoluto, è proprio.
4.2. La specie funge da sostrato al genere (Categorie 5, 2 b 15-22)
Troviamo in questa parte il secondo momento del ragionamento. La specie risulta essere maggiormente sostanza del genere anche a partire da un’altra considerazione, questa volta dal punto di vista della predicazione. Per comprendere questo passo, mi sembra
utile considerare come sia possibile rintracciare, a diversi livelli, tre tipi di asimmetria.
1. A un primo macroscopico livello, è già stato messo in luce come la categoria della sostanza abbia una sorta di priorità nei confronti delle restanti nove categorie,
poiché è l’unica che indica qualcosa di determinato in sé, ed ogni altra categoria
ha necessariamente bisogno di essa come sostrato di predicazione, mentre la sostanza non si predica mai di elementi contenuti in altre categorie.
2. A un secondo livello, all’interno della stessa categoria della sostanza, possiamo
gerarchicamente distinguere la sostanza intesa nel senso più proprio e primario, e
la sostanza seconda, in qualche modo dipendente dalla prima, dal momento che
essa si dice della sostanza prima, mentre non accade mai che le sostanza prima si
predichi, legittimamente, della sostanza seconda.
34
Cfr. Guadalupe-Masi, Sostanza prima e sostanze seconde…, p. 109.
Cfr. Simplicius, Aristotle’s Categories…, p. 31.
36 Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 9, n. 2.
37 Cfr. Metafisica Z, 13, 1038 b 10-11.
35
92
3. Se analizziamo ulteriormente il sottoinsieme delle sostanze seconde, troviamo
che, anche a questo livello, c’è una sorta di “priorità”, assegnata alla specie. Come, infatti, le sostanze prime fungono da sostrato per tutte le altre cose (siano esse elementi di altre categorie o sostanze seconde), così la specie fa da sostrato al
genere; e se è vero che i generi vengono predicati della specie, non si dà il reciproco, e cioè che le specie si predichino, a loro volta, dei generi. Tra le altre sostanze seconde, dunque, la specie assolve, nei confronti del genere, la stessa funzione che la sostanza prima assolve rispetto alle sostanze seconde in generale, ossia quella di fondamento. Anche da queste considerazioni segue, dunque, che la
specie, rispetto al genere, è più affine alla sostanza prima ed è, pertanto, maggiormente sostanza. A ben vedere, i due argomenti presentati per dimostrarlo potrebbero, in qualche modo, essere ricondotti a un’unica movenza, dal momento
che il motivo per cui è più proprio dire che «Socrate è un uomo» rispetto a «Socrate è un animale» può ritrovarsi nel fatto che il genere comprende la specie, e
non viceversa, cioè: i generi si predicano delle specie, ma le specie non si predicano dei generi.
Tuttavia, Aristotele ci presenta il cammino dell’argomentazione strutturato in due
passi, e questo è fecondo, perché ci induce a ritenere che l’aspetto gnoseologico e
l’aspetto predicativo siano due punti di vista diversi che pervengono allo stesso risultato. Ackrill38 fa notare una discrepanza tra l’affermazione secondo la quale la specie è
maggiormente sostanza del genere e quanto si legge nel tredicesimo capitolo delle Categorie:
I generi sono sempre anteriori alle specie; non si dà, infatti, inversione secondo l’ordine
dell’essere: ad esempio, se c’è l’acquatico, c’è anche l’animale, ma, se c’è l’animale,
non è necessario che ci sia l’acquatico39.
Per comprendere questo passo, occorre anticipare brevemente quanto viene detto al capitolo dodicesimo40, Categorie 12, 14 a 25 - 14 b 25, in cui Aristotele presenta cinque
sensi in cui una cosa può essere detta anteriore, “prioritaria” rispetto ad un’altra. I cinque sensi in cui una cosa può essere detta anteriore a un’altra sono:
1. In primo luogo e in senso principale, secondo il tempo. È questo il senso più letterale da cui derivano gli altri.
2. In secondo luogo, una cosa è detta prima di un’altra se non ammette correlazione
secondo la conseguenza dell’esistere.
3. Una cosa si dice prima per un qualche ordine, come, ad esempio, nel caso della
grammatica, le lettere sono prima delle sillabe.
4. Primo è anche detto ciò che è migliore e più degno di pregio. Il nostro autore dice che forse questo è il più improprio dei modi.
5. Ciò che a qualunque titolo è causa dell’esistere di un’altra cosa si dice logicamente primo per natura.
Il senso che a noi interessa, e che verrà ripreso nel capitolo 12 per mostrare
l’anteriorità del genere rispetto alla specie, viene così spiegato:
In un secondo senso, ciò che non può essere invertito nella consequenzialità
dell’essere: l’uno, ad esempio, è anteriore al due. Se c’è il due, segue immediatamente
che c’è anche l’uno, mentre, se c’è l’uno, non è necessario che ci sia il due. Di conse38
Cfr. Ackrill, Aristotle’s Categories…, p. 84.
Categorie 13, 15 a 4-7.
40 Si rinvia, per l’esame di questa questione, al Capitolo 12, Infra, pp. ***.
39
93
guenza, partendo dall’uno, la consequenzialità dell’esserci dell’altro non si inverte, e
sembra che sia anteriore l’essere a partire dal quale non si inverte l’ordine dell’essere41.
Il genere appare anteriore alla specie perché se c’è la specie, è sicuro che c’è il genere,
mentre se c’è il genere, non è detto che esista la specie. C’è dunque una sorta di asimmetria che si trova chiaramente esplicata in Topici IV 1, 121 a 12-14:
È dunque evidente che le specie partecipano dei generi, ma che i generi non partecipano delle specie: la specie infatti accoglie il discorso definitorio del genere, mentre il genere non accoglie quello della specie.
Occorre distinguere accuratamente i diversi punti di vista. Dal punto di vista ontologico, viene innanzitutto la sostanza prima, poi la specie, poi il genere; dal punto di vista
logico, invece, tra la specie e il genere - entrambi sostanze seconde - il genere è il primo
concettualmente.
4.3. Pari grado di sostanzialità delle sostanze dello stesso livello (Categorie 5, 2 b 2228)
Come abbiamo visto, la sostanzialità di un ente cresce o diminuisce proporzionalmente al diminuire o aumentare della distanza che lo separa dalla sostanza prima.
Se questo è vero, ne discenderà che, per tutti gli enti la cui la distanza dalla sostanza
prima è la stessa, anche il grado di sostanzialità sarà lo stesso42. Così, tra le varie specie,
le quali distano allo stesso modo dalla sostanza prima, non ci sarà una specie maggiormente sostanza di un’altra; la stessa cosa vale per i generi, i quali distano la stessa lunghezza dalla sostanza prima.
Infine, la stessa teoria del pari grado di sostanzialità vale anche per le stesse sostanze
prime, tra le quali non ve ne è, in alcun modo, una che sia più sostanza dell’altra. Un
uomo non si dice sostanza a maggior diritto e con più dignità di quanto non si dica sostanza, ad esempio, un bue. Qui si vuol dire che, quanto al loro essere in sé, le sostanze
prime sono tutte identiche. Se anche, com’è ovvio, una sostanza prima sarà diversa
dall’altra in quanto soggetto di predicati diversi, come, ad esempio, un uomo è diverso
da un bue, da ciò non deriverà che una delle due sostanze sarà in sé maggiormente sostanza dell’altra. Da questo non segue che ci sia un’identità di valore ontologico tra tutto
ciò che esiste nel mondo, e che non ci sia una differenza ontologica e reale tra le sostanze prime. Si sta solo dicendo che, all’interno della categoria della sostanza, tra gli enti
che si situano agli stessi livelli (sostanze prime, specie, generi), non ci sono differenze
di sostanzialità.
5. Caratteristiche della sostanza
5.1. Prima caratteristica: la sostanza non è in un soggetto (Categorie 5, 3 a 7 - 3 b 9)
Le sostanze prime sono, come si è ampiamente osservato, quelle che non si dicono di
un soggetto né sono in un soggetto; le sostanze seconde sono quelle che, come le sostanze prime, non sono in un soggetto, ma, diversamente da queste, si dicono di un soggetto.
41
Categorie 12, 14 a 29-35.
42
Cfr. Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 38, n. 12.
94
Risulta, allora, chiaramente che il criterio principe per il quale un ente viene elevato
al rango di sostanza è quello di non essere in un soggetto. Condizione necessaria e sufficiente affinché un ente sia sostanza tout court, senza ulteriori specificazioni, è il non
essere in un sostrato; se, poi, questo neanche si dirà di un soggetto, si tratterà di una sostanza prima; se, invece, sarà predicabile di un soggetto, sarà una sostanza seconda.
Tuttavia, neppure questo guadagno, per cui il «non essere in» si presenta come segno
distintivo della sostanza in generale, è risolutivo. Dopo aver escluso che il primo dei
due tratti caratteristici della sostanza prima, il «non dirsi di», potesse essere un carattere
peculiare anche della sostanza in generale, poiché abbiamo scoperto che le sostanze seconde si predicano di un soggetto, ora ci accorgiamo che il secondo tratto, il «non essere
in», non è esclusivo della sostanza.
Anche la differenza specifica, infatti, come i generi e le specie, rientra in quel gruppo
di enti che non sono in un soggetto, ma si dicono di un soggetto. La differenza non è un
attributo accidentale, in quanto anche la sua attribuzione, al pari di quella della specie e
del genere, ha carattere necessario. Questo concetto è chiaro nel sesto libro dei Topici:
In realtà, nessuna differenza è compresa tra le determinazioni accidentali, come non lo
è il genere; non è infatti possibile che la differenza appartenga e non appartenga a qualcosa43.
Gli stessi esempi, del terrestre e del bipede, si trovano in Topici, II, 109 a 14-15.
Queste due differenze non sono, propriamente parlando, costitutive della specie. Per
quanto sia possibile definire l’uomo come un animale bipede, non si tratta di una determinazione sufficiente a costituire propriamente l’uomo. Gli stessi due esempi trovano
luogo anche in Topici IV, 2, 122 b 16-17 allo scopo di illustrare la tesi secondo la quale
le differenze non indicano l’essenza (t… ™sti), ma qualcosa di qualificato in un certo
modo (poiÒn ti), una dottrina che viene difesa in Categorie 5, 3 b 15-21 in riferimento
alle sostanza seconde.
5.1.1. Aporia: le parti della sostanza sono nelle sostanze intere come in soggetti?
Sostanze seconde, si è detto, sono quelle che si dicono di un soggetto, ma non sono in
un soggetto. Questa definizione è fin qui piuttosto chiara, ma un’aporia appare, però,
sorgere, se poniamo l’attenzione al modo in cui Aristotele presenta le sostanze seconde
in Categorie 5, 2 a 14-19. Il testo greco fa, infatti, uso di una costruzione che non può
non ricordare, per somiglianza, quella precedentemente adottata quando si è parlato
dell’«essere in» un soggetto (tÕ ™n ØpokeimšnJ enai): troviamo, infatti, anche qui, un
complemento di stato in luogo, composto dalla preposizione ™ν alla quale si aggiunge il
caso dativo, e un verbo, Øp£rcw, che conta, tra le sue accezioni principali, oltre a quello
di «appartenere», i significati di «esistere» e «essere»44.
43
Cfr. Topici VI, 6, 144 a 23-26: .
Cfr. H.G. Liddell - R. Scott, A greek-english lexicon, Revised and augmented throughout by
H. Stuart Jones with the assistance of R. McKenzie, Clarendon Press, Oxford, 1843, 19909, voce Øp£rcw, pp. 1853-1854; H.G. Liddell - R. Scott, Dizionario illustrato greco-italiano, Edizione adattata e aggiornata a cura di Q. Cataudella, M. Manfredi, E. di Benedetto, Le Monnier,
Firenze 1975, p. 1318.
44
95
Questo comporta che, nella traduzione, i due sintagmi, tÕ ™n ØpokeimšnJ enai e tÕ
™n (tJ)… Øp£rcein, vengano quasi a sovrapporsi, tanto da sembrare che le sostanze
prime sono nelle specie, e le specie sono nei generi45.
Sebbene il greco non dia così ampio spazio ad ambiguità, dal momento che fa uso,
nei due casi, di due verbi diversi (da un lato enai, dall’altro Øp£rcein), stando il ricorrente utilizzo, in greco, del verbo Øp£rcein come equivalente di enai, lo stesso Aristotele si accorge dell’aporia che potrebbe essere sollevata, tanto che si trova costretto a
puntualizzare:
Non ci deve turbare il fatto che le parti delle sostanze stiano nelle sostanze intere come
in sostrati, e non dobbiamo per questo essere costretti a dire che, allora, esse non sono
sostanze. Le cose che sono in un sostrato, infatti, non si definivano come cose che sono
in qualcosa come delle parti46.
Il nostro Autore ci sta dicendo che bisogna necessariamente distinguere l’«essere in»
(tÒ m» ™n ØpokeimšnJ enai) inteso in senso tecnico, che era stato oculatamente spiegato nel seguente modo:
Dico in un sostrato ciò che, appartenendo a qualcosa, non però come una sua parte, è
impossibile che sussista separatamente da ciò in cui è47
dal tÒ ™n tin… (tó) Øp£rcein, che viene usato in riferimento alle sostanze con il senso
di «appartenere», «fare parte di», e che assume in sé il significato della dinamica interoparti. Sembrerebbe, quindi, che Aristotele ponga la possibilità di concepire delle sostanze come parti di un’altra sostanza, che è, appunto, l’intero di queste sostanze, e questo ci
viene confermato da un passo della Fisica:
È infatti necessario che la parte della sostanza sia sostanza48.
Affinché questo sia possibile, è necessario che, fra le parti delle sostanze e l’intero delle
sostanze, da un lato, si dia omogeneità (altrimenti non sarebbero compatibili), dall’altro,
vi sia differenza (altrimenti sarebbero indistinte, sarebbero un’unica e medesima sostanza).
45
Ad esempio, Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 36, traduce: «Sostanze seconde si chiamano le
specie in cui sono (corsivo mio) quelle che vengono chiamate sostanze prime ed anche i generi
di queste specie; per esempio un uomo determinato è nella specie uomo ed il genere di questa
specie è animale», scegliendo, così, la strada più ambigua, ma avvertendo in nota: «L’essere in,
di cui si parla quando si dice in cui sono, non è l’essere in un soggetto (e del resto, nel testo greco, il verbo adoperato non è enai, ma Øp£rcein), ma indica la relazione del soggetto rispetto ai
suoi predicati essenziale e corrisponde perciò all’esser sussunto» (Aristotele, Categorie…, p. 36,
n. 3). Ackrill (Aristotle’s Categories…, pp. 5-6) opta per una variatio: «The species in which the
things primarily called substances are, are called secondary substances, as also are the genera of
these species. For exemple, the individual man belongs in a species, man, and animal is a genus
of the species; so these - both man and animal - are called secondary substances», traducendo il
verbo Øp£rcein la prima volta con to be (essere), la seconda con to belong (appartenere). Assumendo qui l’«essere in» in senso tecnico, questo non potrebbe in alcun modo essere vero.
Considerata, infatti, la definizione di sostanza in generale come ciò che non si dice di nessun
soggetto, se risultasse che sia le sostanze prime sia le sostanze seconde sono in un soggetto, né
queste né quelle sarebbero più sostanza.
46 Categorie 5, 3 a 29-32.
47 Categorie 2, 1 a 24-25.
48 Fisica, 47 a 26-27.
96
Questo requisito è proprio quello che si realizza nella dottrina aristotelica. Un certo
uomo, che è sostanza prima, è una parte della specie uomo, che è sostanza seconda, la
quale, in quanto intero, non si esaurisce in lui, ma ingloba tutti gli uomini; la specie uomo è, a sua volta, una parte del genere animale, che è sostanza seconda, e, in quanto intero, non si esaurisce nella specie uomo, ma ingloba, ad esempio, anche le specie cavallo, cane etc.
Per capire questo rapporto, è forse utile un richiamo al libro D della Metafisica. Qui,
infatti, il secondo dei quattro significati di parte viene presentato così:
Inoltre, si dicono parti anche quelle in cui la forma può essere divisa, a prescindere dalla quantità. Perciò si dice che le specie sono parti del genere49.
Secondo Alessandro di Afrodisia50, se prendiamo, ad esempio, l’animale, non possiamo considerarlo come quantità e come corpo e, come tale, dividerlo in parti; ne otterremmo, allora, delle parti quantitative: testa, tronco etc. Per contro, noi possiamo anche
considerare l’animale come genere (prescindendo, quindi, completamente dalla quantità) e come genere suddividerlo nelle sue specie (cavallo, cane, uomo etc.).
È questo il senso qui considerato: in questo senso si può dire, infatti, che le specie
sono parti del genere». In un altro senso, invece, si può dire che il genere è parte della
specie, dal momento che
anche gli elementi contenuti nella nozione che esprime ciascuna cosa sono parti del tutto51.
«Aristotele si riferisce qui a quelle parti che costituiscono la forma e quindi la definizione. […] la definizione, che ridà l’essenza o forma o specie di una cosa, è costituita: (a)
dal genere e (b) dalla differenza [specifica]; in tal senso, il genere viene ad essere una
parte della definizione della specie»52. Nel primo caso, l’omogeneità è data dal fatto che
un certo uomo e la specie uomo sono entrambe sostanze in generale, mentre la differenza è data dal fatto che un certo uomo è sostanza prima e la specie uomo è sostanza seconda; nel secondo caso, l’omogeneità è data dal fatto che la specie uomo e il genere animale sono entrambi sostanze seconde, mentre la differenza è data dal fatto che la prima è, appunto, qualificata come specie, e la seconda come genere; quest’ultima, cioè, ha
una maggiore capacità di comprensione di sostanze sottostanti rispetto a quella della
specie. La dinamica intero-parti, attribuita alle sostanze, sembra sollevare delle aporie.
Le specie ultime di un genere sono più semplici dei generi, che si dividono in specie
molteplici e differenti: in questo senso, le specie sembrerebbero essere più principi dei
generi. D’altra parte, se consideriamo che, sopprimendo i generi, sopprimiamo anche le
specie, i generi sembrano essere più principi delle specie53.
5.1.2. La sinonimia
La predicazione di tipo “dirsi di un soggetto” è intracategoriale - ha luogo, cioè, soltanto all’interno di ciascuna singola categoria - e di ciò che si dice di un soggetto si applicherà al soggetto in questione sia il nome sia la definizione.
49
Metafisica D, 25, 1023 b 17-19.
50
Cfr. Alex., In Metaph., p. 424, 17 ss. Hayduck; Reale, Aristotele, Metafisica…, vol. III, pp.
277-278, n. 3.
51
Metafisica D, 25, 1023 b 22-25.
52
Reale, Aristotele. Metafisica…, vol. III, p. 278, n. 5.
Cfr. Metafisica K, 1, 1059 b 34 - 1060 a 2.
53
97
Questo risulta chiaro dall’esempio: un determinato uomo è, appunto, un uomo, ma è
anche un «animale razionale», che è precisamente la definizione di uomo, formata da
genere prossimo e differenza specifica; sicché la definizione di uomo si predicherà di un
certo uomo, e la definizione di animale si predicherà sia della specie uomo sia di un determinato uomo. «Socrate è un animale razionale (animale razionale è la definizione
della specie uomo); Socrate è un vivente dotato di sensazione (vivente dotato di sensazione è la definizione del genere animale)»54.
Allo stesso modo, poiché le differenze vengono annoverate da Aristotele tra le cose
che si dicono di un soggetto, anche le definizioni delle differenze saranno predicate di
ciò di cui sono dette le differenze: se, ad esempio, terrestre viene detto di uomo, anche
la definizione di terrestre sarà predicata di uomo; l’uomo, infatti, è un animale terrestre55. «Socrate non si predica di niente, perché può fungere soltanto da soggetto; uomo
(specie) si predica di Socrate (Socrate è un uomo); animale (genere) si predica della
specie (l’uomo è un animale) e degli individui (Socrate è un animale [razionale]); le
differenze si predicano della specie (l’uomo è razionale) e degli individui (Socrate è razionale)»56. Anche le differenze, infatti, appartengono all’ambito della predicazione
dell’essenziale e comportano, pertanto, sinonimia.
Ora, gli enti che avevano in comune sia il nome sia la definizione erano stati chiamati, nel primo capitolo delle Categorie, sinonimi57. Quindi, tutte le predicazioni che implicano l’attribuzione della definizione, cioè l’espressione dell’essenza di una data cosa,
sono sinonimiche.
5.2. Seconda caratteristica: la sostanza è qualcosa di determinato (Categorie, 3 b 1023)
Ogni sostanza significa un tÒde ti. Si tratta di una caratteristica che richiede di essere spiegata in modo differenziato in due momenti: 1. il primo riferito alla sostanza prima, 2. l’altro alla sostanza seconda.
1. Per quanto riguarda la sostanza prima, è sicurissimo (¢namfisb»thton) e vero
(¢lhqšj) che essa significa un tÒde ti, cioè un qualcosa di determinato. Aristotele sta facendo leva sul fatto che quella che sta presentando sia una verità su cui
tutti possono essere unanimemente d’accordo: è al di fuori di ogni contestazione
e dubbio, e alla portata di tutti, che la sostanza prima significhi qualcosa di indivisibile (¥tomon), numericamente uno (œn ¢riqmù) e di strutturalmente unitario,
poiché non è riferibile a nulla ed è massimamente determinata. L’individuo sostanziale, che forma una unità numerica indivisibile, è per ciò stesso, un soggetto
determinato58.
2. Il caso delle sostanze seconde è un po’ più delicato, e meno chiaro. A prima vista, sembra quasi che anche la sostanza seconda, come la prima, indichi un certo
questo, cioè qualcosa di determinato e indivisibile; questa apparenza è data dal
tipo delle denominazioni che vengono utilizzate: quando, infatti, si usano termini
54
Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 41, n. 21.
Cfr. Categorie 5, 3 a 21-25.
56 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 41, n. 20.
57 Cfr. Categorie 1, 1 a 6-12.
58 Cfr. Metafisica I 1, 1052 b 16: tÒ ˜nˆ enai tÒ ¢diairštw ™stˆn enai Óper tÒde Ônti,
«l’essenza dell’unità consiste nell’essere indivisibile, in quanto è qualcosa di determinato e di
particolare».
55
98
al singolare, quali uomo o animale, viene facilmente da pensare che essi indichino determinati enti singoli, dei tÒde ti. In realtà, a ben vedere, questi termini, che
esprimono rispettivamente la specie e il genere, non indicano un individuo, ma si
predicano dei numerosi soggetti che rientrano, rispettivamente, nella specie uomo
e nel genere animale. Essi, allora, indicano piuttosto una certa qualità (poiÒn ti),
cioè una qualità relativa alla sostanza. Pesce fa giustamente notare come «Questo
indica l’individuale, quale l’universale, certo il determinato»59.
A questo punto, Aristotele si accorge che potrebbe sorgere un’ambiguità, e subito
precisa che le sostanze seconde indicano sì una certa qualità, ma non in senso assoluto,
come accade per gli elementi che appartengono alla categoria della Qualità: bianco, ad
esempio, non indica null’altro che una qualità assoluta, cioè disgiunta da qualsiasi sostrato; uomo e animale, invece, qualificano sempre una specifica sostanza prima, significano sempre una sostanza che ha una certa qualità. Come specificato in Simplicio60,
non tutti i generi e tutte le specie di ogni categoria, dunque, sono delle “sostanze di una
certa qualità”, ma solo quelli della categoria della sostanza; i generi e le specie della sostanza, infatti, determinano, circoscrivono e descrivono le qualità che concernono la sostanza; i generi e le specie, ad esempio, della qualità, invece, non indicano null’altro che
la sola qualità per se stessa, separatamente dalla sostanza. Di conseguenza, una qualità,
ad esempio il colore, può essere concepito (solo concepito, non posto in essere) senza
riferimento alla sostanza, mentre non è possibile considerare i generi e le specie della
sostanza senza riferimenti alla sostanza individuale.
Inoltre, i generi e le specie della sostanza sono parti completive e costitutive della sostanza, non altrettanto il colore. Ackrill61 fa notare come la “qualità della sostanza” sia
qualcosa di diverso dalla qualità intesa come categoria diversa da quella di sostanza,
quantità etc. e aggiunge che Aristotele, in questo caso, si trova, per così dire, “svantaggiato” dal linguaggio di cui fa uso, perché non ha a disposizione concetti come quelli di
“referenza”, “descrizione”, “denotazione” e “connotazione”. Con l’aiuto di questa terminologia, avrebbe potuto spiegare che i nomi delle sostanze seconde connotano in modo qualitativo, ma denotano le sostanze prime che cadono sotto ogni sostanza seconda;
il nome di una qualità, invece, denota ogni oggetto che possieda, appunto, quella qualità62.
Aristotele aggiunge per completezza:
con il genere, però, si dà una definizione che abbraccia più elementi rispetto a quella
fornita con la specie; animale, infatti, comprende un maggior numero di casi rispetto a
uomo63.
Il fatto che sia la specie sia il genere si dicano di più cose li caratterizza già entrambi
come universali; ma c’è, tra loro, una differenza di grado di universalità, e, dunque, di
estensione, per cui ciò che si dice di un numero ancora maggiore di cose, si trova ad essere maggiormente universale. Di qui, è quasi inutile ricordare che il genere, raccogliendo in sé tutti gli individui che anche differiscono specificamente, è più universale
della specie, che raccoglie solo gli individui accomunati dalla stessa differenza specifica.
59
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 41, n. 23.
Cfr. Simplicio, In Cat., 103, 20-30.
61 Cfr. Ackrill, Aristotle’s Categories…, pp. 88-89.
62 Cfr. anche Zanatta, in Aristotele. Categorie…, pp. 516-517.
60
63
Categorie 5, 3 b 21-23.
99
5.3. Terza caratteristica: la sostanza non ha nessun contrario (Categorie, 3 b 24-32)
La proprietà di non avere contrari risulta evidente per quanto riguarda la sostanza
prima: se, infatti, consideriamo un determinato uomo, ad esempio Socrate, è impossibile
che esista un non-Socrate contrario a questo. Ma allora è chiaro che questa caratteristica
appartiene anche alle sostanza seconde: nulla, infatti, è contrario alla specie uomo o al
genere animale. Nessuna sostanza, considerata in quanto tale, ha un contrario. Possiamo
certo dire che una sostanza sia contraria a un’altra dal punto di vista di una qualità, o di
una qualsiasi altra determinazione derivante da una categoria diversa da quella della sostanza, come, ad esempio, se confrontiamo un oggetto bianco e un oggetto nero. Ma è
chiaro che, in questo caso, noi non stiamo considerando la sostanza, ma la qualità di
quella sostanza; dal punto di vista della sola sostanza, risulta evidente che questa non ha
contrari.
Tale proprietà, tuttavia, non è esclusiva della sostanza. Aristotele, infatti, sottolinea
che il non aver contrario non riguarda solo le sostanze, ma anche altre cose, quali, ad
esempio, le quantità64. Il principio da cui discende che sia la sostanza sia la quantità non
hanno contrari è il seguente: nessuna cosa determinata è il contrario di un’altra cosa determinata. E, poiché le quantità possono essere determinate oppure indeterminate, nel
primo caso è evidente che non esiste, ad esempio, il contrario di 10 chili o di tre centimetri; nel caso delle quantità indefinite, invece, sembra che possa sussistere contrarietà,
dal momento che, ad esempio, molto appare contrario a poco, come grande a piccolo. In
realtà, però, nessuna di queste coppie è una quantità, ma fanno parte dei relativi, poiché
nulla è detto in sé grande o piccolo, ma sempre rapportato a qualcos’altro65. Resta, dunque, vero, che il non avere nessun contrario è comune alla sostanza e alla quantità.
5.4. Quarta caratteristica: la sostanza ammette il più e il meno (Categorie 5, 3 b 33 - 4
a 9)
Nell’enunciare la tesi secondo la quale la sostanza non accoglie il più e il meno, Aristotele subito si accorge che questo potrebbe causare il sorgere di un’ambiguità, che si
impegna immediatamente a chiarire. Non si vuole qui dire che una sostanza non può essere maggiormente sostanza di un’altra: è già stato detto e mostrato66, infatti, che questo, in alcuni casi, si dà, come nel caso delle sostanze seconde, in cui la specie viene
considerata più sostanza rispetto al genere. Quel che si intende mostrare è che ogni sostanza non può dirsi sostanza in misura maggiore e minore, né rispetto ad un’altra sostanza né rispetto a se stessa. Nessun uomo può essere più o meno uomo di un altro.
«Un uomo potrà possedere qualità virili in grado maggiore o minore, ma non già essere
più o meno uomo, perché o è uomo o non lo è, tertium non datur. Per quanto deforme
infatti un uomo possa essere, apparterrà sempre alla specie uomo»67.
64
Cfr. Categorie 5, 3 b 27-32.
Cfr. Categorie 6, 5 b 11-29. Queste coppie di termini sono propriamente dei relativi, e solo in
un senso molto debole potremo continuare a parlarne come fossero delle quantità di tipo indefinito.
66 Cfr. Categorie 5, 2 b 7.
67 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 43, n. 28.
65
100
Simplicio68 spiega che le due affermazioni per cui, da un lato, la specie è più sostanza del genere69 e, dall’altro, la sostanza non ammette il più e il meno70, non sono dette
nello stesso senso, ma l’una si riferisce a una caratteristica accidentale e l’altra a una caratteristica essenziale, per se71. Affermare che la specie è più sostanza del genere non è
affermare che la specie ammette il “più” in quanto sostanza, ma solo in quanto è più vicina alla sostanza individuale. Non sussiste, pertanto, contraddizione tra i due passaggi,
perché si tratta di due punti di vista diversi. Si potrebbe dire che la neve sia più bianca
del cigno per il fatto che si avvicina di più al massimamente bianco. Neppure in questo
caso, non è la sostanza in quanto sostanza ad accogliere il più e il meno; è, piuttosto, la
qualità, che sopraggiunge alla sostanza. La sostanza, in questo modo, può ammettere
comparazioni accidentali, ma mai comparazioni per se.
Si potrebbe obiettare che l’uomo più razionale sia anche, per ciò stesso, più umano,
in quanto la razionalità appartiene per essenza alla specie degli esseri umani72. A tale
obiezione si deve rispondere che l’uomo non deve il suo essere, appunto, uomo, al grado (™p…tasij) della sua razionalità, ma all’edoj di appartenenza. L’appartenenza a un
edoj è qualcosa di stabile, mentre l’essere più o meno intelligente varia e assume maggiore o minore intensità a seconda dell’attività che l’uomo compie facendo uso della
propria razionalità, e non della propria umanità73. È del tutto naturale che ad ogni forma
(specie, edoj) si aggiunga qualche qualità, distinta dalla forma, ma dipendente da essa;
la forma, in quanto costitutiva della composita sostanza individuale, non ammette mai il
più e il meno; le qualità che si aggiungono alla sostanza, invece, siano la razionalità, il
calore, l’aridità etc., ammettono dei gradi, cosicché la variazione non è una funzione
dell’ edoj, ma della qualità. L’uomo virtuoso ha qualcosa in più rispetto all’uomo non
virtuoso non certo in quanto uomo, ma in quanto uomo che si trova in una determinata
condizione.
L’indicazione aristotelica dell’eguaglianza della sostanza sembrerebbe una brillante
base su cui fondare una teoria della pari dignità ontologica di tutti gli uomini. Sappiamo
che purtroppo, in Aristotele, sul quale ha, con ogni probabilità, notevolmente agito un
impianto concettuale profondamente influenzato dal contesto storico-politico-sociale,
essa non ha approdato a questo esito, ma mi sembra che la considerazione del pari grado
di sostanzialità resti comunque, per noi, un fecondo spunto di riflessione. Se, ad esempio, consideriamo un determinato uomo, Socrate, questi non è maggiormente uomo rispetto a un altro uomo, come il bianco può essere più bianco rispetto a un altro bianco74;
né è più uomo ora rispetto a prima, o oggi più di ieri, come un corpo può essere adesso
più bianco di prima, o caldo in misura maggiore o minore. Se noi diciamo che Socrate è
sostanza, non possiamo neppure dire che Socrate che ha acquisito la scienza della
grammatica sia più sostanza rispetto a quando non conosceva la grammatica. La sostanza, in quanto tale, non prevede né il più né il meno; non si può né dividere né moltipli68
Cfr. Simplicio, In Cat., 110, 26 -113, 5.
Cfr. Categorie 5, 2 b 7-8.
70 Cfr. Categorie 5, 3 b 33-34.
71 Cfr. Filopono, In Cat., 76, 2 - 77, 9; Dessippo, In Cat., 2.29; 53, 26 - 54, 2.
72 Cfr. Dessippo, In Cat., 54, 3 - 22; Simplicio, In Cat., 112, 15 - 113, 5.
73 Cfr. Porfirio, In Cat., 97, 7-22.
74 Questa dottrina è chiaramente in contraddizione con quanto Aristotele, segnato dalla storicità
del suo tempo, ha affermato intorno alla necessità della schiavitù. Cfr. E. Berti, I “barbari” di
Platone e di Aristotele, in E. Berti, Nuovi studi aristotelici, vol. III, Morcelliana, Brescia 2008,
pp. 251-268, p. 262.
69
101
care e non è suscettibile di una misura maggiore o minore. Il più e il meno riguardano i
predicati della sostanza, ma mai la sostanza stessa. Possiamo, infatti, dire che un determinato uomo oggi è più intelligente di un anno fa, o più pallido di ieri, o più alto di un
altro individuo, ma questo riguarda i predicati che gli vengono attribuiti, e non ha nulla
a che fare con il suo essere più o meno sostanza, cioè soggetto di predicazione.
5.5.Quinta caratteristica: la sostanza accoglie i contrari (Categorie 5, 4 a 10 - 4 b 19)
Tutta la parte conclusiva del capitolo 5, 4 a 10 - 4 b 20, viene dedicata alla spiegazione dell’ultima caratteristica della sostanza, che si protrae per molte righe con insistenza e ripetitività, senza grande incremento argomentativo, proprio come ci si stesse
rivolgendo ad alunni, che necessitano di numerosi esempi, e si cerchi di illustrare sempre meglio, e con altre parole, le cose già dette. Si assiste, quindi, a un cambiamento di
tono rispetto ai capitoli precedenti, ellittici e sintetici. Si potrebbe forse pensare a un accorpamento di lezioni diverse per un pubblico diverso.
La caratteristica esclusiva della sostanza è quella di accogliere i contrari:
Soprattutto proprio della sostanza sembra l’essere capace, restando identica e numericamente una, di accogliere i contrari75.
Ad esempio, un certo uomo, essendo uno e il medesimo, diventa talvolta bianco, talvolta nero, sia caldo che freddo, sia cattivo che buono76.
La sostanza è l’unica cosa che, restando se stessa, indivisibile e numericamente una,
si presenta come un ente recettivo di contrari; può assumere, ad esempio, malattia e salute, il colore bianco e il colore nero. Si tratta, questa volta, di una prerogativa esclusiva
della sostanza. In nessun caso, per quanto riguarda tutte le cose che non sono sostanza,
si dà una tale caratteristica.
Aristotele sta esprimendo, anche se non esplicitamente, la distinzione tra sostanza e
accidenti. Poiché, infatti, la sostanza è soggetto delle predicazioni, essa sola può accogliere predicazioni contrarie, mentre questo non può accadere per i singoli predicati, i
quali si dicono necessariamente di un sostrato. Se, ad esempio, valutiamo una qualità, e
consideriamo, poniamo, il colore in se stesso, questo, essendo uno e identico di numero,
non potrà essere sia bianco sia nero; né, ad esempio, una stessa azione potrà essere sia
cattiva sia buona77.
Alcuni, però, - dice Aristotele - potrebbero obiettare che anche il discorso e
l’opinione possano essere enumerati tra le cose capaci di ricevere i contrari, dal momento che accolgono il vero e il falso. Infatti lo stesso discorso e la stessa opinione sembrano essere talora veri talora falsi: ad esempio, se è vero il discorso che Socrate è seduto,
o se si opina con verità che Socrate è seduto, quando Socrate si sarà alzato, lo stesso discorso risulterà falso, o si opinerà falsamente su di lui78.
Tuttavia, anche nel caso in cui l’obiezione venisse accettata, resterebbe ancora una
grande differenza tra la sostanza da una parte e il discorso e l’opinione dall’altra: la sostanza è capace di accogliere i contrari mutando se stessa, attraverso un’alterazione79; il
75
Categorie 5, 4 a 10-11. Cfr. anche: Categorie 5, 4 a 17-21; 4 a 29-34; 4 b 2-4; 4 b 13-18.
Categorie 5, 4 a 18-21.
77 Cfr. Categorie 5, 4 a 14-17.
78 Cfr. Categorie 5, 4 a 21-28.
79 Cfr. Categorie 5, 4 a 28-34. Alterazione è, in Aristotele, un termine tecnico, che indica il mutamento secondo la qualità. Cfr. i sei tipi di movimento in Categorie 14, 15 a 12 - 15 b 15.
76
102
discorso e l’opinione, invece, restano immobili, non sono modificati assolutamente da
nulla, ma sono suscettibili di essere veri o falsi soltanto se riferiti ad un oggetto o ad uno
stato di cose che si altera; ciò che muta è solo il loro oggetto. Il discorso o l’opinione
secondo cui Socrate è seduto, ad esempio, non mutano in nulla, ma possono essere talora veri talora falsi, a seconda che l’oggetto cui si riferiscono sussista oppure no80, e non
perché si verifichino in loro delle alterazioni o accolgano essi stessi i contrari.
«L’opinione e la scienza costituiscono il contenuto del discorso, che qui vale quanto una
proposizione, un discorso compiuto di cui si può dire che è vero o falso. Si avrà scienza
e opinione a seconda che il discorso si riferisca a ciò che non può o a ciò che può essere
altrimenti. E, poiché, nel nostro caso, siamo evidentemente nel regno dell’accidentale,
di ciò che ora è in un modo e ora in un altro senza regola, (perché la causa dell’alzarsi e
dello star seduti è la libera volontà dell’uomo), giustamente si parla di opinione. Il discorso scientifico infatti non può essere ora vero ora falso, perché il suo oggetto non
muta (o, che è lo stesso, muta regolarmente»81.
La sostanza, d’altro canto, sebbene sia identica e numericamente una, è essa stessa
capace di accogliere, mediante una propria trasformazione, i contrari: per diventare, ad
esempio, fredda da calda, muta, poiché si altera; allo stesso modo, si modifica diventando nera da bianca e buona da cattiva; si presenta, cioè, come sostrato fisico del divenire.
«Pur ammettendo che discorso e opinione possano accogliere i contrari, Aristotele ha
già mostrato che questo avverrebbe in un modo diverso, perché, nel caso della sostanza,
è essa a mutare, mentre, nel caso del discorso e dell’opinione, quel che muta è il loro
oggetto. Ma aggiunge ora che, proprio per questo, non è esatto dire che discorso ed opinione accolgono i contrari, perché ciò che accoglie i contrari è la cosa (e dunque una
sostanza, l’uomo che ora si siede ora sta in piedi»82. A questo discorso, occorre aggiungere una postilla, su cui Aristotele si esprimerà nel capitolo 6, e che sembra completare
il quadro intorno alla capacità di ricevere contrari:
Ma niente sembra accogliere nello stesso tempo i contrari. Ad esempio, per quel che
riguarda la sostanza, sembra che sia capace di ricevere i contrari, ma in realtà non è nello stesso tempo che si è malati e si sta bene, né si è bianchi e neri nello stesso tempo, né
alcuna delle cose accoglie nello stesso tempo i contrari83.
Questa precisazione è la salvaguardia del principio di non-contraddizione, per cui è impossibile che la stessa cosa si predichi e non si predichi della stessa cosa, nello stesso
tempo e secondo il medesimo rispetto84.
80
Cfr. Categorie 5, 4 a 36 - 4 b 2; 4 b 6-10; cfr. anche Categorie 12, 14 b 14-22.
Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 44, n. 30.
82 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 44, n. 33.
83 Categorie 6, 5 b 39 - 6 a 4.
84 Cfr. Metafisica G, 3, 1005 b 19-20.
81
103
Capitolo Sesto
La Quantità
Toà dO posoà tÕ mšn ™sti diwrismšnon, tÕ dO sunecšj: kaˆ tÕ mOn ™k qšsin
™cÒntwn prÕj ¥llhla tîn ™n aÙto‹j mor…wn sunšsthke, tÕ dO oÙk ™x ™cÒntwn
qšsin. œsti dO diwrismšnon mOn oŒon ¢riqmÕj kaˆ lÒgoj, sunecOj dO gramm»,
™pif£neia, sîma, œti dO par¦ taàta crÒnoj kaˆ tÒpoj. - tîn mOn g¦r toà ¢riqmoà
mor…wn oÙde…j ™sti koinÕj Óroj, prÕj Ön sun£ptei t¦ mÒria aÙtoà: oŒon t¦ pšnte e„
œsti tîn dška mÒrion, prÕj oÙdšna koinÕn Óron sun£ptei t¦ pšnte kaˆ t¦ pšnte,
¢ll¦ dièristai: kaˆ t¦ tr…a ge kaˆ t¦ ˜pt¦ prÕj oÙdšna koinÕn Óron sun£ptei:
oÙd' Ólwj ¨n œcoij ™p' ¢riqmoà labe‹n koinÕn Óron tîn mor…wn, ¢ll'¢eˆ dièristai:
éste Ð mOn ¢riqmÕj tîn diwrismšnwn ™st…n. æsaÚtwj dO kaˆ Ð lÒgoj tîn
diwrismšnwn ™st…n: [Óti mOn g¦r posÒn ™stin Ð lÒgoj fanerÒn: katametre‹tai g¦r
sullabÍ makr´ kaˆ brace…v: lšgw dO aÙtÕn tÕn met¦ fwnÁj lÒgon gignÒmenon]:
prÕj oÙdšna g¦r koinÕn Óron aÙtoà t¦ mÒria sun£ptei: oÙ g¦r œsti koinÕj Óroj
prÕj Ön aƒ sullabaˆ sun£ptousin, ¢ll' ˜k£sth dièristai aÙt¾ kaq' aØt»n. - ¹ dO
gramm¾ sunecšj ™stin: œsti g¦r labe‹n koinÕn Óron prÕj Ön t¦ mÒria aÙtÁj
sun£ptei, stigm»n: kaˆ tÁj ™pifane…aj gramm»n, - t¦ g¦r toà ™pipšdou mÒria prÒj
tina koinÕn Óron sun£ptei. - æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ toà sèmatoj œcoij ¨n labe‹n
koinÕn Óron, gramm¾n À ™pif£neian, prÕj ¿n t¦ toà sèmatoj mÒria sun£ptei. œsti
dO kaˆ Ð crÒnoj kaˆ Ð tÒpoj tîn toioÚtwn: Ð g¦r nàn crÒnoj sun£ptei prÒj te tÕn
parelhluqÒta kaˆ tÕn mšllonta. p£lin Ð tÒpoj tîn sunecîn ™stin: tÒpon g£r tina t¦ toà sèmatoj mÒria katšcei, § prÒj tina koinÕn Óron sun£ptei: oÙkoàn kaˆ
t¦ toà tÒpou mÒria, § katšcei ›kaston tîn toà sèmatoj mor…wn, prÕj tÕn aÙtÕn
Óron sun£ptei prÕj Ön kaˆ t¦ toà sèmatoj mÒria: éste sunecOj ¨n e‡h kaˆ Ð
tÒpoj: prÕj g¦r ›na koinÕn Óron aÙtoà t¦ mÒria sun£ptei.
”Eti t¦ mOn ™k qšsin ™cÒntwn prÕj ¥llhla tîn ™n aÙto‹j mor…wn sunšsthken,
t¦ dO oÙk ™x ™cÒntwn qšsin: oŒon t¦ mOn tÁj grammÁj mÒria qšsin œcei prÕj
¥llhla, - ›kaston g¦r aÙtîn ke‹ta… pou, kaˆ œcoij ¨n dialabe‹n kaˆ ¢podoànai
oá ›kaston ke‹tai ™n tù ™pipšdJ kaˆ prÕj po‹on mÒrion tîn loipîn sun£ptei: æsaÚtwj dO kaˆ t¦ toà ™pipšdou mÒria qšsin œcei tin£, - Ðmo…wj g¦r ¨n ¢podoqe…h
›kaston oá ke‹tai, kaˆ po‹a sun£ptei prÕj ¥llhla. - kaˆ t¦ toà stereoà dO
æsaÚtwj kaˆ t¦ toà tÒpou. ™pˆ dš ge toà ¢riqmoà oÙk ¨n œcoi tij ™piblšyai æj t¦
mÒria qšsin tin¦ œcei prÕj ¥llhla À ke‹ta… pou, À po‹£ ge prÕj ¥llhla sun£ptei
tîn mor…wn: oÙdO t¦ toà crÒnou: Øpomšnei g¦r oÙdOn tîn toà crÒnou mor…wn, Ö dO
m» ™stin Øpomšnon, pîj ¨n toàto qšsin tin¦ œcoi; ¢ll¦ m©llon t£xin tin¦ e‡poij
¨n œcein tù tÕ mOn prÒteron enai toà crÒnou tÕ d' Ûsteron. kaˆ ™pˆ toà ¢riqmoà dO
æsaÚtwj, tù prÒteron ¢riqme‹sqai tÕ ān tîn dÚo kaˆ t¦ dÚo tîn triîn: kaˆ oÛtw
t£xin ¥n tina œcoi, qšsin dO oÙ p£nu l£boij ¥n. kaˆ Ð lÒgoj dO æsaÚtwj: oÙdOn
g¦r Øpomšnei tîn mor…wn aÙtoà, ¢ll' e‡rhta… te kaˆ oÙk œstin œti toàto labe‹n,
éste oÙk ¨n e‡h qšsij tîn mor…wn aÙtoà, e‡ge mhdOn Øpomšnei. - t¦ mOn oân ™k
qšsin ™cÒntwn tîn mor…wn sunšsthke, t¦ dO oÙk ™x ™cÒntwn qšsin.
Kur…wj dO pos¦ taàta mÒna lšgetai t¦ e„rhmšna, t¦ dO ¥lla p£nta kat¦
sumbebhkÒj: e„j taàta g¦r blšpontej kaˆ t«lla pos¦ lšgomen, oŒon polÝ tÕ
leukÕn lšgetai tù t¾n ™pif£neian poll¾n enai, kaˆ ¹ pr©xij makr¦ tù ge tÕn
crÒnon polÝn enai, kaˆ ¹ k…nhsij poll»: oÙ g¦r kaq' aØtÕ ›kaston toÚtwn posÕn
lšgetai: oŒon ™¦n ¢podidù tij pÒsh tij ¹ pr©x…j ™sti, tù crÒnJ Ðrie‹ ™niaus…an À
oÛtw pwj ¢podidoÚj, kaˆ tÕ leukÕn posÒn ti ¢podidoÝj tÍ ™pifane…v Ðrie‹, - Ósh
g¦r ¨n ¹ ™pif£neia Ï, tosoàton kaˆ tÕ leukÕn f»sei enai: - éste mÒna kur…wj
kaˆ kaq' aØt¦ pos¦ lšgetai t¦ e„rhmšna, tîn dO ¥llwn oÙdOn aÙtÕ kaq' aØtÒ,
¢ll' e„ ¥ra kat¦ sumbebhkÒj.
”Eti tù posù oÙdšn ™stin ™nant…on, [™pˆ mOn g¦r tîn ¢fwrismšnwn fanerÕn Óti
oÙdšn ™stin ™nant…on, oŒon tù dip»cei À trip»cei À tÍ ™pifane…v À tîn toioÚtwn
tin…, - oÙdOn g£r ™stin ™nant…on], e„ m¾ tÕ polÝ tù Ñl…gJ fa…h tij enai ™nant…on À
tÕ mšga tù mikrù. toÚtwn dO oÙdšn ™sti posÕn ¢ll¦ tîn prÒj ti: oÙdOn g¦r aÙtÕ
kaq'aØtÕ mšga lšgetai À mikrÒn, ¢ll¦ prÕj ›teron ¢nafšretai, oŒon Ôroj mOn
mikrÕn lšgetai, kšgcroj dO meg£lh tù t¾n mOn tîn Ðmogenîn me‹zon enai, tÕ dO
œlatton tîn Ðmogenîn: oÙkoàn prÕj ›teron ¹ ¢nafor£, ™peˆ e‡ge kaq' aØtÕ mikrÕn
À mšga ™lšgeto, oÙk ¥n pote tÕ mOn Ôroj mikrÕn ™lšgeto, ¹ dO kšgcroj meg£lh.
p£lin ™n mOn tÍ kèmV polloÚj famen ¢nqrèpouj enai, ™n 'Aq»naij dO Ñl…gouj
pollaplas…ouj aÙtîn Ôntaj, kaˆ ™n mOn tÍ o„k…v polloÚj, ™n dO tù qe£trJ
Ñl…gouj pollù ple…ouj Ôntaj. - œti tÕ mOn d…phcu kaˆ tr…phcu kaˆ ›kaston tîn
toioÚtwn posÕn shma…nei, tÕ dO mšga À mikrÕn oÙ shma…nei posÕn ¢ll¦ m©llon
prÒj ti: prÕj g¦r ›teron qewre‹tai tÕ mšga kaˆ tÕ mikrÒn: éste fanerÕn Óti taàta
tîn prÒj t… ™stin. - œti ™£n te tiqÍ tij aÙt¦ pos¦ enai ™£n te m¾ tiqÍ, oÙk œstin
aÙto‹j ™nant…on oÙdšn: Ö g¦r m¾ œstin aÙtÕ kaq' aØtÕ labe‹n ¢ll¦ prÕj ›teron
¢nafšronta, pîj ¨n e‡h toÚtJ ti ™nant…on; - œti e„ œstai tÕ mšga kaˆ tÕ mikrÕn
™nant…a, sumb»setai tÕ aÙtÕ ¤ma t¦ ™nant…a ™pidšcesqai kaˆ aÙt¦ aØto‹j enai
™nant…a. sumba…nei g¦r ¤ma tÕ aÙtÕ mšga te kaˆ mikrÕn enai, - œsti g¦r prÕj mOn
toàto mikrÒn, prÕj ›teron dO tÕ aÙtÕ toàto mšga: - éste tÕ aÙtÕ kaˆ mšga kaˆ
mikrÕn kat¦ tÕn aÙtÕn crÒnon enai sumba…nei, éste ¤ma t¦ ™nant…a ™pidšcesqai:
¢ll' oÙdOn doke‹ ¤ma t¦ ™nant…a ™pidšcesqai: oŒon ™pˆ tÁj oÙs…aj, dektik¾ mOn
tîn ™nant…wn doke‹ enai, ¢ll' oÜti ge ¤ma nose‹ kaˆ Øgia…nei, oÙdO leukÕn kaˆ
mšlan ™stˆn ¤ma, oÙdO tîn ¥llwn oÙdOn ¤ma t¦ ™nant…a ™pidšcetai. kaˆ aÙt¦ d'
aØto‹j sumba…nei ™nant…a enai: e„ g£r ™sti tÕ mšga tù mikrù ™nant…on, tÕ d' aÙtÒ
™stin ¤ma mšga kaˆ mikrÒn, aÙtÕ aØtù ¨n e‡h ™nant…on: ¢ll¦ tîn ¢dun£twn ™stˆn
aÙtÕ aØtù enai ™nant…on. - oÙk œstin ¥ra tÕ mšga tù mikrù ™nant…on, oÙdO tÕ
polÝ tù Ñl…gJ, éste k¨n m¾ tîn prÒj ti taàt£ tij ™re‹ ¢ll¦ toà posoà, oÙdOn
™nant…on ›xei. - m£lista dO ¹ ™nantiÒthj toà posoà perˆ tÕn tÒpon doke‹
Øp£rcein: tÕ g¦r ¥nw tù k£tw ™nant…on tiqšasi, t¾n prÕj tÕ mšson cèran k£tw
lšgontej, di¦ tÕ ple…sthn tù mšsJ di£stasin prÕj t¦ pšrata toà kÒsmou enai.
™o…kasi dO kaˆ tÕn tîn ¥llwn ™nant…wn ÐrismÕn ¢pÕ toÚtwn ™pifšrein: t¦ g¦r
ple‹ston ¢ll»lwn diesthkÒta tîn ™n tù aÙtù gšnei ™nant…a Ðr…zontai.
OÙ doke‹ dO tÕ posÕn ™pidšcesqai tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton, oŒon tÕ d…phcu, - oÙ
g£r ™stin ›teron ˜tšrou m©llon d…phcu: - oÙd' ™pˆ toà ¢riqmoà, oŒon t¦ tr…a tîn
pšnte oÙdOn m©llon [pšnte À] tr…a lšgetai, oÙdO t¦ tr…a tîn triîn: oÙdš ge Ð
crÒnoj ›teroj ˜tšrou m©llon crÒnoj lšgetai: oÙd' ™pˆ tîn e„rhmšnwn Ólwj
oÙdenÕj tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton lšgetai: éste tÕ posÕn oÙk ™pidšcetai tÕ m©llon
kaˆ tÕ Âtton.
”Idion dO m£lista toà posoà tÕ ‡son te kaˆ ¥nison lšgesqai. ›kaston g¦r tîn
e„rhmšnwn posîn kaˆ ‡son kaˆ ¥nison lšgetai, oŒon sîma kaˆ ‡son kaˆ ¥nison
106
lšgetai, kaˆ ¢riqmÕj kaˆ ‡soj kaˆ ¥nisoj lšgetai, kaˆ crÒnoj kaˆ ‡soj kaˆ ¥nisoj:
æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn tîn ·hqšntwn ›kaston ‡son te kaˆ ¥nison lšgetai.
Tîn dO loipîn Ósa m» ™sti posÒn, oÙ p£nu ¨n dÒxai ‡son te kaˆ ¥nison lšgesqai,
oŒon ¹ di£qesij ‡sh te kaˆ ¥nisoj oÙ p£nu lšgetai ¢ll¦ m©llon Ðmo…a, kaˆ tÕ
leukÕn ‡son te kaˆ ¥nison oÙ p£nu, ¢ll' Ómoion. éste toà posoà m£lista ¨n e‡h
‡dion tÕ ‡son te kaˆ ¥nison lšgesqai.
La quantità può essere o discreta o continua; inoltre, può essere costituita da parti
che hanno una posizione l’una rispetto all’altra oppure da parti che non hanno una posizione. Sono quantità discrete, ad esempio, il numero e il discorso; continue sono, invece, la linea, la superficie, il corpo, e, oltre a questi, anche il tempo e il luogo. Le parti del
numero, infatti, non hanno un limite comune, in cui esse si congiungono tra loro. Se, ad
esempio, cinque è una parte di dieci, nessun limite comune unisce cinque e cinque, ma
essi restano separati; e anche il tre e il sette non si uniscono in nessun limite comune. In
generale, per quanto riguarda il numero, le parti non potrebbero mai avere un limite comune, ma sono sempre separate. Il numero, quindi, è una quantità discreta.
Allo stesso modo, anche il discorso è una quantità discreta (che sia una quantità risulta chiaro dal fatto che si misura in sillabe brevi e sillabe lunghe, e qui intendo il discorso che si esprime con la voce), poiché le sue parti non sono unite da nessun limite
comune. Non c’è, infatti, nessun limite comune rispetto al quale le sillabe si uniscono,
ma ognuna di esse resta in sé e per sé separata.
La linea, invece, è una quantità continua, dal momento che è possibile trovare un
limite comune in cui le parti di essa si uniscono: il punto. E la linea, a sua volta, è il limite comune della superficie: le parti del piano, infatti, si connettono in un limite comune. Allo stesso modo, anche per il corpo si potrebbe trovare un limite comune, cioè
la linea o la superficie, in cui le parti del corpo si uniscono.
Anche il tempo e lo spazio rientrano in questo genere di quantità: il presente unisce
il passato e il futuro; a sua volta, lo spazio è una quantità continua, poiché le parti del
corpo, unite da un limite comune, occupano un certo spazio. Quindi anche le parti dello
spazio, occupate rispettivamente da ciascuna delle parti del corpo, si uniscono nello
stesso limite in cui si uniscono le parti del corpo. Anche lo spazio, dunque, è una quantità continua, dato che le sue parti si uniscono in un solo limite comune.
Inoltre, alcune quantità sono costituite da parti che hanno una reciproca posizione
tra loro, altre, invece, da parti che non hanno una reciproca posizione. Le parti della linea, ad esempio, hanno una posizione l’una rispetto all’altra: ognuna di esse giace in un
posto, e si potrebbe distinguere e attribuire il posto del piano in cui ciascuna giace e con
quale delle altre parti si connette. Allo stesso modo, anche le parti del piano hanno una
certa posizione le une rispetto alle altre; si potrebbe, infatti, similmente distinguere dove
giace ciascuna, e quali si connettono tra loro. E lo stesso vale anche per il solido e lo
spazio. Nel caso del numero, invece, non si potrebbe considerare che le parti abbiano
una posizione reciproca, o quale sia il posto in cui esse giacciano, o quali si connettano
le une alle altre. E questo non è possibile neppure per le parti del tempo. Nessuna parte
del tempo, infatti, permane, e ciò che non permane come potrebbe avere una certa posizione? Piuttosto si potrebbe dire che le parti del tempo abbiano un certo ordine, per cui
c’è il prima e il poi. Lo stesso vale anche per il numero, dato che l’uno si conta prima
del due, e il due prima del tre. In questo modo, esso avrebbe un certo ordine, ma non si
107
potrebbe certo attribuirgli una posizione. Lo stesso vale anche per il discorso: nessuna
delle sue parti permane, ma, una volta pronunciata, non è più possibile riprenderla; non
vi potrebbe quindi essere una posizione delle parti, visto che nessuna permane. Alcune
quantità, dunque, sono costituite da parti che hanno una posizione, altre da parti che non
hanno posizione.
In senso proprio, si dicono quantità solo le cose di cui abbiamo parlato; tutte le altre lo sono per accidente. È guardando a queste, infatti, che chiamiamo quantità anche le
altre. Ad esempio, diciamo molto il bianco perché molta è la superficie, e diciamo lunga
l’azione e lungo il movimento perché lungo è il tempo. Non è infatti per se stessa che
ciascuna di queste cose viene chiamata quantità. Se, ad esempio, si deve attribuire la
lunghezza a un’azione, la si determinerà con il tempo, spiegando che è durata un anno o
qualcosa del genere; e se si deve spiegare la quantità del bianco, la si determina in base
alla superficie: quanta è la superficie, tanto si dirà che è il bianco. Solo le cose di cui
abbiamo parlato, quindi, si chiamano quantità in senso proprio e per se stesse; nessuna
delle altre, invece, lo è in sé e per sé, ma, semmai, per accidente.
Inoltre, la quantità non ha contrari - per quanto riguarda le quantità determinate, è
chiaro che esse non hanno nessun contrario; infatti, nulla è contrario, ad esempio, a di
due cubiti o a di tre cubiti o alla superficie o ad altre quantità di questo tipo. Non c’è,
infatti, nessun contrario -, a meno che non si dica che molto sia contrario a poco o che
grande sia contrario a piccolo. Nessuno di questi, infatti, è una quantità, ma si tratta di
relazioni. Nulla, infatti, si dice grande o piccolo in sé e per sé, ma in rapporto a qualcos’altro: una montagna, ad esempio, può dirsi piccola, e un chicco di miglio grande,
per il fatto che quest’ultimo è più grande rispetto alle cose del medesimo genere e la
prima è più piccola rispetto alle cose del medesimo genere. Si tratta, dunque, di una relazione a qualcos’altro, perché, se piccolo e grande si dicessero per se stessi, una montagna non si direbbe mai piccola, e un chicco di miglio non si direbbe mai grande. E ancora, noi diciamo che ci sono molte persone nel villaggio e poche ad Atene, pur essendo
quest’ultime molto più numerose rispetto alle prime; e diciamo che ci sono molte persone in casa e poche a teatro, pur essendo queste ultime più numerose. Inoltre, le espressioni di due cubiti e di tre cubiti e ogni altra cosa di questo genere indicano una quantità, mentre grande e piccolo non indicano una quantità, ma una relazione. Il grande e il
piccolo, infatti, si vedono solo in relazione ad altro. È chiaro, dunque, che essi rientrano
nei relativi.
Inoltre, sia che vengano considerati come quantità sia che non vengano considerati
come tali, essi non hanno nessun contrario. E di fatti, ciò cui non è possibile fare riferimento in sé e per sé, ma solo in relazione ad altro, come potrebbe avere qualcosa di contrario? Inoltre, se si assume che grande e piccolo siano contrari, accadrà che la stessa
cosa accoglie nello stesso tempo i contrari e che le stesse cose sono contrarie a se stesse.
Può accadere, infatti, che la stessa cosa sia, nello stesso tempo, sia grande sia piccola: è,
infatti, piccola rispetto a questo, e grande rispetto a quest’altro. Può capitare, quindi, che
la stessa cosa possa essere, nello stesso tempo, sia grande sia piccola, così da accogliere
simultaneamente i contrari. È chiaro, tuttavia, che nulla possa accogliere nello stesso
tempo i contrari. Per quanto riguarda la sostanza, ad esempio, è chiaro che essa è capace
di ricevere i contrari, ma non è certo nello stesso tempo che è malata e sana, né è nello
stesso tempo che è bianca e nera, e nessuna delle altre cose accoglie nello stesso tempo i
contrari.
D’altra parte, <in caso contrario>, accadrebbe che le cose siano contrarie a se stesse. Se, infatti, grande è contrario a piccolo, e la stessa cosa risulta insieme grande e pic-
108
cola, allora la stessa cosa sarà contraria a se stessa. Ma è impossibile che una stessa cosa
sia contraria a se stessa. Perciò, grande non è il contrario di piccolo, e molto non è il
contrario di poco, di modo che, anche se si dirà che essi non rientrano nei relativi, ma
nella quantità, non avranno nessun contrario.
La contrarietà nella quantità sembra sussistere soprattutto nel caso del spazio. Alto,
infatti, si pone come contrario a basso, chiamando bassa la regione centrale, per il fatto
che la distanza tra il centro e i limiti dell’universo è massima. E sembra che sia da questi
contrari che sia dedotta la definizione di tutti gli altri contrari. Infatti si definiscono contrarie le cose che hanno la massima distanza all’interno dello stesso genere.
La quantità non sembra accogliere il più e il meno, come ad esempio nel caso di “di
due cubiti”: non c’è nulla che sia più “di due cubiti” di qualcos’altro; e anche nel caso
del numero, il tre, ad esempio, non si dice affatto più tre del cinque, né il tre si dice più
tre di un altro tre. E neppure il tempo si dice più tempo rispetto a un altro tempo. E, in
generale, di nessuna delle cose di cui si è parlato si dice il più e il meno. La quantità,
dunque, non accoglie il più e il meno.
Soprattutto proprio della quantità è l’essere detta uguale e disuguale. Ciascuna delle quantità di cui abbiamo parlato, infatti, può essere detta uguale e disuguale: il corpo,
ad esempio, può essere detto uguale e disuguale, il numero può essere detto uguale e disuguale, il tempo può essere detto uguale e disuguale, e, allo stesso modo, ciascuna delle altre quantità nominate può essere detta uguale e disuguale. È chiaro, invece, che tutte
le altre cose che non fanno parte della quantità non si dicono affatto uguali e disuguali:
la disposizione, ad esempio, non si dice affatto uguale e disuguale, ma piuttosto simile;
e il bianco non si dice affatto uguale e disuguale, ma simile. Il carattere maggiormente
proprio della quantità, dunque, è che possono esserle attribuiti l’uguale e il disuguale.
Sommario
Il presente capitolo può essere suddiviso in sezioni.
I. Nella prima sezione, sono presentate due classificazioni delle quantità. Secondo
la prima, le quantità possono essere continue o discrete; stando alla seconda,
le quantità possono essere costituite da parti che hanno una posizione l’una
rispetto all’altra oppure costituite da parti che non hanno una posizione l’una
rispetto all’altra.
II. Nella seconda sezione, Aristotele presenta un’ulteriore classificazione delle
quantità: quelle per sé e quelle per accidente.
III. Nell’ultima sezione, Aristotele espone le caratteristiche che appartengono alla categoria della quantità, quelle che ha in comune con altre categorie e, infine, quella peculiare e propria esclusivamente della sostanza.
1. La quantità non ha contrari. Questo risulta chiaro per quanto riguarda le quantità
determinate nulla è contrario, ad esempio, a “di due cubiti” o a “di tre cubiti”, o
alla superficie o ad altre quantità di questo tipo. Si potrebbe però obiettare che ci
sia contrarietà quando si dice che molto è contrario a poco o che grande è contrario a piccolo, ma in nessuno di questi casi si parla di una quantità, ma di relazioni.
2. La quantità non accogliere il più e il meno. Non c’è nulla, ad esempio, che sia “di
due cubiti” in modo maggiore o minore rispetto a qualcos’altro; e anche nel caso
109
del numero, il tre, ad esempio, non è più o meno tre del cinque, né il tre si dice
più tre di un altro tre.
3. La caratteristica esclusiva della sostanza è quella di essere detta uguale e disuguale. Ciascuna delle altre quantità nominate (il corpo, il numero, il tempo, etc.)
può essere detta uguale e disuguale.
1. La collocazione della trattazione della categoria della quantità
Subito dopo la categoria della sostanza, Aristotele presenta la quantità. Questo ordine
di presentazione è stato oggetto di dibattito tra i commentatori fin dall’antichità1. Per
quale ragione Aristotele ha deciso di analizzare la categoria della quantità immediatamente dopo quella della sostanza? Secondo gli antichi, perché la quantità è strettamente
legata alla sostanza e ha diversi punti in comune con essa:
1. la quantità coesiste2 con l’essere3;
2. la quantità condivide con la sostanza diverse caratteristiche comuni: il non avere
contrari4 e il non ammettere il più e il meno5, a differenza, ad esempio, della qualità;
3. ciò che si trova nell’estensione e manca ancora della qualità è prioritario rispetto
alla qualità che si aggiunge, appunto, a quanto è già nell’estensione. Per comprendere
questo passaggio, occorre far riferimento a Metafisica Z 1029 a 7-26, in cui Aristotele
spiega in che senso è possibile considerare la materia come sostanza. Si considerano
delle proprietà dei corpi, quali lunghezza (mÁkoj), larghezza (pl£toj) e profondità
(b£qoj), che vengono viste come più importanti rispetto alle altre determinazioni che
sono affezioni (p£qh), azioni (moi»mata) e potenze (dun£meij) dei corpi. Lunghezza,
larghezza e profondità, però, non sono sostanze, ma quantità, e la quantità non è una sostanza, ma sostanza è il sostrato primo al quale ineriscono tutte le determinazioni. Tuttavia - aggiunge Aristotele - se togliamo lunghezza, larghezza e profondità, ci accorgiamo che non resta nulla se non qualcosa di antecedente, la materia, che viene determinato da esse; per cui, coloro che considerano la sostanza dal punto di vista delle determinazioni che riguardano l’estensione, approderanno alla tesi per cui la materia è la sola
sostanza. Il fatto che Aristotele non concordi con la conclusione assoluta per cui la sostanza è esclusivamente la materia non significa che egli neghi l’importanza delle determinazioni quantitative che fanno di un’estensione una sostanza. Senza determinazioni
quantitative, infatti, avremmo un primo sostrato non determinato e privo di grandezza e
dimensioni, che è la materia prima. I commentatori Neoplatonici di Aristotele, nel tentativo di avvicinare le dottrine dei grandi filosofi greci, cercarono di identificare la nozio1
Cfr. Dessippo, In Cat., 64, 15 e ss; Porfirio, In Cat., 100, 8 e ss; Simplicio, In Cat., 120, 25 e
ss.
2 Cfr. Simplicio, In Cat., 120, 29, utilizza il verbo sunuf…sthmi, dalla cui radice deriva Ùpóstasij, che, nel Neoplatonismo, diventa un termine tecnico per indicare l’esistenza sostanziale,
l’essere reale.
3 Cfr. Barrie Fleet, in Simplicius, On Aristotle Categories 5-6, translated by Frans A. J. De Haas
and Barrie Fleet, Gerald Duckworth & Co. Ltd., London 2001, p. 138 n. 6, spiega di aver tradotto l’espressione greca tù Ônti con l’inglese “Being”, l’Essere, perché il concetto ricorda quello
espresso da Platone nel Parmenide, 142 e ss.; l’espressione, tuttavia, in quanto consiste in un
articolo determinativo unito ad un participio presente neutro del verbo essere, potrebbe anche
essere tradotta con “ciò che esiste”, cioè, nella visione aristotelica, ogni sostanza sensibile.
4 Cfr. Categorie 6, 5 b 11 - 6 a 19.
5 Cfr. cfr. Categorie 6, 6 a 19-26.
110
ne aristotelica di estensione priva di grandezza a quella platonica del ricettacolo presentata nel Timeo. Come spiega Ammonio: «la materia prima, senza forma e incorporea,
riceve in primo luogo le tre dimensioni, diventando così un sostrato tridimensionale
chiamato sostrato secondo; successivamente riceve le qualità»6. La quantità, dunque,
appare come un primo fondamentale passo che dà avvio a quel processo di progressiva
determinazione che porterà alla formazione della sostanza sensibile, massimamente determinata; senza quantità, infatti, è impossibile procedere alla determinazione qualitativa. Come osserva Pesce, Boezio «giustifica il fatto che, subito dopo la sostanza, si tratti
della quantità prima che della qualità con la considerazione che la prima, a differenza
della seconda, concerne tutte le cose. Ogni cosa, infatti, è una o molteplice ed una è la
stessa materia che pure, in sé considerata, priva della forma, non presenta nessuna determinazione qualitativa»7;
4. quando qualcosa viene rimosso, se l’estensione resta, la sostanza non viene rimossa, se invece viene rimossa l’estensione, allora scompare anche la sostanza (persino nei
casi del mutamento (k…nhsij), i cambiamenti quantitativi (aumento e diminuzione) risultano molto vicini a quelli della sostanza (generazione e corruzione) e avvengono nel
caso in cui la forma resta la stessa: ad esempio, se un bambino di appena un anno diventa adulto). Una diversa posizione intorno all’ordine delle categorie si trova in un trattato
pseudo-pitagoreo sulle categorie, probabilmente datato intorno al primo secolo a. C. e
attribuito ad Archita8. In questo trattato, la sostanza è la prima categoria perché è l’unica
a fungere da sostrato a tutto il resto e perché è intellegibile per se stessa, senza fare riferimento al resto, mentre il resto, per essere intellegibile, ha bisogno di riferimenti alla
sostanza. Subito dopo la sostanza, c’è la qualità (e non la quantità) perché non può esistere qualcosa che non sia “così e così”, cioè che non abbia determinate caratteristiche
qualitative. Come giustamente rileva Simplicio9, non è sorprendente che ognuno stili un
proprio ordine delle categorie a seconda della propria posizione filosofica. Lo PseudoArchita svolge il suo ragionamento prendendo come punto di partenza l’intellegibile,
presupponendo che l’unico modo in cui riconosciamo le sostanze intellegibili è attraverso la riconduzione a dei generi sommi e che, se riusciamo a riconoscere le sostanze sensibili, è solo in riferimento alle sostanze intellegibili, grazie alle quali notiamo quelle
specifiche qualità che caratterizzano la sostanza. In questa ottica, se la qualità viene rimossa, viene rimosso anche ogni carattere specifico e ogni individualità, poiché viene
rimosso il sensibile e, di conseguenza, anche la comprensibilità del sensibile; se, invece,
viene rimossa la quantità, viene rimosso soltanto il sensibile e il composito dal momento. La qualità, infatti, non ha parti, è inestesa e distribuita attraverso i corpi, ma non in
modo che risulti divisibile; la quantità, invece, è estesa, separata e divisibile. Da questo
punto di vista, dunque, la qualità risulta più vicina alla sostanza intesa come principio
incorporeo e la qualità risulta posteriore. Aristotele, diversamente dallo Pseudo-Archita,
6
Ammonio, In Cat., 54, 4.
D. Pesce, Aristotele, Le Categorie, Liviana Editrice, Padova 1966, pp. 49-50.
8 Poiché Archita visse storicamente prima di Aristotele, si pensò che lo Stagirita non inventò lo
schema delle dieci categorie, ma si limitò a dare un particolare ordine alla lista che era già stata
fornita precedentemente dallo Pseudo-Archita. Cfr. R. Sorabji, Introduction to Ammonius: On
Aristotle’s Categories, trans. S. M. Cohen and G. B. Matthews, Gerald Duckworth & Co. Ltd,
London 1991, pp. 1-6; per un commentario del testo dello Pseudo-Archita, si veda Th.A.
Szlezàk, Pseudo-Archytas über die Kategorien, herausgegeben, übersetzt und kommentiert von
Th.A.S., Berlin-New York 1972.
9 Cfr. Simplicio, In Cat., 122, 30.
7
111
considera di primaria importanza la sostanza composta e corporea - il sinolo -, per cui,
nella sua visione, diventa fondamentale la categoria della quantità, che coesiste con
l’estensione della sostanza così considerata. Ma, per quanto la categoria della quantità
possa essere importante - ed è evidente che tutte, a loro modo, lo siano -, per lo Stagirita
l’unico primato resta sempre e solo quello della categoria della sostanza, e di fatto nessun luogo aristotelico può dimostrare che la quantità sia rilevante quanto la sostanza o
comunque abbia una supremazia sulle restanti categorie.
2. Una duplice suddivisione delle quantità
2.1. Quantità discrete e quantità continue
Come si è osservato fin dall’antichità10, la quantità non viene qui definita, ma solo divisa in diversi generi, e questo fatto sarebbe comprensibile in quanto si tratta di uno dei
generi sommi. Infatti, la categoria della quantità, come, del resto, tutte le categorie, non
può essere definita.
La mancanza di una definizione, sostituita dalla presentazione dei generi in cui si divide l’oggetto della trattazione, ha luogo nel momento in cui manca una nozione comune che possa abbracciare tutti i generi sottostanti.
In Metafisica D 13, 1020 a 7-9, tuttavia, viene presentata una nozione di quantità:
Si dice quantità ciò che è divisibile in parti, ciascuna delle quali è per natura qualcosa
di uno e di determinato11.
Aristotele specifica che la quantità può essere: una pluralità (plÁqoj), se è numerabile
(¢riqmhtÕn) e può dividersi in parti non continue12, oppure una grandezza (mšgeqoj), se
è misurabile (metrhtÕn) e se è divisibile in parti continue. Si noti che il termine plÁtoj,
nelle Categorie, viene usato una sola volta, e precisamente, in Categorie 8, 9 a 2, in cui,
però, non viene usato come termine tecnico e specifico, ma solo per esprimere una
quantità generica di tempo (di¦ crÒnou plÁqoj). Escluderei che si tratti di un termine
usato in senso tecnico secondo l’esplicazione presente in Metafisica, perché, come vedremo di seguito, Aristotele dirà che, in riferimento al tempo, si dovrebbe parlare di
quantità continua, in cui è possibile pensare un limite comune rispetto al quale le parti si
connettono: il tempo presente si connette, infatti, a quello passato e a quello futuro e,
dunque, sarebbe più corretto utilizzare il termine mšgeqoj. Il termine mšgeqoj ricorre
due volte nel testo delle Categorie, in 15 b 20 e in 15 b 21, in riferimento a degli esempi
di quantità connessi alla categoria dell’avere. La motivazione per cui, nelle Categorie,
Aristotele non usa i termini plÁqoj e mšgeqoj in senso tecnico potrebbe essere quella
indicata da Simplicio13: si sta presentando una divisione della Quantità che non è quella
delle specie (che sono plÁqoj e mšgeqoj), ma quella delle differenze, che sono le quantità continue e le quantità discrete.
10
Cfr. Plotino, Enneadi VI, 1, 4 e ss.
PosÒn legštai tÕ diairetÕn e„j ™nup£rconta ïn ˜k£teron À ›kaston ›n ti kaˆ tÒde ti
pšfuken enai.
12 Cfr. Metafisica D 13, 1020 a 9-11.
13 Cfr. Simplicio, In Cat., 123, 1 e ss..
11
112
2.2. Quantità «costituite da parti che hanno una posizione l’una rispetto all’altra» e
quantità «costituite da parti che non hanno una posizione l’una rispetto all’altra»
La seconda divisione che Aristotele presenta, quella tra quantità «costituite da parti
che hanno una posizione l’una rispetto all’altra» e quantità «costituite da parti che non
hanno una posizione l’una rispetto all’altra», non si sovrappone totalmente alla precedente. Le quantità continue, infatti, non sono le stesse di quelle costituite da parti che
hanno una posizione reciproca: ciò che consiste di parti che hanno una posizione reciproca sono sempre continue, ma le quantità continue non sono sempre costituite la parti
che hanno posizione reciproca; allo stesso modo, le quantità discrete sono sempre costituite da parti che non hanno una posizione reciproca, ma non tutte le quantità costituite
da parti che non hanno una posizione reciproca sono, ipso facto, discrete.
Parlando di queste due diverse divisioni, Porfirio14 presenta un’osservazione molto
interessante supportata da un esempio che esula dal tema di riferimento15. Egli osserva
che non è affatto sorprendente che Aristotele presenti, l’una dietro all’altra, due diverse
divisioni del genere della quantità, dal momento che esse si generano da due differenti
punti di vista. Portando un esempio che testimoni questa possibilità all’interno della categoria della sostanza, si dice che l’“essere vivente”, ad esempio, può essere diviso in
“razionale” oppure “irrazionale”, in “mortale” oppure “immortale”, in “dotato di piedi”
e “senza piedi”, o, ancora, in “alato”, “terrestre” e “acquatico”. Tali divisioni non possono essere identificate o sussunte l’una sotto l’altra. Allo stesso modo, la quantità, intesa come un intero, può essere divisa in continua o discreta, e la stessa quantità, ancora
intesa come un intero, può essere divisa in costituita da parti che hanno una posizione
reciproca o costituita da parti che non hanno una posizione reciproca.
In questa molteplicità degli schemi che Aristotele assume per analizzare la categoria
della quantità assume un ruolo di primo piano la movenza tipica del pollacîj, la quale
viene, in qualche modo, assunta, seppur inconsapevolmente anche dai commentatori - in
particolare Simplicio -, segno che non è possibile comprendere Aristotele se non accettando la varietà degli scenari che ci presenta.
3. Le quantità discrete
Una quantità è discreta (diwrismšnon) se non esiste nessun limite comune attraverso
il quale le sue parti possano congiungersi. «La quantità discreta è dunque un aggregato,
un tutto costituito da parti staccate. Di qui lo sforzo di Aristotele per definire con esattezza quest’ultimo concetto: staccate sono due cose che non hanno un confine […] comune. Ed infatti nell’aggregato ogni elemento che lo costituisce è chiuso in se stesso,
come nella propria superficie ed ha perciò un confine proprio, un confine che può trovarsi accanto al confine di un altro elemento, ma non si fonderà mai con esso, divenendo un confine comune. Se questo accadesse, non si avrebbe più un aggregato, ma
un’unica cosa, e cioè una quantità continua»16. Esempi di quantità discrete sono il numero (¢riqmÕj) e il discorso (lÒgoj).
14
Cfr. Porfirio, In Cat., 101,1 e ss..
La medesima osservazione viene riportata da Simplicio, In Cat., 123, 23 e ss..
16 Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 50, n. 2.
15
113
3.1. Il numero
Aristotele analizza l’esempio del numero (¢riqmÕj). Se consideriamo, ad esempio, il
numero dieci, non è pensabile un confine comune che colleghi le parti, come il cinque e
il cinque, oppure il tre e il sette. Come osserva Simplicio17, si potrebbe pensare che sia
l’unità ad unire le parti che formano il numero; l’unità, però, non è il limite del numero,
ma la parte: il numero cinque è composto da cinque unità messe insieme, se vi aggiungessimo un ulteriore unità intesa come limite, non avremmo più un cinque, ma un sei. Il
numero, infatti, è composto di unità e può essere diviso in unità, ragion per cui esso non
può essere diviso all’infinito; la linea, invece, non può essere divisa in tutti i punti che la
costituiscono, ragion per cui essa è divisibile all’infinito. In questo esempio portato da
Aristotele, «il numero sembra ancora arcaicamente concepito come un complesso di oggetti (come un aggregato), per esempio di punti materiali, come nei primi Pitagorici, se
si ha un assieme di dieci sassolini allineati, si può mentalmente dividerlo in due gruppi
di cinque sassolini ciascuno o in uno di tre e un altro di sette, o in altro modo; ma sempre il taglio ideale cadrà tra due unità, scosterà due superfici»18. Si potrebbe obiettare
che anche la linea sia divisibile in punti che costituiscono non il limite comune, ma le
parti (come le unità per il numero). La questione discriminante tra quantità discrete e
quantità continue si basa, tuttavia, sulla possibilità di una divisione che conduca a
un’unità minima che non perda i caratteri dell’interezza della quantità: se dividiamo il
numero nelle sue parti - come abbiamo osservato, si considerano i numeri interi naturali
- arriviamo all’unità minima (l’uno), che è essa stessa un numero; se, invece, dividiamo
all’infinito la linea, arriviamo al punto, che, nella definizione di Euclide, è ciò che non
ha dimensione, un carattere assai lontano dalla natura della linea, che è ciò che ha lunghezza.
3.2. Il discorso
Aristotele continua con l’analisi delle quantità discrete e spiega l’esempio del discorso (lÒgoj). Prima di presentare le ragioni per cui il lÒgoj è una quantità discreta, lo
Stagirita sente il bisogno di specificare a quale tipo di lÒgoj si stia facendo riferimento
e perché esso possa essere considerato una quantità. Il tipo di lÒgoj cui ci si riferisce è
non è il ragionamento inteso come un pensiero, tutto mentale, ma è il discorso esteriorizzato, vocale, parlato (lšgo dO aÙtÕn tÕn met¦ fwnÁj lÒgon gignÒmenon « intendo il
discorso che si esprime con la voce»). Nota giustamente Pesce, che «la precisazione, richiesta dal termine greco lÒgoj che vuol dire tanto il processo interno del pensiero
quanto l’esterno discorso, diventa in un certo senso inutile per il latino (e così per
l’italiano) che adopera per i due significati due parole diverse: ratio e oratio (pensiero e
discorso)»19. Porfirio20 presenta un’analisi molto interessante dei diversi significati del
termine lÒgoj, distinguendo tra il pensiero, il discorso interno, mentale (lÒgoj
™ndi£qetoj) e il discorso esterno, proferito, orale, verbale (lÒgoj proforikÒj).
Quanto al motivo per cui tale discorso esteriorizzato attraverso la voce, proferito,
possa essere considerato una quantità, basti pensare al fatto che esso si misura in sillabe
brevi e sillabe lunghe (katametre‹tai sullabÍ makr´ kaˆ brace…v). In che modo il
17
Cfr. Simplicio, In Cat., 123,33-124,5.
Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 50, n. 3.
19 Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 51, n. 4.
20 Cfr. Porfirio, In Cat., 64, 28 e ss..
18
114
discorso verbale rientra tra le quantità di tipo discreto? Come rileva Porfirio21, ogni discorso è formato da nomi e verbi e altre parti del discorso; tutti questi sono composti di
sillabe; le sillabe possono essere brevi oppure lunghe; le sillabe lunghe stanno alle sillabe brevi in un rapporto di due a uno; ora, poiché uno e due sono dei numeri, e il numero, come abbiamo precedentemente osservato, è una quantità discreta, anche le sillabe
risultano essere quantità discrete, e, di conseguenza, anche il loro composto, cioè la parola e l’insieme di parole (il discorso). Si tratta di una quantità discreta perché non c’è
nulla di comune che unisca le sillabe; ad esempio nella parola “Socrate” non c’è nulla di
comune che tenga insieme le diverse parti. A nulla vale obiettare che è il significato a
tenere insieme le sillabe, perché se anche prendessimo in considerazione un termine
senza senso, potremmo comunque misurarlo; il limite comune, dunque, non è di tipo
semantico. «Le sillabe sono l’unità fonetica minima e, come i sassolini-numeri, se ne
restano in certo modo staccate, ciascuna in se stessa, ancorché costituenti nel discorso
corrente, a differenza di quello sillabato, una successione ininterrotta» 22.
Intorno al discorso considerato come quantità discreta, è stata sollevata una difficoltà: si potrebbe obiettare che esso assurga al titolo di quantità solo perché si svolge nel
tempo. In tal caso, esso non sarebbe più una quantità per se, ma lo sarebbe solo per derivazione, e cioè per accidens. Tuttavia, «la giustificazione che ne dà Aristotele sta nel
fatto della quantità lunga o breve delle sillabe, che sembrerebbe dunque egli non sentisse come un carattere temporale»23. Secondo Zanatta, il discorso scritto, «apparendo più
evidenziatamente nell’aspetto della successione, del suo evolversi, ossia dell’aspetto
temporale del suo costituirsi, verrebbe prevalentemente considerato quantità perché legato, appunto, al tempo: vale a dire quantità in senso accidentale»; il discorso parlato,
invece, qui considerato, sarebbe legato, «per la scadenza della dizione, alle unità che
vengono scandite che non al fatto di svolgersi nel tempo»24.
4. Le quantità continue
4.1. La linea, la superficie, il corpo
Una quantità è continua (sunecšj) se ha le caratteristiche opposte a quelle possedute
dalla quantità discreta25, se c’è, cioè, un limite comune che unisca le diverse parti. Esempi di quantità continue sono: la linea (gramm»), la superficie (™pif£neia), il corpo
(sîma), e, oltre a questi, il tempo (crÒnoj) e il luogo (tÒpoj).
Aristotele analizza i primi tre esempi - tutti tratti dall’ambito geometrico - che poco
prima aveva elencato per quanto riguardava le quantità continue: la linea, la superficie e
il corpo.
Si inizia dalla nozione geometrica più elementare: la linea (gramm»). Questa viene
annoverata tra le quantità continue perché c’è un limite comune rispetto al quale le sue
parti si congiungono, e tale limite è il punto (stigm»). Il punto non è una parte della linea, e questo è attestato dal fatto che esso possiede delle proprietà del tutto differenti da
quelle della linea: il punto è adimensionale, la linea possiede la lunghezza. «Due seg21
Cfr. Porfirio, In Cat., 101, 30 e ss., seguito pedissequamente da Simplicio, In Cat., 124, 10 e
ss..
22 Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 51, n. 5.
23 Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 47.
24 Zanatta, Aristotele, Le categorie…, p. 179.
25 Così la presenta Porfirio, In Cat., 102, 10 e ss..
115
menti successivi sono nello stesso tempo divisi e congiunti tra loro da un unico punto,
che costituisce perciò il loro confine comune. Il punto quindi - nota Boezio - proprio
perché confine o termine della linea, non ne è una parte»26. La linea, definita da Porfirio27, un intervallo senza larghezza, è composta di parti continue, in modo tale che, se
una parte viene spostata, tutte le altri parti vengono spostate con essa; cosa, questa, che
non accade nel caso delle quantità discrete.
Seguendo l’esempio di Porfirio, immaginiamo di essere in possesso di una misura
completa di chicchi di grano. Se preleviamo un chicco, tutti gli altri chicchi non si muovono con esso, ma restano esattamente nello stesso posto (quantità discreta); se, invece,
spostiamo una parte di un chicco, allora tutto il chicco sarà spostato, in virtù del fatto
che tutte le parti che lo compongono sono continue28.
Anche la superficie (™pif£neia) è una quantità continua, perché le parti del piano (t¦
toà ™pipšdou mÒria) si congiungono in un confine comune: la linea. Allo stesso modo,
anche il corpo (sèma) appartiene al gruppo delle quantità continue, perché le parti di
esso si congiungono grazie a dei limiti comuni: la linea come spigolo e la superficie
come sezione29.
4.2. Questioni aperte intorno alla linea, alla superficie e al corpo
Almeno due sono le questioni trattate e discusse dai commentatori antichi che restano
aperte. La prima viene affrontata da Simplicio30. Alla spiegazione per cui le quantità
continue sono quelle per cui esistono dei limiti comuni che ne congiungono le parti si
potrebbe obiettare che, nel momento in cui la quantità viene divisa nelle sue parti, immediatamente ciascuna di queste non possiede più dei limiti comuni che tengono insieme le parti, ma ognuna è circoscritta dai propri limiti. La risposta è che la divisione in
parti deve essere considerata in termini di potenzialità, e non di realtà: solo in potenza il
punto è il limite della linea, la linea è il limite della superficie e la superficie è il limite
del corpo.
La seconda questione, riportata da Simplicio31, è che Lucio (precursore di Nicostrato)
ha obiettato ad Aristotele di aver trasferito il corpo, che è un sostrato, quindi una sostanza - che resta la stessa e identica nel numero ed è capace di ricevere i contrari - nella categoria della quantità. In risposta a questo, si può, a mio avviso, osservare che il corpo,
tuttavia, in quanto esteso sotto tre dimensioni (lunghezza, larghezza e profondità) e può
per natura essere misurato, rientra perfettamente nella categoria della quantità.
4.3. Il tempo e lo spazio
Oltre alla linea, alla superficie e al corpo, Aristotele aggiunge due ulteriori esempi di
quantità continue: il tempo (Ð crÒnoj) e lo spazio (Ð tÒpoj). Per quanto riguarda il tempo, c’è, infatti, un limite comune che congiunge le parti: il tempo presente (Ð nàn
crÒnoj), «inteso come punto temporale, come l’ora […], l’istante privo di durata»32,
26
Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 51, n. 5.
Cfr. Porfirio, In Cat., 102, 16.
28 Cfr. Boezio 205 A.
29 Cfr. Pesce, Aristotele, Le Categorie.., p. 51, n. 7.
30 Cfr. Simplicio, In Cat., 125, 1-12.
31 Cfr. Simplicio, In Cat., 125, 12 e ss.
32 Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 51, n. 8.
27
116
congiunge il passato e il futuro, in quanto è il punto di chiusura del passato e il punto di
apertura del futuro33.
Le dinamiche che intercorrono tra le parti del tempo sono molto simili a quelle di cui
si è parlato a proposito della linea. Potremmo pensare al tempo come a una linea cronologica in cui la funzione del punto viene assunta dall’istante: come nella linea il punto
adimensionale è il limite comune di una quantità estesa che possiede larghezza, così nel
tempo l’istante privo di durata è il limite comune di una quantità che è la durata stessa.
Il punto e l’istante non sono parti, ma limiti comuni, rispettivamente, della linea e del
tempo, in quanto possiedono delle caratteristiche non solo diverse, ma addirittura opposte a quelle dell’intera quantità.
Quanto allo spazio, per poter comprendere la spiegazione qui offerta da Aristotele,
occorre richiamare Fisica D 4, in cui il Filosofo presenta la propria concezione e la definizione del luogo. «Una prima caratterizzazione Aristotele la guadagna distinguendo il
luogo che è comune a molte cose e il luogo che è proprio di ciascun oggetto»34.
[…] il luogo, da una parte, è quello comune nel quale sono tutti i corpi, dall’altra è
quello particolare in cui immediatamente un corpo è […], e se il luogo è ciò che immediatamente contiene ciascun corpo, esso sarà, allora, un certo limite […]35.
Successivamente Aristotele specifica che
[…] il luogo è ciò che contiene quell’oggetto di cui è luogo e che non è nulla della cosa
medesima che esso contiene36.
Il luogo, dunque, è insieme limite e contenente del corpo, è il primo immobile limite del
contenente, una definizione che verrà resa illustre dai medievali attraverso la formula
terminus continentis immobilis primus:
il luogo è […] il limite del corpo contenente, in quanto esso è contiguo al contenuto37.
Essendo il luogo così concepito, poiché ogni parte di un corpo occupa una corrispondente parte del luogo, e poiché ogni parte del corpo si congiunge all’altra attraverso un
limite comune, allora anche le parti del luogo devono congiungersi attraverso un limite
comune, data anche l’impossibilità del vuoto nella concezione aristotelica. Lo Stagirita
non esplicita e non spiega, nel testo delle Categorie, la propria nozione di tempo, il che
compromette un po’ la comprensione del passo; si potrebbe pensare che o il pubblico
cui si stava rivolgendo conosceva già le nozioni cui si stava facendo implicito riferimento, o il filosofo non intendeva volontariamente occuparsi in questa sede di temi che appartenevano specificatamente alla scienza naturale, oppure entrambe le cose insieme. In
realtà qui Aristotele non deve aver sentito il bisogno di trattare della nozione di tempo,
in quanto il contesto non lo richiedeva, e questo si spiega bene con il fatto che lo Stagirita distingue sempre gli ambiti conosci viti, secondo quella movenza che Natali ha
chiamato di “dipartimentalismo epistemologico”38.
33
Sull’istante come punto di unione del passato e del futuro, si veda Fisica D, 222 a 10-11.
G. Reale, Introduzione ad Aristotele, Editori Laterza, 1974, 1995 , p. 78.
35 Fisica D 2, 209 b 31 ss., Traduzione di A. Russo, Aristotele, La Fisica, Laterza, Bari 1968,
anche in Aristotele, Opere, Roma-Bari 1973.
36 Fisica D 4, 210 b 34 - 211 a 1.
37 Fisica D 4, 212 a 6.
38 Cfr. Natali, ***.
34
8
117
5. Quantità costituite da parti che hanno o non hanno una posizione reciproca
Aristotele introduce qui una seconda divisione del genere della quantità: ci sono
quantità costituite da parti che hanno una reciproca posizione tra loro (t¦ mOn ™k qšsin
™cÒntwn prÕj ¥llhla tîn ™n aÙto‹j mor…wn sunšsthken) e ci sono quantità costituite, invece, da parti che non hanno una reciproca posizione (t¦ dO oÙk ™x ™cÒntwn qšsin). Questa divisione non coincide e non corrisponde con la precedente, operata tra
quantità discrete e quantità continue. Simplicio39 specifica che Aristotele ha bisogno di
questa ulteriore suddivisione, che il commentatore descrive proprio come aggiuntiva alla prima40, dal momento che la prima non riesce a dare conto di tutte le differentiae.
Tutte le quantità composte di parti che hanno posizione reciproca, infatti, sono continue, ma non tutte le quantità continue sono composte da parti che hanno una posizione
reciproca. Infatti, «la posizione reciproca delle parti presuppone la continuità e assieme
la permanenza nello spazio; ecco perché restano esclusi non soltanto il numero e il discorso (quantità discrete e non continue), ma anche il tempo (che è sì continuo, ma non
permanente nello spazio)»41. Per converso, le quantità discrete sono tutte composte di
parti che non hanno posizione reciproca, ma non tutte le quantità che non hanno posizione reciproca sono discrete.
Incrociando le due suddivisioni presentate la Aristotele e i rispettivi esempi analizzati, possiamo concludere che «seconda la prima divisione, cinque sono le tipologie di
quantità continua: la linea, la superficie, il corpo, il tempo e lo spazio; e due sono le tipologie di quantità discreta: il numero e il discorso. Stando alla seconda divisione, ci
sono quattro tipi di quantità le cui parti hanno posizione reciproca: la linea, la superficie,
il corpo e il luogo; e tre tipi che non presentono posizione: il numero, il discorso e il
tempo»42.
Porfirio43 afferma che tre sono le condizioni che si devono verificare affinché si possa parlare di quantità le cui parti hanno posizione reciproca:
1. un luogo in cui le parti sono locate;
2. la coesistenza delle parti stesse, per cui non dovrebbe verificarsi che alcune parti
restino mentre altre scompaiano; le parti devono poter esistere insieme simultaneamente;
3. la continuità e la congiunzione delle parti.
Qualora venisse a mancare qualcuna di queste condizioni, spiega Porfirio, la quantità in
questione potrebbe possedere un ordine, ma non avere delle parti che hanno posizione
reciproca. Simplicio44 riprende esattamente le tre condizioni presentate da Porfirio, ma
dichiara che il testo aristotelico non presenta queste tre condizioni. Egli aggiunge, più
specificatamente, che le cose che hanno posizione reciproca devono sempre avere la coesistenza delle parti (per cui viene fatta valere la condizione numero 2), ma non necessariamente devono avere l’esistenza in uno spazio (per cui la condizione numero 1 non
ha bisogno di verificarsi), e questo viene testimoniato sia dalla natura delle cose sia dal39
Cfr. Simplicio, In Cat., 135, 35.
Cfr. Simplicio, In Cat., 136, 5.
41 Pesce, Aristotele, Le categorie…, p. 52, n. 10.
42 Cfr. Porfirio, In Cat., 105, 6-11.
43 Cfr. Porfirio, In Cat., 104, 12 e ss..
44 Cfr. Simplicio, In Cat., 136, 10 e ss..
40
118
la spiegazione di Aristotele. Per quanto riguarda la natura delle cose, ci sono delle quantità che non si estendono in più di una dimensione: la linea, ad esempio, si estende solamente secondo la dimensione della larghezza. Simili quantità non sono nello spazio e,
di conseguenza, non possono essere collocate in un luogo, ma possiedono, in ogni caso,
una posizione. Stando alle parole di Aristotele, inoltre, si deve notare che egli non afferma che le parti con relazione reciproca sono collocate in un luogo, ma dichiara semplicemente che tali parti sono in relazione l’una con l’altra. Strettamente parlando, la
“posizione” dovrebbe essere riferita a delle cose che sono collocate in un luogo, in uno
spazio; Aristotele, tuttavia, afferma espressamente soltanto che le parti debbono coesistere, e cioè che esse debbono risultare posizionate nel posto in cui esse risultano essere
parti di una certa quantità. Questo risulterà maggiormente chiaro attraverso gli esempi
sotto riportati.
5.1. Quantità composte da parti che possiedono reciproca posizione
Aristotele porta degli esempi di quantità composte da parti che possiedono posizione
reciproca, ma che non necessariamente sono collocate in uno spazio. La linea è una di
queste quantità. Le sue parti hanno posizione reciproca (t¦ mOn tÁj grammÁj mÒria
qšsin œcei prÕj ¥llhla); si potrebbe, infatti, indicare dove ciascuna parte giace e quali parti si connettono tra loro. La linea, tuttavia, come abbiamo precedentemente osservato, non può essere collocata in uno spazio dal momento che si estende in una sola dimensione, la larghezza (non si verifica, pertanto, la condizione numero 1); questo, però,
non esclude affatto che le sue parti abbiano posizione reciproca all’interno di un “dove”
in cui esse acquistano, appunto, la loro valenza di parti di una quantità: le parti della linea hanno posizione reciproca non nello spazio, ma all’interno della superficie (si verifica quindi la condizione numero 2).
Lo stesso discorso vale per la superficie (™pipšdoj): essa non può essere collocata in
uno spazio dal momento che si estende in due sole dimensioni, la lunghezza e la larghezza (anche in questo caso, dunque, non si verifica la condizione numero 1); questo,
però, non esclude affatto che le sue parti abbiano posizione reciproca all’interno di un
“dove” in cui esse acquistano la loro valenza di parti di una quantità: le parti della superficie (o del piano) hanno posizione reciproca non nello spazio, ma all’interno del
corpo, o del solido (si verifica, quindi, la condizione numero 2).
Anche il solido (stereÒj) fa parte delle quantità composte da parti che hanno posizione reciproca. Il solido è l’unica quantità per cui le condizioni numero 1 e 2 risultano
entrambe verificate: le sue parti, infatti, coesistono, giacciono e si connettono tra loro
precisamente nello spazio. Si potrebbe forse affermare che la linea e la superficie sono
collocate in uno spazio per accidens, in quanto possono essere pensate come quantità
comprese all’interno del solido, che è l’unico ad essere collocato in uno spazio. Infine,
anche lo spazio (tÒpoj) è una quantità composta da parti che possiedono posizione reciproca. Anche in questo, si verifica la condizione numero 2, per cui le parti coesistono,
giacciono e si connettono tra loro, ma non la condizione numero 1: lo spazio, infatti,
non potrebbe collocarsi in uno spazio, altrimenti avremmo sempre bisogno di risalire a
uno spazio precedente in un regresso ad infinitum che Aristotele non potrebbe accettare.
119
5.2. Quantità composte da parti che non possiedono posizione reciproca
Aristotele passa ora agli esempi di quantità composte da parti che non hanno una posizione reciproca: il numero (¢riqmÕj), il tempo (crÒnoj) e il discorso (lÒgoj). Consideriamo le condizioni presentate da Porfirio e sopra riportate affinché una quantità possa essere considerata composta da parti che hanno una posizione reciproca, e, seguendo
Simplicio, teniamo fuori considerazione la prima condizione secondo la quale le parti
dovrebbero essere collocate in uno spazio; abbiamo dimostrato, infatti, come, in senso
stretto, alcuni esempi di quantità che hanno posizione reciproca (la linea, la superficie e
lo spazio) non sono, in realtà e propriamente parlando, collocate in uno spazio. Se valutiamo i tre esempi di quantità composte da parti che non hanno posizione reciproca presentati da Aristotele alla luce delle altre due condizioni, otteniamo il risultato chiaramente illustrato dalla seguente tabella:
Continuità Coesistenza
Tempo
Sì
No
Numero
No
Sì
Discorso
No
No
Il tempo era stato precedentemente enumerato tra le quantità continue, in quanto c’è
un limite comune che congiunge le sue parti (il tempo passato e il tempo futuro): il tempo presente; esso, però, non possiede la caratteristica della coesistenza simultanea delle
parti. Nessuna parte del tempo, infatti permane (Øpomšnei g¦r oÙdšn tîn toà crÒnou
mor…wn): il tempo futuro si trasforma continuamente nell‘istante presente, e l’istante
presente si trasforma subito in passato; ciò che non permane non può avere una posizione reciproca. Senza dubbio il tempo, in quanto possiede la caratteristica della continuità,
ha un ordine (t£xij), in quanto è composto da un prima tÕ prÒteron) e da un poi (tÕ
Ûsteron), ma non ha una posizione, in quanto non possiede la caratteristica della coesistenza delle parti. Tenderei, pertanto, a non chiamare con il termine “posizione” quel
«condizionamento reciproco delle parti che si costituisce come ordine»45, per non confondere i due aspetti, che, come abbiamo appena mostrato, possiedono delle caratteristiche ben diverse (mi distacco lievemente, quindi, dalla posizione di Pesce, per cui il prima e il poi costituiscono la «[…] successione, che è per il tempo quel ch’è la posizione
per lo spazio»46.
Il numero era stato precedentemente enumerato tra le quantità discrete, e non quelle
continue, dal momento che non è pensabile un confine comune che colleghi le parti (se
consideriamo, ad esempio, il numero dieci, non è pensabile un confine comune che colleghi le parti, come il cinque e il cinque, oppure il tre e il sette). Il numero manca, quindi, della caratteristica della continuità, mentre possiede, invece, la caratteristica della
coesistenza o permanenza. Il numero, infatti, non deve il suo essere all’essere contato,
come il discorso acquista l’essere soltanto nel momento in cui viene pronunciato. Per
utilizzare l’esempio di Simplicio47, anche se io non sto in questo momento contando le
mie cinque dita, esse restano comunque una quantità contabile, mentre il discorso pro45
Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 52, n. 11.
Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 52, n. 11.
47 Cfr. Simplicio, In Cat., 138, 20.
46
120
nunciato con la voce, se non viene emesso, resta un pensiero inarticolato. In questa
spiegazione del numero, accolgo interamente la critica che Simplicio48 muove alla riflessione di Giamblico, secondo il quale il numero esiste soltanto nel momento in cui
viene contato e, per questa ragione, nessuna parte del numero persiste e, dunque, non
può avere posizione reciproca. Simplicio si dichiara molto sorpreso della dichiarazione
per cui il numero non ha posizione perché le sue parti non persistono e obietta, molto
giustamente, che la vera ragione per cui il numero non può essere considerato una quantità le cui parti possiedono posizione reciproca non consiste in quella per cui manca di
coesistenza o permanenza, ma in quella per cui esso manca di continuità. Il numero,
dunque, non ha posizione, ma ha, come per il tempo, un ordine per cui
l’uno si conta prima del due, e il due prima del tre (tù prÒteron ¢riqme‹sqai tÕ ān
tîn dÚo kaˆ t¦ dÚo tîn triîn)49.
«La serie numerica è dunque già per Aristotele essenzialmente successione temporale.
Questa concezione non contrasta con la precedente rappresentazione spaziale, perché la
serie allineata dei punti materiali diventa serie numerica soltanto in quanto viene contata» e in quanto è contabile «in quanto cioè, con l’aggiunta di un’altra unità, si passa da
un numero al successivo»50.
Il discorso, infine, non possiede la caratteristica della continuità. Si tratta, infatti, di
una quantità discreta, perché non c’è nulla di comune che unisca le sillabe; esse restano
in certo modo staccate, separate l’una dall’altra. Neppure la coesistenza delle parti rientra nelle caratteristiche possedute dal numero: nessuna delle sue parti, infatti, permane,
ma, una volta pronunciata, scompare; non vi potrebbe quindi essere una posizione delle
parti, visto che nessuna permane. Ciò non esclude, tuttavia, che il discorso abbia un ordine, che consiste nel fatto che alcune parti del discorso precedano altre e che alcune sillabe di una parola precedano altre.
6. Quantità per sé e quantità per accidente
Come spesso accade quando Aristotele intende conchiudere un tipo di ragionamento
per passare ad altro tema, è qui presente una formula di ripresa e di sintesi dell’ultima
questione analizzata, tipica di una lezione: la divisione tra quantità composte da parti
che hanno posizione reciproca e quantità composte da parti che non hanno posizione reciproca. Subito dopo questo passo di raccordo, Aristotele presenta qui una terza divisione, quella tra le quantità in senso principale o in senso proprio o per sé (kur…wj) e le
quantità per accidente (kat¦ sumbebhkÒj). Senza spiegare in modo più analitico che
cosa voglia dire “per sé” e “per accidente”, il Filosofo si limita a specificare che tutte le
quantità di cui finora si è parlato (Kur…wj dO pos¦ taàta mÒna lšgetai t¦
e„rhmšna)51 rientrano tra le quantità per sé, mentre tutte le altre sono quantità per accidente (t¦ dO ¥lla p£nta kat¦ sumbebhkÒj).
Quantità per sé sono quelle che lo sono per loro intrinseca natura, in virtù di se stesse. «Sono quantità per sé, quelle cose nella cui definizione necessariamente entra la
quantità come genere: per esempio la linea si definisce necessariamente come quantità,
48
Cfr. Simplicio, In Cat., 138, 10 e ss..
Categorie 6, 5 a 31.
50 Pesce, Aristotele, Le categorie…, p. 52, n. 12.
51 Categorie 6, 5 a 38.
49
121
e precisamente come quantità continua divisibile secondo la lunghezza; la superficie
come quantità continua divisibile secondo la larghezza, e così di seguito»52.
Quantità per accidente sono quelle che lo sono in virtù di qualcos’altro; è grazie alle
quantità per sé che, per derivazione, chiamiamo quantità anche le altre.
Ora, stando alle parole di Aristotele, tutte le quantità che sono state finora trattate devono essere considerate quantità per sé: la linea, la superficie, il corpo, il tempo, il luogo, il numero e il discorso. Ciò che può essere considerato quantità per derivazione da
una delle quantità per sé è detto quantità per accidente. Di quest’ultimo tipo di quantità
Aristotele porta qui tre esempi: (1) l’azione, (2) il bianco e (3) il movimento. (1)
Un’azione (pr©xij) viene detta lunga (makr¦), ricevendo, quindi, una caratterizzazione
quantitativa, se lungo è il tempo durante il quale essa viene effettuata. La lunghezza di
un’azione, infatti, viene determinata sulla base del tempo (tù crÒnJ) impiegato per
compierla, e si dirà che è durata un anno o qualcosa di simile che esprima la temporalità. L’azione, quindi, non è una quantità in quanto azione, ma in quanto si svolge nel
tempo; la quantità, altrimenti indeterminata, dell’azione viene determinata non in termini di azione, ma di durata. (2) Similmente, un colore come, ad esempio, il bianco (tÕ
leukÕn) viene detto molto (polÝ), ricevendo, così, una caratterizzazione quantitativa,
perché molta è la superficie (tù t¾n ™pif£neian poll¾n enai53) e, cioè, perché molta
è la quantità cui il bianco appartiene. Se si deve determinare la quantità del bianco, infatti, lo si farà in base alla superficie cui esso appartiene: quanta è la superficie, tanto si
dirà che è il bianco. Il bianco, quindi, non è una quantità già in quanto bianco, ma in
quanto appartiene a una superficie; la quantità, altrimenti indeterminata, del colore viene determinata non in termini del colore stesso, ma di superficie. In questi casi, è evidente come il pollacîj e i molteplici sguardi sulla realtà innervino l’analisi di Aristotele, persino in modo radicale. (3) L’esempio del movimento (k…nhsij) è più problematico, in primo luogo perché Aristotele, nel testo delle Categorie, lo spiega in modo brachilogico, dicendo soltanto che il movimento viene detto lungo in quanto lungo è il
tempo nel quale il movimento viene compiuto, e, in secondo luogo, perché la spiegazione che ne viene data nel testo della Metafisica in cui si parla delle quantità per accidente
dà luogo a una discrepanza rispetto a quanto si dice nelle Categorie. In Metafisica D, 13,
1020 a 25-32, Aristotele divide le quantità per accidente in due sottogruppi:
1. il primo è costituito dalle quantità dette tali per il fatto che è una quantità ciò a cui
esse appartengono (l’esempio è lo stesso riportato nel testo delle Categorie: «il
bianco può dirsi grande, perché è grande un corpo o una superficie dipinta di
bianco»54);
2. il secondo gruppo è costituito dalle quantità dette tali nel senso in cui il movimento ed il tempo sono quantità55. Il movimento è una quantità, e una quantità continua, perché ciò di cui esso è affezione è divisibile. Non si tratta della «divisibilità
del corpo che è in movimento; è vero che anche il corpo è divisibile ed è un quanto e, quindi, anche il suo movimento (in quanto è accidente di un quanto) è un
quanto: ma, in tal caso, si avrebbe il primo senso sopra distinto, e il movimento
sarebbe un quanto così come il bianco […]. Qui si parla, invece, della superficie
percorsa dal mobile: in tal senso, il movimento è una quantità misurabile, perché
52
G. Reale, Aristotele, Metafisica…, vol. III, p. 255, n.8.
Cfr. Categorie 6, 5 a b 1-2.
54 Reale, Aristotele, Metafisica…, vol. III, p. 256, n. 16.
55 Metafisica D 13, 1020 a 28-29: t¦ dO æj k…nhsij kaˆ crÒnoj.
53
122
percorre uno spazio o una quantità misurabile»56. Non ci basa sulla divisibilità di
ciò che si muove, ma sulla divisibilità dello spazio percorso dal movimento del
mobile; e poiché lo spazio è una quantità, allora è una quantità anche il movimento. A questo ragionamento Aristotele aggiunge un ulteriore step: poiché il movimento è risultato essere una quantità, allora anche il tempo è una quantità, dal
momento che esso è affezione e numero del movimento57.
Ora, la dottrina esposta nella Metafisica sembra essere in contraddizione con quanto
viene detto nelle Categorie. In quest’ultima opera, infatti, Aristotele, come abbiamo sopra osservato, afferma che devono essere considerate quantità per se tutte quelle di cui
si è trattato, senza ulteriori specificazioni o esclusioni, il che porta a dare per scontare
che anche il tempo sia incluso tra queste. Nella Metafisica, invece, il tempo viene presentato tra le quantità per accidente. Per quanto riguarda la collocazione del tempo, esso
viene raggruppato in un significato di quantità per accidens diverso da quello in cui si
trova il bianco; questo perché la sua relazione con la quantità è molto più intima e stretta
che non nel primo gruppo. Si potrebbe quindi pensare che Aristotele, in un testo costituito da trascrizioni di lezioni e, in alcuni punti, piuttosto brachilogico ed ellittico quale le
Categorie, avvicini, per comodità e snellezza, il tempo alle quantità per sé, per rimarcare la distanza da quelle per accidens; nel testo della Metafisica, invece, in cui l’asse argomentativo è totalmente diverso, e in cui si deve dimostrare, ad esempio, l’esistenza
del Primo Motore immobile mediante il ricorso alle nozioni di tempo e di movimento, è
chiaro che la casistica è molto più varia, che la riflessione intorno al concetto di tempo
deve avere un altro peso, e che il tempo stesso può essere individuato in un sottogruppo
più specifico. Pur leggendo la collocazione del tempo in quest’ottica, tuttavia, non si
capirebbe per quale motivo il movimento, che nella Metafisica figura, insieme al tempo,
tra le quantità per accidente di secondo tipo, non venga anch’esso citato insieme al tempo tra le quantità per sé nel testo delle Categorie. La presenza del movimento nella trattazione della categoria della quantità ha, inoltre, causato un’accesa discussione. Come
riporta Simplicio58, alcuni hanno detto che il movimento dovrebbe essere classificato
all’interno della categoria della relazione; altri lo collocherebbero all’interno di più categorie, in quanto il movimento inteso come aumento e diminuzione appartiene alla
quantità, il movimento inteso come alterazione appartiene alla qualità, il movimento inteso come generazione e corruzione appartiene alla sostanza e, in generale, il movimento locale (la traslazione) è diverso da qualsiasi altro tipo di movimento; altri ancora collocano il movimento, all’interno di tutte le categorie perché lo considerano come il passaggio dalla potenza all’atto59; altri, infine, collocano il movimento nella categoria
dell’agire e del patire. Plotino60 vorrebbe addirittura fare del movimento una categoria
separata che precede l’agire e il patire.
56
Reale, Aristotele, La Metafisica…, vol. III, p. 256, n. 17.
Cfr. Metafisica L 6, 1071 b 10.
58 Cfr. Simplicio, In Cat., 140, 1 e ss..
59 Cfr. Fisica, 3, 1, in cui Aristotele definisce il movimento in termini di attualizzazione della
potenza.
60 Cfr. Enneadi, 6.1.15.12-16 e 6.3.21.1 e ss..
57
123
7. Caratteristiche della quantità
Terminate le suddivisioni interne al sommo genere della Quantità, Aristotele inizia
ad analizzare le caratteristiche della categoria in questione.
7.1. Prima caratteristica: la quantità non ha contrari
Aristotele spiega perché si può costatare che la quantità non ha contrari. Per quanto
riguarda le quantità determinate (™pˆ mOn g¦r tîn ¢fwrismšnwn61), come, per esempio,
“di due cubiti” (tù dip»cei), “di tre cubiti” (tù trip»cei), “di due centimetri” o “di
cinque litri”, ma anche la superficie e gli altri tipi di quantità di cui sopra si è trattato,
risulta subito chiaro che non c’è nulla di contrario.
Un primo dubbio potrebbe, tuttavia, sorgere nel momento in cui si possa pensare a
“molto” come contrario a “poco” o a “grande” come contrario a “piccolo”. Queste coppie appaiono come quantità contrarie. Seguirà un ragionamento che potremmo dividere
in due fasi:
(a) tali coppie non esprimono dei contrari, ma dei relativi;
(b) sia che siano delle quantità sia che non siano delle quantità, in ogni caso non sono
contrarie.
Per quanto concerne (a), Aristotele chiarisce subito che, in tal caso, non sussiste alcun problema, poiché, in realtà, “molto” e “poco”, “grande” e “piccolo” non sono delle
quantità, ma dei relativi; in ognuna delle due coppie, infatti, ogni elemento si dice in riferimento all’altro: si può, per esempio, affermare che un oggetto sia grande solo rispetto a qualcosa che è piccolo, a sua volta, rispetto al grande. Nulla può essere considerato
grande o piccolo in sé e per sé, ma soltanto in quanto viene rapportato a un termine di
riferimento. Una montagna, per esempio, si può dire piccola perché è più piccola rispetto ad altre montagne, cioè in riferimento ad altre cose dello stesso genere. Un chicco di
miglio, d’altra parte, si può dire grande per il fatto che è più grande delle cose dello
stesso genere, e cioè rispetto ad altri chicchi di miglio. Ci deve essere, dunque, sempre
un riferimento ad altro, poiché, piccolo o grande venissero detti in sé e per sé, in maniera assoluta, la montagna non si potrebbe mai dire piccola né il chicco grande62.
Segue un esempio che dimostra l’impossibilità di come anche la coppia molto/poco
sia di contrari. Molte ci appaiono le persone che sono nel villaggio, se confrontate con
quelle che sono in città, pur essendo quest’ultime in numero maggiore rispetto alle prime; similmente, molte ci sembrano le persone che sono a casa rispetto a quelle che sono
a teatro, sebbene quest’ultime siano in numero maggiore rispetto alle prime. «Molto e
poco […] sono termini indefiniti che non hanno di per sé nessun significato preciso, ma
lo trovano soltanto in riferimento ad una grandezza media o normale, variabile a seconda del genere di cose di cui si parla. Poiché dunque il loro significato si determina soltanto in riferimento ad altro, si tratta di termini relativi»63.
Inizia qui la seconda parte del ragionamento in cui Aristotele mostra che (b) in ogni
caso, sia che le coppie “grande/piccolo” e “molto/poco” vengano considerate delle
quantità sia che esse non vengano considerate tali, esse non sono comunque delle coppie di contrari. Molto/poco, grande/piccolo non possono essere pensate in sé e per sé,
61
Categorie 6, 5 b 11-12.
Sulla trattazione dei relativi, si veda Infra, pp. ***.
63 Pesce, Le Categorie…, p. 53, n. 17.
62
124
ma sempre in relazione ad altro, e non sarebbe ammissibile poter pensare a un contrario
di qualcosa che non possa essere considerato per se stesso. «La differenza tra i relativi e
i contrari sta proprio qui: nel fatto che nei primi l’un termine si definisce in relazione
all’altro, mentre nei secondi ogni termine sta a sé. E difatti per Aristotele, come si chiarirà nel capitolo 10, relativi e contrari sono due delle quattro specie di opposizione»64.
Aristotele dimostra che le coppie sopra indicate non esprimono dei contrari anche attraverso una reductio ad absurdum: se accettassimo che grande e piccolo siano contrari,
dovremmo ammettere che la stessa cosa possa ricevere nello stesso tempo i contrari, in
quanto la stessa cosa potrebbe risultare contemporaneamente piccola rispetto a un tipo
di riferimento e grande rispetto a un altro. Ma questo è assurdo perché contravverrebbe
al principio di non contraddizione. È chiaro, infatti, che nulla può accogliere nello stesso
tempo i contrari (oÙdOn doke‹ ¤ma t¦ ™nant…a ™pidšcesqai65). La sostanza è sì atta ad
accogliere i contrari, ma non è mai nello stesso tempo o secondo il medesimo aspetto
che essa risulta malata e sana, o bianca e nera. Simplicio66 riporta che alcuni commentatori hanno obiettato all’affermazione di Aristotele secondo la quale ciò che non può essere preso per sé, ma solo nel suo riferimento a qualcos’altro non può avere contrario,
che ci sono, invece, dei contrari tra i relativi: ad esempio, conoscenza e ignoranza, virtù
e vizio. Di conseguenza, secondo quanto riporta Giamblico, sarebbe stato più corretto
dire che ciò che non esiste per sé, ma in riferimento a qualcos’altro, non è contrario a
nessuna delle cose cui si riferisce: ad esempio, il chicco grande fa riferimento al chicco
piccolo, e grande non è il contrario di piccolo.
Aristotele si spinge persino oltre nel tirare le conclusioni a partire dalla premessa della reductio ad absurdum. Si tratta, questa volta, di una conseguenza ancora più assurda
della precedente: se grande e piccolo vengono considerati contrari, e la stessa cosa è,
nello stesso tempo, sia grande sia piccola, allora essa risulta contraria a se stessa. Ma
questo è impossibile, perché i contrari si annientano a vicenda per loro propria natura.
Nulla impedisce che dei relativi stiano in opposizione nello stesso tempo rispetto a due
diversi oggetti di riferimento; i contrari, invece, non possono in alcun modo esistere, dal
momento che confliggono. Aristotele, dunque, non sta escludendo ogni tipo di opposizione dalla quantità, ma soltanto la contrarietà. Di conseguenza, per evitare l’assurdo,
grande non è il contrario di piccolo, e molto non è il contrario di poco, e, anche nel caso
in cui non li si volesse far rientrare nei relativi, ma nelle quantità, non avranno nessun
contrario. Seguendo Porfirio67, grande e piccolo, considerati in modo assoluto, sarebbero delle quantità indeterminate, e, come tali, risulterebbero più propriamente definite
come relativi, quindi sono opposte piuttosto che contrarie.
Aristotele fa un’aggiunta del tutto inaspettata e quasi in collisione con ciò che aveva
precedentemente sostenuto. C’è un caso in cui la contrarietà sembra maggiormente sussistere, ed è il caso del luogo. Se consideriamo bassa la regione centrale della terra, infatti, l’alto risulterà contrario rispetto al basso, dal momento che la distanza tra il centro
e i confini dell’universo è massima. Proprio da questa coppia di contrari sembra che sia
tratta la definizione di tutti gli altri contrari. Vengono, infatti, definite contrarie le cose
che sono massimamente distanti tra loro all’interno dello stesso genere68.
64
Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 54, n. 19.
Categorie 6, 5 b 39 - 6 a 1.
66 Cfr. Simplicio, In Cat., 144, 15 e ss..
67 Cfr. Porfirio, In Cat., 108, 5-8.
68 Cfr. Categorie 6, 6 a 11-18.
65
125
Dopo aver sostenuto e provato come sia impossibile che sussista contrarietà nella categoria della quantità, quindi, il Filosofo sembra tornare ad affermare una convinzione
del sentire comune che deriva da una percezione sensibile della spazialità: l’alto viene
considerato contrario rispetto al basso. Aristotele non cerca di smentire la convinzione
comune mostrandone l’infondatezza o lo scarso rigore, ma, anzi, sembra fornirne egli
stesso una spiegazione filosofica derivante dalla sua visione cosmologica. Poiché, infatti, l’universo, secondo lo Stagirita, è finito, i termini basso e alto assumono un significato assoluto, e non più relativo come accadeva per le coppie molto/poco e grande/piccolo. In questo modo, veniva posta in basso la terra, collocata al centro, e in alto i
cieli, ai confini dell’universo. «[…] se centro e confini possono ancora essere considerati termini relativi, perché si definiscono l’uno in funzione dell’altro, non così terra e cieli. Ecco perché alto e basso possono venir considerati veri contrari e anzi l’immagine
stessa della contrarietà»69, da cui viene tratta la definizione stessa di contrarietà che lo
stesso Aristotele enuncia e propugna. Si tratta, mi sembra, di un interessante esempio
che rivela quanto i dati percettivi siano tenuti in conto nella definizione aristotelica della
contrarietà. E non stupisce, allora, che in rivisitazioni recenti, all’interno della fenomenologia sperimentale della percezione, del tema della contrarietà si sia letto in questo
passaggio un thought-provoking riferimento all’ipotesi secondo la quale «la percezione
della contrarietà è pervasivamente e primariamente connessa alla geometria fenomenologica dello spazio»70.
7.2. Seconda caratteristica: la quantità non ammette il più e il meno
La quantità condivide con la sostanza la caratteristica di non ammettere il più e il
meno71. La quantità, infatti, come la sostanza, non ammette dei gradi, non possiede indeterminatezza in termini di maggiore o minore, dal momento che assume sempre una
forma determinata. Prendendo in considerazione i casi particolari di quantità, osserviamo la linea, in quanto linea, non è più o meno linea di un’altra linea, la superficie, in
quanto superficie, non è più o meno superficie di un’altra superficie, e lo stesso vale per
il corpo in quanto corpo, per lo spazio in quanto spazio, per il numero in quanto numero, per il tempo in quanto tempo (nel caso del tempo, ci si «riferisce naturalmente ad un
determinato periodo di tempo; per esempio un’ora non può essere ora di un’altra»72).
Come giustamente spiega Simplicio73, la quantità è ciò che definisce e misura tutte le
altre cose, pertanto non potrebbe partecipare dell’indeterminatezza che caratterizza il
più e il meno.
Non si devono confondere il più e il meno con i diversi gradi di comparazione che ricadono sotto i rapporti di relazione e di opposizione. Se, ad esempio, diciamo che un
numero è maggiore di un altro o che una montagna è più grande di un’altra, non stiamo
attribuendo il più e il meno alla quantità, ma stiamo valutando il più e il meno in termini
di relazione. Se, invece, presentiamo, ad esempio, tre numeri o tre montagne in una serie discendente senza reciproca comparazione (il Caucaso è grande, l’Athos è meno
grande, l’Imetto ancora meno grande), allora, a causa dell’indeterminatezza, potremmo
69
Pesce, Aristotele, Le categorie…, p. 55, n. 22.
Bianchi-Savardi, The Perception of Contraries, Aracne, Roma 2008, pp. 22-23.
71 Cfr. Categorie 6, 6 a 19-20: OÙ doke‹ dO tÕ posÕn ™pidšcesqai tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton.
72 Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 55, n. 23.
73 Cfr. Simplicio, In Cat., 150, 30 e ss..
70
126
pensare che si stia attribuendo il più e il meno alla quantità, come se fosse una contrarietà, mentre si tratta soltanto di un’opposizione.
7.3. Terza caratteristica: la quantità viene detta uguale e disuguale
La caratteristica esclusiva della quantità è l’essere detta uguale (‡son) e disuguale
(¥nison)74. Si tratta di una peculiarità che appartiene soltanto alla quantità, come testimonia il passo di Metafisica D 15, 1021 a 11-12, in cui si dice espressamente che identiche (taÙt¦) sono le cose la cui sostanza è una; simili (Ómoia) sono le cose la cui qualità
è una; uguali (‡sa) sono le cose la cui quantità è una. La disposizione (di£qesij), che,
come vedremo75, è una specie di qualità, e il bianco (tÕ leukÕn), che è un colore, quindi una qualità, non si diranno (in quanto qualità), invece, uguali o disuguali, ma simili.
La quantità è uguale o disuguale in quanto è misurabile, e tutte le altre cose possono
dette uguali o disuguali solo grazie alla quantità: il legno, ad esempio, non può essere
pesato in quanto legno, ma soltanto in quanto è una grandezza e una quantità; il bianco
non potrà essere detto molto in quanto colore, cioè in quanto qualità, ma solo in quanto
è grande la superficie che occupa.
74
75
Cfr. Categorie 6, 6 a 26-27:”Idion dO m£lista toà posoà tÕ ‡son te kaˆ ¥nison lšgesqai.
Cfr. Infra, pp. ***.
127
Capitolo settimo
I relativi
PrÒj ti dO t¦ toiaàta lšgetai, Ósa aÙt¦ ¤per ™stˆn ˜tšrwn enai lšgetai À
Ðpwsoàn ¥llwj prÕj ›teron: oŒon tÕ me‹zon toàq' Óper ™stˆn ˜tšrou lšgetai, tinÕj g¦r me‹zon lšgetai, - kaˆ tÕ dipl£sion ˜tšrou lšgetai toàq' Óper ™st…n, tinÕj g¦r dipl£sion lšgetai: - æsaÚtwj dO kaˆ Ósa ¥lla toiaàta. œsti dO kaˆ t¦
toiaàta tîn prÒj ti oŒon ›xij, di£qesij, a‡sqhsij, ™pist»mh, qšsij: p£nta g¦r t¦
e„rhmšna toàq' Óper ™stˆn ˜tšrwn lšgetai kaˆ oÙk ¥llo ti: ¹ g¦r ›xij tinÕj ›xij
lšgetai kaˆ ¹ ™pist»mh tinÕj ™pist»mh kaˆ ¹ qšsij tinÕj qšsij, kaˆ t¦ ¥lla dO
æsaÚtwj. prÒj ti oân ™stˆn Ósa aÙt¦ ¤per ™stˆn ˜tšrwn lšgetai, À Ðpwsoàn
¥llwj prÕj ›teron: oŒon Ôroj mšga lšgetai prÕj ›teron,- prÒj ti g¦r mšga lšgetai
tÕ Ôroj, - kaˆ tÕ Ómoion tinˆ Ómoion lšgetai, kaˆ t¦ ¥lla dO t¦ toiaàta æsaÚtwj
prÒj ti lšgetai. œsti dO kaˆ ¹ ¢n£klisij kaˆ ¹ st£sij kaˆ ¹ kaqšdra qšseij tinšj,
¹ dO qšsij tîn prÒj ti: tÕ dO ¢nake[kl]…sqai À ˜st£nai À kaqÁsqai aÙt¦ mOn oÙk
e„sˆ qšseij, parwnÚmwj dO ¢pÕ tîn e„rhmšnwn qšsewn lšgetai.
`Up£rcei dO kaˆ ™nantiÒthj ™n to‹j prÒj ti, oŒon ¢ret¾ kak…v ™nant…on,
˜k£teron aÙtîn prÒj ti Ôn, kaˆ ™pist»mh ¢gno…v. oÙ p©si dO to‹j prÒj ti Øp£rcei
™nant…on: tù g¦r diplas…J oÙdšn ™stin ™nant…on oÙdO tù triplas…J oÙdO tîn
toioÚtwn oÙden…. - doke‹ dO kaˆ tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton ™pidšcesqai t¦ prÒj ti:
Ómoion g¦r m©llon kaˆ Âtton lšgetai, kaˆ ¥nison m©llon kaˆ Âtton lšgetai,
˜k£teron aÙtîn prÒj ti Ôn: tÒ te g¦r Ómoion tinˆ Ómoion lšgetai kaˆ tÕ ¥nison tinˆ
¥nison. oÙ p£nta dO ™pidšcetai tÕ m©llon kaˆ Âtton: tÕ g¦r dipl£sion oÙ lšgetai
m©llon kaˆ Âtton dipl£sion oÙdO tîn toioÚtwn oÙdšn.
P£nta dO t¦ prÒj ti prÕj ¢ntistršfonta lšgetai, oŒon Ð doàloj despÒtou
lšgetai doàloj kaˆ Ð despÒthj doÚlou despÒthj lšgetai, kaˆ tÕ dipl£sion
¹m…seoj dipl£sion kaˆ tÕ ¼misu diplas…ou ¼misu, kaˆ tÕ me‹zon ™l£ttonoj me‹zon
kaˆ tÕ œlatton me…zonoj œlatton: æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn: pl¾n tÍ ptèsei
™n…ote dio…sei kat¦ t¾n lšxin, oŒon ¹ ™pist»mh ™pisthtoà lšgetai ™pist»mh kaˆ tÕ
™pisthtÕn ™pist»mV ™pisthtÒn, kaˆ ¹ a‡sqhsij a„sqhtoà a‡sqhsij kaˆ tÕ a„sqhtÕn
a„sq»sei a„sqhtÒn. oÙ m¾n ¢ll' ™n…ote oÙ dÒxei ¢ntistršfein, ™¦n m¾ o„ke…wj prÕj
Ö lšgetai ¢podoqÍ ¢ll¦ diam£rtV Ð ¢podidoÚj: oŒon tÕ pterÕn ™¦n ¢podoqÍ Ôrniqoj, oÙk ¢ntistršfei Ôrnij pteroà: oÙ g¦r o„ke…wj tÕ prîton ¢podšdotai pterÕn
Ôrniqoj, - oÙ g¦r Î Ôrnij, taÚtV tÕ pterÕn aÙtÁj lšgetai, ¢ll' Î pterwtÒn ™stin:
pollîn g¦r kaˆ ¥llwn pter£ ™stin § oÙk e„sˆn Ôrniqej: - éste ™¦n ¢podoqÍ
o„ke…wj, kaˆ ¢ntistršfei, oŒon tÕ pterÕn pterwtoà pterÕn kaˆ tÕ pterwtÕn pterù
pterwtÒn. - ™n…ote dO kaˆ Ñnomatopoie‹n ‡swj ¢nagka‹on, ™¦n m¾ ke…menon Ï Ônoma
prÕj Ö o„ke…wj ¨n ¢podoqe…h: oŒon tÕ phd£lion plo…ou ™¦n ¢podoqÍ, oÙk o„ke…a ¹
¢pÒdosij, - oÙ g¦r Î plo‹on taÚtV aÙtoà tÕ phd£lion lšgetai: œsti g¦r plo‹a ïn
oÙk œsti phd£lia: - diÕ oÙk ¢ntistršfei: tÕ g¦r plo‹on oÙ lšgetai phdal…ou
plo‹on. ¢ll' ‡swj o„keiotšra ¨n ¹ ¢pÒdosij e‡h, e„ oÛtw pwj ¢podoqe…h tÕ
phd£lion phdaliwtoà phd£lion À Ðpwsoàn ¥llwj, - Ônoma g¦r oÙ ke‹tai: - kaˆ
¢ntistršfei ge, ™¦n o„ke…wj ¢podoqÍ: tÕ g¦r phdaliwtÕn phdal…J phdaliwtÒn.
æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn, oŒon ¹ kefal¾ o„keiotšrwj ¨n ¢podoqe…h kefalwtoà À zóou ¢podidomšnh: oÙ g¦r Î zùon kefal¾n œcei: poll¦ g¦r tîn zówn kefal¾n oÙk œcei. oÛtw dO ·´sta ¨n ‡swj tij lamb£noi oŒj m¾ ke‹tai ÑnÒmata, e„
¢pÕ tîn prètwn kaˆ to‹j prÕj aÙt¦ ¢ntistršfousi tiqe…h t¦ ÑnÒmata, ésper ™pˆ
tîn proeirhmšnwn ¢pÕ toà pteroà tÕ pterwtÕn kaˆ ¢pÕ toà phdal…ou tÕ phdaliwtÒn. p£nta oân t¦ prÒj ti, ™£nper o„ke…wj ¢podidîtai, prÕj ¢ntistršfonta
lšgetai: ™pe…, ™£n ge prÕj tÕ tucÕn ¢podidîtai kaˆ m¾ prÕj aÙtÕ Ö
lšgetai, oÙk ¢ntistršfei. - lšgw dO Óti oÙdO tîn Ðmologoumšnwj prÕj
¢ntistršfonta legomšnwn kaˆ Ñnom£twn aÙto‹j keimšnwn oÙdOn ¢ntistršfei, ™¦n
prÒj ti tîn sumbebhkÒtwn ¢podidîtai kaˆ m¾ prÕj aÙtÕ Ö lšgetai: oŒon Ð doàloj
™¦n m¾ despÒtou ¢podoqÍ ¢ll' ¢nqrèpou À d…podoj ÀÐtouoàn tîn toioÚtwn, oÙk
¢ntistršfei: oÙ g¦r o„ke…a¹ ¢pÒdosij. - œti ™¦n mOn o„ke…wj ¢podedomšnon Ï prÕj
Ö lšgetai, p£ntwn periairoumšnwn tîn ¥llwn Ósa sumbebhkÒta ™st…n,
kataleipomšnou dO toÚtou mÒnou prÕj Ö ¢pedÒqh o„ke…wj, ¢eˆ prÕj aÙtÕ
·hq»setai: oŒon e„ Ð doàloj prÕj despÒthn lšgetai, periairoumšnwn ¡p£ntwn Ósa
sumbebhkÒta ™stˆ tù despÒtV, oŒon tÕ d…podi enai, tÕ ™pist»mhj dektikù, tÕ
¢nqrèpJ, kataleipomšnou dO mÒnou toà despÒthn enai, ¢eˆ Ð doàloj prÕj aÙtÕ
·hq»setai: Ð g¦r doàloj despÒtou doàloj lšgetai. ™¦n dš ge m¾ o„ke…wj ¢podoqÍ
prÕj Ó pote lšgetai, periairoumšnwn mOn tîn ¥llwn kataleipomšnou dO mÒnou
toà prÕj Ö ¢pedÒqh, oÙ ·hq»setai prÕj aÙtÒ: ¢podedÒsqw g¦r Ð doàloj ¢nqrèpou
kaˆ tÕ pterÕn Ôrniqoj, kaˆ periVr»sqw toà ¢nqrèpou tÕ despÒtV aÙtù enai: oÙ
g¦r œti Ð doàloj prÕj ¥nqrwpon ·hq»setai, - m¾ g¦r Ôntoj despÒtou oÙdO doàlÒj
™stin: - æsaÚtwj dO kaˆ toà Ôrniqoj periVr»sqw tÕ pterwtù enai: oÙ g¦r œti œstai tÕ pterÕn tîn prÒj ti: m¾ g¦r Ôntoj pterwtoà oÙdO pterÕn œstai tinÒj. - éste
de‹ mOn ¢podidÒnai prÕj Ó pote o„ke…wj lšgetai: k¨n mOn Ônoma Ï ke…menon ·vd…a ¹
¢pÒdosij g…gnetai, m¾ Ôntoj dO ¢nagka‹on ‡swj Ñnomatopoie‹n. oÛtw dO
¢podidomšnwn fanerÕn Óti p£nta t¦ prÒj ti prÕj ¢ntistršfonta ·hq»setai.
Doke‹ dO t¦ prÒj ti ¤ma tÍ fÚsei enai. kaˆ ™pˆ mOn tîn ple…stwn ¢lhqšj ™stin:
¤ma g¦r dipl£siÒn tš ™sti kaˆ ¼misu, kaˆ ¹m…seoj Ôntoj dipl£siÒn ™stin, kaˆ
doÚlou Ôntoj despÒthj ™st…n: Ðmo…wj dO toÚtoij kaˆ t¦ ¥lla. kaˆ sunanaire‹ dO
taàta ¥llhla: m¾ g¦r Ôntoj diplas…ou oÙk œstin ¼misu, kaˆ ¹m…seoj m¾ Ôntoj
oÙk œsti dipl£sion: æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn Ósa toiaàta. - oÙk ™pˆ
p£ntwn dO tîn prÒj ti ¢lhqOj doke‹ tÕ ¤ma tÍ fÚsei enai: tÕ g¦r ™pisthtÕn tÁj
™pist»mhj prÒteron ¨n dÒxeien enai: æj g¦r ™pˆ tÕ polÝ prouparcÒntwn tîn
pragm£twn t¦j ™pist»maj lamb£nomen: ™p'Ñl…gwn g¦r À ™p' oÙdenÕj ‡doi tij ¨n
¤ma tù ™pisthtù t¾n ™pist»mhn gignomšnhn. œti tÕ mOn ™pisthtÕn ¢naireqOn
sunanaire‹ t¾n ™pist»mhn, ¹ dO ™pist»mh tÕ ™pisthtÕn oÙ sunanaire‹: ™pisthtoà
g¦r m¾ Ôntoj oÙk œstin ™pist»mh, - oÙdenÕj g¦r œti œstai ™pist»mh, - ™pist»mhj
dO m¾ oÜshj oÙdOn kwlÚei ™pisthtÕn enai: oŒon kaˆ Ð toà kÚklou tetragwnismÕj
e‡ge œstin ™pisthtÒn, ™pist»mh mOn aÙtoà oÙk œstin oÙdšpw, aÙtÕ dO tÕ ™pisthtÕn
œstin. œti zóou mOn ¢naireqšntoj oÙk œstin ™pist»mh, tîn d' ™pisthtîn poll¦
™ndšcetai enai. - Ðmo…wj dO toÚtoij kaˆ t¦ ™pˆ tÁj a„sq»sewj œcei: tÕ g¦r
a„sqhtÕn prÒteron tÁj a„sq»sewj doke‹ enai: tÕ mOn g¦r a„sqhtÕn ¢naireqOn sunanaire‹ t¾n a‡sqhsin, ¹ dO a‡sqhsij tÕ a„sqhtÕn oÙ sunanaire‹. aƒ g¦r
a„sq»seij perˆ sîma kaˆ ™n sèmat… e„sin, a„sqhtoà dO ¢naireqšntoj ¢nÇrhtai kaˆ
sîma, - tîn g¦r a„sqhtîn kaˆ tÕ sîma, - sèmatoj dO m¾ Ôntoj ¢nÇrhtai kaˆ ¹
a‡sqhsij, éste sunanaire‹ tÕ a„sqhtÕn t¾n a‡sqhsin. ¹ dš ge a‡sqhsij tÕ
a„sqhtÕn oÜ: zóou g¦r ¢naireqšntoj a‡sqhsij mOn ¢nÇrhtai, a„sqhtÕn dO œstai,
oŒon sîma, qermÒn, glukÚ, pikrÒn, kaˆ t¦ ¥lla p£nta Ósa ™stˆn a„sqht£. œti ¹
130
mOn a‡sqhsij ¤ma tù a„sqhtikù g…gnetai, - ¤ma g¦r zùÒn te g…gnetai kaˆ
a‡sqhsij, - tÕ dš ge a„sqhtÕn œsti kaˆ prÕ toà a‡sqhsin enai, - pàr g¦r kaˆ Ûdwr
kaˆ t¦ toiaàta, ™x ïn kaˆ tÕ zùon sun…statai, œsti kaˆ prÕ toà zùon Ólwj enai À
a‡sqhsin, - éste prÒteron ¨n tÁj a„sq»sewj tÕ a„sqhtÕn enai dÒxeien.
”Ecei dO ¢por…an pÒteron oÙdem…a oÙs…a tîn prÒj ti lšgetai, kaq£per doke‹, À
toàto ™ndšcetai kat£ tinaj tîn deutšrwn oÙsiîn. ™pˆ mOn g¦r tîn prètwn oÙsiîn
¢lhqšj ™stin: oÜte g¦r t¦ Óla oÜte t¦ mšrh prÒj ti lšgetai: Ð g¦r tˆj ¥nqrwpoj oÙ
lšgetai tinÒj tij ¥nqrwpoj, oÙdO Ð tˆj boàj tinÒj tij boàj: æsaÚtwj dO kaˆ t¦
mšrh: ¹ g¦r tˆj ceˆr oÙ lšgetai tinÒj tij ceˆr ¢ll¦ tinÕj ce…r, kaˆ ¹ tˆj kefal¾ oÙ
lšgetai tinÒj tij kefal¾ ¢ll¦ tinÕj kefal». æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn deutšrwn
oÙsiîn, ™p… ge tîn ple…stwn: oŒon Ð ¥nqrwpoj oÙ lšgetai tinÕj ¥nqrwpoj, oÙdO Ð
boàj tinÕj boàj, oÙdO tÕ xÚlon tinÕj xÚlon, ¢ll¦ tinÕj ktÁma lšgetai. ™pˆ mOn oân
tîn toioÚtwn fanerÕn Óti oÙk œsti tîn prÒj ti, ™p' ™n…wn dO tîn deutšrwn oÙsiîn
œcei ¢mfisb»thsin: oŒon ¹ kefal¾ tinÕj lšgetai kefal¾ kaˆ ¹ ceˆr tinÕj lšgetai
ceˆr kaˆ ›kaston tîn toioÚtwn, éste taàta tîn prÒj ti dÒxeien ¨n enai. - e„ mOn
oân ƒkanîj Ð tîn prÒj ti ÐrismÕj ¢podšdotai, À tîn p£nu calepîn À tîn
¢dun£twn ™stˆ tÕ làsai æj oÙdem…a oÙs…a tîn prÒj ti lšgetai: e„ dO m¾ ƒkanîj,
¢ll' œsti t¦ prÒj ti oŒj tÕ enai taÙtÒn ™sti tù prÒj t… pwj œcein, ‡swj ¨n ·hqe…h
ti prÕj aÙt£. Ð dO prÒteroj ÐrismÕj parakolouqe‹ mOn p©si to‹j prÒj ti, oÙ m¾n
toàtÒ gš ™sti tÕ prÒj ti aÙto‹j enai tÕ aÙt¦ ¤per ™stˆn ˜tšrwn lšgesqai. ™k dO
toÚtwn dÁlÒn ™stin Óti ™£n tij e„dÍ ti ærismšnwj tîn prÒj ti, k¢ke‹no prÕj Ö
lšgetai ærismšnwj e‡setai. fanerÕn mOn oân kaˆ ™x aÙtoà ™st…n: e„ g¦r odš tij
tÒde ti Óti tîn prÒj t… ™stin, œsti dO tÕ enai to‹j prÒj ti taÙtÕ tù prÒj t… pwj
œcein, k¢ke‹no ode prÕj Ö toàtÒ pwj œcei: e„ g¦r oÙk oden Ólwj prÕj Ö toàtÒ pwj
œcei, oÙd' e„ prÒj t… pwj œcei e‡setai. kaˆ ™pˆ tîn kaq' ›kasta dO dÁlon tÕ
toioàton: oŒon tÒde ti e„ oden ¢fwrismšnwj Óti œsti dipl£sion, kaˆ Ótou
dipl£siÒn ™stin eÙqÝj ¢fwrismšnwj oden, - e„ g¦r mhdenÕj tîn ¢fwrismšnwn
oden aÙtÕ dipl£sion, oÙd' e„ œsti dipl£sion Ólwj oden: - æsaÚtwj dO kaˆ tÒde ti
e„ oden Óti k£lliÒn ™sti, kaˆ Ótou k£lliÒn ™stin ¢fwrismšnwj ¢nagka‹on
e„dšnai di¦ taàta, [oÙk ¢or…stwj dO e‡setai Óti toàtÒ ™sti ce…ronoj k£llion:
ØpÒlhyij g¦r tÕ toioàto g…gnetai, oÙk ™pist»mh: oÙ g¦r œti e‡setai ¢kribîj Óti
™stˆ ce…ronoj k£llion: e„ g¦r oÛtwj œtucen, oÙdšn ™sti ce‹ron aÙtoà]: éste
fanerÕn Óti ¢nagka‹Òn ™stin, Ö ¨n e„dÍ tij tîn prÒj ti ærismšnwj, k¢ke‹no prÕj Ö
lšgetai ærismšnwj e„dšnai. t¾n dš ge kefal¾n kaˆ t¾n ce‹ra kaˆ ›kaston tîn
toioÚtwn a† e„sin oÙs…ai aÙtÕ mOn Óper ™stˆn ærismšnwj œstin e„dšnai, prÕj Ö dO
lšgetai oÙk ¢nagka‹on: t…noj g¦r aÛth ¹ kefal¾ À t…noj ¹ ceˆr oÙk œstin e„dšnai
ærismšnwj: éste oÙk ¨n e‡h taàta tîn prÒj ti: e„ dO m» ™sti tîn prÒj ti, ¢lhqOj
¨n e‡h lšgein Óti oÙdem…a oÙs…a tîn prÒj t… ™stin. ‡swj dO calepÕn perˆ tîn
toioÚtwn sfodrîj ¢pofa…nesqai m¾ poll£kij ™peskemmšnon, tÕ mšntoi
dihporhkšnai ™f' ›kaston aÙtîn oÙk ¥crhstÒn ™stin.
Si dicono relative tutte quelle cose che, ciò che sono, lo si dicono essere di altre cose
o in qualsiasi altro modo, ma sempre in relazione ad altro. Maggiore, ad esempio, si dice tale rispetto ad altro - si dice infatti maggiore di qualcosa -, e doppio si dice tale rispetto ad altro - si dice infatti doppio di qualcosa, e lo stesso vale per tutte le altre cose
di natura simile. Rientrano nei relativi cose di questo genere, ad esempio l’abito, la disposizione, la sensazione, la scienza, la posizione. Tutte le cose nominate, infatti, sono
131
ciò che sono in quanto si dicono di altro, e non possiedono una realtà diversa da questa.
L’abito, infatti, si dice, abito di qualcosa, e la scienza si dice scienza di qualcosa, e la
posizione si dice posizione di qualcosa, e lo stesso vale per tutte le altre cose. Sono relative, dunque, tutte le cose che ciò che sono, lo si dicono essere di altre cose o in qualsiasi altro modo, ma sempre in relazione ad altro. Una montagna, ad esempio, si dice grande in relazione ad altro - è in relazione a qualcosa, infatti, che la montagna si dice grande -, e simile si dice simile a qualcosa, e lo stesso vale per tutte le altre cose di questo
genere che si dicono in relazione ad altro. Le posizioni dritta, supina e seduta sono posizioni determinate, e la posizione rientra nei relativi. Invece, lo stare seduti, lo stare supini e lo stare sdraiati, in sé, non sono posizioni, ma si dicono in maniera paronimica a
partire dalle posizioni dette.
Ai relativi appartiene la contrarietà: la virtù, ad esempio, è contraria al vizio - e entrambi sono dei relativi, e la scienza è contraria all’ignoranza. Non a tutti i relativi, però,
corrisponde un contrario: al doppio, ad esempio, nulla è contrario, né al triplo, né a nessun’altra cosa di questo genere.
Sembra, poi, che i relativi accolgano il più e il meno: il simile, infatti, si dice più o
meno tale, e il disuguale si dice più o meno tale, ed entrambi sono dei relativi, dal momento che il simile si dice simile a qualcosa, e il disuguale si dice disuguale rispetto a
qualcosa. Non tutti i relativi, tuttavia, accolgono il più e il meno: il doppio, infatti, non
si dice doppio in misura maggiore o minore, né nessun’altra cosa di questo genere.
Tutti i relativi si dicono in relazione a realtà che si convertono reciprocamente: lo
schiavo, ad esempio, si dice schiavo di un padrone, e il padrone si dice padrone di uno
schiavo; il doppio si dice doppio del mezzo, e il mezzo si dice mezzo del doppio; il più
grande si dice più grande del più piccolo, e il più piccolo si dice più piccolo del più
grande; e lo stesso vale per tutte le altre cose. Tranne che per quei casi in cui la differenza dell’espressione sarà solo nella desinenza: la scienza, ad esempio, si dice scienza
dello scibile, e lo scibile scibile dalla scienza; la sensazione si dice sensazione del sensibile, e il sensibile sensibile per la sensazione.
A volte, tuttavia, potrà sembrare che non ci sia convertibilità, qualora il termine con
il quale la cosa è in relazione non sia stato detto in modo appropriato, ma ci si sia sbagliati a dirlo. Ad esempio, se si dice l’ala dell’uccello, non si può dire la reciproca uccello dell’ala, poiché la prima relazione non è stata posta in modo appropriato, dal momento che l’ala si dice dell’uccello non in quanto è uccello, ma in quanto è alato. Infatti,
ci sono ali di molte altre cose che non sono uccelli. Se, dunque, si pone la relazione in
modo appropriato, allora si può anche invertire: l’ala, ad esempio, è l’ala di un alato, e
l’alato è alato grazie all’ala. A volte è forse necessario coniare nuovi termini, qualora il
termine dato alla cosa cui ci si riferisce nella relazione non sia appropriato. Ad esempio,
se il timone si attribuisce alla nave, l’attribuzione non è appropriata, poiché non è in
quanto nave che il timone si attribuisce ad essa. Ci sono, infatti, delle navi di cui non esistono timoni. Non è possibile, quindi, porre la conversione, dal momento che la nave
non si dice nave del timone. Forse, però, l’attribuzione sarebbe più appropriata, se si
ponesse la relazione nel modo seguente: il timone è timone del timonato, o qualcosa di
simile; non si ha, infatti, un termine. Ed è sicuramente convertibile, se la relazione è stata posta in modo appropriato; il timonato, infatti, è tale in virtù del timone. E lo stesso
vale negli altri casi. La testa, ad esempio, sarebbe attribuita in maniera appropriata se
fosse attribuita ad un testato piuttosto che a un animale, dal momento che molti animali
non hanno una testa. Si comprenderebbe forse più facilmente nei casi in cui mancano i
termini nel seguente modo: se si derivassero dei nuovi termini dai primi termini e li si
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applicassero alle cose correlative a quelli, come, nel caso delle cose di cui si è parlato
prima, l’alato dall’ala e il timonato dal timone.
Tutti i relativi, infatti, se vengono attribuiti in modo appropriato, si dicono in relazione a realtà che si convertono reciprocamente, poiché, se vengono, invece, attribuiti in
relazione ad una cosa casuale, e non in relazione a ciò rispetto a cui si dicono, non c’è
correlazione. Intendo dire che neppure nel caso delle cose che si dicono concordemente
in relazione a dei convertibili e per le quali ci sono dei termini si ha la convertibilità, se
esse vengono poste in relazione a qualcosa di accidentale, e non in relazione a ciò rispetto al quale si dicono. Ad esempio, se lo schiavo viene posto come schiavo non del
padrone, ma dell’uomo o del bipede o di qualsiasi altra cosa di questo genere, non ci
può essere conversione reciproca, dal momento che l’attribuzione non è appropriata.
Inoltre, se una cosa viene posta in modo appropriato in relazione a ciò rispetto a cui
si dice, e vengono tolti tutti gli altri riferimenti che sono accidentali, e si lascia soltanto
il termine in relazione al quale la cosa è posta in maniera appropriata, essa si dirà sempre rispetto questo. Ad esempio, se lo schiavo si dice in relazione al padrone, se vengono eliminati tutti i riferimenti accidentali che concernono il padrone, come, ad esempio,
l’essere bipede, la capacità di ricevere la scienza, l’essere uomo, e si lascia esclusivamente l’essere il padrone, lo schiavo si dirà sempre in relazione a questo. Lo schiavo,
infatti, si dice schiavo del padrone.
Se, invece, una cosa non viene posta in maniera appropriata in relazione a ciò rispetto a cui talvolta è detta, pur eliminando tutti gli altri riferimenti e lasciando, invece, soltanto quello rispetto a quale viene posta, non si dirà in relazione a questo. Si attribuisca
lo schiavo all’uomo, e l’ala all’uccello, e si elimini dall’uomo il suo essere padrone: lo
schiavo non sarà più detto in relazione all’uomo, dal momento che, non essendoci un
padrone, non c’è nemmeno lo schiavo. Allo stesso modo, si tolga all’uccello l’essere alato: l’ala non farà più parte dei relativi, dal momento che, non essendoci l’alato, non ci
sarà nemmeno l’ala di qualcosa. Occorre, dunque, porre in modo appropriato le relazioni rispetto alle quali le cose vengono dette. E se c’è un termine, porre la relazione diventa semplice; se, invece, non c’è, forse è necessario coniare nuovi termini. È chiaro che,
se le relazioni vengono poste in questo modo, tutti i relativi saranno detti in relazione a
cose che possono essere convertite.
Sembra che i relativi siano simultanei per natura. E questo risulta essere vero nella
maggior parte dei casi: doppio e mezzo, infatti, sono simultanei, e se c’è il mezzo c’è
anche il doppio, e se c’è lo schiavo c’è anche il padrone. E lo stesso avviene negli altri
casi. Queste cose, inoltre, si eliminano vicendevolmente: se, infatti, non c’è il doppio
non c’è neppure il mezzo, e se non c’è il mezzo non c’è neppure il doppio, e lo stesso
accade in tutti gli altri casi simili a questi.
Non per tutti i relativi, però, risulta vero che siano contemporanei per natura. Lo scibile, infatti, sembrerebbe essere anteriore alla scienza, poiché, per lo più, acquisiamo le
conoscenze di oggetti preesistenti. Infatti, in pochi casi o in nessuno si potrebbe vedere
che la scienza nasce insieme allo scibile. Inoltre, se si elimina lo scibile, si elimina insieme anche la scienza, mentre la scienza non elimina insieme lo scibile. Se non c’è lo
scibile, infatti, non c’è neppure la scienza, poiché non ci sarà più scienza di nulla; se,
invece, non c’è la scienza, nulla impedisce che ci sia, comunque, lo scibile. Ad esempio,
consideriamo la quadratura del cerchio, se è uno scibile, di essa non c’è ancora una
scienza, ma lo scibile in se stesso esiste. Inoltre, se si elimina l’animale, non c’è scienza,
ma ci possono essere molti scibili.
133
Lo stesso accade nel caso della sensazione. Il sensibile, infatti, sembra essere anteriore alla sensazione, dal momento che, se si elimina il sensibile, si elimina insieme anche
la sensazione, mentre la sensazione non elimina insieme il sensibile. Le sensazioni, infatti, riguardano il corpo e sono nel corpo, e se il sensibile viene eliminato viene eliminato anche il corpo - dal momento che anche il corpo è un sensibile -, e se il corpo non
c’è viene eliminata anche la sensazione. Quindi, il sensibile elimina la sensazione; la
sensazione, invece, non elimina il sensibile: infatti, se si elimina l’animale, anche la
sensazione viene eliminata, mentre resterà il sensibile, ad esempio il corpo, il caldo, il
dolce, l’aspro, e tutti gli altri sensibili. Inoltre, la sensazione nasce insieme a ciò che è
capace di avere sensazione - l’animale e la sensazione, infatti, nascono insieme -; il sensibile, invece, c’è fin da prima che ci sia la sensazione: il fuoco e l’acqua, infatti, e altre
simili cose, dalle quali anche l’animale è costituito, ci sono anche prima che ci sia
l’animale nella sua interezza e la sensazione. Perciò il sensibile sembrerebbe esserci
prima della sensazione.
Si riscontra poi la seguente aporia: se nessuna sostanza possa essere detta far parte
dei relativi, come sembrerebbe, o se questo sia possibile per alcune sostanze seconde.
Infatti, per quanto riguarda le sostanze prime, è vero [che esse non fanno parte dei relativi], poiché né gli interi né le parti di esse si dicono in relazione a qualcosa. Un determinato uomo, infatti, non si dice un determinato uomo di qualcosa, né un determinato
bue si dice un determinato bue di qualcosa. E lo stesso vale anche per le parti [delle sostanze]: una determinata mano, infatti, non si dice una determinata mano di qualcuno,
ma la mano di qualcuno, e una determinata testa non si dice una determinata testa di
qualcuno, ma la testa di qualcuno. La stessa situazione si verifica anche per le sostanze
seconde, nella maggior parte dei casi: l’uomo, ad esempio, non si dice uomo di qualcosa, né il bue bue di qualcosa, né il legno legno di qualcosa, ma si dicono proprietà di
qualcuno. Nei casi di questo genere, dunque, è chiaro che non siamo in presenza di relativi, ma per alcune sostanze seconde ci possono essere dei dubbi. La testa, infatti, si dice
testa di qualcuno, e la mano si dice mano di qualcuno, e così per tutte le cose di questo
tipo; tali cose, quindi, sembrerebbero essere dei relativi.
Se, dunque, la definizione dei relativi è stata esposta in maniera adeguata, dare la soluzione che nessuna sostanza si dice in relazione a qualcosa è o molto facile oppure impossibile; se, invece, non è stata data in maniera adeguata, e i relativi sono, piuttosto,
ciò il cui essere consiste nello stare in una certa relazione rispetto a qualcosa, forse si
potrebbe dire qualcosa a riguardo. La prima definizione si applica a tutti i relativi, ma
per essi l’essere in relazione a qualcosa non è essere detti di altre cose ciò che sono.
Da ciò risulta chiaro che, qualora si conosca in maniera determinata uno dei relativi,
si conoscerà in maniera determinata anche ciò in relazione al quale si dice. E questo è di
per sé evidente: se, infatti, si conosce che una determinata cosa fa parte dei relativi - e
per i relativi l’essere consiste nello stare in una certa relazione con qualcosa -, si conoscerà anche ciò in relazione a cui questo sta, poiché se non si conosce affatto ciò in relazione al quale questa sta, non si saprà nemmeno se sta in una certa relazione rispetto a
qualcosa. E questo risulta chiaro se si prendono degli esempi particolari: ad esempio, se
si sa in maniera determinata che questa cosa è doppia, immediatamente si saprà anche di
che cosa è doppia; se, infatti, si sapesse che è doppia di nessuna cosa definita, non si saprebbe affatto neppure che è doppia. E, similmente, se si sa che una determinata cosa è
più bella, per ciò stesso si sa necessariamente e in maniera definita rispetto a cosa essa
sia più bella. Non basterà sapere in modo indefinito che è più bella rispetto a una cosa
peggiore, poiché una simile asserzione sarebbe una supposizione, e non una scienza. E,
134
in effetti, non si potrebbe ancora sapere in maniera esatta che è più bella di una cosa
peggiore, se dovesse capitare che non ci sia nulla di peggiore rispetto a essa. È, quindi,
chiaramente necessario che, qualora si conosca in maniera determinata uno dei relativi,
si conosca in maniera determinata anche ciò in relazione al quale esso si dice. D’altro
canto, per quanto concerne la testa, la mano, e tutte le altre sostanze, si può di certo conoscere in maniera determinata ciò che sono, senza dover conoscere ciò in relazione al
quale si dicono. Non è, infatti, necessario sapere in maniera determinata di chi sia questa testa o di chi sia questa mano. Pertanto queste cose non sarebbero dei relativi. E se
non sono dei relativi, risulterebbe vero affermare che nessuna sostanza rientra nei relativi. Probabilmente è difficile fare affermazioni forti intorno a questi argomenti, senza
averli prima indagati molte volte (ripetutamente); non è inutile, tuttavia, aver esposto
delle aporie intorno a ciascuno di essi.
Sommario
Il capitolo settimo tratta della categoria dei relativi (prÒj ti), e può essere suddiviso
in tre sezioni.
I. Nella prima, Aristotele presenta una prima definizione dei relativi, per la quale
«si dicono relative tutte quelle cose che, ciò che sono, lo si dicono essere di altre cose o in qualsiasi altro modo, ma sempre in relazione ad altro», e cita alcuni esempi quali il maggiore, il doppio, l’abito, la disposizione, la sensazione, la scienza, la sensazione, la posizione e il simile.
II. Nella seconda sezione, Aristotele procede a presentare e analizzare le caratteristiche della categoria della relazione, che sono in numero di quattro: 1. i relativi possono ammettere contrarietà; 2. i relativi possono ammettere il più e il
meno; 3. i relativi si dicono sempre in riferimento a un correlativo; 4. i relativi
sono sempre simultanei.
III. Nella terza e ultima sezione, infine, Aristotele indaga il rapporto tra i relativi e le
sostanze, chiedendosi se sia possibile che qualche tipo di sostanza venga annoverato tra i relativi. Per risolvere l’aporia, lo Stagirita offre una seconda definizione di “relativi”, per la quale l’essenza della cosa relativa consiste nel
suo essere in relazione ad altro.
1. La prima definizione dei relativi
Aristotele presenta in questo passo una prima definizione dei “relativi” (alla quale
più avanti sarà affiancata una seconda):
si dicono relative tutte quelle cose che, ciò che sono, lo si dicono essere di altre cose o
in qualsiasi altro modo (À Ðpwsoàn ¥llwj), ma sempre in relazione ad altro1.
L’aggiunta «o in qualsiasi altro modo» è richiesta dal fatto che non sempre la relazione tra i due termini è espressa dal genitivo “di”. L’Autore porta alcuni esempi: «il riferimento ad altro […] è costitutivo del significato di termini quali maggiore, doppio
etc. Maggiore insomma non può mai essere detto in senso assoluto, ma è sempre mag1
Categorie 7, 6 a 36-37.
135
giore di…; come si chiarirà in seguito, maggiore di niente, e cioè maggiore senza alcun
termine di paragone, non vorrebbe più dire niente»2.
Rientrano nei relativi anche: l’abito (›xij), la disposizione (di£qesij), la sensazione
(a‡sqhsij), la scienza (™pist»mh), la posizione (qšsij). L’abito, e la disposizione saranno presentate più avanti, in questo stesso scritto aristotelico, come delle specie di
qualità3; e tra gli abiti si dirà che rientra anche la scienza4. I due punti di vista non sono
incompatibili: la scienza è l’abito in virtù del quale noi possiamo essere qualificati come
sapienti e, in questo senso, essa indica una qualità; ma la scienza è anche qualcosa il cui
essere rinvia a qualcos’altro: la conoscenza scientifica, infatti, è sempre conoscenza di
qualcosa e, in questo senso, essa si presenta come relativo. La scienza, quando è in atto,
coincide, in un certo qual modo, con il suo oggetto, in ragione della sua relazione essenziale rispetto a un oggetto5. Lo stesso vale anche per la sensazione.
Sono relative, dunque, tutte le cose che ciò che sono, lo si dicono essere di altre cose
o in qualsiasi altro modo, ma sempre in relazione ad altro. E ancora, anche una montagna si può dire grande in relazione ad altro, e simile si dice simile a qualcosa.
Anche la posizione rientra nei relativi; rientrano, pertanto, nei relativi le posizioni determinate quali la posizioni dritta, supina e seduta. Invece, lo stare seduti, lo stare supini
e lo stare sdraiati, in sé, non sono posizioni, ma si dicono in maniera paronimica a partire dalle posizioni dette. «La posizione è sempre di qualcuno, e perciò rientra tra le cose
relative. Relative saranno dunque anche la posizione sdraiata, quella eretta e la seduta
(espresse in greco da tre sostantivi; ¢n£klisij, st£sij, kaqšdra6), che ne sono delle
specie. Lo star sdraiati, eretti e seduti (espressi in greco da tre verbi che hanno la stessa
radice dei sostantivi: tÕ ¢nake[kl]…sqai, tÕ ˜st£nai, tÕ kaqÁsqai7 e quindi da termini paronimi) rientrano invece nell’altra categoria dell’essere in una certa posizione
(ke‹sqai)»8.
2. Le caratteristiche dei relativi
2.1. Prima caratteristica: i relativi hanno contrarietà
Dopo aver presentato una descrizione generale dei relativi, Aristotele passa ad analizzarne le caratteristiche. Nei relativi, sostiene lo Stagirita, è presente la contrarietà, una
caratteristica di cui erano prive la sostanza9 e la quantità10, ma che risulterà importante
in categorie che esamineremo in seguito, come la qualità11.
Si tratta di una caratteristica, tuttavia, che non appartiene ai relativi per sé considerati; vi sono, infatti, relativi cui appartiene la contrarietà, come, ad esempio, virtù e vizio,
conoscenza e ignoranza, e vi sono relativi cui, invece, non appartiene la contrarietà, come, ad esempio, doppio e triplo. La contrarietà è presente nei relativi non perché il rela2
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 59, n. 3.
Cfr. Categorie, 8 b 26-27.
4 Cfr. Categorie, 8 b 29.
5 Cfr. De Anima, III, 7, 431 a 1.
6 Cfr. Categorie 7, 6 b 11-12.
7 Cfr. Categorie 7, 6 b 12-13.
8 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 60, n. 8.
9 Cfr. capitolo quinto, supra, pp. ***.
10 Cfr. capitolo sesto, supra, pp. ***.
11 Cfr. capitolo ottavo, infra, pp. ***.
3
136
tivo è per se contrario a ciò di cui si dice essere relativo, quindi non per sua intima natura, ma perché accade che alcuni relativi siano anche dei contrari. Il tipo di opposizione
che appartiene, per essenza, ai relativi, infatti, non è quello della contrarietà, come si
vedrà in Categorie 1012.
Non c’è contrarietà in tutti i relativi. In che modo, allora, possiamo capire quali
l’ammettano e quali no? La risposta risiede nel fatto che la relazione non può essere
concepita come una categoria per sé stante, separata dalle altre; la relazione è, per così
dire, una categoria trasversale che coesiste sempre unitamente ad altre categorie. In questo senso, allora, i relativi che coesistono con una categoria che ha contrarietà avranno
anch’essi la contrarietà: virtù e vizio, così come anche scienza e ignoranza, ad esempio,
sono abiti che, come vedremo in Categorie 8, rientrano nella categoria della qualità;
poiché c’è contrarietà secondo la qualità, ci sarà contrarietà anche secondo tali relativi. I
relativi che coesistono, invece, con una categoria che non ha contrarietà non avranno
neanch’essi contrarietà: doppio e triplo, ad esempio, sono quantità e poiché la non si dà
contrarietà secondo la quantità non ci sarà contrarietà neppure secondo tali relativi.
La presenza di casi di relativi che non hanno contrarietà ha condotto dei commentatori come Zanatta13 a una tesi estrema, quella per cui i relativi non ammettono contrarietà14. Forse lo studioso giunge a tale conclusione perché intende la contrarietà dei relativi
come contrarietà rispetto ai rispettivi correlativi: «se infatti ciò che definisce la condizione dei relativi è la circostanza di essere quello che sono in riferimento al loro correlativo, è chiaro che il non poter essere contrari al correlativo entra a scandire la nozione
stessa di relativo»15.
I relativi, in realtà, possono sì avere contrarietà, solo nella misura in cui coesistono
all’interno di una ulteriore categoria che ammetta i contrari, e non perché risultano contrari al rispettivo correlativo, il che non può darsi. Ad esempio, scienza e ignoranza sono
contrari, ma l’ignoranza non è il correlativo della scienza, perché la scienza non è scienza dell’ignoranza, e viceversa. Come giustamente riporta Simplicio16, la stessa cosa può
cadere, per un aspetto, in una categoria e, per un altro aspetto, in un’altra. «Che una
stessa cosa rientri in più categorie non costituisce nessuna difficoltà; non chiaro risulta
invece il vicendevole rapporto tra contrari e relativi, presentati, nel capitolo precedente,
come mutualmente escludentesi e chiariti, poi, nel capitolo 10, come due specie diverse
dell’opposizione; qui invece si afferma che virtù e vizio sono, nello stesso tempo, relativi e contrari»17.
Per risolvere la questione, Tricot18, seguito da Antiseri19, afferma che la contrarietà
dei relativi, così come esposta nel testo aristotelico, si presenta come una proprietà solo
apparente, e ciò sarebbe dimostrato sia dal capitolo precedente, in cui si è detto che i
contrari e i relativi si autoescludono, sia dall’esempio del doppio e del triplo, che, pur
12
Cfr. capitolo decimo, infra, pp. ***:
Cfr. Zanatta, Aristotele. Le Categorie…, pp. 210-212.
14 Zanatta, Aristotele. Le Categorie…, p. 212«[…] si deve necessariamente concludere che i relativi non ammettono contrarietà».
15 Zanatta, Aristotele, Le Categorie…, p. 213.
16 Cfr. Simplicio, In Cat., 175, 32 e ss..
17 Pesce, Aristotele, Le Categorie…, p. 60, n. 9.
18 Cfr. J. Tricot, Aristote: Organon I-II, Paris 1966, p. 31.
19 Cfr. Antiseri, Aristotele. Le categorie, a cura di D. Antiseri, Minerva Italica, Bergamo 1971,
p. 64, n. 4.
13
137
essendo relativi, non ammettono contrarietà. Inoltre, aggiunge Tricot20, il vizio e la virtù, come anche la scienza e l’ignoranza, sono degli abiti, quindi delle qualità, e si presentano come relativi solo secundum dici; essi avrebbero una natura propria indipendente dalla relazione stessa che costituisce tutto l’essere dei relativi secundum esse. In realtà, la relazione non è una proprietà meramente apparente, ma, per così dire, trasversale,
che coesiste unitamente ad altre categorie; non è, dunque, preoccupante o difficoltoso
che le stesse cose, come il vizio e la virtù, la scienza e l’ignoranza, possano rientrare,
sotto un aspetto, e cioè per il genere cui appartengono, entro la categoria della qualità e,
sotto un altro aspetto, e cioè per il fatto di essere intenzionali e di riferirsi sempre a
qualcos’altro, sotto la categoria della relazione. Sono d’accordo con Porfirio21, secondo
il quale una qualificazione, in quanto permette di qualificare le cose che partecipano di
essa, rientra nella categoria della qualità, e, in quanto è qualità di qualcosa, appartiene ai
relativi.
Per quanto riguarda il caso specifico della virtù e del vizio, essi sono legittimamente
enumerati tra i relativi in quanto, essendo degli abiti e, dunque, delle qualità, costituiscono anche degli intermedi, l’una, la virtù, come commensurabilità, l’altro, il vizio,
come incommensurabilità22. Il mezzo, infatti, si dice in relazione agli estremi, la commensurabilità si dice in relazione all’incommensurabilità, e l’incommensurabilità si dice
in relazione alla commensurabilità. Di conseguenza, nella misura in cui virtù e vizio sono qualità, sono dei contrari, e, nella misura in cui sono intermedi, sono dei relativi.
Quanto alla distinzione tra relativi secundum dici e relativi secundum esse, è pressoché
impossibile poter concepire dei relativi per se, senza fare riferimento a nessun’altra categoria.
2.2. Seconda caratteristica: i relativi ammettono il più e il meno
La seconda caratteristica che Aristotele enumera in riferimento ai relativi e
l’ammettere il più e il meno. Innanzitutto, l’espressione con cui la presenta:
Sembra, poi, che i relativi accolgano il più e il meno (doke‹ dO kaˆ tÕ m©llon kaˆ tÕ
Âtton ™pidšcesqai t¦ prÒj ti)23.
Il “sembra” non è dato dal fatto che i relativi, di fatto, non ammettono il più e il meno,
ma dalla presentazione di una vecchia dottrina o, comunque, di qualcosa di noto al pensiero comune24. Il “sembra” non avallerebbe, dunque, la tesi del Tricot25, il quale sostiene qui che, come la contrarietà, anche il più e il meno siano una caratteristica solo apparente.
I relativi ammettono il più e il meno: secondo gli esempi portati da Aristotele, il simile si dice più o meno simile26 e il disuguale si dice più o meno disuguale27. Entrambi,
il simile e il disuguale, sono dei relativi, in quanto si dicono sempre in riferimento a
20
Tricot sembra qui seguire Pacius, In Porphirii Isagoge et Aristotelis organum Commentarius
analyticus, Aureliae, 1605, p. 41.
21 Cfr. Porfirio, In Cat., 114, 5 e ss..
22 Si tratta di una tesi sviluppata dagli Stoici, secondo la quale la virtù è unitaria, mentre il vizio
è multiforme e vario. Cfr. la dottrina del giusto mezzo in Etica Nicomachea II, 6-8.
23 Categorie 7, 6 b 19-20.
24 Cfr. Simplicio, In Cat., 176, 20 ss..
25 Cfr. Tricot, Aristote: Organon I-II…, p. 31.
26 Cfr. Categorie 7, 6 b 20-21: Ómoion g¦r m©llon kaˆ Âtton lšgetai.
27 Cfr. Categorie 7, 6 b 21-22: ¥nison m©llon kaˆ Âtton lšgetai.
138
qualcosa28: il simile, infatti, è simile a qualcosa e il disuguale è disuguale rispetto a
qualcosa.
Una stranezza va notata in questo passo. Aristotele porta due esempi di relativi che
ammettono il più e il meno: il simile (Ómoion) e il disuguale (¥nison). Ora questi due
termini vengono spesso citati in coppia con il loro corrispettivo: il simile col dissimile,
il disuguale con l’uguale. Perché lo Stagirita sceglie di citare, nel primo caso, il termine
positivo (l’uguale) e, nel secondo caso, il termine negativo? Non si tratta semplicemente
di un caso, ma c’è una ragione profonda alla base di questa scelta. Mentre nel caso del
simile, Aristotele cita il solo termine positivo, il simile, come per citare l’intera coppia
simile-dissimile (il simile e il dissimile, infatti, ammettono entrambi il più e il meno),
nel secondo caso, egli cita esclusivamente il termine negativo diseguale non per intendere l’intera coppia uguale-diseguale, ma «per riservare la possibilità del più e del meno
soltanto al termine negativo»29. Questo perché l’uguale, «inteso, come fa Aristotele, nel
senso preciso della matematica»30, è qualcosa di determinato che non può ammettere
aumento o diminuzione: due cose uguali non possono essere più o meno uguali; o sono
uguali oppure sono disuguali, tertium non datur. Il disuguale, invece, è indeterminato e
può ammettere una progressione all’infinito. Resta da chiarire come sia possibile che il
disuguale, rientrando nella categoria della quantità, possa ammettere il più e il meno. La
quantità, in quanto quantità, non ammette il più e il meno, ma il disuguale è una dissomiglianza della quantità, e, poiché la dissomiglianza è una qualità e la qualità ammette il
più e il meno, anche il disuguale li potrà ammettere.
Aristotele aggiunge un’importante limitazione a questa seconda caratteristica enumerata in riferimento alla categoria della relazione. Non tutti i relativi ammettono il più e il
meno31: il doppio, il triplo, e, in generale, tutti gli altri esempi di quantità determinate
non possono essere detti in misura maggiore o minore perché non possono ammettere
indeterminatezza. Chi obiettasse che il doppio possa ammettere il più e il meno per la
maggiore o minore grandezza dei numeri all’interno della proporzione, come se il doppio nel caso del rapporto 200:100 fosse maggiore rispetto a quello del rapporto 4:2, non
avrebbe compreso che la proporzione è esattamente la stessa, qualsiasi sia la grandezza
dei numeri presi in considerazione32. A questo proposito, è utile leggere Metafisica D
15, 1020 b 32 - 1021 a 14, in cui si distinguono le relazioni numeriche determinate dalle
relazioni numeriche indeterminate in rapporto ai numeri stessi o in rapporto all’unità, e
si dice che
il doppio è in rapporto numerico determinato rispetto all’unità, mentre il multiplo è pure in rapporto numerico rispetto all’unità, ma non in rapporto determinato: non è, cioè,
in questo o quest’altro rapporto33.
Relazioni come doppio, triplo, multiplo - continua Aristotele - sono
relazioni numeriche (t¦ prÒj ti kat’¢riqmÕn) e sono affezioni del numero (¢riqmoà
p£qh). E relazioni numeriche sono anche l’uguale (tÕ ‡son), il simile (Ómoion) e
l’identico (taÙtÕ), ma in un altro senso (kat’ ¥llon trÒpon). In effetti, tutti e tre si riferiscono all’unità: identiche, infatti, sono le cose la cui sostanza è una, simili sono
quelle cose la cui qualità è una, e uguali sono quelle cose la cui quantità è una: ora,
28
Cfr. Categorie 7, 6 b 22: ˜k£teron aÙtîn prÒj ti Ôn.
Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 60, n. 11.
30 Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 60, n. 11. Cfr. Categorie 6 a 26 e ss.
31 Cfr. Categorie 7, 6 b 23-25: oÙ p£nta dO ™pidšcetai tÕ m©llon kaˆ Âtton.
32 Cfr. Simplicio, In Cat., 178, 10 ss..
33 Metafisica D 15, 1020 b 34-35.
29
139
l’uno è principio e misura del numero, e pertanto tutte queste relazioni si possono dire
relazioni numeriche, ma non nello stesso senso (oÙ tÕn aÙtÕn dO trÒpon)34
in quanto si riferiscono a categorie diverse35.
2.3. Terza caratteristica: i relativi si dicono sempre in riferimento a un correlativo
Dopo aver presentato due caratteristiche non esclusive della categoria della relazione,
poiché comuni anche ad altre categorie, Aristotele spiega qual è il vero proprium dei relativi. La peculiarità dei relativi consiste nel fatto che tutti essi si dicono in relazione a
dei correlativi (prÕj ¢ntistršfonta36) con i quali hanno un rapporto di reciprocità.
Si tratta di una proprietà che, diversamente dalle precedenti, appartiene essenzialmente alla categoria della relazione, e consiste in una corrispondenza biunivoca per cui
se si dice A di B, si può dire anche B di A. In questo modo, come lo schiavo si dice
schiavo di un padrone, così il padrone si dice padrone di uno schiavo; come il doppio si
dice doppio del mezzo, così il mezzo si dice mezzo del doppio; come il più grande si dice più grande del più piccolo, così il più piccolo si dice più piccolo del più grande. Non
si tratta di una semplice corrispondenza o di partecipazione, ma di una relazione tra
termini che si predicano reciprocamente. Altro, infatti, è dire “l’uomo buono è pio, e
l’uomo pio è buono”, altro è dire “lo schiavo è schiavo di un padrone, e il padrone è padrone di uno schiavo: il primo è un esempio di partecipazione, il secondo è un esempio
di relazione reciproca37.
2.3.1. Relativi che presentano una differenza nella desinenza (paronimi)
Aristotele presenta, tuttavia, delle eccezioni a questa caratteristica:
Tranne che per quei casi in cui la differenza dell’espressione sarà solo nella desinenza:
la scienza, ad esempio, si dice scienza dello scibile, e lo scibile scibile dalla scienza; la
sensazione si dice sensazione del sensibile, e il sensibile sensibile per la sensazione38.
In tutti gli esempi precedenti, Aristotele ha mostrato la reciprocità della relazione usando il caso genitivo: lo schiavo di un padrone (despÒtou), il padrone di uno schiavo
(doÚlou), il doppio del mezzo (¹m…seoj), il mezzo del doppio (diplas…ou), più grande
del più piccolo (™l£ttonoj), più piccolo del più grande (me…zonoj). In tutti questi casi,
la reciprocità si esprime, in entrambe le direzioni, attraverso il genitivo. Non sempre,
tuttavia, la reciprocità si manifesta attraverso l’uso esclusivo di questo caso, ma può essere espressa anche attraverso l’uso del dativo. «La relazione ha carattere simmetrico e
perciò, se A è relativo a B, anche B sarà relativo ad A, ancorché la forma linguistica della relazione possa variare, come è indicato dal mutamento del caso»39. Non ha luogo
nessuna variazione all’interno del tipo di relazione, si tratta unicamente di un cambiamento nell’espressione. Mentre per il padrone e lo schiavo, per il padre e il figlio, la relazione viene espressa, in entrambe le direzioni, con il caso genitivo, per quel che riguarda la scienza (™pist»mh) e lo scibile (™pisthtÒn), la sensazione (a‡sqhsij) e il
sensibile (a„sqhtÒn), in un senso si usa il caso genitivo: la scienza si dice scienza dello
34
Metafisica D 15, 1021 a 8-14.
Cfr. Reale, in Aristotele, Metafisica…, vol. III, p. 261, n. 11.
36 Categorie 7, 6 b 28.
37 Cfr. Simplicio, In Cat., 181, 4-7.
38 Categorie 7, 6 b 33-36.
39 Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 61, n. 12.
35
140
scibile (¹ ™pist»mh ™pisthtoà lšgetai ™pist»mh)40, la sensazione si dice sensazione
del sensibile (¹ a‡sqhsij a„sqhtoà a‡sqhsij)41; nell’altro senso di usa il caso dativo:
lo scibile si dice scibile per la scienza (tÕ ™pisthtÕn ™pist»mV ™pisthtÒn)42, il sensibile si dice sensibile per la sensazione (tÕ a„sqhtÕn a„sq»sei a„sqhtÒn)43.
2.3.2. Fallacie nell’attribuzione dei relativi
Qualora i relativi vengano attribuiti in modo corretto, avranno sempre un correlativo
con quale sono in un rapporto di reciprocità. Può, tuttavia, accadere che si introducano
degli errori nell’attribuzione, e la reciprocità non sia più possibile. Per questo, è assolutamente necessario fare molta attenzione alla correttezza dell’attribuzione.
La presentazione scorretta ha luogo nei casi in cui:
(a) il relativo viene connesso a qualcosa di cui esso non viene detto come correlativo
naturale;
(b) degli elementi che vengono presentati, l’uno risulta (a1) più esteso o (a2) più ristretto e, quindi, non co-estensivo. Il fatto che nessuno dei due elementi della relazione
possano avere un riferimento più ampio o più ristretto rispetto al correlativo è una caratteristica essenziale della relazione. Qualora un elemento avesse un riferimento più ampio, si avrebbe un’ “eccedenza” (pleon£zein, Øperb£llein); qualora un elemento avesse un riferimento più ristretto, si avrebbe un “difetto” (™lle…pein)44.
Nel caso, sopra riportato, dello schiavo e del padrone, tutte le condizioni sono rispettate: i due elementi sono coestensivi e presentati per se: lo schiavo, in quanto schiavo, è
schiavo di un padrone; il padrone, in quanto padrone, è padrone di uno schiavo.
Analizziamo, ora, gli esempi presentati da Aristotele in cui l’attribuzione è stata scorrettamente intesa e, di conseguenza, non ha luogo la reciprocità.
1. L’espressione l’ala dell’uccello (tÕ pterÕn Ôrniqoj) non può essere convertita
nella reciproca l’uccello dell’ala (Ôrnij pteroà)45. I due elementi, in questo caso,
non sono coestensivi, perché l’ala può essere attribuita con un’estensione maggiore rispetto all’animale. Esistono, infatti, esseri alati di cui solamente quelli coperti
di piume sono uccelli; si pensi, ad esempio, agli insetti o al pipistrello. L’ala si dice di un uccello non in quanto si tratta di un uccello, ma in quanto è alato. Per ottenere una corretta attribuzione, in modo che sia rispettata la coestensione dei
termini e, quindi, la reciprocità, dovremmo dire non l’ala dell’uccello, ma l’ala
dell’alato (pterwtoà pterÕn46), utilizzando un termine derivato dal primo elemento, in modo che la relazione sia immediatamente chiara. In questo modo, i
termini non sono più l’uno più esteso o più ristretto dell’altro, ma sono perfettamente commisurati: l’ala, infatti, è sempre l’ala di un alato, e l’alato è alato grazie
all’ala (tÕ pterwtÕn pterù pterwtÒn47).
40
Categorie 7, 6 b 34.
Categorie 7, 6 b 35.
42 Categorie 7, 6 b 34-35.
43 Categorie 7, 6 b 35-36.
44 Cr. Simplicio, 183, 25 ss; cfr. Fleet, Simplicius, On Aristotle Categories 7-8…, p. 166, n. 142.
45 Cfr. Categorie 7, 6 b 38-39.
46 Categorie 7, 7 a 4-5 .
47 Categorie 7, 7 a 5.
41
141
2. Non sempre esistono dei termini da utilizzare per poter porre l’attribuzione in
modo corretto. A volte c’è bisogno di coniare nuove parole sulla base del primo
elemento della relazione, «non perché dovremmo imporre innovazioni superflue
alla terminologia quotidiana delle parole già esistenti»48 - e, di fatto, le espressioni
usate da Aristotele rivelano una certa cautela: «a volte» (™n…ote49), «forse»
(‡swj50) -, ma perché non esistono termini che esprimano il correlato reciproco.
2.1. È il caso del timone. L’espressione il timone della nave (tÕ phd£lion
plo…ou) non può essere convertita nella reciproca la nave del timone (phdal…ou
plo‹on). I due elementi non sono coestensivi, perché la nave può essere attribuita
con un’estensione maggiore rispetto al timone. Esistono, infatti, delle navi che
non hanno timoni. Per ottenere una corretta attribuzione, in modo che sia rispettata la coestensione dei termini e, quindi, la reciprocità, occorre, in questo caso, coniare un nuovo termine sulla base del primo. Se la relazione viene posta in modo
appropriato, c’è sicuramente correlazione: il timone è timone del “timonato”
(phdaliwtoà phd£lion51), e il “timonato” è tale in virtù del timone (tÕ phdaliwtÕn phdal…J phdaliwtÒn52).
2.2. Allo stesso modo, l’espressione la testa dell’animale (kefal¾ zóou) non
può essere convertita nella reciproca l’animale della testa. I due elementi, testa e
animale, non sono coestensivi, perché la testa può essere attribuita con
un’estensione maggiore rispetto all’animale. Esistono, infatti, degli animali che
non hanno una testa. Si pensi, ad esempio, alle meduse, ai molluschi, ai crostacei,
ai granchi e alle bivalve53.
Per avere una corretta attribuzione, che assicuri la reciprocità del rapporto, occorre,
anche in questo caso, coniare un nuovo termine, poiché non esiste una parola adatta alla
relazione che stiamo analizzando. L’attribuzione sarebbe corretta se si dicesse la testa
del “testato” (kefal¾ kefalwtoà), di modo che si potrebbe anche dire che il “testato”
è tale in virtù della testa. Aristotele «insiste sul fatto il correlativo proprio di ogni termine relativo è quello che esprime la relazione inversa, ed egli sostiene che una tale relazione inversa c’è sempre, anche se non sempre potrebbe esserci il nome adatto»54. È interessante notare come, nel momento in cui Aristotele si trova a dover coniare dei nuovi
termini, egli non inventi delle parole particolarmente strane, ma le formi derivandole da
parole già note all’interno del linguaggio comune (paronimicamente, il “timonato” da
timone, il “testato” da testa). In questo modo, egli insegna come coloro che apportano
delle innovazioni nel linguaggio dovrebbero cercare di preservare l’intuitività e la semplicità della comprensione, assicurando il mantenersi di termini e concetti comuni noti
ai più. Questo vale anche, in una certa misura, per quegli ambiti in cui il linguaggio tecnico deve esprimere cose poco familiari alla maggior parte delle persone. Gli studiosi di
musica e di geometria, per quanto siano spesso costretti a usare termini particolari e poco noti ai più, a volte, invece, riescono a utilizzare parole già esistenti all’interno del
48
Simplicio, In Cat., 185, 5.
Categorie 7, 7 a 5.
50 Categorie 7, 7 a 6.
51 Categorie 7, 7 a 12-13.
52 Categorie 7, 7 a 14-15.
53 Si tratta degli esempi indicati da Simplicio, In Cat.,185, 20 ss.
54 Ackrill, Aristotle’s Categories and De Interpretatione…, p. 100, nota a 6 b 28.
49
142
linguaggio comune, cui attribuiscono, però, un nuovo significato tecnico, come, ad esempio, “colore” e “intervallo” per la musica e “centro” per la geometria55.
In Categorie 7, 7 a 22-31, Aristotele torna ad insistere sul fatto che tutti i relativi, se
vengono attribuiti in modo appropriato (o„ke…wj), si dicono in relazione a dei correlativi. «La conversione reciproca dunque è carattere essenziale che non soffre eccezioni;
quando sembra che questo accada, segno è che la relazione non è stata posta nel modo
dovuto»56.
In particolare, qui Aristotele aggiunge la specificazione di un requisito molto importante
per la corretta attribuzione dei relativi; si tratta di un parametro che ingloba in sé i precedenti analizzati sopra: i termini devono essere posti in relazione a ciò rispetto a cui si
dicono (prÕj aÙtÕ Ö lšgetai), e non in relazione a qualcosa di accidentale (prÒj ti
tîn sumbebhkÒtwn). Ad esempio, se lo schiavo venisse detto non schiavo del padrone
(doàloj despÒtou), ma schiavo dell’uomo (doàloj ¢nqrèpou) o schiavo del bipede
(doàloj d…podoj), non ci sarebbe possibilità di conversione reciproca, perché il primo
termine non viene detto in relazione a ciò rispetto al quale si dice, ma in relazione a
qualcosa di accidentale. Lo schiavo, infatti, è schiavo del padrone e, per converso, il padrone è padrone dello schiavo; se, al posto di padrone, si dicesse uomo, si potrebbe ancora sostenere l’espressione schiavo dell’uomo, ma la conversione uomo dello schiavo
non avrebbe alcun senso. Naturalmente, in questo caso, Aristotele intende l’accidente
non in senso assoluto, ma come esso si presenta «rispetto alla relazione, o meglio rispetto a quell’essenza (proprio quello che sono, della definizione iniziale) in riferimento alla quale si costituisce la relazione, e perciò accidente in un senso soltanto relativo. È rispetto alla relazione schiavo-padrone, che la qualifica uomo attribuita al padrone può
apparire accidentale; giacché, in un senso assoluto, è vero il contrario: uomo è l’essenza
(la sostanza) e l’esser padrone qualcosa di accidentale»57.
2.3.3. Parametri per una corretta attribuzione dei relativi
Aristotele procede ancora oltre nella delineazione dei parametri per una corretta attribuzione dei relativi. Dopo aver individuato in modo preciso qual è il termine rispetto al
quale il relativo si dice, separandolo da tutti i termini accidentali, occorre rimuovere, dal
termine selezionato, qualsiasi riferimento accidentale e considerarlo, invece, nell’unica
essenza per cui esso è il correlativo del primo termine. In questo modo, i due termini
della relazione si diranno sempre e solo l’uno rispetto all’altro. Ad esempio, se lo schiavo si dice in relazione al padrone, e al padrone viene eliminato qualsiasi tipo di riferimento che si presenta come accidentale rispetto alla relazione (periairoumšnwn
¡p£ntwn Ósa sumbebhkÒta ™stˆ tù despÒtV), come l’essere bipede (tÕ d…podi
enai58), la capacità di ricevere la scienza (tÕ ™pist»mhj dektikù59), l’essere uomo (tÕ
¢nqrèpJ60), e si lascia esclusivamente l’essere padrone, allora lo schiavo si dirà sempre
e solo del padrone, e il padrone si dirà sempre e solo dello schiavo.
55
Cfr. Simplicio, In Cat., 186, 30 - 187, 10.
Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 63, n. 16.
57 Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 62, n. 18.
58 Categorie 7, 7 a 36-37.
59 Categorie 7, 7 a 37.
60 Categorie 7, 7 a 37.
56
143
Il parametro dell’eliminazione di ogni riferimento accidentale deve essere rigorosamente applicato solo nel momento in cui si sia perfettamente individuato il termine cui
il relativo fa riferimento.
Al contrario, se la relazione non è stata posta in maniera appropriata, attribuendo, ad
esempio, lo schiavo all’uomo e l’ala all’uccello, e si andranno ad eliminare tutti i riferimenti che appaiono, in questo caso, accidentali, ma che sono, invece, l’essenza stessa
della relazione, si verificheranno degli errori ancora più profondi. Se, ad esempio, si attribuisce lo schiavo all’uomo, e si elimina poi dall’uomo il suo essere padrone, lo schiavo non sarà più detto in relazione all’uomo, perché, non essendoci più un padrone, non
ci sarà più nemmeno lo schiavo. «Schiavo di un uomo si può certamente dire, ma non in
quanto un uomo è semplicemente un uomo, ma in quanto è un padrone; perciò, se si togliesse ad uomo questa qualifica di esser padrone, la locuzione schiavo di un uomo non
sarebbe più possibile, perché non c’è schiavo di un uomo che non sia padrone»61.
Allo stesso modo, se si attribuisce l’ala all’uccello, e si elimina poi da quest’ultimo il
suo essere alato, l’ala non potrà più essere detta in relazione all’uccello, perché, non essendoci più un alato, non ci sarà più nemmeno l’ala. Possiamo sì dire ala di un uccello
ma non in quanto l’uccello è semplicemente un uccello, ma in quanto è alato; perciò, se
si togliesse all’uccello la qualifica di esser alato, l’espressione ala di un uccello non sarebbe più possibile, perché non esiste l’ala uccello che non sia alato. Se, al contrario,
venisse eliminato l’uccello, resterebbe l’ala e potrebbe essere riferita a un animale alato,
che non necessariamente è un uccello62.
In conclusione di questo argomento, in Categorie 7, 7 b 10-14, di nuovo Aristotele
insiste sulla necessità della correttezza delle attribuzioni dei relativi. Nel caso in cui esistano già dei termini, l’attribuzione è più semplice; nel caso in cui, invece, non esistano
già, occorre coniarne di nuovi ad hoc. In ogni caso, qualora l’attribuzione abbia rispettato tutti i parametri di correttezza, non potrà esserci termine la cui relazione con il correlativo non potrà essere convertita.
2.4. Quarta caratteristica: i relativi sono simultanei per natura
Dopo la correlazione che implica reciprocità, questa è un’ulteriore caratteristica distintiva della categoria della relazione: i relativi sono simultanei per natura (¤ma tÍ
fÚsei). Aristotele aggiunge il “sembra” (Doke‹ dO t¦ prÒj ti ¤ma tÍ fÚsei enai63)
forse perché sussiste un margine di incertezza su questo punto, come sarà poco più avanti testimoniato dalle numerosi eccezioni alla regola che viene qui presentata, oppure
semplicemente perché sta riportando un’opinione che apparteneva anche ai filosofi a lui
precedenti64.
«Simultanee (come si dirà poi nel cap. 13) è determinazione temporale e vuol dire
perciò che contemporaneamente si generano e contemporaneamente periscono. L’essere
o il non-essere dell’una richiede perciò l’essere o il non-essere dell’altra»65.
Subito, però, Aristotele introduce delle eccezioni:
61
Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 63, n. 15.
Cfr. Simplicio, In Cat., 186, 13.
63 Categorie 7, 7 b 15.
64 Cfr. Simplicio, In Cat., 189, 26 ss. Si tratta di una caratteristica su cui anche Platone sembra
concordare (cfr. Repubblica 438 B).
65 Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 63, n. 17.
62
144
Non per tutti i relativi, però, risulta vero che siano simultanei per natura66.
Si è appena parlato di due caratteristiche dei relativi: l’interdipendenza e la simultaneità. Aristotele precisa, in questo passaggio, che l’interdipendenza dei relativi non implica
sempre la simultaneità temporale. Non per tutti i relativi, infatti, risulta vero che siano
contemporanei per natura. Solo più avanti67, l’Autore distinguerà tra due tipi di simultaneità: la simultaneità secondo il tempo o contemporaneità (¤ma kat¦ tÕn cronon) e la
simultaneità naturale (¤ma fÚsei). La prima si dà nel caso di cose la cui generazione
avviene nello stesso tempo, e non una prima e una dopo; la seconda si dà nel caso di cose correlative di cui nessuna è causa dell’esistere dell’altra: il doppio e il mezzo, ad esempio, sono correlativi, poiché se c’è il doppio c’è il mezzo e se c’è il mezzo c’è il
doppio, e nessuno dei due è causa dell’esistenza dell’altro, poiché esistono e smettono
di esistere insieme. Ci sono dei casi in cui questo non si verifica.
Due sono gli esempi che Aristotele porta per illustrare il fatto che a volte
all’interdipendenza dei relativi non fa seguito la loro simultaneità temporale:
1. il rapporto tra la scienza e lo scibile;
2. il rapporto tra la sensazione e il sensibile.
2.4.1. Primo esempio di eccezione alla quarta caratteristica: la scienza e lo scibile
Il primo esempio riguarda i rapporti tra la scienza (™pist»mh) e lo scibile
(™pisthtÕn). Lo scibile sembra essere anteriore (prÒteron) alla scienza, poiché, nella
maggior parte dei casi e per lo più (™pˆ tÕ polÝ68) acquisiamo conoscenza di oggetti
preesistenti.
Anticipando quanto verrà spiegato più avanti, in Categorie 12, anteriore è quel termine, tra due, che, se viene soppresso, comporta la soppressione anche dell’altro; ciò che è
posteriore implica ciò che è anteriore, ma non è implicato da esso69. Nella maggior parte
dei casi, dunque, se non esiste dapprima lo scibile, è impossibile che si dia la scienza.
Aristotele ha appena affermato che, nella maggior parte dei casi, lo scibile risulta anteriore alla scienza, poiché, per lo più, acquisiamo le conoscenze di oggetti preesistenti.
Aggiunge ora che, infatti, in pochi casi o in nessuno si potrebbe vedere che la scienza
nasce insieme allo scibile. Quali sono queste poche cose rispetto alle quali la scienza è
simultanea allo scibile? Porfirio70 addita tali cose negli enti fittizi; se, ad esempio, qualcuno si forma la nozione di chimera, la conoscenza della chimera viene ad esistere nello
stesso momento in cui viene formata l’immagine immaginaria (il phantasma) di essa.
Allo stesso modo, chi per primo insegnò alle genti le lettere dell’alfabeto introdusse,
contemporaneamente, anche la conoscenza delle lettere, e chi scoprì l’arte della pittura
introdusse, insieme alle immagini dipinte, anche l’arte della pittura, che è una conoscenza. Pesce71, seguendo l’interpretazione di Boezio72, intende che qui l’Autore faccia
riferimento alle «idee fittizie come la chimera e il centauro, che, avendo una realtà soltanto mentale, incominciano ad esistere non appena siano concepite. Senonché, siccome
66
Categorie 7, 7 b 22-23.
Cfr. Categorie, 14 b 27 e ss.
68 Categorie 7, 7 b 24.
69 Cfr. Simplicio, In Cat., 191, 21 e ss.
70 Cfr. Porfirio, In Cat., 121, 5 ss..
71 Cfr. Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 64 n. 20.
72 Cfr. Boezio, 229 CD.
67
145
la scienza è soltanto delle cose che sono, della chimera e del centauro non si dà propriamente scienza, ma soltanto opinione, cosicché questi nemmeno possono veramente
dirsi scibili. Di qui l’esitazione di Aristotele: in pochi casi, se pure ve ne sono»73. Il passo, tuttavia, mi sembra meglio interpretato da Simplicio74, il quale afferma che le poche
cose rispetto alle quali la scienza è simultanea allo scibile non sono solo le realtà fittizie,
ma, più in generale, tutte le entità intellegibili, le quali sono prive di materia ed esistono
simultaneamente alla scienza, che è sempre in atto, in quanto il Nous per Aristotele è
sempre pienamente attualizzato75.
Quanto all’aggiunta di Aristotele per cui forse in nessun caso si potrebbe vedere che
la scienza nasce insieme allo scibile, Simplicio76 specifica che questo potrebbe accadere
per due motivi:
1. perché alcune persone negano le generalizzazioni e l’esistenza di realtà intellegibili;
2. perché, sebbene queste realtà esistano in natura, noi acquisiamo i concetti di esse
solo in un secondo momento, per cui accade che, anche in questi casi, ci troviamo di fronte a uno scibile che preesiste alla scienza.
Per comprendere l’esempio dello scibile in rapporto alla scienza, si dovrebbe distinguere, come giustamente fa Bodéüs77, tra “scienza in atto” e “scienza in potenza”. La
scienza in atto è rigorosamente simultanea al suo oggetto e, in un certo senso, coincide
con il suo oggetto78. Le cose, però, sono, ancor prima che oggetti della scienza, oggetti
potenziali di essa, cosicché l’oggetto potenzialmente conoscibile precede
l’attualizzazione della scienza, suo correlativo.
Seguendo Bodéüs79, possiamo distinguere, nel ragionamento che Aristotele conduce
in questo esempio, tre ipotesi:
1. (Categorie 7, 7 b 27-28) l’abolizione completa dell’oggetto conoscibile sopprime
non soltanto la scienza (in atto), ma anche la possibilità della scienza (in potenza);
2. (Categorie 7, 7 b 28-35) l’abolizione di tutta la scienza in atto non abolisce la
possibilità, da parte dell’oggetto, di essere conosciuto scientificamente perché essa risiede nel soggetto umano;
3. (Categorie 7, 7 b 33-35) l’abolizione di ogni possibilità di scienza nel mondo abolisce, da parte dell’oggetto, la possibilità di essere conosciuto scientificamente,
ma non abolisce l’oggetto stesso. Si tratta, quest’ultima, di una convinzione realista per la quale il pensabile non si riduce a un relativo ed esiste al di fuori della relazione che intercorre tra esso e il pensiero.
In Categorie 7, 7 b 27-28, troviamo esplicitata l’ipotesi numero 1: se si elimina il conoscibile, si elimina unitamente anche la scienza; poiché nel momento in cui il conoscibile viene soppresso, non c’è più nulla di cui la conoscenza possa dirsi tale, cosicché es-
73
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 64 n. 20.
Cfr. Simplicio, In Cat., 191, 7 ss..
75 Cfr. Metafisica, 1072 b 13 ss.
76 Cfr. Simplicio, In Cat., 191, 15 ss.
77 Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 125, n. 4.
78 Cfr. De Anima, III, 4, 429 a 24; 430 a 3-7; 7, 431 a 1-2; 8, 431 b 22-23.
79 Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 35, n. 1.
74
146
sa semplicemente non esiste. Infatti, «Del niente, del non-essere non può esserci scienza, ma soltanto non-scienza (ignoranza, ¥gnoia)»80.
In Categorie 7, 7 b 28-29, si trova l’ipotesi numero 2: se, al contrario, si elimina la
scienza, non si elimina per ciò stesso il conoscibile. Se l’oggetto conoscibile continua ad
esistere quando la scienza è stata eliminata, esso continuerà ad esistere potenzialmente:
non sarà, infatti, uno scibile attualizzato. In quanto scibile potenziale, anche la scienza
di esso esisterà in potenza81. Se anche, per inattività, perdessimo momentaneamente cognizione della realtà, il conoscibile, nondimeno, continuerebbe ad esistere.
Aristotele porta l’esempio della quadratura del cerchio, di cui - dice - non si ha ancora una scienza. Simplicio82 riporta che Giamblico sembra contraddire la notizia riportata da Aristotele, in quanto dice che la quadratura del cerchio sia stata scoperta dai Pitagorici e che, in seguito, Archimede risolse il problema83 attraverso la “spirale”, una
nuova curva, oltre quelle generabili con il solo uso di riga e compasso, che consentiva di
spostare il problema della rettificazione della circonferenza a quello di tracciare la tangente alla spirale; Nicomede risolse la questione attraverso una linea chiamata “concoide”; Apollonio attraverso una linea che egli stesso chiamò “sorella della concoide” e
che sostanzialmente era identica a quella proposta da Nicomede; Carpo attraverso una
linea tracciata “da un doppio movimento”; e molti altri hanno affrontato elegantemente
il problema. E Simplicio continua sorprendedosi del fatto che Giamblico non fa menzione di quanto scrive Porfirio intorno alla quadratura del cerchio. Porfirio84, infatti, non
concordando con la versione di Giamblico, afferma che, se anche ci fossero state al
tempo di Aristotele delle scoperte intorno alla questione, esse non potrebbero comunque
essere considerate delle prove scientifiche legittimamente dimostrate: si sarebbe trattata
soltanto di una presentazione degli strumenti attraverso i quali poter accedere alla soluzione del problema, ma non una vera e propria dimostrazione. Simplicio segue qui la
versione di Porfirio. Il fatto che Aristotele scriva che il problema non sia stato risolto, in
maniera ultimativa, dai matematici, non vuol dire che non fossero ricerche al tempo
dell’Autore o in epoche a lui precedenti. «Aristotele vuol dire che il fatto che il problema non sia stato ancora risolto dai matematici può dipendere o dall’incapacità di questi
o dall’intrinseca contraddittorietà dell’oggetto (e perciò dalla sua non esistenza, in quanto scibile). Ma, se si tratta di un problema solubile, il fatto che la soluzione non sia stata
ancora trovata, non vuol dire che essa non sussista già, eterno oggetto intellegibile, che
dal pensiero umano può essere soltanto scoperto, ma non certo creato»85.
Infine, in Categorie 7, 7 b 32-33, viene presentata l’ipotesi numero 3: se si elimina
l’animale, si sopprime la possibilità che si dia la scienza, in quanto l’anima, che
l’animale possiede, è il soggetto in cui la scienza è; le cose che possono essere conosciute attraverso la scienza, tuttavia, non vengono meno, poiché esse esistono non in
quanto conosciute, ma in quanto pr¦gmata, cioè cose realmente esistenti86 e, quindi,
80
Pesce, Aristotele. Le categorie..., p. 64, n. 21.
Cfr. Porfirio, In Cat., 120, 25 e ss.
82 Cfr. Simplicio, In Cat., 191, 34 - 193, 16.
83 Anche Ammonio, In Cat., 75, 10 e ss., riporta la notizia secondo la quale Archimede ha, se
non risolto scoperto l’esatta soluzione, al problema, perlomeno indicato una possibile via da seguire.
84 Cfr. Porfirio, In Cat., 120, 14 ss..
85 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 64, n. 22.
86 Cfr. Ammonio, In Cat., 75, 20 e ss..
81
147
potenzialmente conoscibili. «La scienza è cosa umana e l’uomo non ci sarebbe (e quindi
nemmeno la scienza), se non esistesse l’animale (se non esistesse, cioè, la vita dotata di
sensibilità) di cui l’uomo è una specie. Forse Aristotele procede fino all’animale, anziché fermarsi all’uomo, per sottolineare quei processi fisiologici, coinvolgenti non solo il
senso e la memoria ma altresì gli appetiti, che necessariamente si accompagnano
nell’uomo al costituirsi della scienza»87.
2.4.2. Secondo esempio di eccezione alla quarta caratteristica: la sensazione e il sensibile
Il secondo esempio che Aristotele porta per illustrare il fatto che a volte
all’interdipendenza dei relativi non fa seguito la loro simultaneità temporale riguarda i
rapporti tra la sensazione (a‡sqhsij) e il sensibile (a„sqhtÕn).
Usando lo stesso metodo argomentativo dell’esempio precedente, Aristotele mostra
come il sensibile risulti essere anteriore alla sensazione, dal momento che il rapporto tra
i due elementi rivela una disparità.
- Ipotesi 1: se si elimina il sensibile, si elimina insieme anche la sensazione. Questo
perché le sensazioni riguardano il corpo e sono nel corpo, e, se il sensibile viene
eliminato, viene eliminato anche il corpo - dal momento che il corpo è un sensibile -, e se il corpo non c’è viene eliminata anche la sensazione. Infatti, «Oggetti dei
sensi sono solamente le sostanze corporee, di modo che, se non ci fossero corpi
sensibili, non potrebbero esserci sensazioni»88.
- Ipotesi 2: se, invece, viene eliminata la sensazione, non si eliminerà insieme il
sensibile. La sensazione viene eliminata nel momento in cui si elimina il soggetto
senziente, cioè l’animale; in questo caso, non sarebbe, ad ogni modo, eliminato il
sensibile, come, ad esempio, il corpo, il caldo, il dolce, l’aspro. Ciò che può essere percepito, infatti, può esistere anche se non c’è una corrispondente percezione
di esso89. L’accostamento di esempi non deve turbarci in quanto «la fisica qualitativa di Aristotele non tollera distinzioni di qualità primarie e secondarie; il caldo,
il dolce, l’amaro hanno altrettanta realtà oggettiva quanto il corpo»90. Secondo tale ragionamento, dunque, si deve ammettere che «i corpi inanimati conservano le
loro proprietà dette sensibili anche quando non è più possibile averne sensazione
per mancanza di corpi dotati di sensibilità e, dunque, che anche, ad esempio, il colore è una proprietà oggettiva dei corpi, a prescindere dal fatto che essa sia visibile oppure no»91.
Come ben sottolinea Bodéüs92, l’argomento aristotelico poggia sul fatto che i corpi
senzienti siano soltanto una parte dei corpi sensibili. L’eliminazione del sensibile implica l’eliminazione della sensazione per gli stessi motivi per cui l’eliminazione
dell’oggetto della scienza implica l’eliminazione della scienza. Ma, mentre la scienza
viene soppressa soltanto in mancanza dell’oggetto di scienza93, la sensazione viene sop87
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 65, n. 23.
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 65, n. 25.
89 Cfr. Porfirio, In Cat., 76, 5 ss.
90 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 65, n. 27.
91 Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 126, n. 2.
92 Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 126, n. 1.
93 Cfr. Categorie, 7 b 29-30.
88
148
pressa non soltanto in mancanza di un oggetto sensibile, ma anche in mancanza di uno
“spazio” in cui aver luogo, e cioè i corpi dei soggetti dotati di sensazione. Ciò che consiste in una determinazione oggettiva come, ad esempio, il colore, diventa un sensibile
grazie a un soggetto senziente.
Come obietta Bodéüs94, sostenere che il visibile sia oggettivamente, o in sé, il colo95
re è lasciar comprendere che il colore è soggettivamente il visibile, e cioè è sempre relativo alla vista, al soggetto vedente. E se il colore è realmente visibile solo grazie alla
vista, allora ne risulta che il visibile e la vista sono naturalmente simultanei; il che contraddirebbe la tesi aristotelica. La soluzione a questa aporia è distinguere tra il sensibile
in potenza e il sensibile in atto. Il sensibile qui dichiarato anteriore alla sensazione, infatti, è esclusivamente il sensibile in potenza, e cioè ciò che non è ancora realmente sensibile per il soggetto senziente.
In Categorie 7, 8 a 6-12, Aristotele aggiunge una importante differenziazione tra la
sensazione e il sensibile. La sensazione nasce insieme a ciò che è capace di avere sensazione, insieme, cioè, al soggetto senziente, ovvero l’animale: l’animale e la sensazione,
infatti, nascono insieme. In questo senso, «l’esistenza del corpo […] condiziona
l’esistenza della sensazione»96.
Aristotele aggiunge un ulteriore condizionamento che vede la sensazione come posteriore rispetto al sensibile: «l’anteriorità del corpo inorganico rispetto a quello organico
dell’animale. Ed infatti il composto è sempre posteriore rispetto ai suoi componenti»97.
Il sensibile c’è fin da prima che ci sia la sensazione: gli elementi, inorganici, come il
fuoco, la terra e l’acqua, dei quali l’animale è costituito, esistono da prima che ci sia
l’animale nella sua interezza e, quindi, la sensazione. Perciò, anche da questo ragionamento, risulta che il sensibile sembrerebbe essere anteriore rispetto alla sensazione.
3. Aporia: se le sostanze possano far parte dei relativi
Aristotele presenta un’aporia: conformemente a quanto è stato precedentemente presentato quasi come la “definizione” dei relativi, ci si può chiedere se qualche sostanza
possa far parte dei relativi e se questo è possibile sia per le sostanze prima sia per le sostanze seconde.
Porfirio98 parla di “quasi-definizione” (oŒon ÐrismÕj) e non di “definizione” vera e
propria, in quanto non è possibile dare definizioni dei generi sommi e delle cose che cadono sotto le categorie99. Stando a tale “quasi-definizione”, i relativi sono tutte quelle
cose che, ciò che sono, lo si dicono essere di altre cose o comunque sempre in relazione
ad altro100. Sembrerebbe, allora, che alcune sostanze, almeno quelle che “si dicono di”
qualcosa, e cioè le sostanze seconde, possano far parte dei relativi.
94
Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 126, n. 2.
Cfr. De Anima, II, 7, 418 a 26-27.
96 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 65, n. 28.
97 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 65, n. 28.
98 Cfr. Porfirio, In Cat., 121, 25 ss.
99 Porfirio parla di cose che cadono sotto il nome di categorie e non di “categorie” stesse perché
il termine “categoria” si riferisce al predicato, ed è il termine generalissimo col quale viene indicata qualsiasi categoria. Cfr. S. K. Strange, Porphyry, On Aristotle Categories…, p. 129, n.
385.
100 Cfr. Categorie, 6 a 36-37.
95
149
Aristotele estende l’ambito dell’analisi a tutta la sostanza per indagare se questo caso
sia possibile per ogni tipo di sostanza, per nessun tipo di sostanza o solo per la sostanze
seconde. La sostanza, come scrive Ammonio101, può essere: universale o particolare, un
intero oppure una parte; di conseguenza, Aristotele si trova a indagare una quadruplice
area:
1.1. la sostanza particolare come intero, ad esempio Socrate;
1.2. la parte della sostanza particolare, ad esempio questa mano o questa testa;
2.1. la sostanza universale come intero, ad esempio l’uomo;
2.2. la parte della sostanza universale, ad esempio la mano o la testa.
3.1. Se la sostanza prima possa far parte dei relativi
Per quanto riguarda la sostanza prima, è chiaro che non fa parte dei relativi. Essa, infatti, come sappiamo, «non si dice di altro, mentre il relativo è per definizione quel che
si dice di altro; vi è dunque tra sostanza prima e relativo assoluta incompatibilità»102.
Né l’intero né la parte della sostanza particolare si dice in relazione a qualcosa.
1.1. Sostanza particolare come intero. Un determinato uomo, infatti, non si dice un
determinato uomo di qualcosa, né un determinato bue si dice un determinato bue di
qualcosa.
1.2. Parte della sostanza particolare. Lo stesso vale anche per le parti (t¦ mšrh) delle
sostanze prime: una determinata mano, infatti, non si dice una determinata mano di
qualcuno. Una determinata mano è la mano di un determinato individuo;
«l’individualità di una parte è dunque determinata dall’appartenenza di essa
all’individuo di cui fa parte. Ogni parte della sostanza prima si presente così abbastanza
chiaramente come sostanza prima essa stessa»103. Le parti della sostanza, infatti, debbono essere anch’esse sostanza.
3.2. Se le sostanze seconde possano far parte dei relativi
Nella maggior parte dei casi (™p… ge tîn ple…ston104), le sostanze seconde non fanno parte dei relativi.
2.1 La sostanza universale come intero. Nel caso delle sostanze universali considerate come interi, è evidente che esse non possono far parte dei relativi. Infatti, l’uomo, ad
esempio, non si dice uomo di qualcosa (Ð ¥nqrwpoj oÙ lšgetai tinÕj ¥nqrwpoj105),
né il bue bue di qualcosa (oÙdO Ð boàj tinÕj boàj106), né il legno legno di qualcosa
(oÙdO tÕ xÚlon tinÕj xÚlon107), dal momento che si tratta di esseri sostanziali, per se.
Possiamo certo dire che un uomo o un bue sono di qualcuno, nel senso che sono possesso di qualcuno, che appartengono a qualcuno. Bisogna, tuttavia, operare una «distinzione tra il di relativo e il di possessivo. Lo schiavo è del padrone può significare insomma
due cose diverse, a seconda che si voglia mettere in luce il nesso relativo o quello pos101
Cfr. Ammonio, In Cat., 76, 8 ss..
Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 66, n. 30.
103 Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 127, n. 5.
104 Categorie 7, 8 a 22.
105 Categorie 7, 8 a 22-23
106 Categorie 7, 8 a 23.
107 Categorie 7, 8 a 23.
102
150
sessivo, a seconda cioè che si voglia dire: lo schiavo si dice così (e si costituisce tale) in
relazione ad un padrone oppure lo schiavo appartiene ad un padrone»108.
2.2 Le parti delle sostanze universali. Per alcune sostanze seconde, tuttavia, e precisamente per le parti delle sostanze seconde, ci possono essere dei dubbi. La testa, ad esempio, si dice testa di qualcuno (¹ kefal¾ tinÕj lšgetai kefal¾109), e la mano si dice mano di qualcuno (¹ ceˆr tinÕj lšgetai ceˆr110). Testa e mano sono specie delle teste e delle mani particolari, e cioè appartenenti a dei determinati individui.
3.2.1. Le definizioni di relativo e la possibilità di inclusione delle sostanze
Se la definizione dei relativi, secondo la quale l’essenza della cosa relativa consiste
nel dirsi di altra cosa, viene assunta come adeguata, diventa molto difficile e, in ultima
analisi, impossibile poter asserire che nessuna sostanza si dice in relazione a qualcosa.
Le parti delle sostanze seconde, infatti, come abbiamo precedentemente osservato, si
dicono di qualcosa, e, precisamente, dell’intero costituito dalla sostanza prima; di conseguenza, esse rientreranno in quella prima definizione dei relativi che è stata data in
Categorie 7, 6 a 37.
Aristotele, tuttavia, non può accettare questa soluzione, perché la sostanza, soggetto
di ogni predizione e di ogni inerenza, è l’assolutamente per se, e il suo essere non può
consistere nell’essere relativa a qualcosa di altro da sé. Pertanto, «per tener fermo il
principio che nessuna sostanza può essere relativa, bisognerà modificare quella definizione e sostituirla con l’altra affermante che l’essenza della cosa relativa consiste nel
suo essere in relazione ad altro, nel suo essere di altro»111, e non più nel dirsi di altro.
«Il difetto della definizione iniziale sta nel suo essere troppo ampia, essa include tutti
i relativi, ma va oltre di essi»112. La prima definizione si applica a tutti i relativi, ma non
coglie l’aspetto per cui, per essi, l’essere in relazione a qualcosa è qualcosa di ben diverso dall’essere detti di altre cose. Il dirsi relativamente a qualcosa, infatti, non rivela
l’essenza dei relativi ed è una proprietà che appartiene anche ad altre cose, come alle
parti della sostanza; l’essere relativo a qualcosa, invece, stabilisce la vera essenza dei
relativi ed è una proprietà esclusiva dei relativi113. La testa, ad esempio, si dice di qualcosa, ma il suo essere non consiste nella relazione con la cosa in relazione alla quale la
testa viene detta; la testa, infatti, può fungere da soggetto, mentre nessun relativo può
mai assurgere al ruolo di soggetto.
La seconda definizione, proposta da Aristotele, corrisponde a quella che troviamo nel
sesto libro dei Topici:
Non si deve tralasciare che non è forse possibile definire altrimenti alcune nozioni, ad
esempio il doppio, separatamente dalla metà, e tutte le altre cose che, considerate per
sé, si dicono relative. Per tutte le cose siffatte, infatti, l’essere consiste nello stare in un
certo modo rispetto a qualcosa, cosicché risulta impossibile spiegare una di esse, prescindendo dal suo essere relativo114.
108
Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 66, n. 32.
Categorie 7, 8 a 26-27.
110 Categorie 7, 8 a 27.
111 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 67, n. 34.
112 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 67, n. 35.
113 Cfr. Simplicio, In Cat., 198, 20 ss.
114 Topici, VI, 4, 142 a 26-30.
109
151
La sostanza di ogni nozione relativa si riporta a qualcos’altro, poiché l’essere proprio
ciò che sta in un certo rapporto rispetto a qualcosa s’identifica essenzialmente con ciascuna delle nozioni relative115.
La formula che contiene in se stessa il definiendum non è propriamente una definizione - in quanto si tratterebbe di una petitio principii -, ma è utile a precisare che l’essenza
dei relativi consiste nella relazione che essi assumono con i rispettivi correlativi.
La prima definizione non viene, tuttavia, esclusa da Aristotele come errata e non ulteriormente utilizzabile; egli stesso afferma che essa si accorda con tutti i relativi116. Essendo, però, essa una definizione generalissima, l’Autore sente il bisogno di presentarne
una più restrittiva, che non si applichi indistintamente a tutte le cose che, sia in modo
propriamente detto sia in senso lato, possano essere dette relative, ma esclusivamente a
quei relativi che nei Topici vengono detti relativi in sé, come il doppio e il mezzo. La
prima definizione non deve necessariamente essere eliminata e sostituita dalla seconda;
seguendo Bodéüs117, quel che l’Autore intende qui mostrare è che la prima definizione
fa appello a un criterio linguistico ed è, pertanto, una definizione secundum dici; la seconda, invece, fa appello a un criterio ontologico ed è, pertanto, una definizione secundum esse. Se ci si attiene alla prima definizione (generale), la testa farà parte dei relativi
parimenti al doppio; ma ciò che Aristotele intende mostrare è che la testa non è affatto,
come il doppio, un relativo in sé, dal momento che il suo essere non si riduce alla relazione con qualcosa di altro da sé, ma è una parte della sostanza che, come tale, deve essere essa stessa considerata sostanza.
Dalla seconda definizione di “relativo” proposta da Aristotele, secondo la quale
l’essere dei relativi consiste, appunto, nello stare in una certa relazione con qualcosa, risulta che, qualora si conosca in maniera determinata uno dei relativi, si conoscerà in
maniera determinata anche ciò in relazione al quale esso si dice. Se, invece, non si conosce affatto ciò in relazione al quale questa sta, non si saprà nemmeno se sta in una
certa relazione rispetto a qualcosa. «Se l’essere stesso della cosa designata dal primo
termine è condizionata dall’essere della cosa designata dal secondo termine, segue che
la conoscenza della prima non sarà possibile senza la conoscenza della seconda»118.
Per illustrare questo corollario che discende dalla “seconda” definizione, Aristotele
presenta due esempi specifici.
1. Il doppio e il mezzo. Se si sa, in maniera determinata, che una certa grandezza è
doppia, immediatamente si saprà anche di che cosa essa è doppia.
2. Il più bello e il meno bello. Similmente, se si sa che una determinata cosa è più bella, per ciò stesso si sa necessariamente e in maniera definita rispetto a cosa essa sia più
bella. «Non si può chiamare una cosa migliore, se non si sa di che cosa è migliore; non
basta la semplice presunzione che sia migliore di qualcosa di peggiore, perché potrebbe
darsi che, di quella cosa, non ci fosse niente di peggiore»119.
Per quanto riguarda le parti delle sostanze seconde, come, ad esempio, la testa e la
mano, possiamo senza dubbio affermare che si può conoscere in maniera determinata
ciò che sono, senza dover necessariamente conoscere ciò in relazione a cui si dicono.
Non è necessario sapere in maniera determinata di chi sia questa testa o di chi sia questa
115
Topici, VI, 8, 146 b 3-4.
Cfr. Categorie, 8 a 33-34.
117 Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 129, n. 4.
118 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 67, n. 36.
119 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 68, n. 37.
116
152
mano per sapere che sono, appunto, una testa e una mano. Come scrive Ammonio120, se
anche ponessimo che Socrate abbia il corpo interamente coperto tranne la mano, sapremmo in modo definitivo che si tratta di una mano, sebbene non sappiamo di chi essa
sia.
Ora, nel caso dei relativi, se si conosce un elemento della coppia, si conoscerà anche
l’altro; nel caso della mano, invece, anche se si conosce la mano, non si conosce di chi
essa sia. È chiaro, pertanto, che la mano non è un relativo, e lo stesso vale per le altre
parti della sostanza. E, se questi tipi di realtà non rientrano tra i relativi, possiamo affermare che nessuna sostanza rientra tra i relativi, dal momento che l’unico dubbio sorgeva riguardo alle parti delle sostanze seconde.
4. Una importante indicazione metodologica
Alla fine del capitolo, Aristotele presenta un’indicazione metodologica intorno alla
riflessione svolta sui relativi.
Probabilmente è difficile fare affermazioni forti intorno a questi argomenti, senza averli
prima indagati molte volte (ripetutamente); non è inutile, tuttavia, aver esposto delle
aporie intorno a ciascuno di essi121.
Secondo Ammonio122, Aristotele assume qui un atteggiamento profondamente filosofico. In riferimento a questioni particolarmente problematiche che richiedono molte analisi e investigazioni, egli non intende presentare al lettore un’opinione basata su una
scelta casuale e superficiale, ma decide prendere una posizione solo dopo aver lungamente esaminato e indagato il problema. E poiché vedere e sollevare un problema è
l’unica strada che può condurre alla soluzione dello stesso, Aristotele afferma che esporre le aporie non è mai inutile. Il non sollevare problemi - continua Ammonio - potrebbe significare due cose: o che si ha la consapevolezza di tutto, come per la provvidenza; oppure che si è completamente privi di consapevolezza e non c’è nulla per cui
possa sorgere qualche problema. Poiché noi, in quanto esseri razionali, ci troviamo in
una via mediana tra queste due posizioni estreme, ci avviciniamo alla conoscenza sistematicamente indagando intorno a problemi e questioni.
Secondo Pesce, la conclusione di Aristotele resta dubitativa: «tra il mantener ferma la
prima definizione e il negare che la sostanza possa in nessun modo essere relativa, Aristotele rimane incerto. Il punto chiarito è che le due posizioni sono incompatibili»123. A
me sembra, invece, che l’Autore sia ben consapevole dell’esposizione delle due possibilità di definire i relativi, come sembra riconoscere lo stesso Pesce poco più avanti: «in
realtà Aristotele è pervenuto all’effettiva soluzione del problema mediante la distinzione
tra piano linguistico e piano reale»124.
120
Cfr. Ammonio, In Cat., 79, 15 ss..
Categorie 7, 8 b 21-24.
122 Cfr. Ammonio, In Cat., 79, 25 ss..
123 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 68, n. 39.
124 Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 68, n. 39.
121
153
Capitolo Ottavo
La qualità
PoiÒthta dO lšgw kaq' ¿n poio… tinej lšgontai: œsti dO ¹ poiÒthj tîn pleonacîj legomšnwn. ān mOn oân edoj poiÒthtoj ›xij kaˆ di£qesij legšsqwsan.
diafšrei dO ›xij diaqšsewj tù monimèteron kaˆ polucronièteron enai: toiaàtai
dO a† te ™pistÁmai kaˆ aƒ ¢reta…: ¼ te g¦r ™pist»mh doke‹ tîn paramon…mwn enai
kaˆ duskin»twn, ™¦n kaˆ metr…wj tij ™pist»mhn l£bV, ™£nper m¾ meg£lh metabol¾
gšnhtai ØpÕ nÒsou À ¥llou tinÕj toioÚtou: æsaÚtwj dO kaˆ ¹ ¢ret»: oŒon ¹ dikaiosÚnh kaˆ ¹ swfrosÚnh kaˆ ›kaston tîn toioÚtwn oÙk eÙk…nhton doke‹ enai
oÙd' eÙmet£bolon. diaqšseij dO lšgontai ¤ ™stin eÙk…nhta kaˆ tacÝ metab£llonta, oŒon qermÒthj kaˆ kat£yuxij kaˆ nÒsoj kaˆ Øg…eia kaˆ Ósa ¥lla
toiaàta: di£keitai mOn g£r pwj kat¦ taÚtaj Ð ¥nqrwpoj, tacÝ dO metab£llei ™k
qermoà yucrÕj gignÒmenoj kaˆ ™k toà Øgia…nein e„j tÕ nose‹n: æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ
tîn ¥llwn, e„ m» tij kaˆ aÙtîn toÚtwn tugc£noi di¦ crÒnou plÁqoj ½dh
pefusiwmšnh kaˆ ¢n…atoj À p£nu dusk…nhtoj oâsa, ¿n ¥n tij ‡swj ›xin ½dh prosagoreÚoi. fanerÕn dO Óti taàta boÚlontai ›xeij lšgein ¤ ™sti polucroniètera
kaˆ duskinhtÒtera: toÝj g¦r tîn ™pisthmîn m¾ p£nu katšcontaj ¢ll' eÙkin»touj
Ôntaj oÜ fasin ›xin œcein, ka…toi di£keinta… gš pwj kat¦ t¾n ™pist»mhn À ce‹ron
À bšltion. éste diafšrei ›xij diaqšsewj tù tÕ mOn eÙk…nhton enai tÕ dO polucronièterÒn te kaˆ duskinhtÒteron. - e„sˆ dO aƒ mOn ›xeij kaˆ diaqšseij, aƒ dO
diaqšseij oÙk ™x ¢n£gkhj ›xeij: oƒ mOn g¦r ›xeij œcontej kaˆ di£keinta… pwj kat¦
taÚtaj, oƒ dO diake…menoi oÙ p£ntwj kaˆ ›xin œcousin.
“Eteron dO gšnoj poiÒthtoj kaq' Ö puktikoÝj À dromikoÝj À ØgieinoÝj À nosèdeij lšgomen, kaˆ ¡plîj Ósa kat¦ dÚnamin fusik¾n À ¢dunam…an lšgetai. oÙ g¦r
tù diake‹sqa… pwj ›kaston tîn toioÚtwn lšgetai, ¢ll¦ tù dÚnamin œcein fusik¾n toà poiÁsa… ti ·vd…wj À mhdOn p£scein: oŒon puktikoˆ À dromikoˆ lšgontai
oÙ tù diake‹sqa… pwj ¢ll¦ tù dÚnamin œcein fusik¾n toà poiÁsa… ti ·vd…wj,
Øgieinoˆ dO lšgontai tù dÚnamin œcein fusik¾n toà mhdOn p£scein ØpÕ tîn
tucÒntwn ·vd…wj, nosèdeij dO tù ¢dunam…an œcein toà mhdOn p£scein. Ðmo…wj dO
toÚtoij kaˆ tÕ sklhrÕn kaˆ tÕ malakÕn œcei: tÕ mOn g¦r sklhrÕn lšgetai tù
dÚnamin œcein toà m¾ ·vd…wj diaire‹sqai, tÕ dO malakÕn tù ¢dunam…an œcein toà
aÙtoà toÚtou.
Tr…ton dO gšnoj poiÒthtoj paqhtikaˆ poiÒthtej kaˆ p£qh: œsti dO t¦ toi£de
oŒon glukÚthj te kaˆ pikrÒthj kaˆ strufnÒthj kaˆ p£nta t¦ toÚtoij suggenÁ, œti
dO qermÒthj kaˆ yucrÒthj kaˆ leukÒthj kaˆ melan…a. Óti mOn oân aátai poiÒthtšj
e„sin fanerÒn: t¦ g¦r dedegmšna poi¦ lšgetai kat' aÙt£j: oŒon tÕ mšli tù
glukÚthta dedšcqai lšgetai glukÚ, kaˆ tÕ sîma leukÕn tù leukÒthta dedšcqai:
æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn œcei. paqhtikaˆ dO poiÒthtej lšgontai oÙ tù aÙt¦
t¦ dedegmšna t¦j poiÒthtaj peponqšnai ti: oÜte g¦r tÕ mšli tù peponqšnai ti
lšgetai glukÚ, oÜte tîn ¥llwn tîn toioÚtwn oÙdšn: Ðmo…wj dO toÚtoij kaˆ ¹
qermÒthj kaˆ ¹ yucrÒthj paqhtikaˆ poiÒthtej lšgontai oÙ tù aÙt¦ t¦ dedegmšna
peponqšnai ti, tù dO kat¦ t¦j a„sq»seij ˜k£sthn tîn e„rhmšnwn poiot»twn
p£qouj enai poihtik¾n paqhtikaˆ poiÒthtej lšgontai: ¼ te g¦r glukÚthj p£qoj ti
kat¦ t¾n geàsin ™mpoie‹ kaˆ ¹ qermÒthj kat¦ t¾n ¡f»n, Ðmo…wj dO kaˆ aƒ ¥llai.
leukÒthj dO kaˆ melan…a kaˆ aƒ ¥llai croiaˆ oÙ tÕn aÙtÕn trÒpon to‹j e„rhmšnoij
paqhtikaˆ poiÒthtej lšgontai, ¢ll¦ tù aÙt¦j ¢pÕ p£qouj gegenÁsqai. Óti mOn
oân g…gnontai di¦ p£qoj pollaˆ metabolaˆ crwm£twn, dÁlon: a„scunqeˆj g£r tij
™ruqrÕj ™gšneto kaˆ fobhqeˆj çcrÕj kaˆ ›kaston tîn toioÚtwn: éste kaˆ e‡ tij
fÚsei tîn toioÚtwn ti paqîn pšponqen, t¾n Ðmo…an croi¦n e„kÒj ™stin œcein
aÙtÒn: ¼tij g¦r nàn ™n tù a„scunqÁnai di£qesij tîn perˆ tÕ sîma ™gšneto, kaˆ
kat¦ fusik¾n sÚstasin ¹ aÙt¾ gšnoit' ¨n di£qesij, éste fÚsei kaˆ t¾n croi¦n
Ðmo…an g…gnesqai. - Ósa mOn oân tîn toioÚtwn sumptwm£twn ¢pÒ tinwn paqîn
duskin»twn kaˆ paramon…mwn t¾n ¢rc¾n e‡lhfe poiÒthtej lšgontai: e‡te g¦r ™n tÍ
kat¦ fÚsin sust£sei çcrÒthj À melan…a gegšnhtai, poiÒthj lšgetai, - poioˆ g¦r
kat¦ taÚtaj legÒmeqa, - e‡te di¦ nÒson makr¦n À di¦ kaàma [tÕ aÙtÕ]
sumbšbhken çcrÒthj À melan…a, kaˆ m¾ ·vd…wj ¢pokaq…stantai À kaˆ di¦ b…ou
paramšnousi, poiÒthtej kaˆ aÙtaˆ lšgontai, - Ðmo…wj g¦r poioˆ kat¦ taÚtaj
legÒmeqa. - Ósa dO ¢pÕ ·vd…wj dialuomšnwn kaˆ tacÝ ¢pokaqistamšnwn g…gnetai
p£qh lšgetai: oÙ g¦r lšgontai poio… tinej kat¦ taàta: oÜte g¦r Ð ™ruqriîn di¦ tÕ
a„scunqÁnai ™ruqr…aj lšgetai, oÜte Ð çcriîn di¦ tÕ fobe‹sqai çcr…aj, ¢ll¦
m©llon peponqšnai ti: éste p£qh mOn t¦ toiaàta lšgetai, poiÒthtej dO oÜ. Ðmo…wj dO toÚtoij kaˆ kat¦ t¾n yuc¾n paqhtikaˆ poiÒthtej kaˆ p£qh lšgetai. Ósa
te g¦r ™n tÍ genšsei eÙqÝj ¢pÒ tinwn paqîn gegšnhtai poiÒthtej lšgontai, oŒon ¼
te manik¾ œkstasij kaˆ ¹ Ñrg¾ kaˆ t¦ toiaàta: poioˆ g¦r kat¦ taÚtaj lšgontai,
Ñrg…loi te kaˆ maniko…. Ðmo…wj dO kaˆ Ósai ™kst£seij m¾ fusika…, ¢ll' ¢pÒ tinwn
¥llwn sumptwm£twn gegšnhntai dusap£llaktoi À kaˆ Ólwj ¢k…nhtoi, poiÒthtej
kaˆ t¦ toiaàta: poioˆ g¦r kat¦ taÚtaj lšgontai. Ósa dO ¢pÕ tacÝ kaqistamšnwn
g…gnetai p£qh lšgetai, oŒon e„ lupoÚmenoj ÑrgilèterÒj ™stin: oÙ g¦r lšgetai
Ñrg…loj Ð ™n tù toioÚtJ p£qei Ñrgilèteroj ên, ¢ll¦ m©llon peponqšnai ti: éste
p£qh mOn lšgetai t¦ toiaàta, poiÒthtej dO oÜ.
Tštarton dO gšnoj poiÒthtoj scÁm£ te kaˆ ¹ perˆ ›kaston Øp£rcousa morf»,
œti dO prÕj toÚtoij eÙqÚthj kaˆ kampulÒthj kaˆ e‡ ti toÚtoij ÓmoiÒn ™stin: kaq'
›kaston g¦r toÚtwn poiÒn ti lšgetai: tù g¦r tr…gwnon À tetr£gwnon enai poiÒn
ti lšgetai, kaˆ tù eÙqÝ À kampÚlon. kaˆ kat¦ t¾n morf¾n dO ›kaston poiÒn ti
lšgetai. tÕ dO manÕn kaˆ tÕ puknÕn kaˆ tÕ tracÝ kaˆ tÕ le‹on dÒxeie mOn ¨n poiÕn
shma…nein, œoike dO ¢llÒtria t¦ toiaàta enai tÁj perˆ tÕ poiÕn diairšsewj: qšsin
g£r tina m©llon fa…netai tîn mor…wn ˜k£teron dhloàn: puknÕn mOn g¦r tù t¦
mÒria sÚnegguj enai ¢ll»loij, manÕn dO tù diest£nai ¢p' ¢ll»lwn: kaˆ le‹on
mOn tù ™p' eÙqe…aj pwj t¦ mÒria ke‹sqai, tracÝ dO tù tÕ mOn Øperšcein tÕ dO
™lle…pein. - ‡swj mOn oân kaˆ ¥lloj ¥n tij fane…h trÒpoj poiÒthtoj, ¢ll'o† ge
m£lista legÒmenoi scedÕn tosoàto… e„sin.
PoiÒthtej mOn oân e„sˆn aƒ e„rhmšnai, poi¦ dO t¦ kat¦ taÚtaj parwnÚmwj
legÒmena À Ðpwsoàn ¥llwj ¢p' aÙtîn. ™pˆ mOn oân tîn ple…stwn kaˆ scedÕn ™pˆ
p£ntwn parwnÚmwj lšgetai, oŒon ¢pÕ tÁj leukÒthtoj Ð leukÕj kaˆ ¢pÕ tÁj grammatikÁj Ð grammatikÕj kaˆ ¢pÕ tÁj dikaiosÚnhj Ð d…kaioj, æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ
tîn ¥llwn. ™p' ™n…wn dO di¦ tÕ m¾ ke‹sqai ta‹j poiÒthsin ÑnÒmata oÙk ™ndšcetai
parwnÚmwj ¢p' aÙtîn lšgesqai: oŒon Ð dromikÕj À Ð puktikÕj Ð kat¦ dÚnamin fusik¾n legÒmenoj ¢p' oÙdemi©j poiÒthtoj parwnÚmwj lšgetai: oÙ g¦r ke‹tai
ÑnÒmata ta‹j dun£mesi kaq' §j oátoi poioˆ lšgontai, ésper kaˆ ta‹j ™pist»maij
kaq'§j puktikoˆ À palaistrikoˆ oƒ kat¦ di£qesin lšgontai, - puktik¾ g¦r
™pist»mh lšgetai kaˆ palaistrik», poioˆ dO ¢pÕ toÚtwn parwnÚmwj oƒ
diake…menoi lšgontai. - ™n…ote dO kaˆ ÑnÒmatoj keimšnou oÙ lšgetai parwnÚmwj
tÕ kat' aÙt¾n poiÕn legÒmenon, oŒon ¢pÕ tÁj ¢retÁj Ð spouda‹oj: tù g¦r ¢ret¾n
œcein spouda‹oj lšgetai, ¢ll' oÙ parwnÚmwj ¢pÕ tÁj ¢retÁj: oÙk ™pˆ pollîn dO
156
tÕ toioàtÒn ™stin. poi¦ oân lšgetai t¦ parwnÚmwj ¢pÕ tîn e„rhmšnwn poiot»twn
legÒmena À Ðpwsoàn ¥llwj ¢p' aÙtîn.
`Up£rcei dO kaˆ ™nantiÒthj kat¦ tÕ poiÒn, oŒon dikaiosÚnh ¢dik…v ™nant…on
kaˆ leukÒthj melan…v kaˆ t«lla æsaÚtwj, kaˆ t¦ kat' aÙt¦j dO poi¦ legÒmena,
oŒon tÕ ¥dikon tù dika…J kaˆ tÕ leukÕn tù mšlani. oÙk ™pˆ p£ntwn dO tÕ toioàton:
tù g¦r pu¸·ù À çcrù À ta‹j toiaÚtaij croia‹j oÙdšn ™stin ™nant…on poio‹j oâsin.
- œti ™¦n tîn ™nant…wn q£teron Ï poiÒn, kaˆ tÕ loipÕn œstai poiÒn. toàto dO dÁlon
proceirizomšnJ t¦j ¥llaj kathgor…aj, oŒon e„ œstin ¹ dikaiosÚnh tÍ ¢dik…v
™nant…on, poiÕn dO ¹ dikaiosÚnh, poiÕn ¥ra kaˆ ¹ ¢dik…a: oÙdem…a g¦r tîn ¥llwn
kathgoriîn ™farmÒzei tÍ ¢dik…v, oÜte posÕn oÜte prÒj ti oÜte poÚ, oÙd' Ólwj ti
tîn toioÚtwn oÙdOn ¢ll' À poiÒn: æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn kat¦ tÕ poiÕn
™nant…wn.
'Epidšcetai dO kaˆ tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton t¦ poi£: leukÕn g¦r m©llon kaˆ Âtton ›teron ˜tšrou lšgetai, kaˆ d…kaion ›teron ˜tšrou m©llon. kaˆ aÙtÕ dO
™p…dosin lamb£nei, - leukÕn g¦r ×n œti ™ndšcetai leukÒteron genšsqai: - oÙ
p£nta dš, ¢ll¦ t¦ ple‹sta: dikaiosÚnh g¦r dikaiosÚnhj e„ lšgetai m©llon
¢por»seien ¥n tij, Ðmo…wj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn diaqšsewn. œnioi g¦r diamfisbhtoàsi perˆ tîn toioÚtwn: dikaiosÚnhn mOn g¦r dikaiosÚnhj oÙ p£nu fasˆ
m©llon kaˆ Âtton lšgesqai, oÙdO Øg…eian Øgie…aj, Âtton mšntoi œcein ›teron
˜tšrou Øg…ei£n fasi, kaˆ dikaiosÚnhn Âtton ›teron ˜tšrou, æsaÚtwj dO kaˆ grammatik¾n kaˆ t¦j ¥llaj diaqšseij. ¢ll' oân t£ ge kat¦ taÚtaj legÒmena
¢namfisbht»twj ™pidšcetai tÕ m©llon kaˆ Âtton: grammatikèteroj g¦r ›teroj
˜tšrou lšgetai kaˆ dikaiÒteroj kaˆ ØgieinÒteroj, kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn æsaÚtwj.
tr…gwnon dO kaˆ tetr£gwnon oÙ doke‹ tÕ m©llon ™pidšcesqai, oÙdO tîn ¥llwn
schm£twn oÙdšn: t¦ mOn g¦r ™pidecÒmena tÕn toà trigènou lÒgon kaˆ tÕn toà
kÚklou p£nq' Ðmo…wj tr…gwna À kÚkloi e„s…n, tîn dO m¾ ™pidecomšnwn oÙdOn ›teron ˜tšrou m©llon ·hq»setai: oÙdOn g¦r m©llon tÕ tetr£gwnon toà ˜terom»kouj
kÚkloj ™st…n: oÙdšteron g¦r ™pidšcetai tÕn toà kÚklou lÒgon. ¡plîj dš, ™¦n m¾
™pidšchtai ¢mfÒtera tÕn toà prokeimšnou lÒgon, oÙ ·hq»setai tÕ ›teron toà
˜tšrou m©llon. oÙ p£nta oân t¦ poi¦ ™pidšcetai tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton.
Tîn mOn oân e„rhmšnwn oÙdOn ‡dion poiÒthtoj, Ómoia dO kaˆ ¢nÒmoia kat¦
mÒnaj t¦j poiÒthtaj lšgetai: Ómoion g¦r ›teron ˜tšrJ oÙk œsti kat' ¥llo oÙdOn À
kaq' Ö poiÒn ™stin. éste ‡dion ¨n e‡h poiÒthtoj tÕ Ómoion À ¢nÒmoion lšgesqai kat'
aÙt»n.
OÙ de‹ dO tar£ttesqai m» tij ¹m©j f»sV ØpOr poiÒthtoj t¾n prÒqesin
poihsamšnouj poll¦ tîn prÒj ti sugkatariqme‹sqai: t¦j g¦r ›xeij kaˆ t¦j
diaqšseij tîn prÒj ti enai. scedÕn g¦r ™pˆ p£ntwn tîn toioÚtwn t¦ gšnh prÒj ti
lšgetai, tîn dO kaq' ›kasta oÙdšn: ¹ mOn g¦r ™pist»mh, gšnoj oâsa, aÙtÕ Óper
™stˆn ˜tšrou lšgetai, - tinÕj g¦r ™pist»mh lšgetai. - tîn dO kaq' ›kasta oÙdOn
aÙtÕ Óper ™stˆn ˜tšrou lšgetai, oŒon ¹ grammatik¾ oÙ lšgetai tinÕj grammatik¾
oÙd' ¹ mousik¾ tinÕj mousik», ¢ll' e„ ¥ra kat¦ tÕ gšnoj kaˆ aátai prÒj ti
lšgetai: oŒon ¹ grammatik¾ lšgetai tinÕj ™pist»mh, oÙ tinÕj grammatik», kaˆ ¹
mousik¾ tinÕj ™pist»mh, oÙ tinÕj mousik»: éste aƒ kaq' ›kasta oÙk e„sˆ tîn prÒj
ti. legÒmeqa dO poioˆ ta‹j kaq' ›kasta: taÚtaj g¦r kaˆ œcomen, - ™pist»monej g¦r
legÒmeqa tù œcein tîn kaq' ›kasta ™pisthmîn tin£: - éste aátai ¨n kaˆ
poiÒthtej e‡hsan aƒ kaq' ›kasta, kaq' ¤j pote kaˆ poioˆ legÒmeqa: aátai dO oÙk
e„sˆ tîn prÒj ti. - œti e„ tugc£nei tÕ aÙtÕ poiÕn kaˆ prÒj ti Ôn, oÙdOn ¥topon ™n
¢mfotšroij to‹j gšnesin aÙtÕ katariqme‹sqai.
[. . . . . . . . . . . . . . . . . . .]
157
[8 b 25] Chiamo qualità ciò per cui alcune realtà si dicono “di una certa qualità”. Ma
la qualità è una di quelle cose che si dicono in molti modi.
Una specie di qualità possono essere detti lo stato abituale e la disposizione. Lo stato
abituale differisce dalla disposizione per il fatto di essere più stabile e più duraturo: di
questa natura sono le scienze e le virtù. La scienza, infatti, sembra far parte delle cose
durevoli e difficili da mutare, anche nel caso in cui la scienza sia stata acquisita solo in
una certa misura, a meno che non si abbia un grande cambiamento in seguito a una malattia o a qualcos’altro di questo genere. Lo stesso vale per la virtù: la giustizia, la temperanza e ciascuna delle cose di questo tipo non sembrano poter essere facilmente rimosse né mutate. Si dicono, invece, disposizioni le cose che possono essere facilmente
rimosse e velocemente mutate, come ad esempio il calore e il freddo, la malattia e la salute, e tutte le altre cose di questo tipo. Secondo queste, infatti, l’uomo si trova in una
certa disposizione, ma muta in fretta, diventando da caldo freddo e passando dall’essere
in buona salute all’essere ammalato. E lo stesso vale anche per le altre disposizioni, a
meno che non capiti che anche una di queste, per il lungo tempo trascorso, diventi naturale e inestirpabile e del tutto difficile da mutare, nel qual caso si potrebbe forse già parlare di stato abituale. È evidente che si intendono chiamare stati abituali le cose più durature e più difficili da mutare. Infatti, di coloro che non hanno acquisito completamente
le scienze e che possono facilmente mutare, non si dice che possiedono uno stato abituale, anche se sono disposto, più o meno bene, nei confronti della scienza. Di conseguenza, lo stato abituale differisce dalla disposizione per il fatto che quest’ultima può mutare
più facilmente, mentre il primo è più duraturo e più difficile da mutare. E gli stati abituali sono anche disposizioni, mentre le disposizioni non sono necessariamente stati abituali. Coloro che possiedono degli stati abituali, infatti, si trovano anche in una certa disposizione rispetto a essi, mentre coloro che si trovano in una disposizione non possiedono affatto uno stato abituale.
Un altro genere di qualità è quello per cui diciamo che si è valenti nel pugilato o nella corsa, o sani o malati, e in generale tutte quelle determinazioni che si dicono secondo
una capacità o un’incapacità naturale. Ognuna di esse, infatti, si dice non perché si è in
una certa disposizione, ma per il fatto che si possiede una capacità naturale a fare facilmente qualcosa o a non patire nulla. Ad esempio, i buoni lottatori o i buoni corridori
vengono chiamati così non perché si trovano in una certa disposizione, ma perché possiedono una capacità naturale a fare facilmente qualcosa; e le persone sane vengono
chiamate così perché possiedono una capacità naturale a non patire nulla di ciò che può
loro capitare, mentre i malati hanno un’incapacità a non patire nulla. Lo stesso vale nel
caso del duro e del molle: il duro, infatti, viene detto tale perché ha la capacità di non
dividersi facilmente, mentre il molle viene detto tale perché è incapace di questa stessa
cosa.
Un terzo genere di qualità è costituito dalle qualità affettive e dalle affezioni. Di questo tipo sono, ad esempio, la dolcezza, l’amarezza, l’asprezza e tutte le cose che rientrano nello stesso genere di queste, e inoltre il caldo, il freddo, la bianchezza e la nerezza.
Che queste siano delle qualità è chiaro, poiché le realtà che le hanno ricevute si dicono
qualificate in virtù di esse: il miele, ad esempio, si dice dolce perché ha ricevuto la dolcezza, e il corpo si dice bianco perché ha ricevuto la bianchezza. E lo stesso vale anche
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per gli altri casi. Queste vengono dette qualità affettive non perché le realtà che le hanno
ricevute abbiano patito qualcosa. Il miele, infatti, non si dice dolce perché ha subito
qualcosa, né nessun’altra realtà di questo tipo. Allo stesso modo, il caldo e il freddo si
dicono qualità affettive non perché le realtà che li hanno ricevuti hanno subito una qualche modificazione, ma è perché ognuna delle qualità dette è capace di produrre
un’affezione nelle sensazioni che vengono chiamate qualità affettive. La dolcezza, infatti, genera una certa affezione che riguarda il gusto; il calore genera una certa affezione
che riguarda il tatto, e lo stesso le altre qualità.
La bianchezza e la nerezza e gli altri colori, tuttavia, non si dicono qualità affettive
nello stesso modo in cui lo si dicono le determinazioni di cui abbiamo detto, ma in
quanto derivano essi stessi da una affezione. È certo chiaro che, a causa di un’affezione,
si abbiano molti cambiamenti di colori. Si può, infatti, diventare rossi per la vergogna e
pallidi per la paura e così per ognuna di queste cose. Se, quindi, qualcuno è affetto da
qualcuna di queste affezioni, per natura è probabile che assuma il colore corrispondente.
Infatti, la stessa disposizione degli elementi corporei che si è presentata ora nella vergogna potrebbe presentarsi per costituzione naturale e, dunque, il colore corrispondente
può presentarsi per natura. Quindi, tutti i sintomi di questo tipo, che hanno avuto origine
da affezioni stabili e durature, vengono detti qualità. Infatti il pallore o il colorito scuro
si chiamano qualità sia che si siano generati nella costituzione secondo natura, - si dice,
infatti, che siamo qualificati secondo questi -, sia che il pallore o il colorito scuro siano
sopraggiunti, rispettivamente, a causa di una lunga malattia o di una scottatura, e non
possono essere ristabilite facilmente o durano per tutta la vita, e anche in questo caso si
chiamano qualità - si dice, infatti, ugualmente che siamo qualificati secondo essi. Tutte
le determinazioni che derivano da cause che si dissolvono facilmente e che si arrestano
in fretta, invece, sono dette affezioni, e infatti non si dice che siamo qualificati secondo
esse: di fatti, chi arrossisce per la vergogna non viene detto rubicondo, e chi impallidisce per la paura non viene detto pallido; si dice, piuttosto, che hanno patito qualcosa. Le
determinazioni di questo tipo, di conseguenza, sono dette affezioni, e non invece qualità. Un discorso simile va fatto anche intorno all’anima, parlando di qualità affettive e di
affezioni. Tutte le determinazioni che, nella loro genesi, vengono prodotte direttamente
da certe affezioni si chiamano qualità: ad esempio, la follia manica, l’iracondia e le cose
di questo tipo. Infatti, si viene qualificati secondo queste come folli o come iracondi. Lo
stesso vale anche per tutte le deviazioni non naturali, ma che hanno avuto origine da
certi altri sintomi di cui non è facile liberarsi o addirittura assolutamente irremovibili:
anche in questi casi si parla di qualità, dal momento che si viene detti qualificati secondo queste.
Invece, tutte le cose che si generano da qualcosa che si dissolve rapidamente si dicono affezioni: ad esempio, chi è addolorato è più irascibile; non si dice, infatti, irascibile
colui che è più irascibile in un simile stato affettivo; si dice, piuttosto, che ha patito una
certa affezione. Le cose di questo genere, quindi, si dicono affezioni, e non qualità.
Un quarto genere di qualità è costituito dalla figura e dalla forma che si trova in ogni
cosa, e inoltre dalla dirittura e dalla curvatura e da ciò che è simile a queste. Infatti, secondo ciascuna di esse, una realtà si dice qualificata. Una cosa, infatti, si dice qualificata
per il fatto di essere un triangolo o un quadrangolare, e per il fatto di essere dritta o curva. E ogni cosa può essere detta qualificata anche secondo la forma. Il raro e il denso, il
ruvido e il levigato sembrerebbero significare una qualità, ma sarebbe conveniente che
tali cose fossero estranee alla divisione della qualità. Ciascuna di esse, infatti, sembra
piuttosto manifestare una certa posizione delle parti. Infatti, una cosa è densa per il fatto
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che le parti sono vicine l’una all’altra, è, invece, rada per il fatto che le parti sono distanti l’una dall’altra; e una cosa è levigata per il fatto che le parti giacciono in qualche modo su di una retta, è, invece, ruvida per il fatto che alcune parti la superano altre restano
indietro.
Quindi, forse potrebbe presentarsi anche qualche altro tipo di qualità, ma quelli che
vengono soprattutto detti tali sono press’a poco questi.
Qualità, quindi, sono quelle che abbiamo detto; qualificate, invece, sono le cose che
vengono paronimicamente in modo conforme ad esse, o in qualsiasi altro modo derivano da esse. Nella maggior parte dei casi, quindi, anzi quasi in tutti, queste si dicono paronimicamente: l’uomo bianco, ad esempio, deriva dalla bianchezza, e il grammatico
dalla grammatica, e il giusto dalla giustizia, e così in tutti gli altri casi. In alcuni casi,
tuttavia, poiché non si hanno dei nomi per le qualità, esse non possono dirsi paronimicamente da queste. Ad esempio, il corridore o il pugile vengono chiamati così per una
attitudine naturale, e non perché derivano paronimicamente il loro nome da qualcosa.
Non si hanno, infatti, dei nomi per le qualità in virtù delle quali questi si dicono qualificati, come, invece, nel caso delle scienze, in virtù delle quali vengono detti, a seconda
della disposizione, pugili o atleti. Si dice, infatti, scienza del pugilato e scienza della
ginnastica, dalle quali coloro che hanno queste disposizioni derivano paronimicamente
il proprio nome. A volte, però, anche se si ha un nome (per la qualità), ciò che viene
qualificato in virtù di questa non vi deriva paronimicamente il proprio nome: l’uomo
moralmente retto, ad esempio, non deriva dalla virtù. L’uomo [eticamente] retto si dice
tale perché possiede la virtù, ma non trae il proprio nome paronimicamente dalla virtù.
Questo, tuttavia, non accade in molti casi. Sono, dunque, dette qualificate le cose che
traggono il proprio nome dalle qualità che abbiamo detto in maniera paronimica o in
qualunque altro modo.
C’è anche la contrarietà secondo la qualità: giustizia, ad esempio, è il contrario di ingiustizia, e bianchezza è il contrario di nerezza, e lo stesso vale per le altre qualità, e per
le cose che sono dette qualificate secondo esse: il giusto, ad esempio, è contrario
all’ingiusto, e il bianco al nero. Questo, però, non accade in tutti i casi: infatti, il rosso o
il giallo o altri simili colori, pure essendo delle qualità, non hanno nulla di contrario. Inoltre, se uno dei due contrari è una qualità, anche l’altro lo sarà. Questo è chiaro se si
esaminano le altre categorie: se, ad esempio, la giustizia è il contrario di ingiustizia, e la
giustizia è una qualità, allora anche l’ingiustizia lo sarà. Nessuna delle altre categorie,
infatti, è adatta all’ingiustizia, né la quantità, né la relazione, né il luogo, né in generale
nessuna di queste cose eccetto la qualità. E lo stesso accade in tutti gli altri casi di contrarietà secondo la qualità.
Le cose qualificate, poi, ammettono il più e il meno. Una cosa bianca, infatti, si dice
più o meno bianca di un’altra, e una cosa giusta si dice più o meno giusta di un’altra.
D’altra parte, la stessa cosa riceve accrescimento: ciò che è bianco può diventare ancora
più bianco. Questo, però, non accade in tutti i casi, anche se nella maggior parte. Si potrebbe, infatti, sollevare l’aporia se la giustizia può essere detta più giustizia di un’altra
giustizia, e lo stesso riguardo alle altre disposizioni. Alcuni, infatti, discutono intorno a
queste aporie, poiché affermano che la giustizia non si dica affatto essere tale più o meno della giustizia, né la salute della salute, affermano, invece, che l’uno ha meno salute
dell’altro, e l’uno ha meno giustizia dell’altro; e lo stesso per la grammatica e per le altre disposizioni. Ma, quindi, ciò che si dice secondo queste accoglie il più e il meno. Infatti, una persona può essere detta più esperta in grammatica rispetto ad un’altra, e più
giusta, e più in salute, e lo stesso negli altri casi. Triangolare e quadrato, invece, non
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sembrano accogliere il più, né nessun’altra figura, poiché le cose che accolgono la definizione di triangolo e di cerchio sono tutte triangolo o cerchio allo stesso modo, mentre
di quelle che non la accolgono non si potrà dire che l’una lo è più dell’altra. Infatti, il
quadrato non è più cerchio del rettangolo, dal momento che nessuno dei due accoglie la
definizione di cerchio. In generale, allora, qualora nessuna delle due cose accolga le definizioni stabilite, non potranno essere dette l’una più dell’altra. Non tutte le qualità,
quindi, accolgono il più e il meno.
Quindi, nessuna delle cose che abbiamo precedentemente detto è propria della qualità, ma le cose si dicono simili e dissimili esclusivamente in virtù delle qualità. Una cosa,
infatti, si dice simile a un’altra solamente per il fatto che è qualificata. Caratteristica
propria della qualità, quindi, sarebbe che, in base ad essa, si dice il simile e il dissimile.
Non deve turbare il fatto che qualcuno dica che, essendoci proposti di trattare della
qualità, abbiamo incluso molti relativi, dal momento che gli abiti e le disposizioni sono
dei relativi. Infatti, in quasi tutti i casi di questo tipo, i generi si dicono in relazione a
qualcosa, ma questo non vale nel caso delle realtà particolari. La scienza, infatti, essendo un genere, si dice ciò che è in relazione ad altro - si dice, infatti, scienza di qualcosa ; nessuna delle cose singole, invece, si dice ciò che è in relazione ad altro: ad esempio,
la grammatica non si dice la grammatica di qualche cosa, né la musica la musica di
qualche cosa, ma, se le consideriamo secondo il genere, anch’esse si dicono in relazione
a qualcosa: ad esempio, la grammatica si dice scienza di qualcosa, e la musica si dice
scienza di qualcosa, non musica di qualcosa. Le realtà particolari, quindi, non sono dei
relativi. D’altro canto, noi siamo detti qualificati in base alle singole scienze, poiché sono queste che possediamo - siamo, infatti, detti sapienti per il fatto che possediamo
qualcuna delle singole scienze. Di conseguenza, queste singole scienze, in base alle quali noi siamo talvolta detti qualificati, sarebbero anche delle qualità, non sono dei relativi.
Inoltre, se capitasse che la stessa cosa fosse sia una qualità sia un relativo, non sarebbe
affatto assurdo enumerarla in entrambi i generi.
Sommario
Il capitolo, interamente dedicato alla trattazione della categoria della qualità, può essere diviso in quattro sezioni.
I. Nella prima, si dice che la qualità fa parte delle cose che si dicono in diversi modi
(œsti ¹ poiÒthj tîn pleonacîj legomšnwn), e vengono presentate quattro diverse
specie di qualità.
1. Lo stato abituale (›xij) e la disposizione (di£qesij) costituiscono un’unica specie (edoj) di qualità. Il primo differisce dalla seconda per il fatto di essere stabile, duraturo e difficile a rimuoversi. Sono stati abituali le scienze (a† ™pistÁmai)
e la virtù (aƒ ¢reta…). La disposizione, al contrario, non è affatto stabile, ma può
essere facilmente rimossa e velocemente mutata. Sono disposizioni qualità come
il caldo e il freddo, la salute e la malattia: facilmente, infatti, l’uomo che si trova
in una certa disposizione può mutare diventando da caldo freddo e passando
dall’essere in buona salute all’essere ammalato. In alcuni casi, una disposizione
prolungata nel tempo, può progressivamente trasformarsi in uno stato abituale.
Tra stati abituali e disposizioni c’è una relazione non biunivoca: tutti gli stati abituali sono anche disposizioni - coloro che possiedono degli stati abituali si trova-
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no in una certa disposizione rispetto ad essi -, ma non tutte le disposizioni sono
necessariamente stati abituali.
2. Una seconda specie di qualità è costituita dalle cose che si dicono secondo una
capacità o un’incapacità naturale (kat¦ dÚnamin fusik¾n À ¢dunam…an). Ad
esempio, i buoni lottatori o i buoni corridori possiedono una capacità naturale a
lottare e a correre; e le persone sane possiedono una predisposizione naturale a
non patire nulla; ciò che è duro possiede la capacità di non dividersi facilmente,
mentre il molle è incapace di questa stessa cosa. Ognuna di queste cose possiede
una capacità naturale a fare facilmente qualcosa o a non subire qualcosa.
3. Un terzo tipo di qualità è costituito dalle qualità affettive (paqhtikaˆ poiÒthtej)
e dalle affezioni (p£qh). Le qualità affettive possono essere divise in due sottogruppi. 3.1. Le qualità affettive in grado di produrre una modificazione nelle sensazioni. Sono qualità affettive di questo tipo, ad esempio, la dolcezza, l’amarezza
e l’asprezza, e il caldo e il freddo. Nessuna di queste si dice “qualità affettive”
perché le cose che la ricevono subiscono qualche modificazione, ma perché ognuna di queste qualità è capace di produrre una modificazione nelle sensazioni:
la dolcezza produce una certa affezione che riguarda il gusto; il calore genera una
certa affezione che riguarda il tatto, etc. 3.2 Le qualità affettive che derivano esse
stesse da un’affezione. Sono qualità affettive di questo tipo, ad esempio, la bianchezza, la nerezza, il rossore. Tali determinazione possono essere permanenti, o
di lunga durata e difficili ad estinguersi, oppure momentanee facili a rimuoversi:
nel primo caso, si parla di qualità, nel secondo caso si parla di affezioni.
4. Un quarto tipo di qualità è costituito dalle figure (scÁm£) e dalle forme (morf»).
Qualificati secondo la figura sono il triangolare o il quadrangolare, il dritto o il
curvo; qualificati secondo la forma sono il raro e il denso, il ruvido e il levigato.
Questi ultimi, tuttavia, sembrerebbero non rientrare nella categoria della qualità,
in quanto, più che una qualità, manifestano, piuttosto, una posizione reciproca
delle parti.
II. Nella seconda sezione del capitolo, si spiega che, nella maggior parte dei casi, il
qualificato trae il proprio nome in modo paronimico dal nome della qualità corrispondente: l’uomo “bianco”, ad esempio, si dice tale perché è qualificato dalla bianchezza e
ne deriva, quindi, paronimicamente il proprio nome; il grammatico dalla grammatica, il
giusto dalla giustizia, etc. Non sempre, però, la qualità ha un nome: in quel caso i qualificati non possono derivare il proprio nome in modo paronimico da quello della qualità.
Altre volte capita, invece, che, pur esistendo un nome per la qualità, il qualificato non
tragga da esso il proprio nome: l’uomo moralmente retto (Ð spouda‹oj), ad esempio,
non trae la sua denominazione dal nome della qualità che possiede, cioè la virtù.
III. Nella terza sezione, si presentano ed analizzano le caratteristiche attribuibili alle
qualità.
1. La qualità ammette contrarietà. Giustizia, ad esempio, è il contrario di ingiustizia,
e bianchezza è il contrario di nerezza. Il contrario di una qualità è anch’esso, di
necessità, una qualità. Similmente, anche i rispettivi qualificati hanno dei contrari: il giusto, ad esempio, è contrario all’ingiusto, e il bianco al nero. Questo, però,
non accade sempre; in alcuni casi, infatti, la qualità e i qualificati non hanno nulla
di contrario: il rosso e il giallo, ad esempio, non hanno contrari.
2. La qualità ammette il più e il meno e riceve accrescimento. Una cosa bianca, infatti, può essere detta più o meno bianca di un’altra, e una cosa giusta può essere
detta più o meno giusta di un’altra. Lo stesso qualificato può, poi, ricevere accre-
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scimento: ciò che è bianco può diventare ancora più bianco. Questa caratteristica,
tuttavia, non è sempre valida, dal momento che, in alcuni casi, la qualità non
ammette più e meno.
3. L’unica vera caratteristica propria della qualità è, allora, l’ammettere somiglianza
e dissomiglianza. In base alla qualità, si dice il simile e il dissimile.
IV. Nella quarta e ultima sezione del capitolo, Aristotele spiega che non è affatto
contraddittorio l’aver incluso tra le qualità molti relativi, come, ad esempio, gli abiti e le
disposizioni). Questi, infatti, come generi, sono dei relativi; come specie e come qualificazioni dei singoli, invece, sono qualità. Se capita che qualcosa sia e una qualità e un relativo, non è affatto assurdo enumerarla in entrambi i generi.
1. Le diverse specie di qualità
1.1. Stati abituali e disposizioni [Categorie 8, 8 b 26 - 9 a 13]
La prima specie della qualità, presentata in Categorie 8, 8 b 26 - 9 a 13, è costituita
da stati abituali1 e disposizioni. Aristotele introduce qui una precisa e puntuale distinzione tra stati abituali e disposizioni che non è presente in Metafisica D, in cui i significati di “disposizione” e di “stato abituale” sono trattati separatamente, seppur l’uno immediatamente in successione rispetto all’altro2.
Lo stato abituale (›xij) si distingue dalla disposizione (di£qesij) per dei fattori che
potremmo dire “quantitativi”3, e cioè per il fatto di essere più duraturo e più stabile4. Gli
stati abituali, dunque, durano nel tempo e mutano difficilmente; tali le scienze e le virtù5. In entrambi questi casi, infatti, colui che le possiede, le possiede non momentanea1
Seguendo la scelta lessicale di Fermani, Aristotele. Le tre etiche…, traduco con “stato abituale” il termine greco ›xij, che corrisponde al latino habitus., e che fa riferimento all’uso intransitivo del verbo œcw. Il termine ›xij può essere tradotto anche nella accezione di “possesso”, come si vedrà nel Cap. 10 in riferimento alla coppia possesso/privazione.
2 Cfr. Metafisica D 19 e 20. I concetti di “stato abituale” e di “disposizione” si intersecano, come vedremo ***, nel secondo significato del termine “abito”.
3 Cfr. Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 72, n. 4.
4 La distinzione si basa, dunque, sulla durata nel tempo e sulla maggiore o minore facilità nel
cambiamento. Cfr. Ackrill, Aristotle’s Categories…, p. 104. Se la distinzione si basa su questi
criteri, diventa inconsistente l’obiezione di Lucio e Nicostrato per cui annuncia una prima specie
di qualità e poi nomine non una, ma due realtà (cfr. Simplicio, In Cat., 231, 20-21; Moraux,
L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, p. 116): tali realtà, infatti, non sono intrinsecamente
diverse, ma differiscono per fattori quantitativi.
5 La virtù intesa come stato abituale è una tesi classica del pensiero aristotelico. Si veda Etica
Nicomachea II, in particolare 5-6. Non ci si lasci ingannare da alcune traduzioni che presentano
la virtù come una “disposizione” (si veda, ad esempio, Aristotele, Etica Nicomachea, Introduzione, traduzione, note e apparati di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, 2001 ). «Per alcuni
aspetti, il termine aristotelico hexis corrisponde meglio al nostro termine “disposizione”, piuttosto che ad “abito”: una virtù come il coraggio è una disposizione perché è la condizione per la
quale sono disposto in modo da agire coraggiosamente ; l’hexis indica proprio questa condizione. Tuttavia, “abito” è la traduzione del termine hexis che si è ormai consolidata, e poi Aristotele oppone l’hexis alla disposizione o diathesis, in quanto più stabile di quest’ultima. Perciò, la
virtù è un abito stabile, e Aristotele distingue l’esercizio della virtù da quello di un’arte in quanto l’uomo virtuoso deve agire “sapendo <che sta agendo virtuosamente>, deliberando ciò che
compie e scegliendolo per se stesso, agendo a partire da una condizione personale salda e inalterabile» (J. Annas, The morality of happiness, Oxford University Press, Oxford 1993, trad. it. La
2
163
mente, ma in modo duraturo, in quanto sia la scienza6 sia la virtù fanno parte delle cose
che non possono essere facilmente rimosse o mutate. Della scienza, in particolare, Aristotele sostiene che può essere annoverata tra le cose stabili e durature, perché lo resta a
meno che non sopraggiunga una malattia o qualcosa di simile che la dissolva o la trasformi7; essa è un «[…] possesso permanente che soltanto un grave squilibrio psichico,
comunque originato, può alterare e distruggere»8. È chiaro - aggiunge lo Stagirita9 - che,
anche nel caso di qualità durature e difficili a rimuoversi, si parla di “stato abituale” esclusivamente nel caso in cui si tratti di un possesso completamente acquisito; invece
[… ] coloro che non hanno acquisito completamente le scienze e sono facili a rimuoverle, non si dice che possiedono uno stato abituale, anche se stanno in una certa posizione, più o meno buona, nei confronti della scienza10.
È curioso come, quando si tratti di spiegare che anche le qualità solitamente intese come
durature possono presentarsi come mere disposizioni, Aristotele presenta sempre il caso
delle virtù, e non, piuttosto, quello delle scienze. Questa scelta può trovare una sua
spiegazione in un passo dell’Etica Nicomachea, in cui si afferma che
[…] a nessuna delle funzioni umane appartiene la stabilità tanto quanto alle attività
conformi a virtù. Si ritiene, infatti, che esse siano più persistenti persino delle scienze11.
Mentre la scienza e la conoscenza possono essere cancellate dalla malattia, della virtù,
secondo Aristotele, non c’è oblio12 perché
[…] la virtù è qualcosa di stabile13.
La virtù è una «[…] condizione stabile della persona, e non un tipo di cosa che dimentichiamo o mutiamo facilmente»14.
Ciò che caratterizza lo stato abituale, allora, sono in primis i fattori della stabilità e
della durata e, solo in seconda battuta, sono le qualità maggiormente atte ad assumere i
caratteri di stabilità e di durata: le scienze e le virtù.
Le disposizioni, diversamente dagli stati abituali, sono facili a rimuoversi e possono
essere velocemente mutate. Aristotele porta come esempi di disposizioni il caldo e il
freddo, la salute e la malattia. Si noti che, mentre gli esempi degli stati abituali si riferiscono a stati dell’anima (scienze, virtù), e quindi determinazioni di tipo psicologico o
morale, gli esempi delle disposizioni sono, invece, attinenti a stati corporei, fisici o fimorale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, Vita e Pensiero, Milano 1998,
pp. 80-81).
6 Che la scienza sia qualcosa di duraturo e permanente è una tesi platonica espressa, tra gli altri
loci, in Cratilo, 437 A.
7 Secondo Bodéüs, Aristote. Catégories…, p.133, n. 8, Aristotele starebbe qui pensando, oltre
alle malattie, «alle gravi ferite che causano la follia, l’abbruttimento o altri difetti propri delle
bestie».
8 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 72, n. 6.
9 Cfr. Categorie 8, 9 a 4-8.
10 Categorie 8, 9 a 5-8.
11 Etica Nicomachea I, 10, 1100 a 35 - b 3.
12 Cfr. Etica Nicomachea I, 10, 1100 b 17.
13 Etica Nicomachea VIII, 4, 1156 b 12. «E si ricordi che, nell’Etica, anche la scienza sarà ricondotta al concetto di virtù, venendo annoverata tra le virtù dianoetiche» (Pesce, Aristotele. Le
categorie…, p. 72, n. 5). Cfr. Etica Nicomachea I, 13, 1103 a 3-7.
14 T. Irwin, Aristotle’s first principles, Oxford University Press, Oxford 1988, trad. it. I principi
primi di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 472.
164
siologici15. In questi casi, lo Stagirita presenta una mutazione che va da contrario a contrario, e in un solo verso.
Secondo queste [le disposizioni quali il caldo e il freddo, la salute e la malattia], infatti,
l’uomo si trova in una certa disposizione, ma muta in fretta, diventando da caldo freddo
e passando dall’essere in buona salute all’essere ammalato16.
È interessante notare come qui Aristotele accenni solamente al fatto che l’uomo può facilmente mutare dall’essere caldo all’essere freddo, dall’essere in buona salute all’essere
ammalato, come se fosse, invece, più difficile che si verifichi il mutamento opposto:
dall’essere freddo all’essere caldo, dall’essere ammalato all’essere in buona salute.
La possibilità di una subitanea mutazione vale per ogni tipo di disposizione,
[…] a meno che non capiti che anche una di queste, per la grande quantità di tempo
(con il passare del tempo), diventi naturale e inestirpabile e del tutto difficile da rimuovere, nel qual caso si potrebbe forse già parlare di stato abituale17.
Poiché il criterio che permette di distinguere lo stato abituale e la disposizione è quello
quantitativo della durata e della stabilità, le stesse qualità, che possono essere associate
allo stato abituale o alla disposizione in quanto maggiormente atte ad assumere i caratteri di instabilità e precarietà piuttosto che quelli di stabilità e di durata, possono, in diversi contesti, essere associate a due sottospecie diverse. Qualora una qualità manifestatasi
come disposizione persista per molto tempo tanto da diventare naturale e difficile a rimuoversi, si può già parlare di abito. L’abito e la disposizione non sono, allora, due
compartimenti stagni, strettamente circoscritti e non comunicanti. Questa considerazione potrebbe spiegare e rendere comprensibile anche una possibile contraddizione tra il
testo delle Categorie e quello di Metafisica D intorno alla qualità della salute. In Categorie 8, la salute viene presentata come una disposizione18, tanto che si dice, come abbiamo osservato sopra, che l’uomo può facilmente passare dall’essere in buona salute
all’essere ammalato. Metafisica D sembra presentare una dottrina incompatibile con
questa. Aristotele sta elencando i diversi significati del termine ›xij (stato abituale), e
pone come secondo il seguente significato:
Stato abituale […] significa la disposizione in virtù della quale la cosa disposta è disposta bene o male, sia per sé sia in rapporto ad altro: per esempio, la salute è un abito in
questo senso: infatti essa è una disposizione di un certo tipo19.
In questo secondo senso, «[…] si chiama abito la disposizione per effetto della quale
qualcosa è disposto bene oppure male: come con la salute una cosa è disposta bene,
mentre con la malattia è disposta male. Con entrambe, poi, cioè con la malattia e con la
salute, una cosa è disposta bene o male in due modi, e cioè: per sé, oppure rispetto a un
altro. Per esempio, è sano ciò che è ben disposto per sé; invece è robusto ciò che è ben
15 Questo non significa, tuttavia, come vedremo più avanti per il caso della salute (cfr. Infra, pp.
***), che non possano darsi casi in cui delle disposizioni corporee acquisite con l’esercizio e
l’abitudine - la forza e il vigore, ad esempio - si trasformino in abiti. Cfr. Bodéüs, Aristote. Catégories…, p. 133., n. 5.
16 Categorie 8, 8 b 37 - 9 a 1.
17 Categorie 8, .
18 Cfr. Categorie 8, 8 b 35-37: «Si dicono, invece, disposizioni le cose che possono essere facilmente rimosse e velocemente mutate, come ad esempio il calore e il freddo, la malattia e la
salute, e tutte le altre cose di questo genere».
19 Metafisica D 20, 1022 b 10-12.
165
disposto a compiere qualcosa»20. La salute è un abito inteso come quel tipo di disposizione in virtù della quale qualcosa è disposto bene. Anche la salute, seppur annoverata
tra le cose facili a rimuoversi o mutarsi, in un soggetto dalla costituzione forte, vigorosa
e poco soggetta a malattie, può assumere i caratteri dell’abito21.
Solo alcune disposizioni, con il passare del tempo e con l’assumere dei caratteri della
stabilità e della permanenza, diventano abiti, cosicché l’insieme delle disposizioni sarà
sempre maggiore rispetto a quello degli abiti e includerà in sé quest’ultimo. Per questo,
Aristotele afferma che
[…] gli stati abituali sono anche disposizioni, mentre le disposizioni non sono necessariamente stati abituali. Coloro che possiedono degli stati abituali, infatti, si trovano anche in una certa disposizione rispetto a essi, mentre coloro che si trovano in una disposizione non possiedono affatto uno stato abituale22.
Il rapporto tra stati abituali e disposizioni non è, dunque, biunivoco: mentre gli stati abituali sono sempre anche delle disposizioni, le disposizioni non necessariamente si tramutano in stati abituali.
1.2. Capacità e incapacità naturali [Categorie 8, 9 a 14-27]
La seconda specie della qualità, presentata in Categorie 8, 9 a 14-27, è costituita da
capacità naturali, attitudini o predisposizioni di tipo fisico (kat¦ dÚnamin fusik¾n À
¢dunam…an), e dalla loro controparte negativa, e cioè le inattitudini o incapacità naturali. Tali capacità o incapacità sono quelle di fare facilmente qualcosa oppure di non patire nulla. La dÚnamij di cui qui si parla è una potenza completamente attiva che si trova
nell’oggetto stesso in cui avviene il movimento o il mutamento23. Si tratta del secondo
caso previsto nel primo dei significati di “potenza” che Aristotele presenta in Metafisica
D 12, 1019 a 15-16:
Potenza (dÚnamij), in primo luogo, significa il principio di movimento o di mutamento
che si trova in altra cosa oppure in una stessa cosa in quanto altra.
La dÚnamij fusik¾ è quella propria delle realtà che hanno in sé tale principio, e differisce da una potenza che si oppone all’atto e che esprime la «[…] possibilità puramente
in quiete, la potenza passiva, come nella materia»24. «Si tratta qui della capacità di fare e
di opporre resistenza, di reagire»25.
Gli esempi che Aristotele adduce per illustrare questo secondo tipo di qualità sono
sei, quattro riferiti all’essere umano, e due riferiti alla materia, ai corpi26. Posseggono
una capacità o un’incapacità naturale:
20
S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica di Aristotele, PDUL Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2005, vol. II: Libri 5-8, Libro 5, Lezione 20, p. 271, n. 1064.
21 Cfr. Zanatta, Aristotele. Le categorie…, pp. 603-604.
22 Categorie 8, 9 a 10-13.
23 Cfr. Trendeleburg, La dottrina delle Categorie…, p. 185. Così anche Viano, Aristotele, Categorie, 8, 8 b 25 - 10 a 10. Stati e disposizioni, capacità e incapacità naturali, qualità affettive e
affezioni, in Bonelli - Guadalupe Masi, Studi sulle Categorie di Aristotele, p. 219.
24 Trendeleburg, La dottrina delle Categorie…, p. 185.
25 Viano, Aristotele, Categorie, 8, 8 b 25 - 10 a 10…, p. 219.
26 Il concetto di capacità naturale viene esteso al di là dell’ambito umano per essere attribuito
alle proprietà delle cose. Cfr. Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 74, n. 17; Viano, Aristotele,
Categorie, 8, 8 b 25 - 10 a 10…, p. 220.
166
1. Ö puktikoÝj: chi è valente nel pugilato, il buon lottatore, colui che possiede
un’attitudine naturale alla lotta;
2. Ö dromikoÝj: chi è valente nella corsa, il buon corridore, colui che possiede
un’attitudine naturale alla corsa;
3. Ö ØgieinoÝj: chi è fisicamente vigoroso, sano, colui che ha una predisposizione
naturale a non patire nulla27;
4. Ö nosèdeij: chi è fisicamente cagionevole, colui che ha un’incapacità costitutiva
a non patire nulla.
5. tÕ sklhrÕn: ciò che è duro, ciò che ha la capacità, la predisposizione naturale a
non dividersi facilmente ;
6. tÕ malakÕn: ciò che è molle, ciò che ha l’incapacità a dividersi facilmente28.
La resa dei termini greci è, in questa parte del testo, particolarmente ardua in quanto nel
testo originale vengono usati quattro aggettivi sostantivati «[…] di cui almeno tre non
hanno nessun equivalente in italiano. Ed infatti i quattro termini designano - ed è questo
un punto essenziale, perché su di esso si fonda la costituzione stessa di questa seconda
classe di qualità - non lo stato, ma soltanto la capacità, […]. Perciò la perifrasi […] non
rende piena giustizia al testo, perché gran parte dell’interesse del brano sta proprio nella
scoperta che certi aggettivi qualificativi indicano soltanto una capacità e non un possesso»29.
Secondo Ackrill30, la trattazione aristotelica delle capacità naturali sarebbe incompleta, in quanto mancherebbero diversi livelli di riflessione. In primo luogo, mancherebbe
la trattazione delle capacità in generale. Allo studioso appare strano che lo Stagirita tratti della capacità naturale come una specie distinta di qualità, senza dire nulla sulle capacità in generale. In particolare, non vengono prese in considerazione le mere attitudini o
inattitudini come quelle nei confronti della trigonometria o dell’essere spezzato: si può
essere capaci di imparare la trigonometria o essere spezzati senza tuttavia avere una capacità specifica. Mancherebbe, poi, la trattazione delle capacità acquisite o abilità. Mancherebbero, inoltre, distinzioni tra: abilità e inclinazioni; tratti del carattere e stati della
mente e del corpo; mera possibilità e positiva propensione, tendenza, atteggiamento; tra
abilità naturali e abilità acquisite; etc. In breve, la trattazione aristotelica sarebbe manchevole e lacunosa. Oehler31, d’altro canto, ha asserito che il testo manca di un chiaro
27
Torna qui il riferimento alla salute, già trattata nel primo tipo di qualità, come disposizione.
Non c’è, tuttavia, contraddizione tra i due riferimenti, in quanto, come ha giustamente sottolineato H. G. Apostle, Aristotle’s Categories and Propositions (De Interpretatione), The Peripatetic
Press, Grinnell, Iowa 1980, p. 82, ciò che noi traduciamo con “sano” (healthy) ha due significati
diversi: da un lato, è l’aggettivo che deriva da “salute” (health), intesa come «[…] disposizione
della persona sana quando non è malata, ed è il tipo di qualità indicato in 8 b 35 - 9 a 1»;
dall’altro lato, è l’aggettivo che deriva da “salute” (healthiness), intesa come «[…] capacità naturale che fa sì che la persona resti in salute, e questa capacità resta appannaggio dell’individuo
anche nel momento in cui, per cause di forza maggiore, si ammala». Su questa differenza di
ambiti, cfr. anche Trendelenburg, La dottrina delle categorie…, p. 186.
28 Si noti che le il duro e il molle costituiscono, per Aristotele, le prime proprietà dei corpi fisici
che vengono percepire al tatto. Cfr. Meteorologica IV, 4, 382 a 8 ss..
29 Pesce, Aristotele. Le categorie…, pp. 73-74, n. 12.
30 Cfr. Ackrill, Aristotle’s Categories…, pp. 105-106.
31 Cfr. Oehler, p. 258.
167
punto di delimitazione tra capacità naturali e disposizioni. Apostle32 ha cercato di obiettare alle accuse di incompletezza mosse da Ackrill dividendole in quattro gruppi: 1.
mancanza della trattazione delle capacità generali di fare o subire qualcosa, come la mera capacità di imparare la trigonometria; 2. mancanza della trattazione delle capacità acquisite; 3. mancanza della trattazione dell’attitudine ad acquisire delle capacità di fare o
patire qualcosa; 4. altro. Intorno al punto 1., Apostle ritiene che le capacità generali appartengano alla natura (in questo caso, intesa come essenza) delle cose e siano indicate
dalla loro forma o dalla loro differenza33. Per quanto concerne il punto 2., Apostle sostiene che le capacità acquisite non sono affatto trascurate, in quanto rientrano negli abiti e nelle disposizioni, una soluzione che aveva già proposto lo stesso Ackrill come ipotesi da confermare34. Quanto, poi, alle capacità di cui si parla nel punto 3., Apostle scrive che esse possono essere associate a quelle del punto 1. in quanto tale l’abilità di imparare un’arte, per mezzo della quale si crea un’opera d’arte. Infine, Apostle ricorda che
Aristotele stesso ammette la possibilità di aver omesso delle qualità, ma, secondo lo
studioso, nessuno di quelle considerate da Ackrill possono essere annoverate tra le qualità “omesse”.
Rispetto all’analisi dei due studiosi condotta sul testo aristotelico, rispettivamente, da
un lato, ponendo domande al testo aristotelico rivelandone le lacune e le incompletezze
e, dall’altro, proponendo soluzioni alle aporie, si deve, a mio avviso, riconoscere che, se
consideriamo le Categorie come un testo trascritto da lezioni orali, e il metodo di rinvenimento dei generi sommi come euristico, molte delle accuse di frammentarietà e carenza dovrebbero cadere. La tassonomia aristotelica mi sembra non avere la pretesa di essere totalmente esaustiva, ma ha l’obiettivo di raggiungere un grado sufficiente di categorizzazione tale da permettere un ordine abbastanza strutturato che guidi il pensiero e il
linguaggio. Questo è ben dimostrato dalla sottolineatura aristotelica, posta dopo aver
enumerato i quattro tipi di qualità:
[…] forse potrebbe presentarsi anche qualche altro tipo di qualità, ma quelli che vengono soprattutto detti tali sono press’a poco (scedÕn) questi35.
Questa affermazione sembra confermare che il metodo di indagine filosofica sia, in questo campo, asistematico e aprogrammatico, ma si basi, piuttosto, sull’intuizione e sulla
capacità delle tassonomie ottenute di spiegare gli eventi fenomenologici in modo da
rapportarli ad un ordine sufficientemente equilibrato.
1.3. Qualità affettive e affezioni [Categorie 8, 9 a 28-35]
1.3.1. Gli esempi di qualità affettive e il rapporto tra qualità ed enti
32 Cfr. Apostle, Aristotle’s Categories…, pp. 82-83, n. 8. Sulla stessa lunghezza d’onda di Apostle si situa Zanatta, Aristotele. Le categorie…p. 605-606.
33 «La vista, ad esempio, fa parte dell’anima, che è la forma dell’animale. L’abilità
nell’imparare la trigonometria discende dall’abilità di imparare cose razionali e dal fatto che la
trigonometria è una conoscenza razionale. La capacità di non essere facile a rompersi è nella natura del diamante e di altri corpi ad esso simili. Tali capacità sono proprietà delle cose oppure
sono indicate dalle differenze, e le differenze sono un tipo di qualità (1020 a 33 - b 1), non qualità senza qualificazione, come il bianco, ma analoghe a quelle indicate in 3 b 10-23» (Apostle,
Aristotle’s Categories…, pp. 82-83, n. 8).
34 Cfr. Ackrill, Aristotle’s Categories…, pp. 105.
35 Categorie 8, 10 a 25-26.
168
Il terzo tipo di qualità è quello costituito, secondo quanto Aristotele riporta in Categorie 8, 9 a 28-29, dalle qualità affettive (paqhtikaˆ poiÒthtej) e dalle affezioni
(p£qh). Nel corso della trattazione, tuttavia, si vedrà come lo Stagirita giunga infine ad
escludere che i p£qh possano essere annoverati tra le qualità.
Subito Aristotele, in Categorie 8, 9 a 29-31, adduce una lista di esempi di questa terza tipologia di qualità, tutti concernenti delle qualità percepibili a livello sensibile: la
dolcezza e l’asprezza (entrambe si riferiscono al senso del gusto), il caldo e il freddo
(senso del tatto), la bianchezza e la nerezza (senso della vista). Il fatto che tali determinazioni rientrino sicuramente tra le qualità è reso evidente, dal punto di vista di Aristotele, a partire dall’osservazione per cui
[…] le realtà che le hanno ricevute si dicono qualificate in virtù di esse: il miele, ad esempio, si dice dolce perché ha ricevuto la dolcezza, e il corpo si dice bianco perché ha
ricevuto la bianchezza. E lo stesso vale anche per gli altri casi36.
Questa spiegazione ripropone un rapporto ineludibile tra qualità e qualificati per cui le
prime non possono essere conosciute senza riferimenti ai secondi e i secondi non possono essere conosciuti senza riferimento alle prime. Ci si richiama qui in modo evidente
alla descrizione delle qualità presentata nell’incipit del capitolo:
Chiamo qualità ciò per cui alcune realtà si dicono “di una certa qualità”37.
Rispetto a quella prima descrizione delle qualità, in Categorie 8, 9 a 32 Aristotele aggiunge che le realtà qualificate sono tali perché hanno ricevuto (t¦ dedegmšna) delle
qualità. Il ricevere (dšcomai), allora, è la cifra ontologica che mette in relaziene la qualità e le realtà, gli enti. Come sottolineato da Pesce38 e, in seguito, da Viano39, Aristotele
utilizza il verbo greco, già usato da Platone40, senza determinarne il significato tecnico e
filosofico in cui lo assume.
Non tutte le qualità affettive appartenenti a questo terzo gruppo possiedono le medesime caratteristiche; di conseguenza è utile dividere tali qualità in due sottogruppi: da un
lato, le qualità affettive in grado di produrre una modificazione nelle sensazioni, e,
dall’altro, le qualità affettive che derivano esse stesse da un’affezione.
1.3.2. Qualità affettive che producono una modificazione nelle sensazioni
Alcune delle qualità affettive sono chiamate tali, e cioè, per l’appunto, “affettive”
(paqhtikaˆ), non in quanto le realtà che le hanno ricevute abbiano subito una certa modificazione, ma perché le suddette qualità, accolte nelle realtà che le ricevono, sono in
grado di produrre una modificazione nelle sensazioni41. Tali qualità non producono del-
36
Categorie 8, 9 a 32-35.
Categorie 8, 8 b 25.
38 Cfr. Pesce, Aristotele. Le categorie… p. 75 n. 20.
39 Cfr. Viano, Aristotele, Categorie, 8, 8 b 25 - 10 a 10…, p. 221.
40 Cfr. Platone, Timeo, 50 C, aveva usato tale verbo in riferimento al principio materiale, al ricettacolo amorfo che, appunto, riceve tutte le forme.
41 Come si capisce dagli esempi successivamente addotti da Aristotele, non si tratta qui della
possibilità di attribuire un subire un’affezione alle qualità stesse (come sembra leggersi in Viano, Aristotele, Categorie, 8, 8 b 25 - 10 a 10…, p. 221) - ad esempio, la dolcezza -, che, prese in
se stesse, sono avulse dalle sensazioni e dalle affezioni, quanto alle realtà che hanno ricevuto
tali qualità - ad esempio, il miele, che ha ricevuto la dolcezza -.
37
169
le modificazioni nelle sensazioni dell’ente ricevente, ma rendono l’ente ricevente capace di produrre delle modificazioni nelle sensazioni, delle affezioni negli organi di senso.
Sono qualità affettive di questo tipo la dolcezza e l’asprezza, il caldo e il freddo. Il
miele, ad esempio, che ha ricevuto la qualità della dolcezza, non ha subito alcuna modificazione nella sensazione, ma, ricevendo la dolcezza, mutua da essa la capacità di produrre delle affezioni negli organi del gusto, o, meglio, la della dolcezza qualità insita
nell’ente qualificato, cioè il miele, è in grado di produrre una precisa modificazione in
qualcosa di diverso da sé, e cioè negli organi del gusto. Non è il miele ad essere affetto
nel momenti in cui riceve la dolcezza, ma siamo noi, anzi, sono i nostri organi di senso
ad essere affetti al contatto con il miele. Allo stesso modo, il fuoco e il ghiaccio, che ricevono, rispettivamente, la qualità del caldo e la qualità del freddo, non patiscono, essi
stessi, alcuna modificazione sensoriale, ma, grazie alle qualità ricevute, sono in grado di
produrre delle precise affezioni negli organi del tatto. Non sono il fuoco e il ghiaccio a
sentire caldo e freddo, ma sono i nostri organi di tatto a subire delle modificazioni al
contatto con essi.
1.3.3. Qualità affettive che derivano da un’affezione
In altri casi, le qualità affettive sono dette tali perché derivano esse stesse da
un’affezione. Nel caso, appena trattato, delle qualità che producono una modificazione
nelle sensazioni, si escludeva che il miele, ricevendo la qualità della dolcezza, ne venisse affetto; nel caso di un corpo che diventa bianco, al contrario, è impossibile escludere
che sia stato affetto, e abbia, quindi, subito una modificazione42. Sono qualità affettive
di questo secondo tipo, per Aristotele, la bianchezza, la nerezza, il rossore, e cioè tutte
qualità di tipo cromatico. È infatti a causa delle affezioni che si verificano dei mutamenti di colore.
Poiché le stesse modificazioni cromatiche possono essere prodotte da cause di tipo
diverso, Aristotele ci indica che occorre distinguere tra: 1. modificazioni nelle sensazioni che sono prodotte da cause stabili e durature - riconducibili a delle qualità affettive
propriamente dette - e 2. modificazioni nelle sensazioni prodotte, invece, da cause temporanee ed effimere - riconducibili a delle mere affezioni (p£qh) -. Ad esempio, le persone possono assumere un colore, e la loro pelle può risultare rossa, per diversi motivi:
a. per costituzione fisica; b. per una scottatura; c. per la vergogna. Queste diverse cause
producono la medesima «disposizione di elementi corporei» (di£qesij tîn perˆ tÕ
sîma)43. Tale disposizione, però, ha un peso completamente diverso a seconda della
causa che l’ha prodotto, tant’è vero che nei primi due casi si può parlare di “qualità affettive” a tutti gli effetti, mentre nel terzo caso si ha a che fare non con delle qualità, ma
con delle mere affezioni.
1. Le affezioni prodotte da cause stabili e durature rientrano nelle qualità affettive
intese in senso proprio. I criteri di discernimento sono, come per quanto riguardava la distinzione tra lo stato abituale e le disposizioni, quelli della durata e della
stabilità - cioè la maggiore o minore facilità al mutamento -. Le cause stabili e
durature possono essere di due tipi: a. cause che appartengono alla natura stessa
dell’individuo, alla sua costituzione fisica; b. cause che producono degli effetti
che non possono essere facilmente ristabiliti o che, una volta comparsi, durano
poi per tutta la vita. Si può, ad esempio, avere un colorito pallido: a. per costitu42
43
Cfr. Ammonio, In Cat., 86, 18-21.
Categorie 8, 9 b 17.
170
zione fisica, naturale, e cioè, diremmo noi oggi, per una maggiore o una minore
concentrazione di melanina nella pelle e, quindi, una diversa pigmentazione; b.
per una causa che rende il pallore duraturo e difficile a rimuoversi, come una
lunga malattia e la conseguente convalescenza, che può essere più o meno lunga
a seconda della gravità della malattia. Allo stesso modo, si può avere un rossore
della pelle o un colorito scuro: a. per costituzione fisica, quindi per una diversa
pigmentazione della pelle; b. per cause che rendono gli effetti duraturi, e cioè, ad
esempio, rispettivamente, la presenza di couperose - un arrossamento intenso e
cronico - e l’abbronzatura data da una lunga esposizione al sole. Tutti gli effetti
di questo tipo, che si originano da affezioni stabili e durature, costituiscono delle
qualità affettive, perché, sia le affezioni dei casi di tipo a. sia quelle dei casi di tipo b. permettono di qualificare l’individuo.
2. Le affezioni prodotte da cause temporanee e passeggere non rientrano nelle qualità affettive, ma restano delle mere affezioni (p£qh). Le persone possono assumere un rossore della pelle per la vergogna o un colorito pallido per la paura, per
cause, cioè, che nulla hanno di stabile o durevole, ma che sono strettamente connesse a una circostanza momentanea. I casi di questo tipo non possono essere ascritti alle qualità affettive perché essi non permettono di qualificare l’individuo.
Chi diventa rosso (Ð ™ruqriîn) per la vergogna non può essere chiamato rosso,
rubicondo (™ruqr…aj) - facendo uso, come si vede bene nel greco, di un paronimo-, perché ha solo momentaneamente assunto una colorazione rossa. Similmente, chi impallidisce (Ð çcriîn) per paura non può essere chiamato pallido
(çcr…aj) perché il pallore non lo qualifica.
Fin qui, gli esempi che riguardano la colorazione del corpo. Aristotele aggiunge che
la stessa distinzione tra qualità affettive e affezioni va operata anche intorno all’anima
(kat¦ t¾n yuc¾n)44, e cioè in riferimento a degli stati emotivi e psichici. Anche in questa sfera interiore, la distinzione va operata seguendo i criteri di durata e di stabilità delle affezioni. Sono qualità affettive tutte quelle che appartengono al temperamento e
all’indole della persona fin dalla nascita45 come, ad esempio, la pazzia (¼ manik¾ œkstasij)46 e la collera (¹ Ñrg¾). Questo è reso evidente, dal punto di vista di Aristotele,
dal fatto che è possibile qualificare le persone secondo esse: come folli (maniko…) oppure come colleriche (Ñrg…loi). Sono qualità affettive anche le deviazioni non naturali
(™kst£seij m¾ fusika…), che non appartengono cioè al temperamento e all’indole
dell’individuo fin dalla nascita, ma che dipendono comunque da cause sorte successivamente di cui non è facile liberarsi o addirittura irremovibili. Anche in questi casi gli
individui risultano qualificati.
Sono, d’altro canto, mere affezioni gli effetti prodotti da cause temporanee e che si
dissolvono facilmente. Una persona che è incline alla collera perché è addolorata47 non
può essere qualificata come “collerica”; così come non può esserlo, stando agli esempi
di Porfirio48, chi si arrabbia una tantum oppure si arrabbia per cose appropriate. “Colle44
Cfr. Categorie 8, 9 b 33 - 10 a 10.
Sulla convinzione che il tipo di carattere appartenga a ciascuno di noi fin dalla nascita, si veda Etica Nicomachea VI, 13, 1144 b 3 ss.
46 Sulla follia intesa come una deviazione e un essere al di là dei normali limiti della natura umana (œkstasij), si veda Etica Nicomachea VII 7, 1149 b 53.
47 Sul nesso tra la sofferenza e la collera, si veda Retorica II, 2, 1379 a 11-14.
48 Cfr. Porfirio, In Cat., 131, 15 ss..
45
171
rico” (Ñrg…loj), in questo caso, non deve essere inteso come l’espressione di una persona che ha la predisposizione ad assumere atteggiamenti di collera - perché, in questo caso, ricadrebbe nel secondo tipo di qualità -, ma nel significato di una persona qualificata, per sua natura, in questo modo49.
1.3.4. L’esclusione delle affezioni dalle qualità
Come si è detto all’inizio della trattazione del terzo genere di qualità, Aristotele annovera in questo le qualità affettive e le affezione, ma, poi, nel corso dell’analisi, giunge
ad escludere che i p£qh possano essere annoverati tra le qualità. È chiaro, dunque, che
in molti, tra i commentatori antichi e moderni, si siano chiesti come questo sia possibile.
Simplicio50 riporta due posizioni principali intorno alla questione:
1. alcuni pensano che, nel passo in cui Aristotele, trattando di collera dovuta alla
sofferenza, sostiene che i casi come questo e altri simili «[…] si dicono affezioni,
e non qualità»51, si deve sottendere che essi non sono precisamente “qualità affettive”; le affezioni sarebbero comunque delle qualità, anche se non qualità affettive52.
2. Altri sostengono, invece, che le qualità affettive e le affezioni esprimano la stessa
cosa, e la distinzione starebbe forse - aggiunge Simplicio - nel fatto che le affezioni sarebbero subordinate alle qualità affettive in quanto hanno una durata minore.
In entrambi i casi, le affezioni vengono ricondotte e ascritte alla qualità. In particolare,
la seconda posizione si presenta, per Simplicio, come assurda in quanto è Aristotele
stesso a distinguere chiaramente le affezioni dalle qualità. D’altro canto, sempre secondo il commentatore neoplatonico, non si dovrebbe cadere nell’errore opposto di separare
nettamente le due cose, il che sarebbe in conflitto con l’affermazione di Aristotele: «un
terzo genere di qualità è costituito dalle qualità affettive e dalle affezioni»53. Secondo
Simplicio54, un’affezione non può certo essere identificata con una qualità affettiva, anche se, in un certo senso, deve esserle simile, dal momento che è impossibile parlare di
“qualità affettiva” senza far riferimento all’“affezione”. L’affezione costituirebbe una
condizione, una sorta di presupposto per la qualità affettiva, nella quale l’affezione raggiunge la completezza.
Simplicio55 riporta anche la polemica dei pensatori della cerchia di Nicostrato nei
confronti della terza specie di qualità56. Questi discutevano il fatto che, per Aristotele,
tanto il colorito di breve durata quanto quello di lunga durata si generassero da un’unica
e medesima affezione, e rivendicavano il fatto che questo non può valere anche per quei
colori, come per esempio il bianco della neve, che sono connaturati alla realtà. Per dimostrare le loro ragioni e le mancanze della posizione aristotelica, tali pensatori analiz49
Cfr. Porfirio, In Cat., 131, 20 ss..
Cfr. Simplicio, In Cat., .
51 Categorie 8, 9 b 32-33.
52 Cfr. P. Studtmann, Aristotle’s Category of Quality: A regimented Interpretation, «Apeiron»,
36 (2003), pp. 205-227.
53 Categorie 8, 9 a 28-29.
54 Cfr. Simplicio, In Cat., 257, 20 ss..
55 Cfr. Simplicio, In Cat., 257, 31-36.
56 Sulla difficoltà di interpretare l’obiezione di Nicostrato si veda Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, p. 116.
50
172
zarono le asserzioni dello Stagirita, scoprendo una presunta incoerenza nell’uso del termine p£qoj. «Il p£qoj è dunque, in un caso, la causa del colorito, nell’altro caso è il colorito stesso in quanto manifestazione conseguente a una reazione affettiva passeggera»57.
Effettivamente, forse uno slittamento del significato del termine p£qoj è presente nel
testo aristotelico. L’affezione è ciò da cui derivano le qualità affettive58; infatti, è a causa di un’affezione che si verificano dei cambiamenti cromatici59. Le determinazioni
cromatiche, che manifestano una disposizione degli elementi corporei, sono le stesse in
concomitanza con le stesse affezioni che le generano, ma tali affezioni, intese appunto
come cause, possono esser di diverso tipo: durevoli e difficili a mutare, oppure temporanee e facilmente mutabili60. Nel primo caso, si parla di qualità; nel secondo caso, si
parla di affezioni, stavolta intese come manifestazione effimera conseguente a una causa
non durevole61.
1.4. Figure e forme
In Categorie 8, 10 a 11-24, viene presentata la quarta specie della qualità, costituita
dalle figure e dalle forme. Si tratta dell’unica tipologia che riguarda una configurazione
esterna piuttosto che una qualità interna. Questo è il motivo per cui, secondo Simplicio62, viene presentata per ultima: perché è superficiale ed esternamente imposta alla
superficie del corpo.
La figura (scÁm£) è ciò che viene delimitato attraverso un limite o dei limiti, e cioè
da una linea o da più linee (sarebbe più corretto dire segmenti)63, ed è il contorno di un
piano o di un solido. Non deve essere intesa come l’estensione delle linee o del piano perché, in tal caso, si tratterebbe di una quantità -, ma come il modo in cui una superficie si configura, ad esempio se ha o non ha degli angoli64. Porfirio65 spiega come una
mera unione di linee non produca, tout court, una figura, e dunque una qualità, quanto,
piuttosto, una quantità; la qualità ha luogo quando le linee si trovano in una relazione
reciproca in modo da formare degli angoli. Ad esempio, quando i segmenti si trovano in
posizioni reciproche in modo tale da formare tre angoli, e in modo da delimitare una
particolare area circondandola, si ha la “figura” del triangolo. Tale figura è una qualità
non in virtù del colore, non in quanto possiede tre angoli, ma in quanto, da tre segmenti
e da tre angoli, si forma una certa configurazione della superficie. Qualificati secondo la
figura sono, secondo gli esempi aristotelici, il triangolare o il quadrangolare, il dritto o il
curvo. Le altre qualità simili alla dirittura (eÙqÚthj) e alla curvatura (kampulÒth), cui
fa riferimento lo Stagirita66, potrebbero essere quelle della “spiralità” e della “conicità”,
57
Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, p. 117.
Cfr. Categorie 8, 9 b 11.
59 Cfr. Categorie 8, 9 b 11-12.
60 Cfr. Categorie 8, 9 b 14-19.
61 Che l’affezione per Aristotele possa dirsi in molti sensi è peraltro dimostrato da Metafisica D,
21.
62 Cfr. Simplicio, In Cat., 261, 20-22.
63 Si tratta della definizione di “figura” che Porfirio, In Cat., 132, 22-23, attribuisce agli studiosi
di geometria.
64 Cfr. Simplicio, In Cat., 261, 22-25.
65 Cfr. Porfirio, In Cat., 132, 30 - 133, 12.
66 Cfr. Categorie 8, 10 a 12-13.
58
173
considerate dagli studiosi di geometria come combinazioni di dirittura e curvatura67. La
linea, in quanto pura lunghezza scevra di larghezza, è una quantità; in quanto dritta o
curva, è una qualità. La superficie, in quanto definita dalla lunghezza e dalla larghezza,
appartiene alla quantità; in quanto è piana, appartiene alla qualità.
La forma (morf»), poi, per Aristotele, può assumere due diversi significati: 1. la
forma (edoj) sostanziale68; 2. la qualità che una superficie o un corpo hanno. È chiaro
che, in questo preciso contesto, lo Stagirita non si stia riferendo alla forma sostanziale
delle cose, ma alla forma della superficie o del corpo, in base alla quale diciamo che le
cose sono belle e ben modellate, oppure brutte e deformi69. Qualificati secondo la forma
sono il rado e il denso, il ruvido e il levigato.
Sulla differenza tra la figura e la forma i commentatori antichi hanno dato luogo ad
un dibattito. Secondo alcuni, la differenza consisterebbe nel fatto che la prima appartiene solo alle realtà inanimate, e la seconda solo agli organismi viventi70. Una declinazione di questo pensiero è l’interpretazione di Ammonio71, secondo il quale la nozione di
“figura” è più ampia rispetto a quella di “forma”, poiché ogni forma ha anche una figura, mentre non tutte le figure hanno una forma. Inoltre, si parlerebbe di forma esclusivamente nel caso di realtà animate, e di figura anche nel caso di realtà inanimate. Questa differenziazione, per Simplicio, non si accorda né con la pratica scientifica né con
l’uso generale, che attribuiscono i termini indipendentemente all’una e all’altra realtà,
parlando di “figura” nel caso di creature viventi, e di “forma” nel caso di oggetti inanimati. Secondo altri commentatori, la forma appartiene solo alle realtà naturali; tra gli altri, Giamblico sembra avallare questa opinione affermando che non si parla di forma nel
caso di enti matematici e geometrici, perché la forma (morf») è sempre materializzata72.
Tommaso d’Aquino scrive nel suo commento alla Fisica che «[…] la forma e la figura
differiscono l’una dall’altra per il fatto che la figura implica la determinazione della
quantità: infatti la figura è ciò che è contenuto da un confine o dai confini; mentre si
chiama forma ciò che dà l’essere specifico al prodotto […]»73. Una posizione avvicinabile a questa è quella di Simplicio74, per il quale la figura è ciò che è delimitato da un
contorno esterno, e la forma è ciò che è definito dai termini (¢poperatîseij) di proporzione e sproporzione75.
67
Cfr. Porfirio, In Cat., 133, 24-25; Simplicio, In Cat., 262, 26-27.
Aristotele, infatti, usa i termini edoj e morf» in maniera interscambiabile. Questo rende difficile la traduzione dei due termini e di scÁm£ (qui tradotto con “figura”). La confusione è, forse, meno evidente nella lingua inglese, che spesso traduce scÁm£ con «figure», morf» con
«shape» e, infine, edoj con «form». Cfr. Fleet, Simplicius. On Aristotle Categories 7-8…, p.
123.
69 Cfr. Simplicio, In Cat., 261, 25-32, che segue qui, quasi testualmente, Porfirio, In Cat., 133,
15-19.
70 Cfr. Simplicio, In Cat., 262, 1-2.
71 Cfr. Ammonio, In Cat., 88, 1-4.
72 Cfr. Simplicio, In Cat., 262, 12-16.
73 S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Fisica di Aristotele, Vol. III: Libri 7-8, PDUL Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2005, p. 69, commento a Fisica, 245 b 3 - 246 b 20.
74 Cfr. Simplicio, In Cat., 262, 10-12.
75 B. Fleet, Simplicius. On Aristotle Categories 7-8, Duckworth, London 2002, p. 180, n. 446,
sottolinea come per Simplicio la forma possieda una valenza estetica che manca totalmente alla
figura. Nella descrizione del concetto di “forma” il commentatore neoplatonico ha, forse, in
mente il riferimento a Timeo 87 D e a Filebo 64 E.
68
174
Alla presentazione del quarto gruppo di qualità fa seguito un’osservazione di grande
importanza per le relazioni che possono intercorrere tra le diverse categorie a partire
dalla considerazione di alcune singole realtà. Aristotele spiega come il raro e il denso, il
ruvido e il levigato, per quanto «[…] connessi alla forma e comunemente ritenuti qualitativi»76, dovrebbero, invece, non rientrare in questa categoria, quanto, piuttosto in quella della quantità o quella della relazione, in quanto «[…] viene riconosciuta decisiva per
la loro origine la posizione delle parti (qšsij)»77. Infatti, una superficie viene detta densa per il fatto che le sue parti sono vicine l’una all’altra; viene, invece, detta rada per il
fatto che le sue parti sono distanti l’una dall’altra; e, inoltre, una superficie è levigata se
le sue parti giacciono in qualche modo lungo una retta; è, invece, ruvida se alcune sue
parti si trovano non allineate rispetto alla retta, ma sono alcune dietro ad essa ed altre
davanti. Se si considerano il denso e il rado, il ruvido e il liscio dal punto di vista delle
sensazioni e delle percezioni che si hanno di essi, allora risulta evidente che essi siano
delle qualità78; se, invece, si riconducono tali sensazioni ai fondamenti che le producono, allora denso e rado, ruvido e liscio devono essere sussunti, da un lato, sotto la categoria della relazione, in quanto la “posizione” (qšsij) è una relazione79, dall’altro si avvicinano alla categoria della quantità80, perché le parti che hanno una posizione le une
rispetto alle altre formano una quantità, come la linea, la superficie, il corpo81. Sebbene
le categorie, in quanto generi sommi dell’essere, siano radicalmente irriducibili, dal
76
Trendelenburg, La dottrina delle categorie in Aristotele…, p. 189.
Trendelenburg, La dottrina delle categorie in Aristotele…, p. 189.
78 Se la «[…] misura dell’impressione sensibile […] viene applicata a questi concetti, allora non
c’è dubbio che essi appartengono alla qualità allo stesso modo del caldo e del freddo percepiti
dal senso del tatto» (Trendelenburg, La dottrina delle categorie in Aristotele…, p. 189).
79 Cfr. Categorie 7, 6 b 3.
80 Secondo Trendeleburg, La dottrina delle categorie in Aristotele…, p. 190, non sarebbe affatto
strano che Aristotele avvicini qui delle qualità a dei rapporti quantitativi. «Già Pitagora aveva
iniziato a tradurre la qualità del tono musicale in rapporti quantitativi; e la posizione delle parti
sembra entrare in gioco anche quando Aristotele riconduce i colori, bianco e nero, a differenze
anteriori, al “dilatante” e al “comprimente” (diakritikÒn e sugkritikÒn, Met. I [X] 7, 1057 b 8
ss.)».
81 Cfr. Categorie 6, 5 a 15-23. Secondo Bodéüs, Aristote. Les catégories…, p. 137, n. 2, il mostrare come le percezioni sensibili possano essere rapportate alla posizione delle parti costitutive
dell’oggetto non costituisce un argomento solido, in quanto la posizione delle parti stessa può
essere rapportata a delle cause ancora più profonde. Ad esempio, come si dice in Generazione
degli animali, V, 3, 783 a 37 - b 1, il freddo contrae e il caldo dilata, per cui la densità potrebbe
essere ricondotta al freddo. Bodéüs si chiede, inoltre, come mai la linea, la superficie e il solido,
in quanto determinati da una posizione delle parti, non possano costituire anch’esse delle qualità. Secondo il parere dello studioso, queste realtà non vengono enumerate tra le qualità perché,
per Aristotele, esse non rientrano tra le qualità generalmente e comunemente riconosciute come
tali. A mio avviso, sembra più appropriata la distinzione presente in Porfirio, In Cat., 132, 30 133, 12, per cui sono diversi i rispetti per i quali la linea o la superficie o il corpo possono cadere sotto la quantità o sotto la qualità: come si diceva Supra, p. ***, la linea è una quantità in
quanto è pura lunghezza senza larghezza, ma è una qualità in quanto dritta o curva; la superficie,
appartiene alla quantità in quanto definita dalla lunghezza e dalla larghezza, ma viene sussunta
sotto la categoria di qualità in quanto è piana. Non è certo secondo la loro estensione quantitativa che la linea, la superficie e il solido potrebbero essere ricondotti sotto la categoria di qualità,
che qui Aristotele sta trattando.
77
175
punto di vista delle realtà individuali e delle specie che sotto le categorie vanno sussunte, si configurano dei confini niente affatto rigidi, ma che, anzi, spesso oscillano.
1.5. Un elenco aperto
La divisione in quattro specie e la presentazione delle diverse tipologie di qualità non
hanno la pretesa di essere esaustive e definitive. Ci risulta massimamente evidente in un
passo in cui Aristotele afferma che, nella realtà, potrebbero essere osservati ulteriori
specie di qualità, ma quelle elencate sono sufficienti in quanto racchiudono tutti i modi
in cui le qualità vengono di solito nominate:
[…] forse potrebbe presentarsi anche qualche altro tipo di qualità (¥lloj trÒpoj
poiÒthtoj), ma quelli che vengono soprattutto detti tali sono press’a poco (scedÕn)
questi82.
Si tratta non di un’incompletezza, ma di un essere volutamente approssimativi. Queste
righe hanno suscitato un acceso dibattito già a partire dagli antichi83. Principalmente ci
si è chiesto se le qualità citate o alcune di esse o altre affini a esse andassero ascritte al
non meglio precisato altro tipo di qualità (¥lloj trÒpoj poiÒthtoj).
Al di là di tutti i dibattito che tentano di poter porre l’ultima parola sulle tassonomie
aristoteliche, mi sembra che l’affermazione dello Stagirita indichi chiaramente una volontà che non è quella di poter dire l’ultima parola sulle classificazioni del reale, quanto
piuttosto quella di fornire degli strumenti, mai esaustivi ma sempre in fieri, per poter
comprendere, nel modo migliore di volta in volta possibile, una realtà multiforme. Non
è escluso che Aristotele intendesse persino invitare chi lo ascoltava a intraprendere
un’indagine personale volta alla ricerca di ulteriori qualità che si danno nel reale84, in un
percorso che, progressivamente, dà luce a una ricognizione sempre più analitica.
2. Le qualità e le realtà qualificate
2.1. Realtà qualificate che si dicono in modo paronimico a partire dalle qualità
Chiarissima agli occhi di Aristotele risulta la distinzione tra le qualità (poiÒthta) e i
qualificati (t¦ poi¦). È evidente come non sia possibile offrire una definizione della
qualità considerata per se stessa, come categoria, perché, in quanto genere sommo, non
potrebbe essere definita senza cadere in una petitio principii. È possibile, tuttavia, darne
delle descrizioni. Da un lato, delle qualità si possono illustrare le diverse tipologie (le
quattro specie sopra presentate), dall’altro si può dare di esse una presentazione che trova poi il suo ineludibile corrispettivo in quella delle realtà qualificate. Le qualità sono
[…] ciò per cui alcune cose vengono dette “di una certa qualità”85.
Quanto alle realtà qualificate, possiamo affermare che esse sono ciò che viene denominato a partire dalle qualità in modo paronimico o in qualche altro modo, purché sia
sempre per derivazione dalle qualità86.
82
Categorie 8, 10 a 25-26.
Simplicio, In Cat., 263, 13 ss; 267, 18 ss., riporta le diverse posizioni di Andronico, Eudoro,
Acaico, Plotino e Giamblico.
84 Cfr. Porfirio, In Cat., 88, 20 ss..
85 Categorie 8, 8 b 25.
86 Cfr. Categorie 8, 10 a 27-29.
83
176
Nella maggior parte dei casi (™pˆ tîn ple…stwn) - sostiene Aristotele - le realtà qualificate stanno con le qualità corrispondenti in un rapporto di paronimia87. Come illustrato nel Capitolo 1 delle Categorie,
“Paronime”, infine, si dicono le cose che vengono nominate in base a un certo nome da
cui, però, differiscono per la terminazione. Ad esempio, il grammatico (Ð grammatikÕj) deriva dalla grammatica (¢pÕ tÁj grammatikÁj) e il coraggioso (Ð ¢ndre‹oj) dal
coraggio (¢pÕ tÁj ¢ndre…aj)88.
Tre sono gli esempi che Aristotele porta nel Capitolo 8: a. il bianco dalla bianchezza, b.
il grammatico dalla grammatica, c. il giusto dalla giustizia. Uno di essi è lo stesso presentato già nel primo Capitolo, appena citato: quello del grammatico (Ð grammatikÕj),
cioè di colui che possiede la scienza della grammatica, e da tale scienza (¢pÕ tÁj
grammatikÁj) deriva la propria denominazione. All’esempio del grammatico, si aggiungono quello dell’individuo bianco (Ð leukÕj), così chiamato a partire dal colore
che lo determina, e cioè la bianchezza (¢pÕ tÁj leukÒthtoj)89, e quello della persona
giusta (Ð d…kaioj) che deriva la propria denominazione dalla virtù che possiede, la giustizia (¢pÕ tÁj dikaiosÚnhj).
Si noti che le realtà qualificate che si dicono in modo paronimico mutuano le loro
denominazioni dalle qualità che possiedono e che determinano il loro essere. I paronimi,
dunque, che, stando alla definizione data nel Capitolo 1, sono individuati da un fenomeno esclusivamente linguistico, esprimono, invece, un rapporto di inerenza di cui il piano
terminologico è solo una veste esteriore.
2.2. Realtà qualificate che non si dicono in modo paronimico a partire dalle qualità
Le realtà qualificate, come si diceva poc’anzi, stanno con le qualità corrispondenti in
un rapporto di paronimia nella maggior parte dei casi (™pˆ tîn ple…stwn), non quindi
in tutti. Ci sono dei casi, infatti, in cui i qualificati non costituiscono dei paronimi. E
questo può avvenire per due diversi ordini di ragioni.
1. In alcuni casi, le realtà qualificate non possono essere dette paronimicamente a
partire dalle qualità corrispondenti perché tali qualità non hanno dei nomi. Ad esempio, Ö dromikoÝj, e cioè chi è valente nella corsa, il buon corridore, viene
così chiamato non perché deriva il nome paronimicamente da qualcosa, ma perché possiede un’attitudine naturale alla corsa. Lo stesso vale per il pugile (Ð puktikÕj)90, così chiamato perché possiede un’attitudine naturale al pugilato. Tali
individui qualificati «[…] risultano determinati in base a qualità che non sono paronimicamente ricostruibili: a fronte del corridore non c’è la “corridicibilità”, così come a fronte del “pugile” non c’è la “pugilibilità”; tuttavia corridore e pugile
non determinazioni qualitative che possono, se il caso, caratterizzare un certo
uomo»91. La situazione di tali qualità e realtà qualificate viene messa da Aristotele in contrasto con quella delle scienze specifiche e delle persone che le possiedono. Mentre non ci sono dei nomi che indicano la “corridicibilità” e la “pugilibi87
Cfr. Categorie 8, 10 a 29-32.
Categorie 1, 1 a 12-15. Si veda Supra, p. ***.
89 Esempio citato anche in Categorie 5.
90 Gli esempi del dromikoÝj e dello puktikÕj sono quelli già presentati tra le qualità del secondo tipo in Categorie 8, 9 a 14-15.
91 S. Maso, Aristotele, Categorie 8, 10 a 11 - 11 a 39. Forma, qualità, relativi, in Bonelli - Guadalupe Masi, Studi sulle Categorie di Aristotele…, p. 238.
88
177
lità”, esistono invece dei nomi per la scienza dell’atletica e per la scienza del pugilato (puktik¾ ™pist»mh lšgetai kaˆ palaistrik»), e coloro che le possiedono derivano le loro denominazioni paronimicamente da esse: gli esperti
dell’atletica (palaistrikoˆ) e gli esperti del pugilato (puktikoˆ). Dunque, le
persone valide nell’atletica e nel pugilato non derivano i loro nomi paronimicamente dall’essere capaci di compiere le suddette attività, ma dalla loro capacità di
acquisire tali arti attraverso l’esercizio e la conoscenza92. Il pugilato e la ginnastica, infatti, «[…] designano non già le attitudini innate, ma quel complesso di nozioni, di regole e di esercizi che costituiscono la scienza e l’arte»93.
2. In altri casi, pur avendo le qualità un nome, le realtà qualificate da esse non vi derivano paronimicamente il proprio nome. È il caso dell’uomo moralmente retto (Ð
spouda‹oj), che si dice tale perché possiede la qualità della virtù, ma non deriva
dal termine ¢retÁ la propria denominazione. Questo - aggiunge Aristotele - accade in pochi casi.
In breve, «[…] la paronimia è senz’altro la chiave principale per risolvere, in modo esplicito dal punto di vista linguistico, la relazione tra qualità ed ente qualificato; purtroppo non è esaustiva»94.
3. Caratteristiche della qualità
Nella terza sezione del capitolo [Categorie 8, 10 b 12-25], si presentano ed analizzano le caratteristiche attribuibili alle qualità. Come si vedrà, delle tre presentate ed analizzate, esclusivamente l’ultima, e cioè l’essere detta “simile” e “dissimile”, è propria
solo della qualità, e non è attribuibile anche ad altre categorie.
3.1.Prima caratteristica: la qualità ha dei contrari
La prima caratteristica è quella per cui c’è contrarietà (™nantiÒthj) secondo la qualità. Questo viene mostrato per induzione a partire dagli esempi, l’uno riferito alle qualità
dell’anima, l’altro alle qualità del corpo95:
[…] giustizia (dikaiosÚnh) è il contrario di ingiustizia (¢dik…v), e bianchezza
(leukÒthj) è il contrario di nerezza (melan…v), e lo stesso vale per le altre qualità96.
E se si dà contrarietà per le qualità, si darà contrarietà anche per le realtà qualificate corrispondenti, e cioè quelle realtà che, essendo determinate da una certa qualità, derivano
da essa il proprio nome in maniera paronimica. Questo accade perché ciò che è qualificato riceve la proprietà di avere contrari propria della qualità; la qualità è inclusa in ciò
che viene da essa qualificato97. Così
[…] l’ingiusto (tÕ ¥dikon) è contrario al giusto (tù dika…J), e il bianco (tÕ leukÕn) al
nero (tù mšlani)98.
92
Cfr. Porfirio, In Cat., 135, 10 ss..
Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 78 n. 33.
94 Maso, Aristotele, Categorie 8, 10 a 11 - 11 a 39. Forma, qualità, relativi…, p. 238.
95 Cfr. Simplicio, In Cat., 277, 25.
96 Categorie 8, 10 b 12-14.
97 Cfr. Simplicio, In Cat., 277, 22-23.
98 Categorie 8, 10 b 14-15.
93
178
Risulta evidente dagli esempi che le realtà qualificate vengono denominate paronimicamente a partire dai nomi delle qualità e si trovano in una opposizione di contrarietà
nei confronti delle realtà qualificate secondo le qualità contrarie: l’“ingiusto” (¥dikon),
qualificato dall’ingiustizia (¢dik…v), è contrario al “giusto” (dika…J), qualificato dalla
“giustizia” (dikaiosÚnh); “bianco” (leukÕn), qualificato dalla “bianchezza” (leukÒthj), è contrario a “nero” (mšlani), qualificato dalla “nerezza” (melan…v). La contrarietà, quindi, non appartiene solo alle qualità, ma anche a quanto viene qualificato in
virtù delle qualità.
La contrarietà all’interno della categoria della qualità risponde a una precisa regola
illustrata da Aristotele come segue:
[…] se uno dei due contrari è una qualità, anche l’altro lo sarà99.
Se la giustizia è una qualità, anche il suo contrario, l’ingiustizia, lo sarà. Non è possibile, infatti, sussumere l’ingiustizia sotto nessun’altra categoria diversa da quella della
qualità, in cui si trova il suo contrario. Questa regola risulta chiara e consequenziale se
si osserva la definizione dei contrari che è stata data nel Capitolo 6:
[…] si definiscono contrarie le cose che hanno la massima distanza all’interno dello
stesso genere100.
Questa prima caratteristica, l’ammettere contrarietà, non è un proprio esclusivo della categoria della qualità per due ragioni:
1. la contrarietà non sussiste in tutti i casi di qualità e, di conseguenza, in tutti i casi
di realtà qualificate: ad esempio, il rosso o il giallo o altri simili colori, pure essendo delle qualità, non hanno nulla di contrario101;
2. la contrarietà sussiste anche in categorie diverse da quella della qualità, quale
quella della sostanza e quella dei relativi.
Per quanto concerne la seconda ragione, si rinvia alla trattazione della contrarietà nei
Capitoli 5 e 7102. Quanto, invece, al primo punto, la contrarietà non ha luogo quando si
ha a che fare con degli intermedi. Anche questa regola discende dalla definizione dei
contrari data in Categorie 7, 6 a 17-18, sopra citata. Tra gli stati intermedi, e tra uno stato intermedio e un estremo non si può mai avere una distanza massima; ne discende che
non si potrà dare contrarietà. Aristotele adduce, qui, degli esempi di colori intermedi: il
rosso e il giallo non hanno nulla di contrario, perché costituiscono delle intermedietà tra
il bianco e il nero, unici contrari all’interno della qualità del colore. La contrarietà non
ha luogo neppure tra gli stati intermedi che si riferiscono a sensi diversi da quello della
vista: non hanno contrario, ad esempio, il tiepido - la contrarietà sussiste, infatti, solo tra
caldo e freddo - nella sfera del tatto, né il tono emesso pizzicando la corda mediana della lira - la contrarietà sussiste, infatti, solo tra suono grave e suono acuto - nella sfera
dell’udito103.
Come osserva giustamente Simplicio104, non sussiste contrarietà non solo in riferimento agli intermedi percepiti dai sensi, ma neppure in riferimento alle figure geometriche: al triangolo e al quadrilatero, ad esempio, nulla risulterà contrario. L’ammettere
99
Categorie 8, 10 b 17-18.
Categorie 7, 6 a 17-18.
101 Cfr. Categorie 8, 10 b 15-17.
102 Cfr. Supra, pp. ***.
103 Questi sono gli esempi presentati da Simplicio, In Cat., 277, 30-31.
104 Cfr. Simplicio, In Cat., 278, 26-27.
100
179
contrarietà, quindi, è sì una caratteristica della qualità, ma non costituisce un proprio esclusivo.
3.2. Seconda caratteristica: la qualità ammette le differenze di grado
Una seconda caratteristica delle realtà qualificate (t¦ poi£) è quella di ammettere il
più e il meno (tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton), e cioè delle differenze di grado.
Questa seconda caratteristica consegue dalla prima, e cioè dal fatto che c’è contrarietà secondo la qualità. Dove c’è contrarietà infatti, c’è anche la possibilità di ammissione
del più e del meno105. Infatti, una realtà qualificata dal colore bianco potrà essere detta
più o meno bianca di un’altra, e, parimenti, qualcosa di giusto può essere detto più o
meno giusto rispetto a qualcos’altro. E tali differenze di grado si verificano non solo nel
confronto di una realtà con un’altra realtà - un corpo bianco può essere detto più bianco
rispetto ad un altro -, ma anche all’interno di una stessa realtà, tramite accrescimento
(™p…dosin) - un corpo bianco (leukÕn) può diventare ancora più bianco (leukÒteron) -,
oppure tramite riduzione. Chiaramente, il confronto di una realtà con se stessa sotto lo
stesso rispetto della qualità - in questo caso, del colore bianco - può avvenire, per il
principio di non contraddizione, solo in due momenti temporali diversi.
Poiché, tuttavia, come si è osservato poc’anzi, non tutte le realtà qualificate ammettono la prima caratteristica, e poiché la seconda discende dalla prima, allora neppure
questa seconda caratteristica apparterrà a tutte le realtà qualificate. E, di fatto, per Aristotele, ci sono realtà qualificate che non possono ammettere delle differenze di grado.
Questo vale, in particolare, per le qualità del quarto tipo: «le figure geometriche non
possono né accrescere o diminuire la loro determinazione, né possono essere comparate
rispetto al più e al meno»106. Il quadrato, il triangolo, il rettangolo, e in generale tutte le
figure geometriche non possono:
1. ammettere il più e il meno nel confronto con altre realtà della stessa specie: il
quadrato, ad esempio, non può essere detto più quadrato rispetto ad un altro quadrato né il triangolo può essere detto più triangolo rispetto ad un altro triangolo;
2. accrescere o diminuire la loro determinazione rispetto a se stessi: un triangolo
non può diventare più o meno triangolo.
Queste due impossibilità derivano dal fatto che ciò che accoglie la definizione di una figura geometrica non può accoglierla in misura maggiore o minore, perché delle due
l’una: o la accoglie oppure non la accoglie, tertium non datur. Così, tutte le realtà che
accolgono la definizione di quadrato, di triangolo, di rettangolo, di cerchio, etc., sono
tutte, rispettivamente, quadrati, triangoli, rettangoli, cerchi, allo stesso modo, senza nessuna possibilità di gradazione. E questo vale non solo per le figure geometriche, ma anche per tutte le realtà qualificate secondo tali figure: non accolgono il più e il meno e
non hanno accrescimento o riduzione ciò che è quadrato, ciò che è triangolare, ciò che è
rettangolare, etc., in quanto tali realtà accolgono in loro la definizione della figura geometrica che le qualifica.
Non ci sarà più né meno neppure tra le realtà che non accolgono una determinata definizione. Ad esempio, non si può dire che il quadrato sia più cerchio del rettangolo, dal
momento che né il quadrato né il rettangolo accolgono la definizione di cerchio107. «La
definizione di triangolo non può essere confrontata per mezzo di una relazione compara105
Cfr. Ammonio, In Cat., 89, 24 - 90, 3.
L. Sorbi, Aristotele. La logica comparativa, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1999, p. 146.
107 Cfr. Categorie 8, 11 a 10-12.
106
180
tiva con quella della circonferenza; ossia il triangolo non è più circonferenza del quadrato»108. E, più in generale, non ci può essere comparazione secondo il più e il meno tra
due realtà che non accolgono la stessa definizione109.
Intorno a questa seconda caratteristica sussiste un’aporia che Aristotele riporta affermando che alcuni ne discutono110: se la giustizia e le altre virtù, le scienze e le disposizioni che cadono sotto la categoria della qualità possano ammettere il più e il meno. Si
potrebbe, infatti, facilmente osservare e sostenere che la giustizia non può dirsi più o
meno giustizia rispetto alla giustizia, né la salute della salute, né la grammatica della
grammatica, e così via per tutte le altre virtù e conoscenze. D’altro canto, si afferma, a
ragione, che un uomo è più giusto di un altro, che un uomo ha meno salute di un altro,
che un uomo conosce la grammatica meglio di un altro. Com’è possibile che la giustizia, la salute, la grammatica non abbiano possibilità di ammettere delle differenze di
grado, mentre ciò risulta possibile in riferimento alla persona giusta, alla persona sana,
alla persona che possiede la conoscenza della grammatica? Questa divergenza non causa affatto problemi o contraddizioni, dal punto di vista di Aristotele, in quanto a non
ammettere gradazioni sono le qualità in sé e per sé considerate, mentre ad ammettere il
più e il meno sono le realtà qualificate secondo quelle qualità. In questa prospettiva, risulta del tutto coerente che, ad esempio, la virtù della giustizia, in sé considerata, non
ammetta differenziazioni di grado, in quanto è ciò che esprime massimamente la definizione di giustizia, essendo la giustizia stessa; la persona giusta, invece, può partecipare
in grado maggiore o minore di quella virtù, determinando così la possibilità di una comparazione. È solo negli enti che partecipano delle qualità che possono essere ammessi il
più e il meno.
Secondo la testimonianza dei commentatori antichi, Aristotele discute qui di tale aporia perché si trattava di una questione su cui erano intervenuti diversi pensatori e diverse scuole. Su tale problematica si era continuato a indagare anche dopo Aristotele, di
modo che le posizioni a riguardo possono essere divise in quattro gruppi111.
1. La prima posizione è quella attribuita ai Platonici e a Plotino112, secondo i quali
tutte le qualità e tutte le realtà qualificate sono in grado di accogliere il più e il
meno, dal momento che ogni ente materiale lo è; la materia, infatti, a causa della
sua connaturata indeterminatezza, può sempre aumentare e diminuire.
2. La seconda posizione113 è contraria alla prima, ed è quella cui, secondo Porfirio e
Simplicio, fa riferimento lo Stagirita quando riporta che alcuni dubitano che la
giustizia ammetta una gradazione comparativa. Secondo tale posizione, alle qua108
Sorbi, Aristotele. La logica comparativa…, p. 146.
Questa regola, che si attribuisce a tutte le realtà che non accolgono la stessa definizione, vale, chiaramente, anche per le realtà che appartengono alla categoria della sostanza. Ad esempio,
un uomo non può essere detto più o meno cavallo rispetto ad un cane, in quanto né l’uomo né il
cane accolgono la definizione di cavallo e si ha, pertanto, un nonsense. Una comparazione risulta impossibile.
110 Cfr. Categorie 8, 10 b 32-33.
111 La presentazione di queste quattro posizioni si trova in Simplicio, In Cat., 284, 12 - 285, 8,
che riprende chiaramente Porfirio, In Cat., 137, 25 - 138. Cfr. anche Boezio, 257 B.
112 Cfr. Plotino, Enneadi VI, 3, 20-39. In realtà, in questo passo, mentre è chiaro che ammettono
il più e il meno le realtà che partecipano delle qualità, quindi i qualificati, la questioni è molto
più incerta per ciò che concerne le qualità stesse, come la “salute” e la “giustizia”. Cfr. Fleet,
Simplicius. On Aristotle Categories 7-8, pp. 182-183, n. 520.
113 Questa posizione, seconda in Simplicio, è invece presentata per terza da Porfirio.
109
181
lità non competono il più e il meno, e vede, dunque, sorgere un’aporia nel momento in cui si osserva che, mentre l’accrescimento e la riduzione non si hanno in
riferimento alle qualità stesse, questi hanno luogo in riferimento alle realtà qualificate.
3. La terza posizione ricordata da Simplicio è quella degli Stoici114, che distinguevano tra qualità che non crescono e non diminuiscono e che non ammettono il più
e il meno (›xij), come le virtù - e, di conseguenza, anche le realtà qualificate secondo tali quali qualità, anch’esse non suscettibili di più e di meno - e quelle che,
invece, li ammettono (di£qesij), come le conoscenze tecniche, e di conseguenza
tutte le realtà qualificate secondo tali quali qualità, anch’esse suscettibili di più e
di meno115.
4. La quarta posizione distingue tra qualità immateriali e separate e qualità materiali
e realtà qualificate, e sostiene che le prime non ammettono il più e il meno, le seconde, invece, li ammettono. Questa posizione si differenzia dalla prima in quanto quella non poneva la distinzione tra materialità e immaterialità qui decisiva116.
La posizione aristotelica prende le mosse dalla seconda posizione e offre una soluzione
all’aporia prime non distinguendo tra qualità e realtà qualificate. Le prime non ammettono il più e il meno in quanto possiedono interamente tutte le determinazioni che fanno
di esse quelle precise qualità che sono; le seconde, invece, partecipano in misura maggiore o minore delle qualità e sono suscettibili, quindi, di comparazione.
Dopo la trattazione della caratteristica di ammettere il più e il meno, in ogni caso, risulta chiaro che questa non è un proprium della qualità perché:
1. non tutte le realtà qualificate l’ammettono: si tratta, cioè, di una caratteristica che
non ricopre interamente e non coincide perfettamente con l’insieme delle realtà
sussunte sotto la categoria della qualità;
2. tale caratteristica appartiene anche ad altre categorie, quali quella dei relativi117 e
quella dell’agire e del patire118.
3.3. Terza caratteristica: la qualità si dice“simile” e “dissimile”
Nessuna delle caratteristiche precedenti costituisce una peculiarità esclusiva della
qualità; il fatto di essere detta “simile” e “dissimile”, invece, appartiene solo a questa
categoria, è un proprium.
114
Costituisce la seconda posizione nel testo di Porfirio.
Questa distinzione stoica fa capo ad una maggiore o minore perfezione attribuibile alle qualità. Una distinzione espressa anche a livello linguistico: mentre Aristotele ha usato i termini ›xij
e di£qesij per distinguere ciò che è duraturo e permanente (›xij) da ciò che è facile a rimuoversi (di£qesij), gli Stoici hanno mutuato questi stessi termini per distinguere le qualità più
perfette (›xij), e cioè le virtù, da quelle meno perfette (di£qesij), e cioè le conoscenze tecniche. Cfr. Strange, Porphyry. On Aristotle Categories…, p. 152, n. 486.
116 A questa quarta posizione Porfirio obietta che non esistono qualità immateriali, in quanto esse non sarebbero altro che sostanze.
117 Sul tema dell’ammissione del più e del meno in riferimento alla categoria dei relativi, si veda
Supra, pp. ***.
118 Sul tema dell’ammissione del più e del meno in riferimento alla categoria dell’agire e del patire, si veda Infra, pp. ***.
115
182
Una cosa, infatti, si dice simile a un’altra solamente per il fatto che è qualificata. Caratteristica propria della qualità, quindi, sarebbe che, in base ad essa, si dice il simile e il
dissimile119.
Il simile e il dissimile sono concetti peculiari ed esclusivi della qualità, proprio come
l’uguale e il disuguale lo sono della categoria della quantità, come è stato detto in Categorie 6120.
Aristotele accorda, nei libri della Metafisica, ampio spazio alla riflessione intorno ai
concetti di identico, uguale e simile, perché essi sono i diversi significati che l’uno, di
applicabilità trans-generica, e
[…] strettamente connesso a ciascuna delle categorie121,
«[…] assume nelle diverse categorie, cioè l’identico (uno nella sostanza),il simile (uno
nella qualità), l’uguale (uno nella quantità), ecc. Tutti questi concetti, afferma Aristotele, sono oggetto della scienza dell’ente in quanto ente, cioè della filosofia prima, perché
sono tutti attributi per sé dell’ente e dell’uno. Poi ci sono i loro contrari, cioè il contrario
dell’uno, che è il molteplice, dell’identico, che è il diverso, del simile, che è il dissimile,
dell’uguale, che è il disuguale, ecc. Anche questi concetti sono oggetto della scienza
dell’ente in quanto ente, perché i contrari sono sempre oggetto della stessa scienza»122.
All’uno appartengono - come spiegammo nella nostra Divisione dei contrari123 l’identico, il simile e l’uguale; al molteplice appartengono invece: il diverso, il dissimile e il disuguale124.
L’essere uno si declina in modo differente a seconda della categoria in cui si trova: nella
sostanza individua l’identità, nella quantità individua l’uguaglianza, nella qualità individua la somiglianza.
Lo stretto nesso che Aristotele pone tra il dirsi “simile” e “dissimile” e la categoria
della qualità è confermato dal fatto che è preponderante il riferimento a questa categoria
in relazione al concetto di “somiglianza” nei luoghi della Metafisica in cui viene illustrata tale nozione, in particolare Metafisica D 9, 1018 a 15-18 e Metafisica I 3, 1054 b
119
Categorie 8, 11 a 16-19.
Cfr. Categorie 6, 6 a 26-27. Cfr. anche Supra, pp. ***.
121 Metafisica I, 3, 1054 a 14-15. Pur essendo strettamente connesso, al pari dell’essere, a tutte
le categorie, non si esaurisce in nessuna di essa, proprio come l’essere.
122 Berti, Profilo di Aristotele…, p. 206.
123 Alessandro di Afrodisia, Commentario alla Metafisica di Aristotele, G 2 1003 b 32, p. 250,
13-20 Hayduck (= Testimonia Platonica, 39 B; cfr. K. Gaiser, Testimonia Platonica. Le antiche
testimonianze sulle dottrine non scritte di Platone, a cura di G. Reale con la collaborazione di
V. Cicero, Vita e Pensiero, Milano 1998), spiega come l’identico, il simile e l’uguale possano
essere riportati all’uno, mentre i loro contrari, il diverso, il dissimile e il disuguale possano essere riportati al molteplice, e aggiunge che, per conoscere come quasi tutti i contrari si riducano
come a loro principio all’uno e al molteplice, Aristotele rimanda alla Distinzione dei contrari
come all’opera in cui ha trattato dell’argomento, ma ne ha discusso anche nel secondo libro Intorno al Bene. Cfr. anche Alessandro di Afrodisia, Commentario alla Metafisica di Aristotele, G
2 1004 b 27 - 1005 a 2, p. 262, 18 ss. Hayduck (= Testimonia Platonica, 40 B Gaiser); PseudoAlessandro, Commentario alla Metafisica di Aristotele, I 3, 1054 a 29 Hayduck, (= Testimonia
Platonica, 41 B Gaiser). Sulla riconduzione di tutti i contrari all’uno e alla molteplicità, si veda
J.N. Findley, Plato. The Written and Unwritten Doctrines, Routledge & Keganpaul, London
1974, trad it. Platone. Le dottrine scritte e non scritte. Con una raccolta delle testimonianze antiche sulle dottrine non scritte, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 416-417.
124 Metafisica I, 3, 1054 a 29-32.
120
183
3-13125. In questi passi, vengono enumerati diversi significati di “simile”, la maggior
parte dei quali fa riferimento alle affezioni - che, come si è visto -, sono un tipo di qualità. Il nesso tra somiglianza e qualità raggiunge l’indissolubilità nel momento in cui Aristotele spiega che si dicono simili le realtà
[…] la cui qualità è identica (poiÒthj m…a)126.
Sorge, allora, il problema di scoprire in quale modo una qualità possa essere detta identica, la stessa, una sola (m…a). Stando ai modi in cui qualcosa può essere detto identico
riportati in Metafisica D 9, 1018 a 13-14, la qualità potrebbe esserlo per numero, per
specie, per genere o per analogia. Ora, di certo non potrà esserlo in quanto “categoria”,
e cioè in quanto genere sommo: se le realtà fossero dette simili solo in quanto ineriscono ad esse delle qualità, tutto sarebbe simile a tutto. Ma anche nel caso in cui la qualità
fosse la stessa per genere o per analogia, a causa dell’eccesso di ampiezza della comprensione, risulterebbe comunque difficile pensare a qualcosa che non sia simile, o, almeno, si tratterebbe di un livello di “somiglianza” molto vago. Stante il continuo slittamento tra i termini “specie” e “genere”127 cui Aristotele dà luogo soprattutto in questo
Capitolo delle Categorie, resta arduo tentare di dire se la qualità sia identica per genere
oppure no. Se considerassimo come generi della qualità i quattro gruppi sopra divisi: 1.
abiti e disposizioni, 2. attitudini e inattitudini naturali, 3. qualità affettive, 4. figure e
forme, dovremmo credere che qualsiasi realtà abbia un qualsiasi abito o una qualsiasi
forma e figura sia simile ad un’altra. In questa prospettiva, colui che ha la predisposizione a correre risulterebbe simile, ad esempio, all’individuo di salute cagionevole perché entrambi hanno un’attitudine naturale a fare o patire qualcosa. Si tratta di una maglia, atta a connettere le realtà, ancora molto ampia. E lo sarebbe ancora troppo se considerassimo simili le realtà che possiedono delle qualità identiche per sottogenere. Se
ogni corpo fosse simile ad un altro per il fatto di avere un colore (che costituisce una
specie dell’affezione), risulterebbero simili tutte le realtà estese, a prescindere dal loro
tipo di colore.
Simili risultano, invece, ad un livello più determinato, le realtà che possiedono una
qualità che è la stessa per specie, e cioè, ad esempio, quelle che
[…] hanno un’affezione che è una e identica per specie - per esempio il colore bianco -,
ma l’hanno in grado maggiore o minore: e tali cose sono dette simili appunto perché
una è la specie della loro affezione128.
In questo senso, «[…] si dicono simili ciò che è più bianco e ciò che è meno bianco»129,
a prescindere dalla loro sostanza. Ad esempio,
[…] l’oro è simile al fuoco in quanto è giallo e rosso130.
125
Non posso, in questa sede, presentare i diversi significati di “simile” che Aristotele illustra in
Metafisica D 9, 1018 a 15-18 e Metafisica I 3, 1054 b 3-13. Rimando, pertanto, agli studi analitici dei luoghi citati: Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale..., vol. III, p. 239, pp. 485-486; S.
Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica di Aristotele, vol. 3: Libri 9-12, PDUL Edizioni
Studio Domenicano, Bologna 2005, pp. 208-211.
126 Metafisica D 9, 1018 a 16-17.
127 Cfr. Supra, pp. ***.
128 Metafisica I 3, 1054 b 9-11.
129 S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica di Aristotele…, vol. 3: Libri 9-12, p. 211.
130 Metafisica I 3, 1054 b 13.
184
Nel risalire dalla qualità numericamente una alla specie fino al genere, passando per i
sottogeneri, assistiamo ad un incremento progressivo del livello di somiglianza che è
sempre inversamente proporzionale al livello di dissomiglianza (chiaramente in riferimento alla stessa qualità). Questi due concetti, essendo contrari, sono relativi e si richiamano, quindi, costantemente a vicenda; sono l’uno il negativo dell’altro. Poiché
Dissimili si dicono le cose nei sensi opposti a quelli del simile131,
risulteranno dissimili le realtà la cui qualità non è identica132, e non sarà identica, a sua
volta, per numero, per specie, per sottogenere, per genere, a seconda dei casi. La somiglianza e la dissomiglianza dipendono l’una dall’altra. Le realtà simili dal punto di vista
di una qualità identica solo per “genere” saranno dissimili per sottogenere, per specie e
per numero; il che significa che ci troviamo di fronte a una somiglianza molto debole,
surclassata da una presenza massiccia di dissomiglianza. Viceversa, le realtà simili dal
punto di vista di una qualità che è identica per specie risulteranno simili, a fortiori, anche per sottogenere e per genere, e la presenza di dissomiglianza sarà relegata solo alla
differenza numerica.
4. Alcune qualità sono anche dei relativi
Aristotele è perfettamente consapevole di aver incluso, nel corso della trattazione
della qualità, anche dei relativi all’interno di questa categoria. Per questa sua lucida coscienza, prende posizione a riguardo affermando che una tale inclusione non deve assolutamente turbarci.
Di fatto, nel corso della trattazione, sono stati sussunti sotto la qualità gli stati abituali e le disposizioni, che sono, chiaramente, dei relativi: lo stato abituale è sempre in riferimento a qualcosa, e la disposizione è sempre disposizione di qualcosa. Tale situazione,
agli occhi di Aristotele per nulla critica o contraddittoria, viene spiegata e risolta attraverso due prove133. Innanzitutto, si deve notare che non è sotto lo stesso rispetto che le
stesse realtà sono ascritte a due categorie diverse. Occorre operare una distinzione tra i
generi e i casi specifici, particolari, ascrivibili al genere: in generale, si può dire che i
primi (i generi) sono classificati sotto la categoria dei relativi, i secondi (i casi specifici)
sotto quella della qualità.
La prima prova che Aristotele adduce per dimostrare questo è che la scienza, ad esempio, che è un genere, è sempre scienza di qualcosa e va ascritta, quindi, alla categoria dei relativi; i singoli casi della scienza, invece, cioè le scienze specifiche, come la
grammatica, la musica, la geometria, non si dicono mai in relazione ad altro: non ha
senso parlare, ad esempio, di una grammatica di qualcosa (tinÕj grammatik¾) o di una
musica di qualcosa (tinÕj mousik»). Ha senso, piuttosto, operare il nesso opposto: se
consideriamo tali casi individuali di scienza in rapporto al loro genere, sarà del tutto
consono parlare della grammatica come “scienza di qualcosa” (tinÕj ™pist»mh), cioè
della normatività della lingua, e della musica come “scienza di qualcosa”, e cioè dei
suoni. Dunque, mentre i generi sono dei relativi, i casi particolari non lo sono mai, ma,
in tutti questi casi, si presentano come delle qualità, precisamente della prima delle
quattro tipologie elencate nel presente Capitolo.
131
Metafisica D 9, 1018 a 19.
Cfr. Metafisica D 9, 1018 a 16-17.
133 Cfr. Porfirio, In Cat., 91, 5 ss..
132
185
La seconda prova si basa sul fatto che ciascuno di noi viene detto qualificato in base
alle singole scienze non perché partecipa del genere della scienza, ma perché possiede
una specifica e particolare scienza: la grammatica, la musica o la geometria. Solo la determinazione particolare è in grado di qualificare un certo ente. E, dunque, ancora una
volta, le singole scienze, in base alle quali siamo detti qualificati, sono delle qualità, e
non dei relativi come i generi cui esse appartengono.
A queste due prove, Aristotele aggiunge una spiegazione ancora più radicale: se anche
[…] capitasse che la stessa cosa fosse sia una qualità sia un relativo, non sarebbe affatto
assurdo enumerarla in entrambi i generi134.
Non c’è nessun paradosso nel classificare sotto una categoria diversa quanto è stato già
sussunto sotto la categoria dei relativi, neppure se si trattasse della medesima cosa. Nel
nostro caso, tuttavia, mi sembra di poter dire che sono diversi gli aspetti e i punti di vista che riguardano la scienza intesa come genere e le singole conoscenze135.
La tassonomia aristotelica proposta in questa opera presenta delle maglie malleabili
ed elastiche che permettono, di volta in volta, un allargamento o un restringimento il cui
obiettivo è quello di riuscire a dare conto, nel migliore modo possibile, della realtà che
ci circonda. Ciò che interessa Aristotele non è certo la tenuta di un “modellino” teorico
da applicare al reale, quanto, al contrario, la ricerca di strumenti che permettano una
comprensione quanto più esaustiva possibile, quindi, di fatto, quasi sempre solo sufficiente. Mi sembra, pertanto, di poter dire che la trasversalità che caratterizza il fatto che
le diverse aree di applicazione delle categorie interferiscono non sia un limite della dottrina aristotelica136, quanto, piuttosto, una ricchezza.
134
Categorie 8, 11 a 37-38.
«[…] benché nulla vieti che la stessa cosa rientri in più categorie, non è questo il caso presente; per gli abiti e le disposizioni, appartengono alla relazione soltanto i generi, ma non le specie che sono quelle che danno luogo ad effettive qualificazioni» (Pesce, Aristotele. Le categorie…, p.81 n. 47).
136 In questo senso sembra andare la posizione di Maso, Aristotele, Categorie 8, 10 a 11 - 11 a
39. Forma, qualità, relativi…, p. 242 n. 23: «È peraltro chiaro che la “trasversalità” costituisce
un limite, stando all’impostazione gerarchico-classificatoria del sistema logico di Aristotele.
Questi infatti non ha provveduto a sviluppare una vera e propria Relationenlogik, cf. Oehler
1997, p. 324».
135
186
Capitolo Nono
L’agire e il patire
<. . . . . . . . . . . . . . . . . . .>
'Epidšcetai dO kaˆ tÕ poie‹n kaˆ p£scein ™nantiÒthta kaˆ tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton: tÕ g¦r qerma…nein tù yÚcein ™nant…on kaˆ tÕ qerma…nesqai tù yÚcesqai kaˆ
tÕ ¼desqai tù lupe‹sqai: éste ™pidšcetai ™nantiÒthta. kaˆ tÕ m©llon dO kaˆ tÕ
Âtton: qerma…nein g¦r m©llon kaˆ Âtton œsti, kaˆ qerma…nesqai m©llon kaˆ Âtton,
kaˆ lupe‹sqai m©llon kaˆ Âtton: ™pidšcetai oân tÕ m©llon kaˆ tÕ Âtton
tÕ poie‹n kaˆ tÕ p£scein.
<. . . . . . . . . . . . . . . . . . .>
[`UpOr mOn oân toÚtwn tosaàta lšgetai: e‡rhtai dO kaˆ ØpOr toà ke‹sqai ™n to‹j
prÒj ti, Óti parwnÚmwj ¢pÕ tîn qšsewn lšgetai. ØpOr dO tîn loipîn, toà te potO
kaˆ toà poÝ kaˆ toà œcein, di¦ tÕ profanÁ enai oÙdOn ØpOr aÙtîn ¥llo lšgetai À
Ósa ™n ¢rcÍ ™¸·»qh, Óti tÕ œcein mOn shma…nei tÕ Øpodedšsqai, tÕ æpl…sqai, tÕ dO
poÝ oŒon ™n Luke…J, kaˆ t¦ ¥lla dO Ósa ØpOr aÙtîn ™¸·»qh. - ØpOr mOn oân tîn
proteqšntwn genîn ƒkan¦ t¦ e„rhmšna: perˆ dO tîn ¢ntikeimšnwn, posacîj e‡wqe
¢ntit…qesqai, ·htšon.]
<. . . . . . . . . . . . . . . . . . .>
Anche l’agire e il patire accolgono i contrari e il più e il meno. Di fatti, il riscaldare è
contrario al raffreddare, l’essere riscaldato all’essere raffreddato, il provare piacere al
provare dolore. Di conseguenza, essi accolgono i contrari. E accolgono anche il più e il
meno. Infatti, è possibile riscaldare in misura maggiore o minore, e l’essere riscaldato in
misura maggiore o minore, e provare dolore in misura maggiore o minore. L’agire e il
patire, quindi, accolgono il più e il meno.
<. . . . . . . . . . . . . . . . . . .>
[Sulle categorie, quindi, è stato detto tutto ciò. Abbiamo parlato anche del giacere
nella trattazione dei relativi, affermando che si dice in modo paronimo a partire dalle
posizioni. Quanto alle categorie rimanenti - il tempo, il luogo e l’avere -, poiché sono
chiare, non si dirà null’altro su di esse se non ciò che è stato detto all’inizio: che l’avere
significa il calzare le scarpe, l’essere armato; il luogo, significa, ad esempio, nel Liceo,
e così via tutte le altre cose che sono state dette intorno a queste categorie].
Sommario
In questa sezione, Aristotele presenta le categorie dell’agire e del patire, espresse,
come si può vedere dagli esempi, dalle forme attive e passive del verbo. Due sono le
proprietà che vengono attribuite a tali categorie: 1. il possedere un contrario, 2.
l’ammettere il più e il meno. A questo punto, la trattazione sembra interrompersi in mo-
do brusco, per essere ripresa in un testo giudicato come un raccordo di un compilatore
posteriore e che, per tale inautenticità, gli editori moderni riportano tra parentesi quadre.
In questa parte, sono menzionate sommariamente le categorie del giacere (ke‹sqai), del
tempo (potO), del luogo (poÝ) e dell’avere (œcein), le quali vengono dichiarate così
chiare da non necessitare di una trattazione ulteriore.
1. Agire e patire, giacere, tempo, luogo, avere
Dopo aver trattato quattro dei dieci generi sommi enumerati all’inizio dell’opera, la
sostanza, la quantità, i relativi, la qualità, i quali hanno richiesto una trattazione ampia
e particolareggiata, Aristotele tratta, in questa sezione, dell’agire e del patire, e menziona brevemente le restanti quattro categorie: il giacere, il tempo, il luogo, l’avere. Secondo quanto scrive Simplicio, Aristotele avrebbe potuto parlare in maniera più diffusa delle restanti categorie, ma la sua breve trattazione, in un’opera che si presenta come
un’introduzione, è sufficiente a presentare il loro significato generale, esposto attraverso
degli esempi, in modo che gli studenti, esercitandosi a sussumere le cose sotto i generi
sommi corrispondenti, si rendessero conto essi stessi del funzionamento delle categorie1. La stessa esposizione attraverso esempi, tuttavia, potrebbe costituire, al contrario,
non un’introduzione, ma uno scritto che fungeva da strumento didattico utile a chi assisteva alle lezioni. Questa seconda ipotesi spiegherebbe, a mio avviso, il carattere fortemente ellittico di alcuni passaggi delle Categorie.
Il fatto che Aristotele non avesse bisogno di presentare, in questa opera, una trattazione maggiormente articolata intorno alle suddette categorie, è testimoniato anche dalle
analisi delle stesse che lo Stagirita inserisce in altri luoghi dei suoi scritti. Simplicio2 e
Porfirio3 sono concordi nell’attestare che delle categorie dell’agire e del patire si tratta
nel De Generatione et Corruptione4, e qualcuno ha persino ipotizzato che Aristotele abbia scritto un’opera specifica sull’agire e sul patire, essendo «difficile pensare che egli
le abbia voluto liquidare in così poche battute»5; della categoria del tempo e di quella
1
Simplicio, In Cat., 295, 6-10 ss. Cfr. Boezio, 261 C.
Simplicio, In Cat., 295, 10 ss.
3 Porfirio, In Cat., 141, 15 ss.
4 Cfr. De Generatione et Corruptione, I 7, 323 b 1 ss.
5 Si tratta di Trendelenburg, La dottrina delle categorie…, p. 221, il quale asserisce che diversi
indizi inducono a formulare l’ipotesi dell’esistenza di uno scritto aristotelico sull’agire e sul patire. In De Anima II 5, 416 b 35 - «Alcuni affermano che il simile patisce dal simile; abbiamo
già spiegato come questo sia possibile o impossibile nella trattazione generale (™n to‹j kaqÒlou lÒgoij) attorno all’agire e al patire (perˆ toà poie‹n kaˆ p£scein)» -, c’è un rimando a un
passo che, come detto poc’anzi, gli interpreti hanno additato in De Generatione et Corruptione I
7, 323 b 1. «Tuttavia, la medesima questione trattata nel luogo del De Anima viene qui discussa
in termini fisici senza che questi assumano quel carattere di universalità cui sembra alludere la
citazione» (Trendeleburg, La dottrina delle categorie…, p. 221). Anche De Generatione Animalium IV 3, 768 b 15 - «Di questo si è trattato nella trattazione specifica sull’agire e sul patire (™n
to‹j perˆ toà poie‹n kaˆ p£scein diwrismšnoij): a quali esseri appartengono l’agire e il patire» - sembra rimandare a uno scritto che, secondo Trendelenburg, avrebbe come titolo appunto:
Perˆ toà poie‹n kaˆ p£scein (Sull’agire e il patire); neppure in questo caso, infatti, secondo
lo studioso tedesco, potrebbe trattarsi del luogo suddetto del De Generatione et Corruptione in
quanto lì non si parla del tema cui qui si accenna. Inoltre, egli aggiunge che nel catalogo degli
2
188
del luogo si tratta nella Fisica6, e di tutte queste categorie si tratta anche nella Metafisica7.
Simplicio spiega l’ellitticità delle Categorie e l’analisi di alcuni concetti menzionati
in questa opera e trattati in altre con il fatto che, per quanto concerne l’espressione significante, i principi sono stati resi chiari in questo trattato logico che è costituito dalle
Categorie; per quanto riguarda, invece, gli oggetti significati, se ne ha un’appropriata
esposizione nella Metafisica8.
2. Caratteristiche dell’agire e del patire
Aristotele tratta insieme delle categorie dell’agire e del patire perché esse coesistono
nello stesso tempo, nel senso che dove esiste l’una esiste anche l’altra. Si tratta, in breve, di due categorie che vanno lette e comprese in coppia. In questo modo, inoltre, come
sottolineano Filopono e Simplicio, gli studenti avrebbero potuto comprendere che queste due categorie non si sarebbero dovute confinare in generi completamente separati e
senza possibilità di comunicare, ma erano così vicine da poter essere disposte anche tra i
relativi9.
Una tesi che trova consenziente la maggior parte degli studiosi è quella per cui Aristotele avrebbe ricavato le categorie dell’agire e del patire dalle forme attive e passive
del verbo, basandosi, dunque, sulla struttura linguistica del greco10. Una tesi che, persino nel momento in cui venisse evidentemente legittimata come vera, potrebbe illuminare il momento euristico della struttura categoriale da parte di Aristotele, ma non certo
pretendere di valutare il valore delle categorie riducendole a un piano meramente linguistico.
Il passo aristotelico riporta immediatamente, senza preamboli, le caratteristiche che
possono essere attribuite alle categorie dell’agire e del patire.
scritti aristotelici riportati da Diogene Laerzio, V, 22, viene menzionato il titolo Perˆ toà
poie‹n kaˆ peponqšnai.
6 Cfr. Fisica, 208 a 27 ss.
7 Cfr. Metafisica D 21, 1022 b 15 ss; 23, 1023 a 8 ss; H 6, 1045 b 26 ss; K 12, 1068 a 8 ss.
8 Cfr. Simplicio, In Cat., 295, 15.
9 Cfr. Filopono, In Cat., 165, 22 - 166, 26; Simplicio, In Cat., 261, 1 ss. Per testimoniare ulteriormente la possibilità di “slittamento” e “spostamento” delle diverse categorie, Simplicio aggiunge che un certo interprete, additato in Archita, ha, invece, collocato la categoria dell’avere e
quella del luogo prima di quelle dell’agire e del patire, con la motivazione che, siccome tutte le
cose che si muovono si muovono verso un determinato luogo, e poiché l’agire e il patire sono
dei movimenti in atto, allora il luogo, nel quale l’agire e il patire si danno, deve esistere prima di
essi. È seguendo Giamblico che Simplicio identifica tale interprete con il pitagoreo Archita (cfr.
R. Gaskin in Simplicius, On Aristotle Categories 9-15, Duckworth, London 2000, p, 190, n. 10).
In realtà, tuttavia, i testi cui Simplicio si riferisce come derivanti dal pitagorismo del secolo IV
risalirebbero, invece, a un trattato sulle categorie di origine peripatetica e risalente al I o II secolo d. C. Si veda P. Moraux, Der Aristotelismus bei den Griechen, vol. 2, De Gruyter, Berlin/New York 1984, pp. 608-623. Questo trattato, riportato in modo frammentario da Simplicio,
può essere letto in H. Thesleff, The Pythagorean Texts of the Hellenistic Period, Abo Akademi,
Abo 1965, e in T. Szlezáz, Pseudo-Architas über die Kategorien, Berlin/New York 1972.
10 Cfr, Oehler, Aristoteles Kategorien…, p. 267. Così anche Pesce, Aristotele, Categorie…, p.
83: «Le categorie del fare e del patire sono evidentemente ricavate, come chiariscono gli esempi, dalle forme attive e passive del verbo».
189
2.1. Prima caratteristica: l’agire e il patire ammettono contrari (Categorie 9, 11 b 14)
Riscaldare (tÕ qerma…nein) e raffreddare (tÕ yÚcein) sono contrari ed entrambi appartengono alla categoria dell’agire; essere riscaldato (tÕ qerma…nesqai) è contrario a
essere raffreddato (tù yÚcesqai), ed entrambi appartengono alla categoria del patire,
come anche il provare piacere (tÕ ¼desqai) è contrario al provare dolore (tù
lupe‹sqai).
È stato osservato come, in questo caso, Aristotele sembri esprimersi in modo piuttosto frettoloso, senza curarsi nemmeno di aggiungere la riserva che non si tratta di un carattere comune, attribuibile a tutti gli elementi sussumibili sotto le categorie dell’agire e
del patire11. La caratteristica si adatta, infatti, agli esempi qui riportati, ma non al tagliare e al bruciare e all’essere tagliato e all’essere bruciato che pure Aristotele adduce in
Categorie 2 a 3-4 per illustrare le categorie dell’agire e del patire. In quei casi, infatti,
risulta difficile, se non impossibile, pensare a dei contrari12. L’attribuzione della proprietà di accogliere i contrari all’agire e al patire, come riportata nel passo di Categorie
11 b 1-4, sembra, pertanto, estendere alle intere categorie una caratteristica che appartiene solamente ad alcune specie di esse. L’accogliere i contrari non solo non appartiene
in modo esclusivo all’agire e al patire, ma non appartiene neppure a tutti i casi inclusi in
queste due categorie13. A quali casi sussunti sotto le due categorie appartiene, allora, la
proprietà di accogliere i contrari? Gli esempi addotti da Aristotele sembrano far riferimento a verbi che si riportano ad aggettivi qualificativi, e precisamente alle coppie: caldo/freddo, piacevole/doloroso e, come sappiamo da Categorie 8, le qualità ammettono
contrari14.
2.2. Seconda caratteristica: l’agire e il patire ammettono il più e il meno (Categorie 9,
11 b 4-8)
Per illustrare questa seconda caratteristica dell’agire e del patire, Aristotele riprende
gli stessi esempi portati in riferimento alla prima proprietà. È possibile riscaldare (qerma…nein) in misura maggiore o minore, essere riscaldati (qerma…nesqai) in misura
maggiore o minore, e provare dolore (lupe‹sqai) in misura maggiore o minore.
11
Cfr. Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 83.
«Si potrebbe forse obiettare che contrario del tagliare è cucire, o unire, e che contrario
dell’essere tagliato è essere cucito od essere unito; ma, propriamente, queste determinazioni esprimono la contrarietà del tagliare e dell’essere tagliato non già nella specificità caratteristica
delle nozioni che tali verbi indicano, bensì nella genericità della valenza del “separare” che appartiene anche ad altri verbi: ad esempio, a “squartare”, “recidere”, “segare”, “dividere”, ecc. ed
ai relativi passivi» (Zanatta, Aristotele, Categorie…, p. 635)
13 Cfr. Simplicio, In Cat., 296, 30 ss. Il parlare, lo scrivere e il costruire, ad esempio, pur appartenendo alla categoria dell’agire, non si trovano mai in uno stato di contrarietà rispetto a qualcosa.
14 Cfr. Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 83: «[…] gli esempi addotti in questo capitolo […] sono scelti tra verbi che si riportano ad aggettivi qualificativi (alle coppie caldo-freddo e piacevole-doloroso) che, come sappiamo, ammettono e contrarietà e più e meno».
12
190
3. L’agire e il patire e la categoria della qualità
Per comprendere meglio il rapporto tra l’agire e il patire e la categoria della qualità, è
utile seguire la spiegazione di Simplicio15. La categoria dell’agire esprime
un’operazione, mentre la categoria del patire esprime un’affezione (p£qoj), non, però,
in riferimento al carattere della passione (pe‹sij) - dal momento che questa è una qualità -, ma rispetto al movimento della passione (pe‹sij). Simplicio afferma che Aristotele
omette tale spiegazione in quanto si tratta dell’ovvia concezione di questa coppia di categorie. Le contrarietà degli esempi addotti da Aristotele si costituiscono in conformità
con delle qualità contrarie (ad esempio, la qualità caldo è contraria alla qualità freddo);
e poiché dai contrari seguono contrari, ne discende che: 1. la contrarietà avrà luogo nella
categoria dell’agire, qualora l’agire sia costituito come operazione di quei generi che
ammettono contrarietà; 2. se la contrarietà ha luogo nella categoria dell’agire, lo avrà
anche in quella del patire, perché ciò che viene operato dall’agente è ciò che viene patito
dal paziente. L’azione dunque ha una duplice valenza: ci sono azioni che hanno il proprio contrario nel patire, come nel caso del riscaldare - l’elemento che scalda scalda la
cosa scaldata -; altre, invece, sono assolute, come nel caso del costruire, del parlare e
dello scrivere, nei quali non sussiste uno stato di contrarietà. I contrari, dunque, non sono il segno distintivo dell’agire e del patire, ma appartengono solo a quegli elementi
che, in riferimento all’operazione o all’affezione, possono essere annoverati tra le cose
che accolgono contrarietà.
2. Seconda proprietà: L’agire e il patire ammettono il più e il meno (Categorie, 11 b
4-8). Infatti, è possibile riscaldare ed essere riscaldati, o raffreddare ed essere raffreddati, in misura maggiore o minore, dal momento che il più e il meno è nelle qualità stesse
del caldo e del freddo16. Anche nel caso di questa caratteristica, dunque, le categorie del
fare e del patire non la posseggono in sé, ma, per così dire, in maniera derivata, per il
fatto che ammettono il più e il meno le qualità cui i verbi fanno riferimento.
4. L’agire e il patire in Metafisica D 15
Il passo delle Categorie in cui Aristotele tratta dell’agire e del patire appare in disaccordo con quanto si legge in Metafisica D 15. Qui, infatti, lo Stagirita presenta un tipo di
relazione che ricorda da vicino il rapporto che si instaura tra l’azione e la passione lette
nelle Categorie.
Scrive Aristotele in Metafisica D 15, 1020 b 26-30:
In un altro senso, si dicono relative le cose che stanno fra loro come ciò che può riscaldare rispetto a ciò che può essere riscaldato, o ciò che può tagliare rispetto a ciò che
può essere tagliato e, in generale, l’agente (tÕ poihtikÕn) rispetto al paziente (tÕ paqhtikÒn).
e ancora in Metafisica D 15, 1021 a 14-26:
L’attivo (t¦ poihtik¦) e il passivo (t¦ paqhik¦) sono fra loro in relazione secondo la
potenza attiva e la potenza passiva (kat¦ dÚnamin poihtik¾n kaˆ pawhtik¾n) e le
attualità di queste: per esempio, ciò che può riscaldare (tÕ qermantikÕn) è in relazione
a ciò che può essere riscaldato secondo la potenza, mentre, a sua volta, ciò che riscalda
15
16
Cfr. Simplicio, In Cat., 296, 10 ss.
Cfr. Simplicio, In Cat., 297, 1 ss.; Filopono, In Cat., 166, 33 - 167, 9.
191
(tÕ qerma‹on) è in relazione a ciò che è riscaldato (tÕ qermainÒmeon) e ciò che taglia è
in relazione a ciò che è tagliato secondo l’atto.
Confrontando le due trattazioni, possiamo notare due discrepanze, di cui l’una immediata, l’altra conseguente alla prima. 1. L’agire e il patire, che nel nostro scritto vengono
presentate come due diverse categorie, qui sono comprese nella stessa categoria, quella
della relazione. Fu forse per la discrepanza tra questi testi della Metafisica e quello delle
Categorie che già nell’antichità fu sollevata la questione sul perché l’agire e il patire
fossero due categorie distinte e non cadessero, piuttosto, entrambe sotto l’unica categoria della relazione17. 2. Poiché Aristotele mostra come i relativi non possano presentare
contrarietà18, in quanto relativi e contrari sono due tipi diversi di opposizione che non
possono identificarsi19, affermando che l’agire e il patire sono dei relativi, si asserisce,
di conseguenza, che essi non possano ammettere contrari, il che è in contraddizione con
quanto espresso in Categorie, 11 b 1-4. Ora, «che delle medesime determinazioni siano
indicate come esempi della proprietà del fare e del patire di ammettere la contrarietà e
siano anche annoverate sotto un’altra categoria che esclude assolutamente tale rapporto,
costituisce indubbiamente una difficoltà»20.
Prima di tutto, si potrebbe obiettare che, nel testo della Metafisica, si fa riferimento
alle nozioni di potenza e atto, che non sono presenti nella nostra opera. Questo fatto non
basta a giustificare, tuttavia, l’incongruenza dei due testi perché la relatività degli esempi addotti da Aristotele risulta anche a prescindere dai chiarimenti che la dottrina della
potenza e dell’atto comporta. La «relazione, come si vede, non deve limitarsi alla potenza e al suo oggetto, ma deve estendersi egualmente all’agire e al patire effettuali»21. Un
relativo è tale nella misura in cui il suo essere coincide con lo stare in un determinato
rapporto rispetto a qualcos’altro, ed è conoscibile nella misura in cui si conosce in che
tipo di rapporto esso sta rispetto a ciò cui si riferisce22. Seguendo tale ragionamento,
l’agire e il patire risultano essere dei relativi, in quanto ciò che agisce agisce su qualcosa, e l’agire si riferisce a ciò che subisce, e per conoscere in modo determinato ciò che
agisce in quanto, appunto, agente, si deve conoscere in modo determinato ciò che subisce l’azione23.
È, in ogni caso, impossibile sussumere totalmente l’agire e il patire sotto la categoria
dei relativi. L’essere dell’agire e del patire non consiste nella relazione che intercorre
tra l’uno e l’altro elemento. Non si può, infatti, ridurre il loro essere a una mera relazione, come fossero la destra e la sinistra. C’è qualcosa di addizionale che sopraggiunge
nell’essere grazie ad essi, in riferimento al quale un componente si caratterizza come
agente, e l’altro come paziente. Simplicio spiega il rapporto che intercorre tra i relativi e
l’agire affermando che, in generale, l’agire si dice in riferimento a un agente, a qualcosa
che opera, ma non ogni operazione si dice in relazione a qualcosa che patisce. Ci sono,
infatti, delle azioni per così dire “assolute”, come parlare, correre, leggere, che non possono in alcun modo essere messe in relazione a qualcosa che patisce e che quindi non
possono cadere sotto la categoria dei relativi. Si potrebbe obiettare che, al camminare
dell’uomo, il terreno subisce dei mutamenti; ma non è per questo fatto che il camminare
17
Cfr. Simplicio, In Cat., 299, 1 ss.
Cfr. Categorie 7, 6 b 15.
19 Cfr. Categorie 6, 5 b 10; Categorie 10, 11 b 32 ss.
20 Zanatta, Aristotele, Categorie…, p. 637.
21 Trendeleburg, Dottrina delle categorie…, p. 222.
22 Cfr. Categorie 7, 8 a 31-37.
23 Cfr. Apostle, Aristotle’s Categories and Propositions (De Interpretatione)…, p. 87.
18
192
viene considerato un “agire”, ma in virtù del movimento che esso rappresenta; similmente, il patire dolore o il diventare nero o bianco sono considerati casi del patire non in
virtù della loro relazione con gli agenti che provocano questi stati, ma in virtù del modo
in cui essi si presentano24. Come ben spiega Filopono, infatti, l’agire e il patire hanno
luogo grazie a un sostrato comune che è il movimento, mentre i relativi hanno bisogno
di almeno due soggetti, i relata implicati nella relazione25. Può accadere che qualche agire e qualche patire coinvolgano due o più soggetti, ma si tratta di un fatto accidentale
e non essenziale; ragione per cui l’agire e il patire non possono essere fatti completamente coincidere con la relazione.
L’agire (tÕ poie‹n) e il patire (tÕ p£scein), in sé e per sé considerati, nella loro assolutezza, e non come proprietà di una determinata cosa, costituiscono due generi completamente separati, e, in quanto tali, sono giustamente presentati da Aristotele come due
distinte categorie. Ma ciò che vale per i generi e per le nozioni concettuali assolute di
agire e patire non è detto che valga, senza modificazioni, per le specie e per le singole
determinazioni del fare o del patire26. Quest’ultime, infatti, possono essere, per così dire, suddivise in due gruppi:
1. le determinazioni assolute, come parlare, correre, leggere, che:
1.1. non possono essere messe in relazione a qualcosa che patisce e che quindi non
possono cadere sotto la categoria dei relativi;
1.2. che neppure possono avere dei contrari o ammettere il più e il meno (perché o si
parla oppure non si parla, e tertium non datur, non ci possono essere delle gradazioni come per il riscaldare o il raffreddare, lo schiarire e lo scurire);
2. le determinazioni non assolute:
2.1. relative, come le coppie riscaldare/essere riscaldato, tagliare/essere tagliato e, in
generale, agente/paziente;
2.2. le determinazioni derivanti da aggettivi qualificativi (alle coppie caldo/freddo,
piacevole-doloroso) che ammettono sia la contrarietà sia il più e il meno.
Il primo gruppo è, per così dire, dato per scontato, poiché incluso già nel fatto che le
categorie dell’agire e del patire sono separate e assolute: per questo Aristotele non ne
presenta degli esempi in Categorie 9, semplicemente perché non ve ne è bisogno; ed è
ovvio che non rientra nella trattazione di Metafisica D 15, dedicata ai relativi, perché
non costituisce nessun tipo di relazione. Il secondo gruppo, invece, è ciò che deve essere
spiegato perché questo tipo di determinazioni, pur appartenendo a due distinte categorie,
hanno in qualche modo dei punti di contatto e, dunque, ammettono delle relazioni, e non
sono assolute, ma ammettono contrarietà e il più e il meno. A questo secondo gruppo
appartengono quelle azioni che possono essere riportate ad aggettivi qualificativi (alle
coppie caldo/freddo, piacevole-doloroso) che ammettono sia la contrarietà sia il più e il
meno, e quelle azioni che possono essere sussunte sotto i relativi, come le coppie riscaldare/essere riscaldato, tagliare/essere tagliato. Ora, poiché questo secondo gruppo deve
24
Trendelenburg riporta come definitivo il commento di Simplicio attorno alla problematica.
Cfr. Trendelenburg, Dottrina delle categorie…, p. 222: «Simplicio […] ha affermato che l’agire
e il patire, concepiti ciascuno per sé, non sono implicati in una semplice relazione. L’agire produrrebbe qualcosa; nella fattispecie, ci sarebbero attività che si limitano al soggetto, per esempio
“camminare”, “correre” (peripate‹n, tršcein). Infine, un concetto potrebbe in generale cadere
sotto la relazione senza che la stessa cosa accada per le sue specie, come per esempio nel caso di
scienza e di grammatica (™pist»mh e grammatik»)».
25 Cfr. Filopono, In Cat., 165, 22 - 166, 26.
26 Cfr. Zanatta, Aristotele, Categorie…, pp. 638-639.
193
rientrare all’interno delle categorie di agire e patire, occorre che queste abbiano la facoltà di ammettere la contrarietà e il più e il meno, che è quanto Aristotele afferma, il che
non vuol dire che queste due caratteristiche siano sempre presenti necessariamente in
tutti i casi come qualità essenziali dell’agire e del patire. Questo è dimostrato anche dal
fatto che il Filosofo non attribuisce, alle due categorie, la contrarietà e il più e il meno
simpliciter, ma adduce degli esempi che riguardano sia il caso dell’operazione sia il caso dell’affezione, e gli esempi che Aristotele sceglie non sono certo casuali, ma i più
appropriati alle categorie di cui sta trattando27.
Quanto alla caratteristica della contrarietà, la contraddizione prima rilevata non sussiste, perché non è sotto il medesimo rispetto che il riscaldare, che è un agire, ad esempio, è relativo e contrario; esso è contrario al raffreddare, anch’esso un agire, ed è relativo a essere raffreddato, che è invece un patire. Il testo delle Categorie e quello della
Metafisica trattano, pertanto, di due tipi di rapporto ben diversi28. In altri termini, la
contrarietà e il più e il meno si trovano all’interno della stessa categoria che si sta prendendo in considerazione, all’interno, cioè, dell’agire o del patire: il riscaldare, che è un
agire, è contrario al raffreddare, che è anch’esso un agire, e ci si può riscaldare in misura maggiore o minore. La relazione, invece, così come presentata in Metafisica 15, ha
luogo solamente nel rapporto tra una determinazione appartenente all’agire, il riscaldare, e una appartenente al patire, l’essere riscaldato.
Che, nel caso delle categorie, si parli di nozioni in sé e per sé considerate, nella loro
assolutezza, e non come proprietà di una determinata cosa e che, invece, nel caso degli
esempi riportati sia nel testo delle Categorie sia in quello della Metafisica, si tratti le
singole determinazioni del fare o del patire, delle singole operazioni e affezioni, è dimostrato anche linguisticamente dai termini che Aristotele utilizza: nel primo caso, fa uso
dell’infinito sostantivato (tÕ poie‹n; tÕ p£scein); nel secondo caso, fa uso di participi e
aggettivi verbali (poioàn; p£scon; poihtikÒn; paqhtikÒn).
Inoltre, l’opposizione che fa dell’agire e del patire in sé considerati due categorie diverse viene superata negli esempi pratici di azioni e passioni, operazioni e affezioni, che
Aristotele in altri luoghi delle sue opere. In De Anima II 5, 416 b 32 - 417 b 6, ad esempio, si dice che la percezione è un patire e che essa non sarebbe possibile senza l’azione
esercitata da un oggetto esterno; tale patire non è altro che un progresso verso la vera
natura della percezione stessa, verso la propria entelechia29. In un certo senso, dunque,
qui l’affezione e l’atto si intersecano30. In De Anima III 2, 426 a 9, l’azione e la passione
vengono presentate in un rapporto ancora più stretto, tanto che esse coesistono nel paziente e in ciò che viene realizzato:
L’azione (po…hsij) e la passione (p£qhsij) si trovano in ciò che subisce (™ tù
p£sconti)
e il rapporto è ancor più radicalizzato in Fisica III 3, 202 b 11-14:
27
Simplicio, In Cat., 299, 30 ss. accetta qui la risposta di Giamblico.
Cfr. Zanatta, Aristotele, Categorie…, p. 639.
29 Cfr. De Anima, II 5, 417 b 6: e„j aØtÕ g¦r ¹ ™p…dosij kaˆ e„j ™ntelšceian.
30 «[…] l’alterazione e, con ciò, il patire, si rivelano soltanto un progresso verso la vera natura
della percezione stessa: patendo, infatti, la percezione raggiunge il suo proprio fine e la sua propria essenza. La vista, per esempio, patisce a partire dai colori che vede, ma, mentre patisce, realizza appunto la sua essenza. Nel cuore del patire, in altre parole, è qui presente un agire».
(Trendelengurg, Dottrina delle categorie…, p. 228).
28
194
[…] l’agire (tÕ poie‹n) e il patire (tÕ p£scein) sono la stessa cosa (tÕ aÙtÒ ™sti), non
perché sia unica la definizione che esprime la loro essenza […], ma perché sono in
rapporto tra loro come la strada che da Tebe porta ad Atene, e da Atene porta a Tebe.
In questi passi è evidente come «La realtà dell’agire e del patire si manifesta nella stessa
cosa, e precisamente in ciò che viene realizzato. […] come da Tebe ad Atene e da Atene
a Tebe la strada è la stessa, sebbene le due cose siano diverse secondo il concetto, allo
stesso modo agire e patire, sebbene differenti, vengono a coincidere.
Nell’apprendimento l’agire del maestro e il patire del discepolo si fondono in unità.
Nell’atto dell’udito si manifesta la realtà del suono agente e dell’udito ricettivo (paziente)»31.
L’agire e il patire, dunque, in sé considerati, come categorie, sono due cose distinte e
separate; considerati, invece, fenomenicamente in termini fisici, possono addirittura venire a coincidere nella stessa cosa. Per tale motivo, nel dare conto della realtà, risulta
molto difficile poter offrire una sussunzione esclusiva e definitiva rispetto alla categoria
corrispondente. Tuttavia, per non rinunciare alla sussunzione e, dunque, a una classificazione dell’essere, Aristotele quasi “estremizza” le differenze tra i due concetti facendone due categorie bene distinte32. Il Filosofo assume due diversi punti di vista: sul piano della formalizzazione ontologica, l’agire e il patire costituiscono due categorie distinte; sul piano fisico-fenomenico, essi non possono essere radicalmente distinti. E, infatti,
come spiega Aristotele stesso in Fisica III 3, 202 b 16-22, dal fatto che, a livello fenomenico, l’azione e la passione coesistano in una realtà, quella di ciò che subisce, non
segue che, eo ipso, l’imparare si identifichi, a livello concettuale, con l’insegnare o che
percorrere il tragitto da Tebe ad Atene sia lo stesso che percorrerlo da Atene a Tebe:
Se ciò che si insegna (d…daxij) si identifica con ciò che si impara (maq»sei), non vuol
dire che anche l’imparare (tÕ manq£nein) si identifichi con l’insegnare (tù
did£skein), come, se anche la distanza che separa due oggetti sia unica, non vuol dire
che il trovarsi in una estremità o in un’altra della distanza stessa sia la stessa cosa. In
generale, in senso proprio (kur…wj), l’insegnamento è identico all’apprendimento né
l’apprendimento all’insegnamento, né l’azione (po…hsij) alla passione (p£qesij), ma a
ciò cui queste cose appartengono, il movimento. Secondo il ragionamento (tù lÒgw),
infatti, l’essere l’atto di qualcosa su qualcos’altro differisce dall’essere atto di qualcosa
da parte di qualcos’altro.
5. Collocazione della trattazione
Molti commentatori riportano, come intestazione del presente capitolo delle Categorie, la titolazione Sull’agire e sul patire, titolazione che, come anche per tutti gli altri titoli delle sezioni, secondo Simplicio33, non è presente nel testo aristotelico. Di opinione
contraria è, invece, Filopono34, il quale attribuisce il titolo ad Aristotele stesso.
I commentatori antichi si sono interrogati sulla posizione della trattazione dell’agire e
del patire rispetto alle altre categorie, e a essi, in particolare a Filopono e a Simplicio, è
31
Trendelengurg, Dottrina delle categorie…, p. 228.
Trendelengurg, Dottrina delle categorie…, p. 229.
33 Cfr, Simplicio, In Cat., 208, 5. Sulla trattazione delle categorie dell’agire e del patire da parte
di Simplicio, si veda N. Vamvoukakis, Les catégories aristotéliciennes d’action et de passion
vues par Simplicius, in P. Aubenque (ed.), Concepts et catégories dans la pensée antique, Paris
1980, pp. 253-269.
34 Cfr. Filopono, In Cat., 166, 31-32.
32
195
sembrato che la collocazione migliore sia stata quella immediatamente successiva
all’esposizione della qualità in quanto l’agire e il patire esistono in riferimento alla qualità di qualcosa35. L’agire, tuttavia, sembra esistere anche in riferimento alla sostanza,
come, ad esempio, nel caso del generare e del costruire edifici36, ma anche in riferimento alla quantità, come, ad esempio, nel caso del contare, e, infine, in riferimento alla relazione, poiché l’agire e il patire stessi sono dei relativi37. Di conseguenza, come auspica Simplicio, sarebbe più appropriato affermare che la trattazione dell’agire e del patire
trova collocazione immediatamente dopo quelle delle prime quattro categorie perché intrinsecamente connesse ad esse, in quanto costituiscono l’™nšrgeia, l’azione, e il p£qoj,
l’affezione, che si attribuisce a una realtà soggiacente (Ûparxij)38. Simplicio aggiunge
una motivazione ulteriore rispetto a quella riportata anche da Filopono, quella per cui le
categorie precedentemente trattate possono riferirsi sia alle realtà corporee sia a quelle
incorporee, mentre l’agire e il patire e i generi successivi si attribuiscono esclusivamente alle realtà che hanno un corpo39. A mio avviso, occorre specificare che il problema
dell’ordine assegnato alle diverse trattazioni interne alle Categorie, però, ha senso solo
se si assume che Aristotele abbia scritto un trattato con il fine di pubblicarlo. La nostra
opera, al contrario, si presenta come uno strumento didattico assemblato non secondo il
criterio della perfetta esposizione e divulgazione, ma come una sorta di “dizionario”
consultabile, in cui l’ordine della trattazione non ha molto peso.
35 Questa motivazione si trova in Filopono, In Cat., 163, 24 - 164, 5 e in Simplicio, In Cat., 295,
15 ss.
36 Il riferimento alla categoria della sostanza, di per sé, non è decisivo perché, come già letto nel
Capitolo 5, tutte le categorie devono la loro esistenza al rapporto con la sostanza. Se non esistesse la sostanza, sarebbe impossibile che esistesse alcunché. Lo stesso concetto si trova ripetuto nella Metafisica. Cfr. Metafisica L 5, 1071 a 2: «senza le sostanze non possono esistere neppure le affezioni né i movimenti delle sostanze»; Metafisica Z 1, 1028 a 22-24: «nessuno [dei
predicati] […] esiste per sé, né può essere separato dalla sostanza» (corsivo mio); Metafisica L
1, 1069 a 24: «Nessuna delle altre categorie si può separare dalla sostanza».
37 Anche questa motivazione è presente in Filopono, In Cat., 165, 22-25, e in Simplicio, In Cat.,
295, 18-22.
38 Cfr. Simplicio, In Cat., 295, 20 ss.
39 Cfr. Simplicio, In Cat., 295, 25. Per quanto riguarda la sostanza, potrebbe essere riferita alle
realtà corporee nel caso della sostanza prima, in quanto questa, essendo un sinolo, è sempre dotata di un corpo; potrebbe essere riferita alle realtà incorporee nel caso delle sostanze seconde
oppure alla sostanza intesa come forma e come sostanza separata e soprasensibile, così come
presentate, rispettivamente, in Metafisica Z (si veda, in particolare, Metafisica Z 8, 1033 b 5-7;
si veda anche Metafisica L 8, 1017 b 23-26: «[…] sostanza si dice […] ciò che, essendo un
qualcosa di determinato (tÒde ti), può anche essere separato (cwristÕn), e tale è la struttura
(morf¾) o la forma (e doj) di ciascuna cosa (˜k£stou)») e in Metafisica L. Per quanto riguarda
la quantità, ci si potrebbe riferire alle realtà corporee nel caso della linea, della superficie e del
solido, alle realtà incorporee, invece, nel caso del numero e del discorso. Per quanto riguarda i
relativi, ci si potrebbe riferire alle realtà corporee nel caso dell’ala/alato, del timone/timonato
etc., alle realtà incorporee, invece, nel caso dell’abito, della scienza etc. Per quanto riguarda, infine, la qualità, ci si potrebbe riferire alle realtà corporee nel caso delle qualità affettive e delle
affezioni (dolcezza, amarezza, caldo, freddo, bianchezza, nerezza), alle realtà incorporee, invece, nel caso dell’abito (ne sono esempi la scienza e la virtù) e della disposizione.
196
6. Le ultime quattro categorie: essere in una posizione (ke‹sqai), avere
(œcein), dove (poÝ), quando (potO)
6.1. L’essere in una posizione (tÕ ke‹sqai)
Per quanto riguarda la categoria dell’essere in una posizione, Aristotele rimanda il
lettore a quanto detto precedentemente nella trattazione dei relativi, in cui si affermava
che il giacere si dice in modo paronimo a partire dalle posizioni. La posizione (qšsij) è
sempre posizione di qualcosa, e cioè della cosa che si trova in una certa posizione, ed è,
pertanto, un relativo. L’essere in una posizione, invece, in sé e per sé considerato, deriva
la propria denominazione in modo paronimo dalle diverse posizioni, ma si trova in una
categoria diversa, a sé stante, che non è quella dei relativi40. Negli esempi che illustrano
l’essere in una posizione, tutti espressi mediante verbi intransitivi all’infinito - “stare
supino” (¢nake‹sqai), “stare eretto” (˜st£nai), “stare seduto” (kaqÁsqai) - esso viene
assunto come l’universale, il genere, sotto il quale vengono sussunte le rispettive forme
specifiche, le singole posizioni determinate - la supina (¢n£klisij), l’eretta (st£sij),
la seduta (kaqšdra) -, le quali cadono sotto la relazione. In questo senso, il rapporto che
si instaura tra la categorie dello stare in una posizione e le singole posizioni è simile a
quello che intercorre tra le categorie dell’agire e del patire e le singole operazioni e affezioni41.
6.2. Il dove (poÝ), il quando (potO), l’avere (tÕ œcein)
Delle restanti categorie - il quando, il dove e l’avere -, Aristotele afferma che, poiché
sono chiare, non si dirà null’altro su di esse se non ciò che è stato detto all’inizio, e cioè
nella sezione 442: che, cioè, tempo è, ad esempio, ieri, l’anno scorso; il luogo è, ad esempio, nel Liceo; l’avere è, ad esempio, il calzare le scarpe, l’essere armato.
Per quanto riguarda le categorie del dove e del quando, Aristotele non aggiunge
null’altro oltre agli esempi riportati. Potrebbe, tuttavia, essere interessante osservare
quanto viene detto da Porfirio e Giamblico, riletti da Simplicio43. I due commentatori
antichi affermano che le categorie del dove e del quando non sono delle categorie “primarie”, ma, come nel caso dei relativi, sopraggiungono in cose già esistenti44.
La categoria del dove non coincide con lo spazio. Si potrebbe dire che lo spazio ha
un’esistenza anteriore rispetto a quella del dove: solo nel momento in cui qualcosa è in
uno spazio, possiamo dire che sia in un qualche “dove”. La categoria del “dove” ammette, al suo interno, delle differenze; si può distinguere, infatti, tra un “dove” indefinito,
40
Cfr. Categorie, 6 b 11-14.
«Come dunque i concetti di agente e paziente (poioàn; p£scon), di attivo e passivo (poihtikÒn; paqhtikÒn) cadevano sotto la relazione (prÒj ti), e tuttavia agire e patire (tÕ poie‹n e tÕ
p£scein), considerati per se stessi, costituivano categorie proprie, allo stesso modo le posizioni
(qšseij), le quali appartengono alla relazione, si rapportano allo stare in una certa posizione
(ke‹sqai)» (Trendelenburg, Dottrina delle categorie…, pp. 231-232).
42 Cfr. Categorie 4, 2 a 1-3.
43 Due sono i commentari di Porfirio sulle Categorie di Aristotele, uno dei quali, dedicato a Gedalio, è andato perduto, l’altro è parzialmente sopravvissuto, e la parte che ci è rimasta si ferma
proprio nel punto in cui si inizia a discutere il punto che riportano Simplicio, In Cat., 297, 28 ss.
e Boezio, 262 D - 263 A. Il commentario di Giamblico è andato interamente perduto.
44 Sulla dipendenza delle categorie del dove e del quando da categorie primarie, si veda anche
Filopono, In Cat., 163, 4 - 164, 5; Ammonio, In Cat., 92, 6-12.
41
197
come, ad esempio, in città, e tra un “dove” che assume un grado di progressiva determinatezza, come, ad esempio, nel Portico o in questa precisa parte del Portico. Similmente, la categoria del quando non coincide con il tempo. Si potrebbe dire che il tempo ha
un’esistenza anteriore rispetto a quella del quando, in quanto solo di ciò che è nel tempo
si dice che ha un “quando”, come “l’anno scorso”, “quest’anno” o “il prossimo anno”. Il
tempo stesso, invece, come anche lo spazio, non si trova nella categoria del “quando”,
ma in quella della quantità. La categoria del quando ammette delle differentiae di tempo: infatti, “lo scorso anno” si dice in riferimento al tempo passato, “questo anno” si dice in riferimento al tempo presente, e “il prossimo anno” si dice in riferimento al tempo
futuro45.
La categoria dell’avere verrà ripresa e trattata in Categorie 15, in cui saranno analizzati i diversi modi in cui l’avere si dice. L’avere esprime il possesso di determinate cose
acquisite: essere vestito significa avere addosso degli indumenti, essere calzato significa
avere delle scarpe ai piedi. Queste cose non si identificano con il loro possessore, nel
senso che non appartengono alla sostanza, né possono essere identificate con gli accidenti della sostanza, quali il colore degli occhi. Si tratta di un “possesso” di altro che
forma una categoria a sé, che è appunto l’avere46.
All’interno della categoria dell’avere, si possono avere delle divisioni che dipendono
dalla natura delle cose possedute, le quali possono essere, ad esempio, animate, come
schiavi domestici o buoi, oppure inanimate, come, ad esempio, mantello e armi47. Porfirio e Giamblico ammettono, inoltre, che ci possano essere anche delle divisioni interne
alla categoria dell’avere, a seconda che questo riguardi il corpo oppure l’anima. Simplicio, tuttavia, si chiede se possa davvero esistere un avere che riguardi l’anima. Gli stati
acquisiti dall’anima, infatti, potrebbero essere non un avere o un possesso, ma, piuttosto, delle qualità; gli stati mentali, infatti, non sono collocati, per così dire, spazialmente
nell’anima come l’indumento sul corpo e le scarpe ai piedi, ma sono condizioni che “alterano” l’anima con la possibilità di diverse gradazioni (ammettendo, cioè, il più e il
meno), come il corpo riceve il bianco e il nero, e non come esso ha un mantello o delle
armi48.
45
Cfr. Filopono, In Cat., 164, 22-23.
Cfr. Simplicio, In Cat., 298, 10 ss.
47 Cfr. Simplicio, In Cat., 298, 15 ss.
48 Cfr. Simplicio, In Cat., 298, 20 ss.
46
198
Sezione Decima
Gli opposti
[ØpOr mOn oân tîn proteqšntwn genîn ƒkan¦ t¦ e„rhmšna: perˆ dO tîn
¢ntikeimšnwn, posacîj e‡wqe ¢ntit…qesqai, ·htšon.]
Lšgetai dè ›teron ˜tšrJ ¢ntike‹sqai tetracîj, À æj t¦ prÒj ti, À æj t¦
™nant…a, À æj stšrhsij kaˆ ›xij, À æj kat£fasij kaˆ ¢pÒfasij. ¢nt…keitai dO
›kaston tîn toioÚtwn, æj tÚpJ e„pe‹n, æj mOn t¦ prÒj ti oŒon tÕ dipl£sion tù
¹m…sei, æj dO t¦ ™nant…a oŒon tÕ kakÕn tù ¢gaqù, æj dO kat¦ stšrhsin kaˆ ›xin
oŒon tuflÒthj kaˆ Ôyij, æj dO kat£fasij kaˆ ¢pÒfasij oŒon k£qhtai - oÙ
k£qhtai.
“Osa mOn oân æj t¦ prÒj ti ¢nt…keitai aÙt¦ ¤per ™stˆ tîn ¢ntikeimšnwn
lšgetai À Ðpwsoàn ¥llwj prÕj aÙt£: oŒon tÕ dipl£sion toà ¹m…seoj aÙtÕ Óper
™stˆ dipl£sion lšgetai: kaˆ ¹ ™pist»mh dO tù ™pisthtù æj t¦ prÒj ti
¢nt…keitai, kaˆ lšgeta… ge ¹ ™pist»mh aÙtÕ Óper ™stˆ toà ™pisthtoà: kaˆ tÕ
™pisthtÕn dO aÙtÕ Óper ™stˆ prÕj tÕ ¢ntike…menon lšgetai t¾n ™pist»mhn: tÕ g¦r
™pisthtÕn tinˆ lšgetai ™pisthtÕn tÍ ™pist»mV.
“Osa oân ¢nt…keitai æj t¦ prÒj ti aÙt¦ ¤per ™stˆ tîn ¢ntikeimšnwn À
Ðpwsd»pote prÕj ¥llhla lšgetai: t¦ dO æj t¦ ™nant…a, aÙt¦ mOn ¤per ™stˆn
oÙdamîj prÕj ¥llhla lšgetai, ™nant…a mšntoi ¢ll»lwn lšgetai: oÜte g¦r tÕ
¢gaqÕn toà kakoà lšgetai ¢gaqÒn, ¢ll' ™nant…on, oÜte tÕ leukÕn toà mšlanoj
leukÒn, ¢ll' ™nant…on. éste diafšrousin aátai aƒ ¢ntiqšseij ¢ll»lwn. - Ósa dO
tîn ™nant…wn toiaàt£ ™stin (12 a) éste ™n oŒj pšfuke g…gnesqai À ïn kathgore‹tai ¢nagka‹on aÙtîn q£teron Øp£rcein, toÚtwn oÙdšn ™stin ¢n¦ mšson:
[ïn dš ge m¾ ¢nagka‹on q£teron Øp£rcein, toÚtwn œsti ti ¢n¦ mšson p£ntwj.]
oŒon nÒsoj kaˆ Øg…eia ™n sèmati zóou pšfuke g…gnesqai, kaˆ ¢nagka‹Òn ge
q£teron Øp£rcein tù toà zóou sèmati À nÒson À Øg…eian: kaˆ perittÕn dO kaˆ
¥rtion ¢riqmoà kathgore‹tai, kaˆ ¢nagka‹Òn ge q£teron tù ¢riqmù Øp£rcein À
perittÕn À ¥rtion: kaˆ oÙk œsti ge toÚtwn oÙdOn ¢n¦ mšson, oÜte nÒsou kaˆ
Øgie…aj oÜte perittoà kaˆ ¢rt…ou. Ïn dš ge m¾ ¢nagka‹on q£teron Øp£rcein,
toÚtwn œsti ti ¢n¦ mšson: oŒon mšlan kaˆ leukÕn ™n sèmati pšfuke g…gnesqai,
kaˆ oÙk ¢nagka‹Òn ge q£teron aÙtîn Øp£rcein tù sèmati, - oÙ g¦r p©n ½toi
leukÕn À mšlan ™st…n: - kaˆ faàlon dO kaˆ spouda‹on kathgore‹tai mOn kaˆ
kat' ¢nqrèpou kaˆ kat' ¥llwn pollîn, oÙk ¢nagka‹on dO q£teron aÙtîn
Øp£rcein ™ke…noij ïn kathgore‹tai: oÙ g¦r p£nta ½toi faàla À spouda‹£ ™stin.
kaˆ œsti gš ti toÚtwn ¢n¦ mšson, oŒon toà mOn leukoà kaˆ toà mšlanoj tÕ faiÕn
kaˆ çcrÕn kaˆ Ósa ¥lla crèmata, toà dO faÚlou kaˆ toà spouda…ou tÕ oÜte
faàlon oÜte spouda‹on. ™p' ™n…wn mOn oân ÑnÒmata ke‹tai to‹j ¢n¦ mšson, oŒon
leukoà kaˆ mšlanoj tÕ faiÕn kaˆ çcrÒn: ™p' ™n…wn dOÑnÒmati mOn oÙk eÜporon
tÕ ¢n¦ mšson ¢podoànai, tÍ dO˜katšrou tîn ¥krwn ¢pof£sei tÕ ¢n¦ mšson
Ðr…zetai, oŒon tÕ oÜte ¢gaqÕn oÜte kakÕn kaˆ oÜte d…kaion oÜte ¥dikon.
Stšrhsij dO kaˆ ›xij lšgetai mOn perˆ taÙtÒn ti, oŒon ¹ Ôyij kaˆ ¹ tuflÒthj
perˆ ÑfqalmÒn: kaqÒlou dO e„pe‹n, ™n ú pšfuken ¹ ›xij g…gnesqai, perˆ toàto
lšgetai ˜k£teron aÙtîn. ™sterÁsqai dO tÒte lšgomen ›kaston tîn tÁj ›xewj
dektikîn, Ótan ™n ú pšfuken Øp£rcein kaˆ Óte pšfuken œcein mhdamîj Øp£rcV:
nwdÒn te g¦r lšgomen oÙ tÕ m¾ œcon ÑdÒntaj, kaˆ tuflÕn oÙ tÕ m¾ œcon Ôyin,
¢ll¦ tÕ m¾ œcon Óte pšfuken œcein: tin¦ g¦r ™k genetÁj oÜte Ôyin oÜte ÑdÒntaj
œcei, ¢ll' oÙ lšgetai nwd¦ oÙdO tufl£. tÕ dO ™sterÁsqai kaˆ tÕ œcein t¾n ›xin
oÙk œsti stšrhsij kaˆ ›xij: ›xij mOn g£r ™stin ¹ Ôyij, stšrhsij dO ¹ tuflÒthj,
tÕ dO œcein t¾n Ôyin oÙk œstin Ôyij, oÙdO tÕ tuflÕn enai tuflÒthj: stšrhsij
g£r tij ¹ tuflÒthj ™st…n, tÕ dO tuflÕn enai ™sterÁsqai, oÙ stšrhs…j ™stin. œti
e„ Ãn ¹ tuflÒthj taÙtÕn tù tuflÕn enai, kathgore‹to ¨n ¢mfÒtera kat¦ toà
aÙtoà: ¢ll¦ tuflÕj mOn lšgetai Ð ¥nqrwpoj, tuflÒthj dO Ð ¥nqrwpoj oÙdamîj
lšgetai. ¢ntike‹sqai dO kaˆ taàta doke‹, tÕ ™sterÁsqai kaˆ tÕ t¾n ›xin œcein æj
stšrhsij kaˆ ›xij: Ð g¦r trÒpoj tÁj ¢ntiqšsewj Ð aÙtÒj: æj g¦r ¹ tuflÒthj tÍ
Ôyei ¢nt…keitai, oÛtw kaˆ tÕ tuflÕn enai tù Ôyin œcein ¢nt…keitai. [oÙk œsti
dO oÙdO tÕ ØpÕ t¾n kat£fasin kaˆ ¢pÒfasin kat£fasij kaˆ ¢pÒfasij: ¹ mOn
g¦r kat£fasij lÒgoj ™stˆ katafatikÕj kaˆ ¹ ¢pÒfasij lÒgoj ¢pofatikÒj, tîn
dO ØpÕ t¾n kat£fasin À ¢pÒfasin oÙdšn ™sti lÒgoj. lšgetai dO kaˆ taàta
¢ntike‹sqai ¢ll»loij æj kat£fasij kaˆ ¢pÒfasij: kaˆ g¦r ™pˆ toÚtwn Ð trÒpoj
tÁj ¢ntiqšsewj Ð aÙtÒj: æj g£r pote ¹ kat£fasij prÕj t¾n ¢pÒfasin
¢nt…keitai, oŒon tÕ k£qhtai - oÙ k£qhtai, oÛtw kaˆ tÕ Øf' ˜k£teron pr©gma
¢nt…keitai, tÕ kaqÁsqai - m¾ kaqÁsqai.] - Óti dO ¹ stšrhsij kaˆ ¹ ›xij oÙk
¢nt…keitai æj t¦ prÒj ti, fanerÒn: oÙ g¦r lšgetai aÙtÕ Óper ™stˆ toà
¢ntikeimšnou: ¹ g¦r Ôyij oÙk œsti tuflÒthtoj Ôyij, oÙd' ¥llwj oÙdamîj prÕj
aÙtÕ lšgetai: æsaÚtwj dO oÙdO ¹ tuflÒthj lšgoit' ¨n tuflÒthj Ôyewj, ¢ll¦
stšrhsij mOn Ôyewj ¹ tuflÒthj lšgetai, tuflÒthj dO Ôyewj oÙ lšgetai. œti t¦
prÒj ti p£nta prÕj ¢ntistršfonta lšgetai, éste kaˆ ¹ tuflÒthj e‡per Ãn tîn
prÒj ti, ¢ntšstrefen ¨n k¢ke‹no prÕj Ö lšgetai: ¢ll' oÙk ¢ntistršfei: oÙ g¦r
lšgetai ¹ Ôyij tuflÒthtoj Ôyij.
“Oti dO oÙd' æj t¦ ™nant…a ¢nt…keitai t¦ kat¦ stšrhsin legÒmena kaˆ ›xin ™k
tînde dÁlon. tîn mOn g¦r ™nant…wn, ïn mhdšn ™stin ¢n¦ mšson, ¢nagka‹on, ™n
oŒj pšfuke g…gnesqai À ïn kathgore‹tai, q£teron aÙtîn Øp£rcein ¢e…: toÚtwn
g¦r oÙdOn Ãn ¢n¦ mšson, ïn q£teron ¢nagka‹on Ãn tù dektikù Øp£rcein, oŒon
™pˆ nÒsou kaˆ Øgie…aj kaˆ perittoà kaˆ ¢rt…ou: ïn dO œsti ti ¢n¦ mšson,
oÙdšpote ¢n£gkh pantˆ Øp£rcein q£teron: oÜte g¦r leukÕn À mšlan ¢n£gkh p©n
enai tÕ dektikÒn, oÜte qermÕn À yucrÒn, - toÚtwn g¦r ¢n¦ mšson ti oÙdOn
kwlÚei Øp£rcein: - œti dO kaˆ toÚtwn Ãn ti ¢n¦ mšson ïn m¾ ¢nagka‹on Ãn
q£teron Øp£rcein tù dektikù, e„ m¾ oŒj fÚsei tÕ ān Øp£rcei, oŒon tù purˆ tÕ
qermù enai kaˆ tÍ ciÒni tÕ leukÍ: ™pˆ dOtoÚtwn ¢fwrismšnwj ¢nagka‹on
q£teron Øp£rcein, kaˆ oÙc ÐpÒteron œtucen: oÙ g¦r ™ndšcetai tÕ pàr yucrÕn
enai oÙdO t¾n ciÒna mšlainan: - éste pantˆ mOn oÙk ¢n£gkh (13 a) tù dektikù
q£teron aÙtîn Øp£rcein, ¢ll¦ mÒnon oŒj fÚsei tÕ ān Øp£rcei, kaˆ toÚtoij
¢fwrismšnwj tÕ ān kaˆ oÙc ÐpÒteron œtucen. ™pˆ dO tÁj ster»sewj kaˆ tÁj
›xewj oÙdšteron tîn e„rhmšnwn ¢lhqšj: oÙdO g¦r ¢eˆ tù dektikù ¢nagka‹on
q£teron aÙtîn Øp£rcein, - tÕ g¦r m»pw pefukÕj Ôyin œcein oÜte tuflÕn oÜte
Ôyin œcein lšgetai, éste oÙk ¨n e‡h taàta tîn toioÚtwn ™nant…wn ïn oÙdšn
™stin ¢n¦ mšson: ¢ll' oÙdO ïn ti œstin ¢n¦ mšson: ¢nagka‹on g£r pote pantˆ tù
dektikù q£teron aÙtîn Øp£rcein: Ótan g¦r ½dh pefukÕj Ï œcein Ôyin, tÒte À
tuflÕn À œcon Ôyin ·hq»setai, kaˆ toÚtwn oÙk ¢fwrismšnwj q£teron, ¢ll'
ÐpÒteron œtucen,- oÙ g¦r ¢nagka‹on À tuflÕn À Ôyin œcon enai, ¢ll' ÐpÒteron
œtucen: - ™pˆ dš ge tîn ™nant…wn, ïn œstin ¢n¦ mšson ti, oÙdšpote ¢nagka‹on Ãn
200
pantˆ q£teron Øp£rcein, ¢ll¦ tis…n, kaˆ toÚtoij ¢fwrismšnwj tÕ ›n. éste
dÁlon Óti kat' oÙdšteron tîn trÒpwn æj t¦ ™nant…a ¢nt…keitai t¦ kat¦
stšrhsin kaˆ ›xin ¢ntike…mena. œti ™pˆ mOn tîn ™nant…wn Øp£rcontoj toà dektikoà dunatÕn e„j ¥llhla metabol¾n genšsqai, e„ m» tini fÚsei tÕ ān Øp£rcei,
oŒon tù purˆ tÕ qermù enai: kaˆ g¦r tÕ Øgia‹non dunatÕn nosÁsai kaˆ tÕ
leukÕn mšlan genšsqai kaˆ tÕ yucrÕn qermÒn, kaˆ ™k spouda…ou ge faàlon kaˆ
™k faÚlou spouda‹on dunatÕn genšsqai: - Ð g¦r faàloj e„j belt…ouj diatrib¦j
¢gÒmenoj kaˆ lÒgouj k¨n mikrÒn gš ti ™pido…h e„j tÕ belt…w enai: ™¦n dO ¤pax
k¨n mikr¦n ™p…dosin l£bV, fanerÕn Óti À tele…wj ¨n metab£loi À p£nu poll¾n
¨n ™p…dosin l£boi: ¢eˆ g¦r eÙkinhtÒteroj prÕj ¢ret¾n g…gnetai, k¨n ¹ntinoàn
™p…dosin e„lhfëj ™x ¢rcÁj Ï, éste kaˆ ple…w e„kÕj ™p…dosin lamb£nein: kaˆ
toàto ¢eˆ gignÒmenon tele…wj e„j t¾n ™nant…an ›xin ¢pokaq…sthsin, ™£nper m¾
crÒnJ ™xe…rghtai: - ™pˆ dš ge tÁj ster»sewj kaˆ tÁj ›xewj ¢dÚnaton e„j ¥llhla
metabol¾n genšsqai: ¢pÕ mOn g¦r tÁj ›xewj ™pˆ t¾n stšrhsin g…gnetai metabol»,
¢pÕ dO tÁj ster»sewj ™pˆ t¾n ›xin ¢dÚnaton: oÜte g¦r tuflÕj genÒmenÒj tij
p£lin œbleyen, oÜte falakrÕj ín kom»thj ™gšneto, oÜte nwdÕj ín ÑdÒntaj œfusen.
“Osa dO æj kat£fasij kaˆ ¢pÒfasij ¢nt…keitai, fanerÕn Óti kat' oÙdšna tîn
e„rhmšnwn trÒpwn ¢nt…keitai: ™pˆ mÒnwn g¦r toÚtwn ¢nagka‹on ¢eˆ tÕ mOn
¢lhqOj tÕ dO yeàdoj aÙtîn enai. oÜte g¦r ™pˆ tîn ™nant…wn ¢nagka‹on ¢eˆ
q£teron mOn ¢lhqOj enai q£teron dO yeàdoj, oÜte ™pˆ tîn prÒj ti, oÜte ™pˆ tÁj
›xewj kaˆ ster»sewj: oŒon Øg…eia kaˆ nÒsoj ™nant…a, kaˆ oÙdšterÒn ge oÜte
¢lhqOj oÜte yeàdÒj ™stin: æsaÚtwj dO kaˆ tÕ dipl£sion kaˆ tÕ ¼misu æj t¦
prÒj ti ¢nt…keitai, kaˆ oÙk œstin aÙtîn oÙdšteron oÜte ¢lhqOj oÜte yeàdoj:
oÙdš ge t¦ kat¦ stšrhsin kaˆ ›xin, oŒon ¹ Ôyij kaˆ ¹ tuflÒthj: Ólwj dO tîn
kat¦ mhdem…an sumplok¾n legomšnwn oÙdOn oÜte ¢lhqOj oÜte yeàdÒj ™stin:
p£nta dO t¦ e„rhmšna ¥neu sumplokÁj lšgetai. oÙ m¾n ¢ll¦ m£lista dÒxeien
¨n tÕ toioàto sumba…nein ™pˆ tîn kat¦ sumplok¾n ™nant…wn legomšnwn, - tÕ
g¦r Øgia…nein Swkr£th tù nose‹n Swkr£th ™nant…on ™st…n, - ¢ll' oÙd' ™pˆ
toÚtwn ¢nagka‹on ¢eˆ q£teron mOn ¢lhqOj q£teron dO yeàdoj enai: Ôntoj mOn
g¦r Swkr£touj œstai tÕ mOn ¢lhqOj tÕ dO yeàdoj, m¾ Ôntoj dO ¢mfÒtera yeudÁ:
oÜte g¦r tÕ nose‹n Swkr£th oÜte tÕ Øgia…nein ¢lhqOj aÙtoà m¾ Ôntoj Ólwj toà
Swkr£touj. ™pˆ dO tÁj ster»sewj kaˆ tÁj ›xewj m¾ Ôntoj ge Ólwj oÙdšteron
¢lhqšj, Ôntoj dO oÙk ¢eˆ q£teron ¢lhqšj: tÕ g¦r Ôyin œcein Swkr£th tù tuflÕn
enai Swkr£th ¢nt…keitai æj stšrhsij kaˆ ›xij, kaˆ Ôntoj ge oÙk ¢nagka‹on
q£teron ¢lhqOj enai À yeàdoj, - Óte g¦r m»pw pšfuken œcein, ¢mfÒtera yeudÁ,
- m¾ Ôntoj dO Ólwj toà Swkr£touj kaˆ oÛtw yeudÁ ¢mfÒtera, kaˆ tÕ Ôyin
aÙtÕn œcein kaˆ tÕ tuflÕn enai. ™pˆ dš ge tÁj kataf£sewj kaˆ tÁj ¢pof£sewj
¢e…, ™£n te Ï ™£n te m¾ Ï, tÕ mOn ›teron œstai yeàdoj tÕ dO ›teron ¢lhqšj: tÕ
g¦r nose‹n Swkr£th kaˆ tÕ m¾ nose‹n Swkr£th, Ôntoj te aÙtoà fanerÕn Óti tÕ
›teron aÙtîn ¢lhqOj À yeàdoj, kaˆ m¾ Ôntoj Ðmo…wj: tÕ mOn g¦r nose‹n m¾ Ôntoj
yeàdoj, tÕ dO m¾ nose‹n ¢lhqšj: éste ™pˆ mÒnwn toÚtwn ‡dion ¨n e‡h tÕ ¢eˆ
q£teron aÙtîn ¢lhqOj À yeàdoj enai, Ósa æj kat£fasij kaˆ ¢pÒfasij
¢nt…keitai.
[Sui generi che ci eravamo proposti sono sufficienti le cose che sono state dette. Occorre, invece, trattare degli opposti, e dire in quanti modi solitamente si pone
l’opposizione].
201
Si dice che una cosa si oppone a un’altra in quattro modi: 1) come i relativi, 2) come
i contrari, 3) come la privazione e il possesso, 4) come l’affermazione e la negazione.
Ognuno di questi casi dà luogo all’opposizione, per dare un’idea, 1) come il doppio si
oppone al mezzo per i relativi, 2) come il male si oppone al bene per i contrari, 3) come
la cecità si oppone alla vista per la privazione e il possesso, 4) e come è seduto e non è
seduto per l’affermazione e la negazione.
1) Tutte le cose che si oppongono come i relativi si dicono ciò che sono in sé degli
opposti o in qualsiasi altro modo, ma sempre in relazione ad essi: il doppio, ad esempio,
si dice ciò che è in sé, e cioè doppio, del mezzo; e anche la scienza si oppone allo scibile
al modo dei relativi, e la scienza si dice ciò che è, appunto, dello scibile, e anche lo scibile si dice ciò che è in relazione al suo opposto, la scienza, poiché lo scibile si dice tale
grazie a qualcosa, cioè la scienza. Le cose che si oppongono come i relativi, quindi, si
dicono ciò che sono dei loro opposti o in qualsiasi altro modo, ma sempre in relazione
gli uni agli altri.
2) Le cose che si oppongono come i contrari, invece, non si dicono in nessun modo
le une in relazione alle altre, ma si dicono, appunto, le une contrarie alle altre. Infatti il
buono non si dice buono del cattivo, ma contrario al cattivo, né il bianco si dice bianco
del nero, ma contrario al nero. Di conseguenza, queste opposizioni sono diverse le une
dalle altre.
2.1 Tra tutti i contrari tali che l’uno o l’altro appartiene alle cose nelle quali essi si
generano per natura o di cui si predicano, non c’è nulla di intermedio. [Invece, tra quelli
dei quali non è necessario che l’uno o l’altro vi appartenga, c’è certamente qualcosa di
intermedio]. La malattia e la salute, ad esempio, si generano per natura nel corpo di un
animale, ed è necessario che l’una o l’altra, la malattia o la salute, appartenga al corpo
dell’animale. E il dispari e il pari si predicano del numero, ed è necessario che l’uno o
l’altro, il dispari o il pari, appartenga al numero. E tra questi, appunto, non c’è nulla di
intermedio, né tra la malattia e la salute, né tra il dispari e il pari.
2.2 Invece, tra i contrari dei quali non è necessario che l’uno o l’altro appartenga alla
cosa, c’è qualcosa di intermedio: il nero e il bianco, ad esempio, si generano per natura
in un corpo, e non è necessario che l’uno o l’altro appartenga al corpo - non ogni cosa,
infatti, è o bianca o nera. E cattivo e virtuoso si predicano sia di uomo sia di molte altre
cose, ma non è necessario che l’uno o l’altro di essi appartenga alle cose di cui si predicano. Non tutte le cose, infatti, sono o cattive o virtuose. E tra queste c’è, appunto, qualcosa di intermedio: tra il bianco e il nero, ad esempio, ci sono il grigio, il giallo e tutti
gli altri colori, tra il cattivo e il virtuoso c’è ciò che non è né cattivo né virtuoso. In alcuni casi, ci sono dei nomi per gli intermedi, come, ad esempio, tra il bianco e il nero ci
sono il grigio e il giallo; in alcuni casi, tuttavia, non è comodo attribuire un nome al
termine intermedio, ma ciò che è intermedio viene determinato attraverso la negazione
di ciascuno degli estremi: ad esempio, ciò che non è né buono né cattivo, e ciò che non è
né giusto né ingiusto.
3) Privazione e possesso si dicono in riferimento a una medesima cosa, come, per esempio, la vista e la cecità in riferimento all’occhio. Per dirla in generale, ciò in cui si
genera per natura il possesso è anche ciò di cui si dice ognuno di questi (la privazione e
il possesso). Di ciascuna delle cose capaci di accogliere il possesso, diciamo che è privata qualora il possesso non sussista in alcun modo nella cosa in cui sussiste per natura
e nel tempo in cui la possiede per natura. E infatti chiamiamo sdentato non ciò che non
ha denti, e cieco non ciò che non ha la vista, ma ciò che non li ha mentre, per natura,
202
dovrebbe averli. Alcuni esseri, infatti, non hanno vista né denti alla nascita, ma non si
dicono sdentati né ciechi.
L’essere privato e l’avere il possesso non sono privazione e possesso. Possesso, infatti, è la vista e privazione la cecità, ma l’avere la vista non è la vista, né l’essere cieco
è la cecità. La cecità, infatti, è una certa privazione, mentre l’essere cieco è essere privato, non è una privazione. Inoltre, se la cecità fosse la stessa cosa che l’essere cieco, entrambi si predicherebbero della stessa cosa. E invece, l’uomo si dice cieco, ma in nessun
modo l’uomo si dice cecità. Sembra, tuttavia, che anche questi - l’essere privato e
l’avere possesso - si oppongano come privazione e possesso, poiché il modo di opporsi
è lo stesso. Come, infatti, la cecità si oppone alla vista, così anche l’essere cieco si oppone all’avere la vista. D’altra parte, neppure il contenuto dell’affermazione e della negazione si identifica con l’affermazione e la negazione, dal momento che l’affermazione
è un discorso affermativo e la negazione un discorso negativo, mentre ciò che sta sotto
l’affermazione o la negazione non è affatto un discorso. Eppure, anche questi si dicono
opporsi l’uno all’altro al modo dell’affermazione e della negazione. Infatti, il modo di
opporsi in questi due casi è lo stesso. Infatti, come talora l’affermazione si oppone alla
negazione, ad esempio sta seduto - non sta seduto, così si oppone anche il contenuto di
ciascuna di esse, lo stare seduto - il non stare seduto.
Che, poi, la privazione e il possesso non si oppongano al modo dei relativi, risulta
chiaro dal fatto che ciò che sono non lo si dice del loro opposto. La vista, infatti, non è
vista della cecità, né si dice in altro modo in relazione ad essa. Similmente, la cecità non
potrebbe dirsi cecità della vista; piuttosto la cecità si dice privazione della vista, e non
cecità della vista. Inoltre, i relativi si dicono in relazione a dei convertibili di modo che,
se anche la cecità rientrasse tra i relativi, ciò in relazione a cui si dice dovrebbe potersi
convertire; ma non si converte: la vista, infatti, non si dice vista della cecità.
Che le cose che si dicono secondo la privazione e il possesso non si oppongono neppure al modo dei contrari risulterà, poi, chiaro dai seguenti argomenti. Dei contrari tra i
quali non c’è nessun intermedio, è necessario che l’uno o l’altro di essi sussista sempre
nelle cose in cui si genera per natura o di cui si predica, poiché nulla è intermedio ai
contrari di cui è necessario che l’uno o l’altro sussista in ciò che è capace di riceverlo,
come nel caso della malattia e della salute, e nel caso del dispari e del pari. Nel caso dei
contrari tra cui non ci sono intermedi, invece, non è mai necessario che l’uno o l’altro
sussista in tutto: non è infatti necessario che tutto ciò che sia capace di riceverli sia o
bianco o nero, né caldo o freddo, dal momento che, tra questi estremi, nulla impedisce
che ci siano intermedi. Inoltre, avevamo detto che c’era qualcosa di intermedio tra quei
contrari di cui non era necessario che l’uno o l’altro di essi appartenesse a ciò che era
capace di riceverli, a meno che l’uno non gli appartenga per natura: ad esempio, al fuoco l’essere caldo e alla neve l’essere bianca. In questi casi, è necessario che uno determinato dei due contrari sussista, e non quello dei due che dovesse capitare, poiché è impossibile che il fuoco sia freddo e che la neve sia nera. Di conseguenza, non è necessario che l’uno o l’altro dei contrari sussista in ciò che è capace di accoglierli, ma uno solo
vi sussiste per natura, e uno determinato dei due, non quello che capiti.
Nel caso della privazione e del possesso, tuttavia, non risulta vera nessuna delle cose
che abbiamo detto. Non è, infatti, necessario che l’uno o l’altro di essi sussista sempre
in ciò che è capace di accoglierli - ciò che non possiede ancora la vista per natura, infatti, non si dice cieco, né ciò che non ha denti si dice sdentato -; di conseguenza, queste
cose non fanno parte di quei contrari tra i quali non c’è nulla di intermedio. E nemmeno
di quelli tra i quali c’è qualcosa di intermedio, poiché talora è necessario che l’uno o
203
l’altro di essi sussista in ciò che è capace di riceverlo: nel momento in cui, infatti, è ormai naturale possedere la vista, allora si dirà o cieco o che possiede la vista, e non un
determinato caso dei due, ma quello dei due che capiti; non è, infatti, necessario che o
sia cieco o possieda la vista, ma quello dei due che capiti. Quanto, invece, ai contrari tra
i quali si ha qualcosa di intermedio, risultava che non è in nessun caso necessario che
l’uno o l’altro sussista in tutto, ma solo in alcune cose, e, in queste, uno determinato dei
due. Di conseguenza, è chiaro che le cose che si oppongono secondo la privazione e il
possesso non si oppongono in nessuno dei due modi in cui si oppongono i contrari.
Inoltre, nel caso dei contrari, se sussiste ciò che è capace di accoglierli, è possibile
che si verifichi un cambiamento dall’uno all’altro, qualora non gliene appartenga uno
per natura come al fuoco appartiene l’essere caldo. Ciò che è sano, infatti, può ammalarsi, il bianco può diventare nero, il freddo caldo, e da retti si può diventare malvagi e
da malvagi retti. L’individuo malvagio, infatti, se guidato verso occupazioni e discorsi
migliori, progredirebbe, anche se a piccoli passi, verso l’essere migliore. E se anche
conseguisse una sola volta un piccolo progresso, sarebbe chiaro che potrebbe cambiare
completamente o conseguire un progresso ancora più grande. Diventa, infatti, sempre
più facile dirigersi verso la virtù, qualunque sia stato il progresso che aveva conseguito
all’inizio; di conseguenza, è logico che conseguirà un progresso anche maggiore. E se
questo avviene sempre, si muterà completamente nello stato abituale contrario, a meno
che non gli venga precluso dal tempo. Quanto alla privazione e al possesso, è invece
impossibile che si dia un mutamento reciproco. Il mutamento, infatti, avviene dal possesso alla privazione, ed è impossibile che abbia luogo dalla privazione al possesso. Colui che è diventato cieco, infatti, non vede di nuovo, chi è calvo non rimette i capelli, e
chi è sdentato non rimette i denti.
4) È chiaro che tutte le cose che si oppongono come affermazione e negazione non si
oppongono in nessuno dei modi che abbiamo detto. Solo in questo caso, infatti, è sempre necessario che l’una sia vera e l’altra sia falsa. Nel caso dei contrari, infatti, non è
sempre necessario che l’uno sia vero e l’altro sia falso, né nel caso dei relativi, né nel
caso del possesso e della privazione. Salute e malattia, ad esempio, sono contrarie, e
nessuna delle due è o vera o falsa. Similmente, il doppio e il mezzo si oppongono come
relativi, e nessuno dei due è o vero o falso. E non accade neppure nel caso di ciò che si
dice secondo possesso e privazione, come, ad esempio, la vista e la cecità. In generale,
le cose che si dicono senza alcuna connessione non sono né vere né false. E tutte le cose
che abbiamo detto si dicono senza connessione. Peraltro, potrebbe sembrare che una siffatta cosa accada soprattutto nel caso dei contrari che si dicono secondo connessione Socrate gode di buona salute, infatti, è contrario a Socrate è malato -, ma neppure in
questi casi è sempre necessario che l’uno sia vero e l’altro sia falso. Se, infatti, Socrate
esiste, allora l’uno è vero e l’altro è falso, ma, se Socrate non esiste, entrambi sono falsi,
poiché, se Socrate stesso non esiste affatto, non è vero né che Socrate gode di buona salute né che è malato. Nel caso della privazione e del possesso, invece, se non esiste affatto, nessuno dei due è vero, se invece esiste non sempre uno dei due è vero. Socrate
possiede la vista, infatti, si oppone a Socrate è cieco come la privazione si oppone al
possesso, e, se Socrate esiste, non è necessario che l’uno o l’altro sia o vero o falso.
Quando, infatti, egli non ha ancora la vista per natura, entrambe sono false; e, se Socrate
non esiste affatto, anche in questo modo sono entrambe false, sia che egli ha la vista sia
che è cieco. Nel caso dell’affermazione e della negazione, invece, sia che il soggetto esista sia che non esista, sempre l’una sarà vera e l’altra sarà falsa: se Socrate esiste, infatti, è chiaro che Socrate è malato e Socrate non è malato devono essere l’una vera e
204
l’altra falsa, e lo stesso se non esiste: infatti, se egli non esiste, l’essere malato sarà falso, mentre il non essere malato sarà vero. Di conseguenza, solo nel caso di questo tipo
di opposti, potrebbe essere proprio il fatto che l’uno o l’altro di essi sia sempre o vero o
falso, e cioè nel caso di tutte le cose che si oppongono come affermazione e negazione.
Sommario
In questo capitolo, Aristotele tratta dell’opposizione.
Quattro sono i tipi di opposizione: 1. i relativi (per esempio, il doppio e il mezzo), 2.
i contrari (per esempio, il bene e il male), 3. la privazione e il possesso (per esempio, la
cecità e la vista), 4. la contraddizione, cioè l’affermazione e la negazione (per esempio,
“è seduto” e “non è seduto”).
1. I relativi. Si dicono relativi quegli opposti che si determinano come tali sempre in
riferimento ad altro, e precisamente ai loro correlativi. Per esempio, il doppio si dice tale sempre in relazione al mezzo; e la scienza si dice tale sempre in relazione al suo opposto, lo scibile. La relazione è bilaterale: lo scibile, dal canto suo, si dice tale sempre in
relazione alla scienza. I relativi, dunque, si dicono ciò che sono dei loro opposti sempre
in relazione gli uni agli altri.
2) I contrari. Sono opposti che si differenziano dai relativi in quanto non si dicono
affatto l’uno in relazione all’altro, ma l’uno contrario all’altro. Per esempio, il bene non
si dice bene del male, ma contrario al male; il bianco non si dice bianco del nero, ma
contrario al nero. I contrari possono essere divisi in due gruppi.
2.1 Contrari che non ammettono intermedi. Non ammettono intermedi quei contrari
per i quali è necessario che l’uno o l’altro appartenga alle cose nelle quali essi si generano per natura o di cui si predicano. Per esempio, tra la salute e la malattia, che si generano per natura nel corpo di un animale, e tra il pari e il dispari, che si predicano del
numero, non ci sono intermedi.
2.2 Contrari che ammettono intermedi. Ammettono intermedi quei contrari per i quali non è necessario che l’uno o l’altro appartenga alle cose nelle quali essi si generano
per natura o di cui si predicano. Per esempio, tra il bianco e il nero, che si generano per
natura in un corpo, esistono degli intermedi: il grigio, il giallo, e tutti gli altri colori; tra
il cattivo e il virtuoso, che si predicano dell’uomo e di molte altre cose, esiste qualcosa
di intermedio: ciò che non è né cattivo né virtuoso.
2.2.1 In alcuni casi, tali intermedi hanno dei nomi, come nel caso del grigio, del giallo e degli altri colori; in altri casi, invece, essi vengono determinati attraverso la negazione dei termini contrari, come nel caso di ciò che non è né cattivo né virtuoso.
3. Il possesso e la privazione. Si dicono in riferimento a una medesima cosa, nella
quale si genera per natura il possesso (ad esempio, la vista e la cecità si dicono in riferimento all’occhio, la cui funzione propria è quella della vista). Tre sono le condizioni
per poter parlare di privazione: a) il soggetto deve essere capace di ricevere il possesso
(il sasso non può dirsi privo della vista); b) la privazione deve essere attribuita alla cosa
o alla parte della cosa in cui il possesso dovrebbe sussistere per natura (l’orecchio non
può dirsi privo della vista); c) la privazione va attribuita alla cosa o alla parte della cosa
nel tempo in cui il possesso dovrebbe sussistervi per natura (gli animali che alla nascita
non hanno vista né denti non si dicono sdentati né ciechi.
Possesso e privazione non si identificano con l’avere il possesso e l’essere privato,
anche se il modo di opporsi è lo stesso. Questo può essere mostrato in due modi. a) Pos-
205
sesso è, ad esempio, la vista e privazione la cecità. L’avere la vista non è la vista, né
l’essere cieco è la cecità. La cecità è una privazione; l’essere cieco, invece, non è una
privazione, ma un essere privato. b) Se, ad esempio, la cecità si identificasse con
l’essere cieco, entrambi si predicherebbero della stessa cosa. Invece, l’uomo si dice cieco, ma non si dice cecità.
La stessa differenza sussiste tra l’affermazione e la negazione (ad esempio, “sta seduto” e “non sta seduto”) e ciò che è affermato e ciò che è negato (lo “stare seduto” e il
“non stare seduto”), anche se, questi ultimi, si oppongono al modo dell’affermazione e
della negazione.
A. Differenze rispetto ai relativi. La privazione e il possesso si differenziano dai relativi per le seguenti caratteristiche:
a) mentre i relativi si dicono ciò che sono del loro opposto (ad esempio, lo schiavo
del padrone, il padrone dello schiavo), il possesso non si dice della privazione, né la
privazione si dice del possesso (ad esempio, la vista non si dice vista della cecità, né la
cecità si dice cecità della vista).
b) mentre i relativi si dicono dei correlativi dando luogo a una rapporto che può essere convertito, il possesso e la privazione non sono passibili di conversione reciproca.
B. Differenze rispetto ai contrari. Aristotele presenta due argomenti dai quali risulta
che il possesso e la privazione si differenziano dai contrari.
I. Il primo argomento si divide in tre possibilità che riguardano i contrari e che non
possono essere riscontrate nel possesso e nella privazione.
a) Il possesso e la privazione si differenziano dai contrari che non ammettono intermedi. Mentre per i contrari che non ammettono intermedi, è necessario che l’uno o
l’altro di essi sussista sempre nelle cose in cui si genera per natura o di cui si predica,
per il possesso e la privazione non è necessario che l’uno o l’altro di essi sussista sempre in ciò che è capace di accoglierli. Ad esempio, ciò che non possiede ancora la vista
o i denti per natura non può essere detto privo della vista o dei denti.
b) Il possesso e la privazione si differenziano dai contrari che ammettono intermedi.
Mentre per i contrari che ammettono intermedi, non è mai necessario che l’uno o l’altro
sussista in ciò che è capace di riceverli (ad esempio, ciò che è capace di ricevere il bianco e il nero non è detto che sia o bianco o nero, ma può essere giallo o grigio, etc.), per
il possesso e la privazione, invece, talora è necessario che l’uno o l’altro di essi sussista
in ciò che è capace di riceverli: per l’arco di tempo in cui è naturale possedere, ad esempio, la vista, è necessario che o il possesso (la vista) o la privazione (la cecità) sussista.
c) Il possesso e la privazione si differenziano dai contrari che, pur ammettendo intermedi, sono tali che uno determinato dei due deve appartenere a ciò che lo accoglie.
Mentre per i contrari che ammettono intermedi e di cui uno solo dei due costituisce una
caratteristica essenziale del sostrato, è necessario che uno determinato dei due estremi
appartenga a ciò che è capace di riceverlo (ad esempio, al fuoco l’essere caldo e alla neve l’essere bianca), per il possesso e la privazione, invece, nel tempo in cui il sostrato
dovrebbe per natura possedere la determinazione, l’uno o l’altro degli opposti deve sussistere, indifferentemente o il possesso o la privazione.
II. Nel caso dei contrari, in un sostrato capace di accoglierli, qualora a esso non appartenga per natura solo uno dei due (come il caldo al fuoco), il mutamento può avvenire dall’uno all’altro, in entrambi i sensi. Ciò che è bianco può diventare nero e ciò che è
nero può diventare bianco; ciò che è freddo può diventare caldo, e ciò che è caldo diventare freddo; da virtuosi si può diventare cattivi e da cattivi virtuosi. Nel caso del possesso e della privazione, invece, è impossibile che si dia un mutamento reciproco. Il mu-
206
tamento avviene, infatti, dal possesso alla privazione (ad esempio, dalla vista alla cecità), ma mai dalla privazione al possesso (dalle cecità alla vista).
4. L’affermazione e la negazione. Si distinguono da tutti gli altri tipi di opposizione
per il fatto che sono le uniche a dover essere, in qualsiasi caso, necessariamente l’una
vera e l’altra falsa. Questa caratteristica risulta chiara attraverso il confronto con gli altri
tipi di opposizione.
A. Nel caso degli opposti considerati per se stessi e senza connessione, è evidente
che essi non sono l’uno vero e l’altro falso: salute e malattia (per i contrari), doppio e
mezzo (per i relativi), vista e cecità (per la privazione e il possesso). In generale, tutte le
cose che si dicono senza connessione non sono né vere né false.
B. Nel caso degli opposti che si dicono secondo connessione, e cioè nel caso di due
proposizioni aventi come contenuto o una coppia di contrari o l’una la privazione e
l’altra il possesso, si hanno risultati differenti. Tuttavia, anche se, date alcune condizioni, le proposizioni potranno risultare l’una vera e l’altra falsa, questo non accadrà mai
come legge necessaria per tutte le situazioni. Nel caso di proposizioni aventi come contenuto una coppia di contrari, ad esempio, “Socrate gode di buona salute” e “Socrate è
malato”, si ha una doppia possibilità: a) se Socrate esiste, l’una deve essere vera e l’altra
falsa; b) se, invece, Socrate non esiste, entrambe le asserzioni sono false perché ciò che
non esiste non può essere né sano né malato. Nel caso di proposizioni aventi come contenuto l’una un possesso e l’altra una privazione, ad esempio “Socrate possiede la vista”
e “Socrate è cieco”, a) se Socrate esiste, non è necessario che l’una sia vera e l’altra sia
falsa, perché quando egli non ha ancora la vista per natura, non si può dire che sia cieco;
b) se Socrate non esiste, entrambe le asserzioni sono false.
A differenza di tali tipi di opposizione, nel caso dell’affermazione e della negazione,
le asserzioni, ad esempio “Socrate è malato” e “Socrate non è malato”, risulteranno
sempre necessariamente l’una vera e l’altra falsa, sia che il soggetto esista sia che non
esista: infatti, se Socrate esiste è chiaro che l’una deve essere vera e l’altra falsa, se non
esiste, l’essere malato sarà falso, mentre il non essere malato sarà vero.
1. I relativi
1.1. La definizione dei relativi
Il primo tipo di opposizione cui Aristotele dedica una trattazione più analitica, anche
se già trattato molto più diffusamente nel Cap. 7 delle Categorie, è dunque quello dei
relativi. Questi vengono presentati attraverso la definizione generale:
Tutte le cose che si oppongono come i relativi si dicono ciò che sono in sé degli opposti o in qualsiasi altro modo, ma sempre in relazione ad essi […]1.
definizione che riecheggia quella già presente nel Cap. 7, interamente dedicato
all’analisi dei relativi:
Si dicono relative tutte quelle cose che, ciò che sono, lo si dicono essere di altre cose o
in qualsiasi altro modo, ma sempre in relazione ad altro2.
1
Categorie 10, 11 b 24-25: “Osa mOn oân æj t¦ prÒj ti ¢nt…keitai aÙt¦ ¤per ™stˆ tîn
¢ntikeimšnwn lšgetai À Ðpwsoàn ¥llwj prÕj aÙt£.
2 Categorie 7, 6 a 36-37. PrÒj ti dO t¦ toiaàta lšgetai, Ósa aÙt¦ ¤per ™stˆn ˜tšrwn enai
lšgetai À Ðpwsoàn ¥llwj prÕj ›teron:
207
L’aggiunta «o in qualsiasi altro modo» (À Ðpwsoàn), presente in entrambi i passi riportati, e ripetuta nuovamente in Categorie 11, 11 b 33 (À Ðpwsd»pote)3 ha un’importanza
rilevante per due ordini di motivi. Per un verso, perché nella lingua greca i relativi possono essere espressi non solo attraverso l’uso del caso genitivo, come nel caso del doppio del mezzo e della scienza dello scibile (tÕ dipl£sion toà ¹m…seoj; ™pist»mh toà
™pisthtoà), ma anche attraverso l’uso del caso dativo, come nel caso dello scibile che
si dice tale in riferimento alla scienza (™pisthtÕn tÍ ™pist»mV)4 o anche di apposite
preposizioni5. Per altro verso, perché non tutti gli opposti relativi si dicono nello stesso
modo in cui si presentano gli esempi che qui riporta Aristotele, e cioè come il doppio si
dice del mezzo, il mezzo si dice del doppio, la scienza si dice dello scibile, lo scibile si
dice per la scienza. Ci sono relativi, infatti, che non si danno in termini di inflessione
data dalla sintassi del caso (ptîsij), come, ad esempio, grande e piccolo: non si dice,
infatti, che il grande è grande del piccolo o che il piccolo è piccolo del grande, ma il
grande è tale in relazione al piccolo e il piccolo è tale in relazione al grande6.
Tale definizione dei relativi è sufficiente a presentare il loro particolare modo di opporsi perché rende chiara la loro reciprocità coesistente7, e li distingue in modo evidente
dalle altre tipologie di opposti. I relativi, infatti, sono gli unici opposti che sorgono e
scompaiono insieme8. Si tratta, pertanto di una definizione perfettamente coerente con
la finalità tassonomica di Aristotele di questa sezione dell’opera9.
3
Categorie 10, 11 b 32-33: “Osa oân ¢nt…keitai æj t¦ prÒj ti aÙt¦ ¤per ™stˆ tîn
¢ntikeimšnwn À Ðpwsd»pote prÕj ¥llhla lšgetai:
4 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 88 n. 1: «[…] i due esempi sono scelti in modo che, nella
conversione, nel primo si conservi lo stesso caso (il genitivo), mentre nel secondo si abbia il
passaggio dal genitivo al dativo». Così anche Tricot, Aristote. Organon…, vol. I, p. 56 n. 2.
5 Cfr. Simplicio, In Cat., 382, 26-27.
6 Una dottrina espressamente aristotelica. Cfr. Categorie 7, 6 b 8-9; Categorie 7, 6 b 31-32.
7 Cfr. Simplicio, In Cat., 383, 1-2.
8 Cfr. Categorie 7, 7 b 15-22. Lo stesso tratto distintivo attribuito ai relativi si trova nello Pseudo-Archita, perì ¢ntikimšnwn (De oppositis), ed. Thesleff, Pyth Texts, 16, 3-6.
9 Risulta, a mio avviso, inconsistente la presunta dimostrazione, presente in Zanatta, Aristotele.
Le categorie…, pp. 646-648, che il capitolo 10 delle Categorie sia precedente al capitolo 7, basandosi sul fatto che Aristotele presenta i relativi con la definizione di Categorie 10, 11 b 24-25,
giudicata dallo studioso comune e pre-scientifica, piuttosto che con quella di Categorie 7, 8 a 28
ss., considerata come una «determinazione scientifica e formalmente rigorosa» (Zanatta, Aristotele. Le categorie…, pp. 647). Secondo lo studioso, sarebbe assurdo che Aristotele, al tempo
dello scritto dei Post-praedicamenta, disponesse già della formulazione più rigorosa della definizione dei relativi e non la utilizzasse, ragion per cui Zanatta suggerisce di riconoscere che
«[…] la nozione di relazione quale è presentata in questo capitolo delle Categorie è anteriore
alla trattazione scientifica e specifica di questa nozione stessa, quale è per l’appunto offerta nel
capitolo 7» (Zanatta, Aristotele. Le categorie…, pp. 647). Il che, secondo lo studioso, «[…] non
significa che Cat. 10 è anteriore alla sola sezione di Cat. 7 in cui viene delineata la seconda definizione dei relativi, ma che è anteriore all’intera trattazione del capitolo 7 […]» (Zanatta, Aristotele. Le categorie…, pp. 647). In realtà, come sottolinea Oehler, Aristoteles. Kategorien…, p.
269, è Aristotele stesso ad affermare, in Categorie 7, 8 a 28-33, che «la prima definizione» adottata (Ð prÒtepoj ÐrismÕj) «[…] si applica a tutti i relativi» (parakolouqe‹ p©si to‹j prÒj
ti); la ragione per cui lo Stagirita decide di introdurre un secondo criterio di definizione è data
la fatto che il primo si presenta non adeguato (ƒkanîj) a risolvere l’aporia dell’appartenenza
della sostanza tra i relativi o meno. Dal momento che non si tratta di una questione presente nel
capitolo 10, la prima definizione dei relativi, senza ulteriori precisazioni, risulta adatta a questo
tipo di trattazione.
208
1.2. C’è un’intermedietà tra i relativi?
Una delle questioni sorte intorno ai relativi, trattata dallo Pseudo-Archita, e discussa
da Simplicio, è quella che riguarda la possibilità dell’esistenza di un termine intermedio
(mšson) tra di essi. Secondo il pensatore pitagorico, esistono degli intermedi tra i prÒj
ti: ad esempio, tra “padrone” e “schiavo” c’è l’“uomo libero”, e tra “maggiore” e “minore” c’è l’“uguale”10.
Mentre è dottrina espressamente aristotelica quella di porre degli intermedi in alcuni
tipi di contrarietà, lo Stagirita non parla mai di mesÒtethj tra i relativi, né nei Praedicamenta né nei Postpraedicamenta né altrove nelle sue opere. Per questo motivo, appare evidente che lo Pseudo-Archita si basi su «[…] una falsa interpretazione della dottrina della relazione»11, e lo stesso Simplicio12 sostiene che, su questo punto, il pitagorico
si allontana dall’aristotelismo autentico. «Le mesÒtethj qui citate, infatti, non si trovano tra i correlativi come tali, bensì tra cose, proprietà ecc. che sono per altri versi correlate»13. Una tale intermedietà tra relativi non è stata, probabilmente, neppure considerata
da Aristotele, dal momento che, se egli l’avesse almeno presa in considerazione, pur
non accettandola, avrebbe presentato, come ulteriore differenza tra i relativi e i contrari,
quella per cui i primi, a differenza dei secondi, non ammettono intermedi14.
1.3. Un ordine di progressione: dall’interdipendenza all’esclusione totale
Il fatto che Aristotele abbia scelto di enumerare per primi, tra gli opposti, i relativi ha
suscitato la questione dell’ordine di presentazione delle diverse modalità di opposizione
e, di conseguenza, dei nessi che le vincolano. Secondo Simplicio15, Aristotele presenta
come primo modo di opporsi quello proprio dei relativi perché quest’ultimi hanno una
caratteristica distintiva particolare che nessuno degli altri modi possiede: il fatto che le
cose che si oppongono come i relativi coesistono16. I relativi, in altre parole, costituiscono l’unico tipo di opposti in cui sussiste una dipendenza reciproca, e non, piuttosto,
un’esclusione. Ragionando in tale prospettiva, Tommaso d’Aquino osservò «[…] una
specie di progressione fra i vari tipi di opposti, che va dai relativi, che si implicano e
quindi dipendono l’uno dall’altro, ai contraddittori, che si escludono totalmente e quindi
sono indipendenti l’uno dall’altro, nel senso che, una volta esclusisi, non rimane nulla»17. Sebbene l’interpretazione di Tommaso fosse inerente alla Metafisica aristotelica18,
10
Pseudo-Archita, perì ¢ntikimšnwn (De oppositis), ed. Thesleff, Pyth Texts, 16, 19-21.
Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, tomo 2, p. 193-194.
12 Cfr. Simplicio, In Cat., 384, 11-13.
13 Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, tomo 2, p. 194.
14 Cfr. Simplicio, In Cat., 384, 11-13.
15 Simplicio, In Cat., 382, 16-19.
16 Cfr. Filopono, In Cat., 169, 4-11.
17 C. Rossitto, Opposizione e non contraddizione nella Metafisica di Aristotele, in E. Berti (ed.),
La contraddizione, Città Nuova, Roma 1977, p. 44.
18 S. Thomae Aquinatis, In Duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, edition iam
M.R. Cathala, exarata retractatur cura et studio P. Fr. Raymundi M. Spiazzi, Marietti, TorinoRoma 1950, pp. 247-248, § 922: «In primo luogo [Aristotele] mostra in quanti modi possono
dirsi gli opposti (opposta dicuntur)… <essi sono detti> in quattro modi, che sono i contraddittori, i contrari, il possesso e la privazione, i relativi. Una cosa, infatti, si contrappone o si oppone
11
209
la progressione da lui rilevata corrisponde perfettamente all’ordine in cui gli opposti sono presentati nel capitolo 10 delle Categorie19, un ordine in cui gli opposti si susseguono «[…] in una progressione che va, per così dire, dall’opposizione più debole a quella
più forte»20. In tale progressione, «[…] ogni tipo di opposizione si rivela come una forma di negazione: la relazione corrisponde ad una negazione-implicazione; la contrarietà
ad una negazione-esclusione; il possesso e la privazione ad una negazione in un unico
senso (cioè dal possesso alla privazione) e la contraddizione ad una negazione assoluta»21. Questo tipo di considerazione, che colloca la relazione, la contrarietà, il possesso
e la privazione, la contraddizione in un climax, potrebbe giustificare l’unicità del termine dato agli opposti (¢ntike…mena).
Tale ordine aristotelico degli ¢ntike…mena non viene rispettato dallo Pseudo-Archita,
il quale elenca con esempi, in successione, gli ™nant…a, ›xij e stšrhsij, prÒj ti22, e
infine kat£fasij e ¢pÒfasij23. Un criterio nella scelta di tale ordine potrebbe essere
osservato nella graduale diminuzione del contenuto di realtà oggettuale insito nei diversi
tipi di opposizione, o, meglio, di un graduale aumento della riflessione e dell’attività
dialettica nei confronti della realtà che ci circonda. L’opposizione per contrarietà presuppone determinati caratteri oggettivi all’interno di oggetti anche singolarmente presi:
ad esempio, la qualità della bianchezza e la qualità della nerezza possono sussistere nello stesso oggetto e nello stesso tempo se riferiti a diversi parti o sotto diversi rispetti; il
possesso e la privazione costituiscono, rispettivamente, la presenza e la mancanza di un
determinato carattere oggettivo che può riguardare lo stesso soggetto, ma in tempi diversi; la relazione prevede un oltrepassamento del singolo soggetto per metterlo in correlazione con un’ulteriore realtà, richiedendo, così, una capacità dialettica e un primo
ad un’altra o secondo dipendenza (ratione dependentiae), in quanto dipende da quella cosa stessa, oppure secondo l’esclusione (ratione remotionis), in quanto l’una esclude l’altra, il che avviene in tre modi (tripliciter): <1> infatti, o l’esclusione è totale (totaliter removet), e non resta
nulla (nihil relinquens), e tale è la negazione (et sic est negatio); <2> o resta solo il soggetto (relinquit subiectum solum), e tale è la privazione (et sic est privatio); <3> o restano sia il soggetto
sia il genere (relinquit subiectum et genus), e tale è la contrarietà (et sic est contrarium). Infatti,
i contrari non solo sono nello stesso soggetto (in eodem subiecto), ma anche nello stesso genere
(in eodem genere)».
19 Lo stesso ordine che si ripete in Topici II, 2, 109 b 19-20, segno che non si tratta di un ordine
casuale, ma che rispetta un preciso disegno dettato da leggi teoriche. L. Palpacelli, Etymological
note, in M. Migliori - L. Palpacelli - M. Bernardini, The relation of contrariety in the ancient
thought and in the Aristotelian formalization, in U. Savardi, The perception of contraries,
McGraw-Hill, Milano 2009, pp. 3-28, p. 11, osserva come tale idea di progressione venga confermata dall’etimologia dei termini che indicano gli opposti. La preposizione ¢nt…, di cui si
compongono i termini ¢ntike…menoj (opposto), ™nant…on (contrario), ¢ntifatikÒj (contraddittorio), potrebbe, infatti, designare un grado di progressione dall’essere alternativo alla contrapposizione fino all’esclusione.
20 Rossitto, Opposizione e non contraddizione…, p. 44.
21 Rossitto, Opposizione e non contraddizione…, p. 44.
22 Lo Pesudo-Archita, in realtà, preferisce indicare i relativi con l’espressione prÒj t… pwj œconta piuttosto che semplicemente con prÒj ti. Cfr. Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…,
vol. II, tomo 2, p. 192.
23 Pseudo-Archita, perì ¢ntikimšnwn (De oppositis), ed. Thesleff, Pyth Texts, 16, 3-6; cfr.
Szlezák, Architas…, pp. 61-68 (testo), pp. 80-85 (traduzione). Cfr. Simplicio, In Cat., 382, 2021.
210
livello di riflessione sulla realtà24; con l’affermazione e la negazione siamo al livello del
giudizio espresso tramite il linguaggio su una realtà che pur “giace sotto” il pensiero e le
parole25.
L’ordine adottato da Aristotele è perfettamente in sintonia con la finalità della sezione 10 della sua opera, in cui intende dimostrare come le quattro forme di opposizione
siano l’una diversa dall’altra e abbiano ciascuna delle caratteristiche peculiari, non già
in riferimento ad un’unica pietra di paragone costituita dal rapporto con la realtà, ma per
loro intrinseca natura26.
2. I contrari
Il secondo modo dell’opposizione cui Aristotele dedica una trattazione più analitica è
quello proprio della contrarietà. Questa viene, innanzitutto, presentata attraverso una
comparazione che la differenzia dai relativi, di cui si è appena trattato. I contrari sono
degli opposti che differiscono dai relativi in quanto non si dicono affatto l’uno dell’altro
o l’uno in relazione all’altro, ma l’uno contrario, appunto, all’altro. Per esempio, il bene
non si dice bene del male, ma contrario al male; il bianco non si dice bianco del nero,
ma contrario al nero.
2.1. Una tesi paradossale: la contrarietà è una relazione
Sul rapporto tra la contrarietà e la relazione dovette sorgere una discussione di cui i
commentatori aristotelici non potettero non far menzione. Secondo la testimonianza di
Simplicio, come, del resto, anche secondo quella di Filopono27 e di Ammonio28, ci fu un
filone di pensiero, probabilmente sorto prima di Nicostrato e da quest’ultimo avallato, il
quale sostenne che la contrarietà non è che un tipo di relazione. Una simile tesi dovette
risultare quantomeno bizzarra, o paradossale, ragion per cui i promotori stessi della concezione cercarono di definirne i precisi contorni. Deve essere operata una distinzione tra
l’™nantiÒthj, la contrarietà, e gli ™nant…a, i contrari. Questi ultimi non possono essere
considerati dei relativi, in quanto, ad esempio, «[…] l’esistenza di una cosa bianca non
24 In realtà, i relativi “più grande” e “più piccolo” possono essere riferiti allo stesso soggetto, ma
sempre in relazione a due cose diverse.
25 In tale ipotesi del criterio seguito dallo Pseudo-Archita, mi discosto da quanto formulato da
Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, tomo 2, p. 192: «L’opposizione per contrarietà presuppone determinati caratteri oggettivi in ciascuno degli opposti (avere e privazione), con
la differenza che il carattere in uno è presente, nell’altro è puramente assente. La relazione, invece, non risulta dalle peculiarità reali delle cose, bensì dal loro rapporto reciproco. Affermazione e negazione, infine, non dipendono dalle cose, bensì soltanto dalle enunciazioni sulle cose». Troppo forti appaiono, a mio avviso, le affermazioni intorno alla relazione, che sembra non
avere la sua ragion d’essere in un rapporto di dipendenza che pur esiste nella realtà dei fatti (padre-figlio; padrone-schiavo), e intorno all’affermazione e alla negazione, che sembrano appartenere ad un mondo linguistico totalmente alienato dall’ontologia.
26 La dimostrazione che le quattro forme di opposizione siano tutte diverse tra loro è una preoccupazione che ricorre spesso nel testo. Cfr., ad esempio, Categorie 10, 11 b 37-38; Categorie
10, 12 b 16-17; Categorie 10, 12 b 26-27; Categorie 10, 13 a 15-17; Categorie 10, 13 a 37 - b 1.
27 Cfr. Filopono, In Cat., 188, 20-29.
28 Cfr. Ammonio, In Cat., 102, 2-5.
211
implica l’esistenza di una cosa nera»29; la contrarietà come tale, invece, secondo quei
pensatori, dovrebbe essere associata alla «[…] relazione, per il fatto che, se qualcosa
viene designato come contrario, allora dev’esserci un altro qualcosa contrapposto a esso
come contrario»30.
Nicostrato accolse tale concezione, spingendosi, però, persino oltre. Tentò, infatti, di
mostrare come non solo la contrarietà per se stessa considerata, ma anche i singoli contrari siano dei relativi31. Sulle argomentazioni portate dal filosofo medioplatonico per
sostenere e difendere tale tesi non si hanno notizie precise, ma si potrebbe ricostruire un
ragionamento simile al seguente:
«L’opposizione contraria è una relazione.
Bianco e nero sono opposti contrari.
Bianco e nero sono dunque correlati»32.
Come riporta Simplicio,
Nicostrato crede di dimostrare che i contrari si dicono l’uno in relazione all’altro (t¦
™nant…a prÕj ¥llhla lšgetai), costruendo la propria argomentazione non sulle cose
che si sussumono sotto la contrarietà (oÙk ¢pÕ tîn ØpÕ tÕ ™nant…on), ma sulla base
della contrarietà stessa (¢p'aÙtoà toà ™nant…ou)33.
Il filosofo medioplatonico, pertanto, doveva prendere le mosse del ragionamento dalla
contrarietà stessa, per giungere a dimostrare che anche gli enti contrari si dicono l’uno
in relazione all’altro. Per contrastare tale posizione estremista di Nicostrato, Simplicio
propone un parallelismo con il concetto di uguaglianza: mentre l’uguaglianza in sé
(…son aÙtÒ) costituisce una relazione, gli enti uguali non costituiscono delle relazioni,
ma rientrano nella quantità34.
A ben vedere, il rapportare l’opposto a una certa relazione non sembrerebbe adeguato
soltanto agli enti che rientrano nella contrarietà, ma a tutti i modi in cui l’opposizione
viene detta. Questo è evidente nel caso dei relativi, ma può essere osservato anche negli
altri tre casi: due concetti contrari sono correlati: ad esempio, il bene esiste e si definisce
in relazione al male e viceversa, il bianco in relazione al nero, etc. (due enti cui possono
attribuirsi, rispettivamente, due determinazioni contrarie, invece, non hanno bisogno,
per esistere e per essere spiegati, l’uno dell’altro); similmente, il possesso è tale in rela29
Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, tomo 2, p. 121.
Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, tomo 2, p. 121.
31 Cfr. Simplicio, In Cat., 385, 10-12. Secondo H.J. Krämer, Platonismus und ellenistiche Philosophie, De Gruyter, Berlin 1971, p. 90 e n 335, Nicostrato, ammettendo una sussunzione dei
contrari (gli ™nant…a) sotto i prÒj ti, si riallaccerebbe alla dottrina accademico-senocratica delle due categorie, secondo la quale contrari e relativi rientrerebbero, entrambi, all’interno della
sovracategoria del “rispetto a qualcos’altro” (prÒj ti in quanto prÒj ›teron). In tal senso, la
posizione di Nicostrato potrebbe essere stata introdotta all’interno del Peripato sotto influsso accademico. Ermodoro, infatti, seguendo la bipartizione senocratea, divise la realtà in due categorie: il “per sé” e il “relativo ad altro” (prÕj ›tera) e quest’ultimo gruppo, a sua volta, in contrari (™nant…a) e relativi (prÒj ti). Cfr. Simplicio, In Phys., 247, 30 ss.
32 Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, vol. II, tomo 2, p. 122; cfr. anche Gioè, Filosofi
medioplatonici…, pp. 206-207.
33 Simplicio, In Cat., 385, 10-12. K. Praechter, Nikostratos der Platoniker, «Hermes» LVII, pp.
481-517, p. 500, ravvisa in questa posizione di Nicostrato, cioè nel voler rapportare non solo i
contrari, ma anche la contrarietà stessa, all’unico genere dei relativi, una movenza tipica della
concezione platonica del sensibile come immagine da rapportare al mondo ideale.
34 Cfr. Simplicio, In Cat., 385, 12-17.
30
212
zione alla privazione, poiché non potrebbe esistere, ontologicamente, una privazione ontologica se non ci fosse anche un possesso, né avrebbe senso parlare di una privazione
se non in relazione ad un possesso; anche l’affermazione e la negazione, essendo portatrici di verità e di falsità, non avrebbero senso se non l’una in relazione all’altra. In generale, dunque, nei diversi tipi di opposizione, sussiste una comune proprietà di richiamarsi a vicenda, di acquisire “senso” in un rapporto reciproco. Sarebbe errato denominare tale rapporto “relazione” (prÒj ti), dal momento che tale espressione, essendo usata da Aristotele in senso tecnico per indicare, in modo specifico, un preciso tipo di opposizione, verrebbe a creare un caso ambiguo di “omonimia”. Si dovrebbe far riferimento a un termine diverso che contenga in sé il concetto di correlazione, e che potrebbe essere individuato nello stesso termine aristotelico di “opposizione”, stavolta non considerato secondo la definizione di Boezio, che vale esclusivamente per gli enti cui si attribuiscono le diverse forme di opposizione35, ma come un concetto che si situa in un ambito meta-empirico e che si presenta come scevro dalle implicazioni fenomeniche
dell’attribuzione ai singoli sostrati36.
2.2. Contrari e intermedi
I contrari si dividono in due gruppi: 1. quelli che non ammettono intermedi e 2. quelli
che ammettono intermedi.
2.2.1. Contrari che non ammettono intermedi: perfezione della salute e astrazione del
numero
Secondo Aristotele, non ammettono intermedi quei contrari per i quali è necessario
che l’uno o l’altro appartenga alle cose nelle quali essi si generano per natura (pšfuke)
35
Il fatto che le quattro forme di opposti sarebbero accomunate dal non poter coesistere insieme
e dall’escludersi a vicenda se attribuiti alla medesima realtà è un’evidenza fenomenologica che
non riguarda di concetti in sé considerati di relazione, contrarietà, possesso e privazione, affermazione e negazione.
36 Si tratta di una movenza, per un verso molto simile e per altro verso distante, rispetto a quella
platonica presente in Fedone, 103 B 1 - C 2, in cui si tratta, però, espressamente non degli opposti in generale, ma precisamente dei contrari. Simile perché il procedimento, nei due casi, è
quello che consiste nel distinguere gli opposti nella loro azione nella realtà e quelli che, invece,
sono considerati e pensati in sé. A prescindere dalla «[…] natura di questi “contrari in sé”, che
per Platone sono enti in sé sussistenti, ma che manterrebbero la loro valenza anche se li prendessimo come concetti irrinunciabili dei nostri procedimento logico-linguistici», quel che ci interessa notare è il diverso rapporto che si viene a creare. «In sintesi, se prendiamo una cosa piccola questa può diventare grande, quindi è possibile dire che da una cosa piccola nasce una
grande, cioè da un contrario nasce un altro contrario. Se però prendiamo la piccolezza in sé,
questa non può mai diventare grandezza né in sé né nei processi. La modificazione riguarda il
sostrato, e quindi l’oggetto implicato (ma potremmo dire anche il contrario: riguarda l’oggetto e
quindi il sostrato), di cui i contrari sono attributi che, come tali, possono essere sostituiti dal loro
contrario» (Migliori, The relation of contrariety in the ancient thought and in the Aristotelian
formalization, in Savardi (ed.), Perception and cognition of contraries…, p. 8). Il passo platonico resta, d’altro canto, distante dalla distinzione che stiamo operando in riferimento al concetto
di opposizione perché, in questo caso, si va oltre il rapporto tra empirico e meta-empirico per
attingere una relazione dialettica che implica i concetti stessi dei diversi modi di opposizione.
213
o di cui si predicano (ïn kathgore‹tai)37. Un primo esempio riguarda i contrari che si
generano per natura in un sostrato: tra la salute (Øg…eia) e la malattia (nÒsoj) non c’è
nessun intermedio (mšson), perché essi si generano per natura nel corpo degli animali, e
l’uno o l’altro debbono necessariamente appartenere al corpo di un animale38, tertium
non datur. Secondo la testimonianza di Simplicio, tale esempio rivela una dottrina diversa rispetto a quella espressa da alcuni medici dell’antichità39. Secondo quest’ultimi,
infatti, tra la salute e la malattia esisterebbe uno stato neutro non rapportabile a nessuno
dei due opposti40, tra i quali sembrerebbero sussistere dei passaggi graduali. «Ma evidentemente Aristotele concepisce la salute come faranno poi gli Stoici con la virtù, come uno stato perfetto, di fronte al quale ogni sia pur minima deviazione è già malattia»41.
Un secondo esempio di contrari che non ammettono intermedi riguarda quei contrari
per i quali è necessario che l’uno o l’altro appartenga alle cose di cui si predicano (ïn
kathgore‹tai): il pari (¥rtion) e il dispari (perittÕn) si predicano del numero
(¢riqmoà kathgore‹tai) ed è necessario (¢nagka‹Òn) che uno dei due (q£teron) appartenga al numero42, tertium non datur, dal momento che «[…] ogni numero o sarà divisibile per due o non lo sarà»43.
Parità e disparità dell’uno
Anche intorno a questo secondo esempio, tuttavia, potrebbero essere presentate delle
riserve44. La classificazione dei numeri in pari e dispari viene fatta risalire a Pitagora45,
ma il fatto che una dicotomia tanto drastica potesse far sorgere delle aporie e delle obiezioni si riscontra già in un frammento di Filolao, in cui si parla di un’ulteriore classe in
cui dividere i numeri: quella dei pari-dispari, una mescolanza delle prime due, che dovrebbe essere attribuita al prodotto di un numero pari e di uno dispari, e non, piuttosto,
all’unità46. Non sappiamo fino a che punto i Pitagorici abbiano considerato, nelle loro
teorie, questa terza divisione di cui parla Filolao. Sembra, tuttavia, che i Neopitagorici,
prendendo spunto dalle considerazioni di Platone in Parmenide, 143 E47, proposero una
37
Cfr. Categorie 10, 11 b 38 - 12 a 2. «La necessità dell’esserci l’uno o l’altro dei contrari di
una coppia e l’esclusione di ogni termine intermedio sono, a ben guardare, la stessa cosa, giacché o l’uno o l’altro richiede in questo caso evidentemente l’eliminazione del né l’uno né
l’altro. Senonché il procedimento di Aristotele non è tautologico, perché per lui quella necessità
è concepita come uno stato di fatto» (Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 89 n. 6).
38 Cfr. Categorie 10, 12 a 4-6.
39 Cfr. Simplicio, In Cat., 386, 14-15. Cfr. anche Simplicio, In Cat., 332, 25-26.
40 Su tale condizione neutrale si veda la posizione di Galeno in R. Durling, A Dictionary of Medical Terms in Galen, Leiden 1993, p. 118.
41 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 89 n. 5.
42 Cfr. Categorie 10, 12 a 6-8..
43 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 89 n. 5.
44 Cfr. Simplicio, In Cat., 386, 8-10.
45 Cfr. T. Heath, A History of Greeks Mathematics, Clarendon Press, Oxford 1921, rist. Dover,
New York 1981, vol. I: From Thales to Euclid, p. 70.
46 Heath, A History of Greeks Mathematic…, vol. I, p. 70.
47 Platone utilizza le espressioni: 1. “pari volte pari” (¥rtia ¢rtiak…j), 2. “dispari volte dispari” (peritt¦ peritt£kij), 3. “dispari volte pari” (¥rtia peritt£kij), 4. “pari volte dispari”
(peritt¦ ¢rtiak…j), attraverso le quali intende indicare, rispettivamente: 1. il prodotto di due
numeri pari; 2. Il prodotto di due numeri dispari; 3. Il prodotto di un numero dispari e un nume-
214
nuova classificazione, dividendo i numeri in quattro specie: 1. i “pari volte pari” (¥rtia
¢rtiak…j), la cui metà è un numero pari, e la cui metà della metà è ancora un numero
pari, e così via fino al raggiungimento dell’unità, e cioè numeri della forma 2 ; 2. i “paridispari” (¢rtiopšrissoj), i quali possono essere dimezzati una sola volta, in seguito alla quale lasciano un numero dispari come quoziente, e cioè sono numeri della forma 2
(2 +1); i “dispari-pari” (perissartiÒ), che possono essere dimezzati due o più volte,
dopo le quali raggiungono un numero dispari come quoziente, e cioè sono numeri della
forma 2 (2m+1)48.
La scuola pitagorica da sempre fu sensibile alla trattazione della coppia paridispari49. Secondo quanto riportato dallo stesso Aristotele nel I libro della Metafisica, i
Pitagorici sostenevano, come testimoniato dal frammento di Filolao sopra citato, che
l’uno derivasse sia dal pari che dal dispari perché è, insieme, pari e dispari50. Una prima
spiegazione di questa dottrina potrebbe essere quella per cui l’unità, in quanto principio
di tutti i numeri, non potrebbe essere determinata né come pari né come dispari, e sarebbe quindi detto dai Pitagorici perissÕj-¥rtioj (pari-dispari). C’è, tuttavia,
un’ulteriore spiegazione possibile, attribuita ad Aristotele dal matematico Teone di
Smirne, secondo la quale l’unità è pari-dispari in quanto, se aggiunta ad un numero pari,
dà un numero dispari e, se aggiunta a un numero dispari, dà un numero pari, cosa che
non potrebbe accadere se l’unità non partecipasse di entrambe le nature51. Questa seconda spiegazione si presenta come vicina a una dottrina propria di Aristotele (tale dovette sembrare a Teone di Smirne), il quale, tuttavia, non giunse, con essa, a sostenere la
doppia natura pari e dispari del numero uno. Lo Stagirita sostiene la tesi secondo la quale il numero si costituisce per aggiunzione (kat¦ prÒsqesin), attraverso un’addizione
iterata52, tanto che una delle critiche più aspre che egli rivolge a Platone è l’aver posto i
numeri ideali e la conseguente impossibilità che la loro successione sia data per progressiva aggiunta dell’uno53.
Ora, se, come documentato da diversi testi della Metafisica, Aristotele era a conoscenza delle dottrine pitagoriche dei numeri, compresa quella intorno all’uno, e in Categorie 10 non accenna affatto alla possibilità che ci sia un numero, l’uno, che possa partecipare insieme delle due nature del pari e del dispari, è perché egli non accettava una
n
n
n+1
ro pari; 4. Il prodotto di un numero dispari e un numero pari. Cfr. M. Migliori, Dialettica e verità. Commentario filosofico al Parmenide di Platone, Prefazione di H. Krämer, Introduzione di
G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1990, 2000 , pp. 232-242; cfr. anche J.E. Annas, Aristotle’s
Metaphysics. Books M and N translated with introduction and notes, Oxford University Press,
Oxford 1976, trad. it. Interpretazione dei libri M-N della Metafisica di Aristotele. La filosofia
della matematica in Platone e Aristotele, Introduzione e traduzione dei libri M-N della Metafisica di Aristotele di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. 88-89.
48 Cfr. Heath, A History of Greeks Mathematic…, vol. I, pp. 71-72. Sulla futilità matematica di
queste classificazioni,e sulle implicazioni che hanno nella dottrina platonica del due indefinito,
si veda Annas, Aristotle’s Metaphysics. Books M and N…, pp. 84-92.
49 Forse proprio attraverso la tradizione pitagorica anche Platone considerò il pari e il dispari
come proprietà aritmetiche fondamentali. Cfr. Repubblica 510 C 2 - D 3.
50 Metafisica A 5, 986 a 19 ss.. Sulle implicazioni, in questa dottrina, dei rapporti tra i concetti
di limite e illimitato, si veda Reale, Aristotele. Metafisica…, vol. III, p. 50 n. 11.
51 Teone riporta che anche Archita fosse in accordo con la tesi attribuita ad Aristotele. Cfr.
Heath, A History of Greeks Mathematic…, vol. I, p. 71.
52 Cfr. Metafisica M, 6, 1081 b 14-17.
53 Cfr. Metafisica M, 6, 1080 a 30-35.
2
215
simile tesi54. In generale, lo Stagirita è espressamente poco favorevole alle teorie dei Pitagorici intorno ai numeri, e ne contesta soprattutto la posizione ontologica per cui tutta
la natura, e persino l’intero cosmo, consistano o siano costituiti da numeri55. Molto di
ciò che sappiamo intorno alle dottrine pitagoriche dei numeri, ci viene riportato da Aristotele, il quale critica aspramente la tesi secondo la quale il numero è il principio sia
della materia delle cose - la causa materiale, per dirla in termini aristotelici - sia delle
loro caratteristiche formali, permanenti e accidentali56. Sembra che i Pitagorici concepissero i numeri non solo come unità fisiche ed estese, ma anche come realtà intellegibili e principi formali, in quanto non solo costituiscono i componenti materiali primari di
tutte le cose, ma danno ordine e identità formale alle realtà materiali57. Al contrario, il
numero, per Aristotele, non ha consistenza ontologica; non ha un’esistenza né immanente né separata, è privo dell’aspetto metafisico acquisito in ambito platonico e si ottiene, piuttosto, tramite “astrazione”. «Il concetto di numero di Aristotele, rendendo il
numero relativo alla cosa che è numerata, congiunge stabilmente il numero al contare, e
da ciò risulta analitico che il numero sia ciò con cui noi contiamo. Questa è una teoria
opportunamente anti-platonista: i numeri non esistono indipendentemente da noi e dalla
nostra attività di contare […]»58. Tale teoria «[…] richiede necessariamente che lo zero
e l’uno non siano numeri. Nella misura in cui i Greci non numerarono lo zero, questo
fatto non sorprende; ma per l’uno, il discorso è più complicato»59. Lo status dell’uno è
qualcosa di non definito in modo chiaro. In Metafisica I, l’uno viene presentato come la
“misura” del molteplice60, che è «come il genere del numero»61; e
54
Cfr. Heath, A History of Greeks Mathematic…, vol. I, p. 72.
Cfr. Metafisica A, 986 a 1-2: «[…] pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di
tutte le cose, e che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero»; Metafisica A, 986 a 16-17:
«[…] costoro sembrano ritenere che il numero sia principio non solo come costitutivo materiale
degli esseri, ma anche come costitutivo delle proprietà e degli stati dei medesimi»; Metafisica
A, 987 b 28: «[…] i Pitagorici affermano che i numeri sono le cose stesse […]» (oƒ d'¢riqmoÝj
ena… fasin aÙt¦ t¦ pr£gmata). In altri passi, Aristotele fa delle affermazioni ambigue intorno alla dottrina pitagorea dei numeri, sostenendo che, secondo quei pensatori, i numeri hanno
molte “somiglianze” (Ðmoièmata poll¦) con le cose che sono (cfr. Metafisica A, 985 b 27), e
sono ciò che è primo in tutta quanta la realtà (cfr. Metafisica A, 986 a 1). Tali espressioni, tuttavia, rafforzano, e non contrastano, l’interpretazione ontologica, da parte dello Stagirita, della
dottrina pitagorea. Cfr. T. Angier, Techne in Aristotle’s Ethics. Crafting the Moral Life, Continuum: Studies in Ancient Philosophy, London 2010, p. 132. La critica di Aristotele ai Pitagorici
è inflessibile: essi hanno parlato dell’essenza e dato delle definizioni in modo troppo rozzo e superficiale, come confondendo l’essenza del doppio e l’essenza del due (cfr. Metafisica A, 987 a
23-26), e pertanto scambiando «[…] la predicazione (ad esempio, “x è doppio”) con la specificazione di una sostanza (ad esempio, “x è due”)» (Angier, Techne in Aristotle’s Ethics…, p.
132). Su questo punto, si veda anche Reale, Aristotele. Metafisica…, vol. III, p. 55 n. 35.
56 Metafisica A, 986 a 16-17.
57 In Metafisica M, 1080 b 16-20, Aristotele spiega che, per i Pitagorici, i numeri non sono
“monadici”, cioè inestesi e incorporei, ma hanno magnitudine, quindi occupano uno spazio.
58 Annas, Aristotle’s Metaphysics. Books M and N…, p. 74.
59 Annas, Aristotle’s Metaphysics. Books M and N…, p. 75.
60 Cfr. Metafisica I, 6, 1057 a 3-4. Sulle aporie conseguenti l’ammissione che l’uno sia misura
del molteplice, si veda Annas, Aristotle’s Metaphysics. Books M and N…, p. 76.
61 Cfr. Metafisica I, 6, a 3.
55
216
in un certo senso, l’uno e il numero si oppongono (¢nt…keita… pwj tÕ ān kaˆ
¢riqmÒj), in quanto relativi, poiché l’uno è misura (mštron) e il numero il misurabile
(metrhtÒn)62.
In tale prospettiva, il primo molteplice, quindi - stante il fatto che il molteplice è come il
genere del numero - il primo numero risulta essere il due63. Questa visione aristotelica
dell’uno è attraversata da un’ambiguità, che egli stesso riconosce64, ma che spesso emerge nelle sue trattazioni: l’intreccio tra «[…] l’unitarietà di una cosa […]» e «[…] il
suo essere numericamente una»65. Il filosofo «[…] avrebbe potuto formulare i suoi problemi in maniera piuttosto diversa, se fosse giunto a vedere che i problemi relativi alle
unità sono alquanto distinti dai problemi relativi all’unità»66. Spesso egli tratta insieme
le questioni che riguardano l’essere uno di numero e l’essere uno nel genere o nel tipo.
«In buona misura, Aristotele è vittima della lingua greca, poiché la singola ān parola
copriva un campo che noi spartiamo tra “uno”, “unità”, e “unitarietà”; è anzi gran cosa
che Aristotele riesca ad operare le distinzioni che opera»67. Seppur in tale ambiguità,
riassumendo semplicisticamente, se, dunque, l’uno per Aristotele non può essere considerato un numero sic et simpliciter, resta chiara l’affermazione per cui ogni numero deve risultare, necessariamente, o pari o dispari.
Asimmetria degli esempi
I commentatori hanno rivelato delle asimmetrie tra i due esempi di contrari che non
ammettono intermedi. In primo luogo, un’asimmetria tra generi e specie. Da un lato,
l’affermazione aristotelica per cui o la salute o la malattia deve necessariamente essere
presente nel corpo dell’animale è valida soltanto nel caso in cui la malattia sia considerata come genere. Tale posizione sembra essere confermata da un passo del IV libro dei
Topici. Il filosofo ha appena affermato che, se il genere è contrario a qualcosa, anche la
specie dovrà esserlo, ma subito ammette che 68.
C’è un’obiezione (œnstasij) in riferimento alla salute e alla malattia (™pˆ tÁj Øgie…aj
kaˆ nÒsou): la salute, infatti, considerata in senso assoluto (¡plîj), è contraria alla
malattia; una certa malattia (tˆj nÒsoj), invece, che è una specie della malattia (edoj
oâsa nÒsou), quale, ad esempio, la febbre, l’oftalmia e tutte le altre, non è contraria a
nulla69.
2.2.2. Contrari che ammettono intermedi
Dopo aver trattato degli contrari che non ammettono intermedi, Aristotele procede
all’analisi dei contrari che, invece, li ammettono. Ammettono intermedi - quelli che gli
Stoici chiameranno ¢di£fora - i contrari per i quali non è necessario che l’uno o l’altro
appartenga alle cose nelle quali essi si generano per natura o di cui si predicano. Per e62
Cfr. Metafisica I, 6, 1057 a 4-6.
Cfr. Metafisica I, 6, 1056 b 27-32.
64 Cfr. Metafisica I, 6, 1057 a 6-7: «[…] non tutto ciò che è uno è anche numero: per esempio,
non è un numero una cosa indivisibile».
65 Annas, Aristotle’s Metaphysics. Books M and N…, p. 73.
66 Annas, Aristotle’s Metaphysics. Books M and N…, p. 74.
67 Annas, Aristotle’s Metaphysics. Books M and N…, p. 73.
68 Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 144 n. 4.
69 Topici IV, 3, 123 b 34-37.
63
217
sempio, tra il bianco e il nero, che si generano per natura in un corpo, esistono degli intermedi: il grigio, il giallo, e tutti gli altri colori; tra il cattivo e il virtuoso, che si predicano dell’uomo e di molte altre cose, esiste qualcosa di intermedio: ciò che non è né cattivo né virtuoso.
2.2.1 In alcuni casi, tali intermedi hanno dei nomi, come nel caso del grigio, del giallo e degli altri colori; in altri casi, invece, essi vengono determinati attraverso la negazione dei termini contrari, come nel caso di ciò che non è né cattivo né virtuoso.
il nero e il bianco, ad esempio, si generano per natura in un corpo, e non è necessario
che l’uno o l’altro appartenga al corpo - non ogni cosa, infatti, è o bianca o nera. E cattivo e virtuoso si predicano sia di uomo sia di molte altre cose, ma non è necessario che
l’uno o l’altro di essi appartenga alle cose di cui si predicano. Non tutte le cose, infatti,
sono o cattive o virtuose. E tra queste c’è, appunto, qualcosa di intermedio: tra il bianco
e il nero, ad esempio, ci sono il grigio, il giallo e tutti gli altri colori, tra il cattivo e il
virtuoso c’è ciò che non è né cattivo né virtuoso. In alcuni casi, ci sono dei nomi per gli
intermedi, come, ad esempio, tra il bianco e il nero ci sono il grigio e il giallo; in alcuni
casi, tuttavia, non è comodo attribuire un nome al termine intermedio, ma ciò che è intermedio viene determinato attraverso la negazione di ciascuno degli estremi: ad esempio, ciò che non è né buono né cattivo, e ciò che non è né giusto né ingiusto.
3. Il possesso e la privazione
3) Privazione e possesso si dicono in riferimento a una medesima cosa, come, per esempio, la vista e la cecità in riferimento all’occhio. Per dirla in generale, ciò in cui si
genera per natura il possesso è anche ciò di cui si dice ognuno di questi (la privazione e
il possesso). Di ciascuna delle cose capaci di accogliere il possesso, diciamo che è privata qualora il possesso non sussista in alcun modo nella cosa in cui sussiste per natura
e nel tempo in cui la possiede per natura. E infatti chiamiamo sdentato non ciò che non
ha denti, e cieco non ciò che non ha la vista, ma ciò che non li ha mentre, per natura,
dovrebbe averli. Alcuni esseri, infatti, non hanno vista né denti alla nascita, ma non si
dicono sdentati né ciechi.
L’essere privato e l’avere il possesso non sono privazione e possesso. Possesso, infatti, è la vista e privazione la cecità, ma l’avere la vista non è la vista, né l’essere cieco
è la cecità. La cecità, infatti, è una certa privazione, mentre l’essere cieco è essere privato, non è una privazione. Inoltre, se la cecità fosse la stessa cosa che l’essere cieco, entrambi si predicherebbero della stessa cosa. E invece, l’uomo si dice cieco, ma in nessun
modo l’uomo si dice cecità. Sembra, tuttavia, che anche questi - l’essere privato e
l’avere possesso - si oppongano come privazione e possesso, poiché il modo di opporsi
è lo stesso. Come, infatti, la cecità si oppone alla vista, così anche l’essere cieco si oppone all’avere la vista. D’altra parte, neppure ciò che sta sotto (il contenuto)
l’affermazione e la negazione si identifica con l’affermazione e la negazione, dal momento che l’affermazione è un discorso affermativo e la negazione un discorso negativo, mentre ciò che sta sotto l’affermazione o la negazione non è affatto un discorso. Eppure, anche questi si dicono opporsi l’uno all’altro al modo dell’affermazione e della
negazione. Di fatti, il modo di opporsi in questi due casi è lo stesso. Infatti, come talora
l’affermazione si oppone alla negazione, ad esempio sta seduto - non sta seduto, così si
oppone anche i contenuti di ciascuna di esse, lo stare seduto - il non stare seduto.
218
Che, poi, la privazione e il possesso non si oppongano al modo dei relativi, risulta
chiaro dal fatto che ciò che sono non lo si dicono del loro opposto. La vista, infatti, non
è vista della cecità, né si dice in altro modo in relazione ad essa. Similmente, la cecità
non potrebbe dirsi cecità della vista; piuttosto la cecità si dice privazione della vista, e
non cecità della vista. Inoltre, i relativi si dicono in relazione ai loro corrispettivi (correlativi) di modo che, se anche la cecità rientrasse tra i relativi, ciò in relazione a cui di dice dovrebbe convertirsi; ma non si converte, infatti la vista non si dice vista della cecità.
Che le cose che si dicono secondo la privazione e il possesso non si oppongono neppure al modo dei contrari risulterà, poi, chiaro dai seguenti argomenti. Dei contrari tra i
quali non c’è nessun intermedio, è necessario che l’uno o l’altro di essi sussista sempre
nelle cose in cui si genera per natura o di cui si predica, poiché nulla è intermedio ai
contrari di cui è necessario che l’uno o l’altro sussista in ciò che è capace di riceverlo,
come nel caso della malattia e della salute, e nel caso del dispari e del pari. Nel caso dei
contrari tra cui non ci sono intermedi, invece, non è mai necessario che l’uno o l’altro
sussista in tutto: non è infatti necessario che tutto ciò che sia capace di riceverli sia o
bianco o nero, né caldo o freddo, dal momento che, tra questi estremi, nulla impedisce
che ci siano intermedi. Inoltre, avevamo detto che c’era qualcosa di intermedio tra quei
contrari di cui non era necessario che l’uno o l’altro di essi appartenesse a ciò che era
capace di riceverli, a meno che l’uno non gli appartenga per natura: ad esempio, al fuoco l’essere caldo e alla neve l’essere bianca. In questi casi, è necessario che uno determinato dei due contrari sussista, e non quello dei due che dovesse capitare, poiché è impossibile che il fuoco sia freddo e che la neve sia nera. Di conseguenza, non è necessario che l’uno o l’altro dei contrari sussista in ciò che è capace di accoglierli, ma uno solo
vi sussiste per natura, e uno determinato dei due, non quello che capiti.
Nel caso della privazione e del possesso, tuttavia, non risulta vera nessuna delle cose
che abbiamo detto. Non è, infatti, necessario che l’uno o l’altro di essi sussista sempre
in ciò che è capace di accoglierli - ciò che non possiede ancora la vista per natura, infatti, non si dice cieco, né ciò che non ha denti si dice sdentato -; di conseguenza, queste
cose non fanno parte di quei contrari tra i quali non c’è nulla di intermedio. E nemmeno
di quelli tra i quali c’è qualcosa di intermedio, poiché talora è necessario che l’uno o
l’altro di essi sussista in ciò che è capace di riceverlo: nel momento in cui, infatti, è ormai naturale possedere la vista, allora si dirà o cieco o che possiede la vista, e non un
determinato caso dei due, ma quello dei due che capiti; non è, infatti, necessario che o
sia cieco o possieda la vista, ma quello dei due che capiti. Quanto, invece, ai contrari tra
i quali si ha qualcosa di intermedio, risultava che non è in nessun caso necessario che
l’uno o l’altro sussista in tutto, ma solo in alcune cose, e, in queste, uno determinato dei
due. Di conseguenza, è chiaro che le cose che si oppongono secondo la privazione e il
possesso non si oppongono in nessuno dei due modi in cui si oppongono i contrari.
Inoltre, nel caso dei contrari, se sussiste ciò che è capace di accoglierli, è possibile
che si verifichi un cambiamento dall’uno all’altro, qualora non gliene appartenga uno
per natura come al fuoco appartiene l’essere caldo. Ciò che è sano, infatti, può ammalarsi, il bianco può diventare nero, il freddo caldo, e da virtuosi si può diventare cattivi e
da cattivi virtuosi. L’individuo cattivo, infatti, se guidato verso occupazioni e discorsi
migliori, progredirebbe, anche se a piccoli passi, verso l’essere migliore. E se anche
conseguisse una sola volta un piccolo progresso, sarebbe chiaro che potrebbe cambiare
completamente o conseguire un progresso ancora più grande. Diventa, infatti, sempre
più facile dirigersi verso la virtù, qualunque sia stato il progresso che aveva conseguito
all’inizio; di conseguenza, è logico che conseguirà un progresso anche maggiore. E se
219
questo avviene sempre, si muterà completamente nell’abito contrario, a meno che non
gli venga precluso dal tempo. Quanto alla privazione e al possesso, è invece impossibile
che si dia un mutamento reciproco. Il mutamento, infatti, avviene dal possesso alla privazione, ed è impossibile che abbia luogo dalla privazione al possesso. Colui che è diventato cieco, infatti, non vede di nuovo, chi è calvo non rimette i capelli, e chi è sdentato non rimette i denti.
4. L’affermazione e la negazione
Delle quattro tipologie di opposti, l’affermazione e la negazione costituiscono quella
che raggiunge il più alto grado di opposizione. Si distinguono da tutti gli altri tipi di opposizione per il fatto che sono le uniche a dover essere, in qualsiasi caso, necessariamente l’una vera e l’altra falsa. Questa caratteristica risulta chiara attraverso il confronto
con gli altri tipi di opposizione.
4.1. Gli opposti e i valori di verità
Aristotele distingue radicalmente il quarto tipo di opposizione da tutti i precedenti
sulla base della caratteristica per cui soltanto nel caso dell’affermazione e della negazione si ha una coppia di enunciati contraddittori l’uno dei quali risulta necessariamente
vero e l’altro necessariamente falso.
È chiaro che tutte le cose che si oppongono come affermazione e negazione non si oppongono in nessuno dei modi che abbiamo detto. Solo in questo caso, infatti, è sempre
necessario che l’una sia vera e l’altra sia falsa70.
Questa peculiarità degli opposti contraddittori può essere còlta, oltre che dagli esempi
che pure Aristotele in seguito porta, anche da una constatazione apodittica71: nulla di ciò
che si dice senza connessione (tîn kat¦ mhdem…an sumplok¾n legomšnwn oÙdOn)
accoglie dei valori di verità opposti, e le cose che si oppongono secondo le altre tre tipologie di opposizione sono, appunto, dette senza connessione72 (¥neu sumplokÁj), come, ad esempio, bianco/nero per i contrari, doppio/mezzo per i relativi, vista/cecità per
il possesso e la privazione73. I valori di verità - e, più precisamente, i valori di verità opposti - sorgono solo nel momento in cui si ha una connessione di determinati elementi.
Per mostrare che il dividere dal vero dal falso sia una prerogativa dei contraddittori, Aristotele mostra come essa non possa essere attribuita alle altre forme di opposizione. Si
sofferma, in particolare, sui contrari e sulla privazione e il possesso, tralasciando, invece, completamente la trattazione dei relativi, poiché «a loro riguardo il problema è addirittura fuori luogo. Stante infatti che il relativo è ciò che, quel che è, si dice di altro, ossia del correlativo, non ha senso chiedersi non soltanto se sia necessario, ma anche se
sia possibile che uno sia vero e l’altro sia falso»74.
Per quel che concerne il caso dei contrari, occorre aggiungere delle informazioni più
specifiche. Si potrebbe obiettare, infatti, che ci siano dei casi in cui valori opposti di verità possano essere attribuiti a dei contrari: quando, cioè, dei contrari che non ammetto70
Categorie 10, 13 a 37 - b 3.
Cfr. Simplicio, In Cat., 404, 5-9.
72 Cfr. Categorie 10, 13 b 10-12.
73 Cfr. Categorie 10, 13 b 3-10.
74 Zanatta, Aristotele: Le categorie…, p. 665.
71
220
no intermedi vengano detti secondo connessione e predicati dello stesso soggetto. Ad
esempio, “Socrate gode di buona salute” (tÕ Øgia…nein Swkr£th) è contrario a “Socrate è malato” (tù nose‹n Swkr£th)75. “Godere di buona salute” (tÕ Øgia…nein) e “essere malato” (tù nose‹n) sono due contrari che, in questo caso, attraverso una connessione, vengono attribuiti allo stesso soggetto, Socrate, e che non ammettono intermedi: delle due l’una, o si è sani o si è malati, tertium non datur. Sembra, pertanto, che la salute o
la malattia debbano necessariamente concernere Socrate76. In realtà, tuttavia, si potrebbe
rispondere correttamente all’obiezione affermando che neppure in questi casi è sempre
necessario che un contrario sia vero e l’altro sia falso. La ragione di ciò viene spiegata
dallo stesso Aristotele:
Se, infatti, Socrate esiste, allora l’uno è vero e l’altro è falso, ma, se Socrate non esiste,
entrambi sono falsi, poiché, se Socrate stesso non esiste affatto, non è vero né che Socrate gode di buona salute né che è malato77.
Le due affermazioni assumono valori di verità opposti solamente nel caso in cui il soggetto cui ci si riferisce, in questo caso Socrate, esiste. Se, invece, Socrate non esiste, entrambe le affermazioni risulteranno false, dal momento che chi non esiste non può essere né sano né malato78. I contrari, dunque, non condividono la peculiarità dei contraddittori, perché quest’ultimi si dividono sempre in vero e falso, sia che Socrate esista sia che
non esista.
Neppure nel caso delle cose cui sono attribuiti possesso e privazione secondo una
connessione79, ossia nel caso delle proposizioni che esprimono un possesso o una privazione80, si verifica la caratteristica poc’anzi attribuita ai contraddittori. Se il soggetto
non esiste, entrambe le proposizioni “X ha la vista” e “X è cieco” risultano false, poiché
di chi non esiste non si può dire né che abbia la vista né che sia cieco; se, invece, il sog75
Secondo Simplicio, In Cat., 404, 12, “Socrate gode di buona salute” e “Socrate è malato” sono dei pr£gmata, e cioè oggetti non proposizionali (anche se non necessariamente “sostanze”),
in quanto si riferirebbero, rispettivamente, alla salute e all’infermità di Socrate. Il termine
pr£gmata usato da Simplicio in questa sede potrebbe avere assunto delle connotazioni stoiche.
Gli Stoici, infatti, erano soliti chiamare le espressioni come “Socrate gode di buona salute” e
“Socrate è malato” pr£gmata o lškta. I lškta (letteralmente, i “dicibili”) sono i significati,
incorporei, veicolati dalle parole. La teoria stoica distingue tra l’oggetto reale, corporeo, le parole e le proposizioni, cioè, l’insieme di suoni articolati, anch’essi corporei e, infine, il significato
(lektÒn) dei suoni che vengono emessi con la voce. I lškta possono essere incompleti o completi: incompleti sono gli elementi linguistici singolarmente considerati, come il singolo verbo
senza soggetto (ad esempio, “corre”), completi quando ci si riferisce all’intera proposizione (ad
esempio, “Socrate corre”). È chiaro che, in questo caso, si stia trattando di lškta completi. Cfr.
R. Gaskin, The Stoics on Cases, Predicates and the Unity of the Proposition, «Bulletin of the
Institute of Classical Studies», 41 (1997), pp. 91-108.
76 Cfr. Categorie 10, 12 b 27-32.
77 Categorie 10, 13 b 16-19.
78 Con un ribaltamento dei valori di verità, Simplicio, In Cat., 404, 30-35, piuttosto che affermare la falsità dei due enunciati, mostra la verità delle negazioni di essi: «Di ciò che non esiste
[Socrate], la negazione “Non si dà che Socrate goda di buona salute” è vera quanto “Non si dà
che Socrate sia malato”. Questo perché il non essere malati non è la stessa cosa che godere di
buona salute, come anche il non vedere non è la stessa cosa che essere ciechi. Affermare di un
muro che non goda di buona salute e che non abbia la vista è chiaramente vero, ma è falso dire
che “è malato e cieco”».
79 Cfr. Simplicio, In Cat., 404, 1-2.
80 Cfr. Gaskin, Simplicius: On Aristotle Categories 9-15…, p. 226, n. 802.
221
getto esiste, non è affatto necessario che una proposizione risulti vera e l’altra falsa: potrebbe, infatti, accadere che il soggetto non sia ancora naturalmente e fisiologicamente
in grado di vedere (come i cuccioli appena nati)81 oppure che il soggetto non abbia proprio la capacità di vedere,e cioè non abbia la vista neppure in potenza (non si può dire,
ad esempio, che un muro abbia la vista o che sia cieco). In questi casi, entrambe le proposizioni risulterebbero false, pur esistendo il soggetto.
Come attestato da Simplicio82, Nicostrato obietta ad Aristotele che, pur avendo escludo dai relativi, dai contrari, e dal possesso e la privazione la caratteristica del dividere in modo dicotomico il vero dal falso, questa non possa assurgere al rango di peculiarità esclusiva (‡dion)83 dei contraddittori perché, da un lato, essa non appartiene solamente ai contraddittori e, dall’altro, perché non appartiene a tutti i contraddittori. Non
appartiene esclusivamente ai contraddittori perché, secondo Nicostrato, la necessità di
una divisione dicotomica del vero e del falso deve essere attribuita anche a quelle asser81
Simplicio, In Cat., 405, 7-20, insiste su questo punto, obiettando che il non avere la naturale e
fisiologica capacità di vedere si attribuisce ai cuccioli appena nati, ma non a Socrate, esempio
portato da Aristotele (cfr. Categorie 10, 13 b 24-27). Secondo il commentatore neoplatonico, lo
Stagirita avrebbe trasferito nel caso del possesso e della privazione lo stesso esempio che aveva
poc’anzi usato in riferimento ai contrari, attribuendo a Socrate la disposizione che si attribuisce
agli animali che, al momento della nascita, non possiedono la vista. Tale trasferimento sarebbe
dettato, sempre secondo Simplicio, dal fatto che il metodo scientifico di dimostrazione richiede
di provare cose correlate sulla base degli stessi esempi (nella misura in cui questo sia possibile),
e Aristotele avrebbe accettato tale norma in quanto, secondo il Filosofo, non sono tanto importanti gli esempi addotti quanto ciò che, attraverso essi, si riesce a dimostrare. Simplicio aggiunge che potrebbe sussistere una verità all’interno dell’esempio aristotelico. Magari l’uomo, afferma il neoplatonico, non possiede la vista al momento della nascita o non la usa come usa il
senso del tatto, fino a che la levatrice non apre le sue palpebre e pulisce i suoi occhi (una teoria
presente nelle antiche enciclopedie mediche: cfr. Soranus in Gynaeciorum Libri IV, ed. J. Ilberg,
Leipzig 1927, 2.13.2, p. 60, 15-17; Oribasius in Oribasii Collectionum Medicarum Reliquiae,
vol. 4, ed. J. Raeder, Leipzig 1933, 29.3, p. 120, 26; Gaskin, Simplicius: On Aristotle Categories 9-15…, p. 227, n. 807. Delle teorie riguardanti la vista nei neonati si trovano anche in Empedocle e negli Stoici. Secondo Empedocle, DK A.74, al momento della nascita l’umore (Øgras…a) si riassorbe e l’aria esterna entra a riempire i vasi (¢gge‹oi) rimasti vuoti, permettendo
così la vista (cfr. R. Laurenti, Empedocle, M. D’Auria, Napoli 1999, p. 235). Anche secondo gli
Stoici, SVF 2. §§ 804-808, la percezione e i sensi entrano a far parte dell’organismo vivente al
momento della nascita: l’impatto dell’aria fredda esterna fa sì che lo spirito vitale (pneàma)
dell’infante si trasformi dallo stadio vegetativo a quello animale. Cfr. Gaskin, Simplicius: On
Aristotle Categories 9-15…, p. 227, n. 809). Oggi sappiamo che la vista del neonato comincia a
svilupparsi già durante la gestazione e che i suoi occhi sono sensibili alla luce; al momento della
nascita, tuttavia, i neonati tengono quasi sempre gli occhi chiusi, e li aprono solo dopo pochi
minuti o poche ore. Già nei primissimi giorni successivi al parto, poi, l’infante è in grado di
mettere a fuoco e distinguere gli oggetti posti a una distanza non superiore a una trentina di centimetri da lui; nei primi mesi di vita la sua vista diventa sempre più acuta, fino a che, intorno ai
sei - otto mesi, riesce a vedere il mondo quasi come lo vede un adulto, distinguendo anche i colori. Possiamo, quindi, affermare che l’esempio aristotelico è valido anche per la medicina odierna: il “Socrate” appena nato non è naturalmente e fisiologicamente capace di vedere come
può vedere un adulto.
82 Simplicio, In Cat., 406, 5-15.
83 Le obiezioni di Nicostrato risultano chiare se si assume che egli utilizza, in questa sede, il
termine ‡dion in senso stretto, presente in Porfirio, Isagoge 12, 13-22, come ciò che appartiene
esclusivamente a tutti i membri di una certa classe.
222
zioni, positive o negative, che contengono un giuramento (“Sì, per Atena, l’ho fatto!”,
“No, per Atena, non l’ho fatto!”)84, alle espressioni di meraviglia (“Com’è bello il Pireo!”, “Il Pireo non è affatto bello”) e a quelle di biasimo (“Che uomo indegno!”, “Non è
un uomo indegno”)85. D’altro canto, la caratteristica, secondo Nicostrato, non appartiene
a tutti i contraddittori perché gli enunciati che riguardano un tempo futuro, stando la natura del contingente, non possono essere veri né falsi86.
Per queste obiezioni, gli Stoici avevano degli argomenti di difesa a favore di Aristotele87. Per quel che concerne il primo punto, essi rispondevano che è scorretto e irrilevante asserire che il dividere dicotomicamente il vero dal falso non possa essere una caratteristica dei contraddittori basandosi sul fatto che essa possa essere attribuita ad altre
asserzioni, dal momento che lo Stagirita l’ha presentata come peculiarità dei contraddittori non in assoluto, in relazione a tutto il resto, ma solo relativamente alle altre tre tipologie di opposizione (contrari, relativi, possesso e privazione)88. Quanto al riferimento
alle asserzioni che contengono un giuramento (come anche per quelle che contengono
delle espressioni di meraviglia e di biasimo), gli Stoici si richiamano alla loro definizione di proposizione (¢x…wma), secondo la quale essa è precisamente ciò che è o vero o
falso89. Dal punto di vista stoico, un giuramento non può essere vero o falso; è sì plausibile che, in esso, si giuri lealmente (eÙorkšin) oppure che si spergiuri (™piorkšin), ma
esso non può costituire un’asserzione vera (¢lhqeÚein) o un’asserzione falsa (yeudšsqai), neppure se vi si giura qualcosa di vero o qualcosa di falso. In simili enunciati, infatti, altri fattori, quali le intenzioni e la condotta di colui che effettua il giuramento sono decisivi90. Simplicio91, su questo punto, si spinge oltre la posizione stoica, asserendo
84
Ammonio, In Int., 2,9-3,6, concorda con questa posizione di Nicostrato, contro quella degli
Stoici, ritenendo che i giuramenti siano suscettibili di verità o di falsità, e che l’unica differenza
tra un’enunciazione dichiarativa e un giuramento sia, in quest’ultimo, l’aggiunta
dell’invocazione di una divinità. Cfr. Gaskin, Simplicius: On Aristotle Categories 9-15…, p.
228 n. 816.
85 Sulla lettura di tali esempi delle espressioni di meraviglia e di biasimo si veda Gaskin, Simplicius: On Aristotle Categories 9-15…, p. 228 n. 818.
86 Il riferimento è alla questione dei futuri contingenti, che Aristotele tratta in De Interpretatione, 9. Degli enunciati che riguardano il passato e il presente, è necessario che uno deve essere
vero e l’altro deve essere falso. Ma cosa accade quando l’oggetto della proposizione è contingente e riguarda il future? Riguardo a una battaglia navale futura, né l’enunciato “Ci sarà una
battaglia navale” né l’enunciato “Non ci sarà una battaglia navale” sono veri, ma contengono
soltanto la possibilità di diventare veri. L’evento non è necessario, e, pertanto, potrebbe accadere come anche non accadere; si tratta di una realtà costituita in modo tale che potrebbe verificarsi l’una o l’altra delle due possibilità.
87 Cfr. Simplicio, In Cat., 406, 15-28.
88 Resta, in ogni caso, l’obiezione per cui non è possibile asserire che il dividere dicotomicamente il vero dal falso non possa essere una caratteristica dei contraddittori perché anche alcuni
contrari, come osservato in precedenza, la possiedono; il che costituisce la vera obiezione su
questo punto. Il punto di distinzione tra gli opposti contraddittori e quella tipologia di contrari,
tuttavia, è cruciale: i primi dividono sempre dicotomicamente il vero dal falso, i secondi solo in
alcuni casi. Cfr. Gaskin, Simplicius: On Aristotle Categories 9-15…, p. 229 n. 823.
89 Cfr. D.L. 7. 65; Sextus AM 8. 12; Cicero Acad. 2. 95.
90 L’importanza che gli Stoici tributano alle intenzioni di colui che effettua il giuramento viene
declinata in modo diverso da Cleante e da Crisippo. Secondo il primo, «[…] già all’atto del giuramento uno è leale o spergiuro: se infatti giura con l’intenzione di mantenere il giuramento, è
leale; se invece non intende mantenerlo, è spergiuro» (H. von Arnim (a cura di), Stoici antichi:
223
che è vero che gli enunciati che esprimono dei giuramenti non sono veri o falsi, ma il
fatto che si giuri lealmente o si spergiuri consiste in una funzione del valore di verità
che appartiene al contenuto proposizionale contenuto nell’enunciato che comprende anche la formula del giuramento (l’invocazione della divinità)92. Da una simile prospettiva, si salva l’oggettività di un valore di verità che resta ancorato al contenuto proposizionale, il nocciolo dell’enunciato, ma si perde completamente di vista la soggettività
intenzionale del giurante93.
tutti i frammenti, introduzione, traduzione, note e apparati a cura di R. Radice, presentazione di
G. Reale, Bompiani Il pensiero occidentale, Milano 2006, SVF 1.§581. Cfr. anche M. Baldassarri (a cura di), La logica stoica: Testimonianze e frammenti, vol. VIII: Testimonianze sparse ordinate sistematicamente, Lipotipografia Malinverno, Como 1987, p. 129). Mentre Cleante identifica le intenzioni del giurante esclusivamente all’atto del giuramento, Crisippo insiste
sull’importanza della condotta del giurante fino all’adempimento dell’impegno, e distingue il
giurare il vero (¢lhqeÚein), cioè effettuare un giuramento il cui contenuto proposizionale sia
vero, dal giurare lealmente (eÙorkšin) e il giurare il falso (yeudšsqai), cioè effettuare un giuramento il cui contenuto proposizionale sia falso, dallo spergiurare (™piorkšin) (cfr. SVF
2.§197). L’eÙorkšin e l’™piorkšin non possono costituire delle proposizioni riconducibili a un
valore di verità univoco, perché devono essere giudicati a partire dalle intenzioni, e, aggiunge
Crisippo discostandosi, così, da Cleante, anche dalla condotta del giurante.
91 Simplicio, In Cat., 406, 28-34.
92 Simplicio suddivide l’enunciato che veicola il giuramento in due parti: il contenuto proposizionale e l’invocazione della divinità. La formula invocativa, per se stessa, non denota nulla di
vero o di falso, ma, qualora sia connessa a un contenuto proposizionale, dà luogo a un giurare
lealmente, anche se non a un giurare il vero, oppure a uno spergiurare, anche se non a un giurare il falso. Secondo Simplicio, infatti, solo al contenuto proposizionale, e non al giuramento,
appartengono i valori di verità o di falsità.
93 Secondo Gaskin, Simplicius: On Aristotle Categories 9-15…, p. 229, n. 825, «La posizione
corretta potrebbe collocarsi a metà strada tra la posizione di Simplicio e quella degli Stoici: forse la verità della proposizione contenuta nel giuramento è sufficiente ma non necessaria al “giurare lealmente”, e la sua falsità necessaria ma non sufficiente allo “spergiurare”». Le moderne
teorie del linguaggio sono concordi nell’annoverare il giuramento tra i cosiddetti “atti linguistici”, enunciati di cui non si può descrivere il contenuto o sostenere la veridicità, ma che servono
a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo. Un atto linguistico consta di tre
parti: la locuzione (struttura ed enunciato), l’illocuzione (l’obiettivo, l’intenzione comunicativa),
e la perlocuzione (effetto dell’atto linguistico sull’interlocutore). La teoria degli atti linguistici
nasce all’interno della filosofia analitica anglosassone con la lezione dal titolo How To Do
Things With Words tenuta da J. L. Austin all´Università Harvard nel 1955, il cui testo fu pubblicato postumo nel 1962: J. L. Austin, How To Do Things With Words, Clarendon, Oxford 1962,
trad. it. a cura di C. Penco e M. Sbisa, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987,
2002 . La teoria fu in seguito sistematizzata e divulgata da J. R. Searle, Speech acts: an essay in
the philosophy of language, Cambridge University press, Cambridge 1969, trad. it. di G. R.
Cardona, Atti linguistici: saggio di filosofia del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1976,
2009. L’atto performativo (il cui nome deriva da to perform, “eseguire”), quale è il giuramento,
è un’asserzione che, a differenza dall’atto costatativo, non descrive un certo stato delle cose in
modo vero o falso, ma compie quanto si sta dicendo, producendo un fatto reale. L'atto performativo, quindi, non è né vero né falso. Tuttavia, secondo Austin, se chi compie un atto performativo non lo fa nel contesto adatto, non ha le condizioni per farlo oppure non si comporta in modo
consequenziale (per esempio, nel caso di una promessa non mantenuta o di un falso giuramento), l’atto performativo è abusato, ma continua a essere un atto performativo, seppur “infelice”.
«Per dar conto del modo in cui gli atti illocutivi svolgono il loro compito, Austin ha introdotto
un certo numero di criteri che ha chiamato condizioni di felicità per distinguerli dalle condizioni
6
224
Quanto al secondo punto dell’obiezione di Nicostrato, secondo la quale la caratteristica di dividere dicotomicamente il vero dal falso non appartiene a tutti i contraddittori
perché gli enunciati costatativi che riguardano un tempo futuro, stando la natura del
contingente, non possono essere né veri né falsi, Simplicio94 propone, in risposta, le due
diverse posizioni degli Stoici e dei Peripatetici a riguardo.
La posizione stoica, da un lato, eguaglia le proposizioni contraddittorie che riguardano il futuro a quelle che concernono il tempo passato e il tempo presente: una delle due
proposizioni deve essere necessariamente vera e l’altra necessariamente falsa, dal momento che, nella visione stoica, gli eventi futuri sono già stati determinati. Se domani ci
sarà una battaglia navale, l’enunciazione “Domani ci sarà una battaglia navale” è vera e
l’enunciazione “Domani non ci sarà una battaglia navale è falsa; se, al contrario, domani
non ci sarà una battaglia navale, l’enunciazione “Domani non ci sarà una battaglia navale è vera, e “Domani ci sarà una battaglia navale” è falsa. Sia che la battaglia navale avverrà sia che non avverrà, necessariamente i contraddittori divideranno dicotomicamente il vero dal falso.
I Peripatetici, d’altro lato, sono concordi con gli Stoici nell’affermare che i contraddittori che riguardano il futuro devono essere l’uno vero e l’altro falso, ma indicare quale dei due sia vero e quale falso è cosa, per sua natura, inafferrabile e instabile
(¥statoj)95. Nel caso del passato e del presente, è già determinato quale dei due contraddittori sia vero e quale sia falso; nel caso del tempo futuro, invece, questo non è stato ancora determinato, ma lo sarà. Per rispondere all’obiezione di Nicostrato, infatti, i
contraddittori devono presentarsi, in un certo senso, come l’uno vero e l’altro falso. Affinché, invece, la posizione dei Peripatetici si differenzi da quella degli Stoici, i contraddittori, in un altro senso, non si presentano come l’uno vero e l’altro falso: questo si
di verità: gli atti linguistici pertanto non saranno veri o falsi ma, per usare i termini di Austin,
felici o infelici (in seguito Searle avrebbe introdotto il termine “coronati da successo” [successful]) per designare gli atti riusciti. Di conseguenza perché un atto linguistico sia compiuto “felicemente” (o con successo) è necessario rispettare alcune condizioni […]: Presenza di una procedura convenzionale […]. Numero e tipi appropriati di partecipanti e circostanze […]. La
procedura dev’essere eseguita da tutti i partecipanti, correttamente, e […] Completamente
[…]. Condizioni di sincerità […]. Comportamento conseguente.» (A. Duranti, Linguistic Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge 1997, trad. it. a cura di A. Perri e S. Di Loreto, Antropologia del linguaggio, Meltemi, Roma 2002, 2005 , pp. 201-202). Le ultime due
condizioni costituiscono i punti su cui, come abbiamo visto, insiste Crisippo: l’intenzionalità del
giurante e la sua condotta fino all’adempimento dell’impegno. Pur sussistendo una grande attenzione all’intenzionalità del soggetto, dalla prospettiva delle condizioni dettate da Austin, tuttavia, colui che giura qualcosa per il futuro e che intende compiere qualsiasi sforzo per adempire
il proprio impegno, ma il cui tentativo viene vanificato da circostanze puramente esterne, compie comunque un atto infelice, perché la realizzazione di una singola condizione è necessaria,
ma non sufficiente al raggiungimento della felicità dell’atto linguistico. Non potremmo affermare, però, che egli abbia spergiurato.
94 Simplicio, In Cat., 406, 35 - 407, 15.
95 Il termine ¥statoj (incerto) non deve essere letto nel senso che «gli enunciati che riguardano
i futuri contingenti cambiano i loro valori di verità nel tempo, ma nel senso che i loro valori di
verità non sono (ancora) stati determinati» (Gaskin, Simplicius: On Aristotle Categories 9-15…,
p. 230 n. 833). Su un simile uso del termine in Boezio, si veda R. Gaskin, The Sea Battle and
the Master Argument: Aristotle and Diodorus Cronus on the Metaphysics of the Future, de
Gruyter, Berlin 1995, pp. 151-153.
2
225
verifica precisamente perché non si sa ancora quale dei due sia in modo determinato vero e quale sia in modo determinato falso96.
4.2. Le coppie di contraddittori nel De Interpretatione
Sul tema delle asserzioni contraddittorie non si può trascurare lo scritto aristotelico
De Interpretatione, il cui Capitolo 6 è dedicato proprio alla presentazione delle coppie
di contraddittori e rappresenta come il «culmine della sezione introduttiva del trattato»97, costituita dai primi cinque capitoli98. I capitoli successivi al sesto espongono una
sempre più dettagliata analisi delle asserzioni contraddittorie99.
Nel Cap. 6, Aristotele esordisce presentando e definendo i due tipi di discorso dichiarativo o enunciativo:
96
«La differenza tra il modo aristotelico e quello stoico di intendere la possibilità è facilmente
comprensibile ritornando […] alla teoria della significazione. Per gli stoici si parte dai giudizi,
che sono dei lektà, dei significati. Sono anzitutto i giudizi a essere possibili, impossibili, ecc.
Posta una rappresentazione, la si confronta poi con l’oggetto di cui si parla. E ciò vale anche in
una visione deterministica della realtà, quale quella stoica. Aristotele parte invece dalla realtà.
Per lui la possibilità è una reale capacità, non una questione logica. Per questo egli ritiene che
una possibilità, una capacità reale, debba in qualche modo attuarsi» (S. Tommaso d’Aquino,
Logica dell’enunciazione: Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, a cura di G. Bertuzzi e S. Parenti, PDUL Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997, Lettura XII: Le enunciazioni future contingenti: gli inconvenienti del determinismo, p. 194).
97 C.W.A. Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione: Contradiction and Dialectic, Oxford University Press, Oxford 1996, First published 1996, First published in paperback 2002, p. 78.
98 I primi cinque capitoli del trattato si presentano come un’analisi necessariamente propedeutica all’indagine delle asserzioni. Per abbozzare un breve résumé, nel Cap. 1 vengono presentati
gli oggetti dell’indagine: il nome (Ônoma) e il verbo (·Áma) e, solo successivamente,
l’affermazione (kat£fasij), la negazione (¢pÒfasij), il giudizio (¢pÒfansij) e il discorso
(lÒgoj). Aristotele definisce i suoni della voce, e cioè le parole, come i «simboli delle affezioni
che hanno luogo nell’anima» (tîn ™n tÁ yucÁ paqhm£twn sÚmbola) e le lettere scritte (t¦
grafÒmena) come i «simboli del suono della voce» (tîn ™n tÁ fwnÁ) (De Interpretatione 1, 16
a 3-4). Tali simboli, sia quelli proferiti sia quelli scritti, sono diversi in lingue diverse, ma le nozioni che essi esprimono sono le stesse. I nomi e i verbi, infine, presi per se stessi, senza connessione, non implicano né verità né falsità. Il Cap. 2 è dedicato al nome; Aristotele vi spiega
che esso non è tale per natura (fÚsei), ma viene assegnato per convenzione (kat¦ sunq»khn),
e prescinde dal tempo (il nome “Cesare”, ad esempio, designa la stessa cosa al giorno d’oggi, a
duemila anni dalla morte, che al tempo dei Romani). Le parti del nome, cioè le sillabe, se considerate separatamente e per se stesse, non hanno un significato e sono puri suoni. Il Cap. 3 tratta
del verbo, il quale esprime, invece, una determinazione temporale. Ad esempio, “sta in buona
salute” esprime non solo la salute, ma anche il suo sussistere al momento presente. Nel Cap. 4 si
spiega che il discorso (lÒgoj) è un suono della voce in cui ogni parte, se considerata separatamente e per se stessa, ha significato. Anche il discorso, come il nome, non è significativo per
natura, ma per convenzione. I discorsi possono essere di diversi tipi; solo a quello dichiarativo o
enunciativo (¢pofantikÕj), però, appartiene il valore di verità o di falsità. L’indagine degli altri
tipi di discorso (ad esempio il volitivo) spetta alla retorica e alla poetica; l’indagine di quello dichiarativo, invece, spetta al trattato De Interpretatione. Nel Cap. 5 si spiega che l’affermazione
e la negazione sono discorsi dichiarativi. I discorsi dichiarativi che formano un’unità possono
essere: semplici, se qualcosa viene attribuito a qualcosa o qualcosa viene separato da qualcosa, o
composti, se formati da più dichiarazioni semplici.
99 Cfr. Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione…, p. 78.
226
L’affermazione (kat£fasij) è il giudizio che attribuisce qualcosa a qualcosa
(¢pÒfansij tinÕj kat¦ tinÒj). La negazione (¢pÒfasij), invece, è il giudizio che
separa qualcosa da qualcosa (¢pÒfansij tinÕj ¢pÕ tinÒj)100.
La contraddizione (¢nt…fasij) ha luogo quando si hanno un’affermazione e una negazione che si oppongono (kat£fasij kaˆ ¢pÒfasij aƒ ¢ntike…menai)101. Tali affermazione e negazione possono essere considerate “contraddittorie” se, rispettivamente,
l’una afferma e l’altra nega una stessa determinazione in riferimento allo stesso oggetto.
Devono essere, chiaramente, esclusi i casi di omonimia, nei quali la determinazione
viene riferita a due realtà diverse che hanno in comune esclusivamente il nome102.
Dico che due enunciati si oppongono se l’uno afferma e l’altro nega la stessa cosa rispetto allo stesso oggetto, e non omonimamente lo stesso (m¾ ÐmonÚmwj dš) […]103.
Affinché si abbia una contraddizione, tuttavia, non basta che sia evitata l’omonimia, ma
devono verificarsi ulteriori condizioni, atte a poter replicare alle obiezioni dei sofisti,
che Aristotele aggiunge nel capitolo successivo.
[…] e dovranno essere rispettate anche tutte le altre condizioni simili a questa [] che
aggiungiamo come replica alle capziosità dei sofisti (prÕj t¦j sofistik¦j
™nocl»seij)104.
La caratteristica, di cui sinora si è parlato, di dividere dicotomicamente il vero e il falso
appartiene non di certo a tutti gli enunciati, ma solo a quegli enunciati che si oppongono
in senso stretto in qualità di affermazione e negazione, e cioè agli enunciati che si riferiscono a un soggetto universale presentato in forma universale, e agli enunciati che si riferiscono a soggetti singolari, come Aristotele dichiara espressamente:
[…] in tutte le contraddizioni (¢ntif¦seij) che si riferiscono a un soggetto universale,
presentato in forma universale (tîn kaqÒlou e„sˆ kaqÒlou), è necessario che uno dei
due giudizi sia vero e l’altro falso; lo stesso avviene per tutte le contraddizioni che si riferiscono a dei soggetti particolari (Ósai ™pˆ tîn kaq' ›kasta), ad esempio “Socrate
è bianco” (œsti Swkr£tej leukÒj) - “Socrate non è bianco” (oÙk œsti Swkr£tej
leukÒj)105.
Per poter comprendere appieno simili distinzioni operate dal filosofo, occorre ricostruire i rapporti logici che intercorrono tra due proposizioni categoriche, presentati nel
Cap. 7 del De Interpretatione. Per classificare le asserzioni, Aristotele divide le cose (i
pr£gmata106) in due gruppi: gli universali (t¦ kaqÒlou107) e i particolari (t¦ kaq'
100
De Interpretatione 6, 17 a 25-26.
Cfr. De Interpretatione 6, 17 a 33-34.
102 L’importanza dell’esclusione dell’omonimia risulterà manifesta nel Cap. 8 del De Interpretatione. Una sola, dichiara espressamente Aristotele, è l’affermazione o la negazione che esprime una sola determinazione intorno a un solo oggetto, che sia presentato in forma universale
oppure no (cfr. De Interpretatione 8, 18 a 12-13). Si tratta di enunciati “singoli”, che esprimono,
cioè, un solo fatto, come, ad esempio, “Ogni uomo è bianco”. Se, però, ci troviamo di fronte a
un caso di omonimia, per cui, con un solo nome, possiamo indicare due oggetti diversi, non abbiamo più una sola affermazione (cfr. De Interpretatione 8, 18 a 18-19). Immaginiamo, ad esempio, di imporre a “cavallo” e a “uomo” il nome di “mantello”. In questo caso, l’enunciato
“mantello è bianco” equivarrebbe a dire “cavallo e uomo sono bianchi” e, cioè, alle due affermazioni singole: “cavallo è bianco” e “uomo è bianco” (cfr. De Interpretatione 8, 18 a 19-23).
103 De Interpretatione 6, 17 a 34-35.
104 De Interpretatione 6, 17 a 35-37.
105 De Interpretatione 7, 17 b 26-29.
106 Cfr. De Interpretatione 7, 17 a 38.
101
227
›kaston108). I primi sono quelli che, per natura (pšfuke109), si predicano di più soggetti
(™pˆ pleiÒnwn kathgore‹sqai110): il termine “uomo”, ad esempio, è universale perché
si predica di più soggetti, e cioè di tutti gli uomini, esattamente nella stessa accezione.
Particolari, invece, sono i termini che non si predicano di più soggetti (kaq' ›kaston dO
Ö m»111): “Callia”, ad esempio, è singolare perché non può essere predicato, nello stesso
senso, di più di un solo individuo112.
Dopo aver diviso i termini in due classi, segue una divisione delle asserzioni, le quali
si formano attraverso la connessione dei termini. Le asserzioni, come i termini, possono
essere universali oppure particolari113, a seconda della tipologia del termine su cui viene
composto l’enunciato. Si tratta di una classificazione importante dell’analitica che riguarda quella che oggi viene chiamata “quantificazione dei predicati”. Alla distinzione
quantitativa, tra termini universali e termini particolari, si aggiunge una distinzione qualitativa, tra asserzioni affermative (che dichiarano che qualcosa appartiene a qualcos’altro) e asserzioni negative (che dichiarano che qualcosa non appartiene a qualcos’altro)114. Un’ulteriore divisione viene introdotta all’interno della classe di asserzioni
che hanno come soggetti i termini universali: le asserzioni universali, infatti, possono
essere presentate o in forma universale o in forma non universale. Si ha, così, una suddivisione delle asserzioni in: 1. asserzioni intorno a un universale, che sono: 1.1. universali (“Ogni uomo è bianco”, “Nessun uomo è bianco”); 1.2. non universali (“Qualche
uomo è bianco”)115; 2. asserzioni intorno a un individuo (“Socrate è bianco”). «I tre ge107
Cfr. De Interpretatione 7, 17 a 38.
Cfr. De Interpretatione 7, 17 a 39.
109 De Interpretatione 7, 17 a 39.
110 De Interpretatione 7, 17 a 39-40.
111 De Interpretatione 7, 17 a 40.
112 Aristotele definisce i termini singolari esclusivamente in negativo. Whitaker, Aristotle’s De
Interpretatione…, p. 83, nota come il filosofo «[…] non definisce questi termini dicendo che i
singolari possono essere esclusivamente dei soggetti, mentre gli universali possono essere anche
dei predicati. Piuttosto, il suo modo di esprimersi propone una visione per cui gli universali possono essere detti di più di un soggetto, e si lascia aperta la possibilità che un singolare possa essere correttamente predicato di qualcosa, foss’anche solo di se stesso».
113 È scorretto, in questo caso, utilizzare il termine “particolari” al posto di “individuali”, in
quanto Aristotele intende per “particolari” le asserzioni universali espresse in forma non universale. Su questo punto, si veda Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione…, p. 83 n. 2.
114 Cfr. De Interpretatione 7, 17 b 1-3.
115 Il gruppo delle asserzioni intorno a un termine universale presentate, però, non in forma universale è il più arduo da interpretare. La difficoltà sorge sin dalla traduzione del greco del esempi: œsti leukÕj ¥nqrwpoj (De Interpretatione 7, 17 b 9-10) e oÙk œsti leukÕj ¥nqrwpoj
(De Interpretatione 7, 17 b 10), in cui non compaiono articoli. Una traduzione letterale, “Uomo
è bianco” e “Uomo non è bianco”, non ha un significato chiaro (cfr. Whitaker, Aristotle’s De
Interpretatione…, p. 84), per questo qualcuno preferisce aggiungere l’articolo indeterminativo
(“ A man is white”, cfr. Ackrill, Aristotle’s Categories…, p. 129). La delimitazione delle asserzioni presentate in forma non universale è ancor più problematica in quanto negli Analitici Primi si trova una diversa classificazione delle asserzioni, anch’essa basata sulla quantità dei termini. Aristotele divide gli enunciati che costituiscono le premesse dei sillogismi in: 1. universali, 2. particolari, 3. indefiniti. «La premessa (prÒtasij) è dunque un discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcosa (katafatikÕj À ¢pofatikÒj tinoj kat£ tinoj). Tale discorso, poi, è universale (kaqÒlou) o particolare (™n mšrei) o indefinito (¢dioristÒj). Con discorso
universale intendo quello che esprime l’appartenenza a ogni cosa o a nessuna; con discorso par108
228
neri non formano una scala decrescente di generalità; il giudizio non-universale intorno
ad un universale è vero anche se c’è, p. es., un solo uomo bianco»116.
Dall’incontro tra la qualità delle asserzioni (affermative o negative) e la quantità espressa dalla forma (universale o non universale), risultano quattro possibili combinazioni e, quindi, quattro possibili tipologie di enunciati categorici:
1. Enunciato universale espresso in forma universale affermativo. Esprime il fatto
che l’estensione del soggetto, cioè la classe degli individui che cadono sotto il termine
che funge da soggetto, è totalmente inclusa nell’estensione del predicato. In breve, ogni
individuo che cade sotto il soggetto cade anche sotto il predicato (ogni A è B). Sono enunciati universali, espressi in forma universale, affermativi, ad esempio, “Ogni uomo è
bianco” e “Tutti gli uomini sono bianchi”. In epoca medievale si indicò questo tipo di
enunciato con la lettera “a” (la prima vocale della parola latina adfirmo)117. Si noti che
ticolare, intendo quello che esprime l’appartenenza a qualche cosa o la non appartenenza a qualche cosa; con discorso indefinito intendo quello che esprime l’appartenenza o la non appartenenza, a prescindere dalla forma universale o dalla forma particolare (¥neu toà kaqÒlou À
kat¦ mšroj), per esempio il discorso secondo cui i contrari sono oggetto della medesima scienza, oppure il discorso secondo cui il piacere non è bene» (Analitici primi I, 24 a16-20). I due
schemi, presenti rispettivamente, nel De Interpretatione e negli Analitici Primi, non sono sovrapponibili. Si noti che Aristotele non cita, nel passo degli Analitici Primi, le proposizioni particolari né le considera mai esplicitamente nella trattazione dell’analitica né come premessa né
come conclusione. Questa omissione può essere spiegata sulla base della divisione, che lo Stagirita opera, in tre entità: gli individui, le classi che includono gli individui e i generi sommi, i
quali, a loro volta, includono le classi. Aristotele riconosce che le indagini e le ricerche riguardano per lo più i Somma genera. «Il De Interpretatione, che considera il giudizio in se stesso,
riconosce il giudizio singolare come un genere separato; gli Analitici Primi che considerano il
giudizi rispetto al loro valore nell’effettivo ragionamento, tengono conto del fatto che, tanto il
ragionamento scientifico quanto quello dialettico, riguardano in massima parte le classi e non
gli individui» (Ross, Aristotele…, p. 36). Si osservi, inoltre, che gli enunciati “indefiniti” enumerati nella classificazione degli Analitici Primi non compaiono in quella del De Interpretatione, e che i termini universali compresi in enunciati espressi in forma non universale, di cui si
parla nel De Interpretatione, non sono menzionati negli Analitici Primi. Ackrill, Aristotle’s Categories…, p. 129, identifica gli enunciati particolari con gli enunciati che concernono termini
universali espressi, però, in forma non universale, i quali, secondo lo studioso, coinciderebbero
con gli indefiniti. Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione…, p. 90, sottolinea che gli enunciati
particolari (o parziali) non devono essere confusi né con il gruppo degli enunciati che riguardano termini universali espressi, però, in forma non universale, né con il gruppo degli enunciati
intorno a termini individuali (o singolari). «Le asserzioni parziali sono assegnate allo stesso
gruppo degli enunciati universali espressi in forma universale […]. Negli Analitici Primi, essi
vengono distinti come un gruppo separato. Per Aristotele, il vantaggio che segue l’assegnare le
asserzioni parziali al secondo gruppo del De Interpretatione piuttosto che a un gruppo separato
consiste nel fatto che, in questo modo, ciascuno dei tre gruppi comprende entrambi i membri di
ogni coppia di contraddittori: non esiste coppia di contraddittori tale che i suoi due elementi appartengano a due gruppi diversi. Ciò permette una trattazione separata di come la contraddizione
si dà nei tre gruppi. Poiché questo è l’interesse principale di Aristotele nel De Interpretatione, il
metodo di classificazione nel Cap. 7 segue le sue necessità» (Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione…, p. 90).
116 Ross, Aristotele…, p. 53. «Qualche» va inteso, qui, nel senso del moderno quantificatore esistenziale, cioè «almeno uno», assumendo che la classe individuata dal termine non sia vuota.
117 Nella logica dei predicati questo tipo di enunciato si formalizza nel modo seguente: ∀x (B(x)
→A(x)).
229
Aristotele, nel momento in cui intende formulare in modo rigoroso degli enunciati, mette al primo posto il predicato e al secondo posto il soggetto: la proposizione “Ogni uomo è bianco” è, a suo avviso, correttamente formulata come tÕ leukÕn Øp£rcei pantˆ
tù ¢nqrèpw, con la quale si indica che il bianco appartiene alla totalità dell’insieme
“uomo”. «Per rispettare quest’uso simbolizzeremo una proposizione universale affermativa con AaB, dove 'A' sta per il predicato (nel nostro caso 'bianco'), 'B' per il soggetto
('uomo') e 'a' indica che la predicazione è insieme universale e affermativa»118.
2. Enunciato universale espresso in forma universale negativo. Esprime il fatto che
l’estensione del soggetto è totalmente esclusa dall’estensione del predicato; soggetto e
predicato, cioè, sono disgiunti, e non esiste nessun individuo che cada sotto entrambi
(nessun A è B). È un enunciato universale, espresso in forma universale, negativo, ad
esempio, “Nessun uomo è bianco”, oppure “Ogni uomo non è bianco”. In epoca medievale si indicò questo tipo di enunciato con la lettera “e” (la prima vocale della parola latina nego), per cui la proposizione universale negativa può essere rappresentata con
AeB119.
3. Enunciato non universale (particolare120) affermativo. Esprime il fatto che
l’estensione del soggetto è parzialmente inclusa nell’estensione del predicato. Soggetto
e predicato non sono disgiunti, poiché c’è almeno un individuo che cade sia sotto il soggetto sia sotto il predicato (qualche A è B, oppure non ogni A è B). In epoca medievale
118
M. Mignucci, Aristotele e l’esistenza logica, in M. Carrara - P. Giarretta (edd.), Filosofia e
logica, Rubbettino, Catanzaro 2004, pp. 3-37, p. 3. Il simbolismo usato è stato introdotto da G.
Patzig, Aristotle’s Theory of the Syllogism. A logical-philological study of book A of the Prior
Analytics, Synthese Library, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht 1968, pp. 1-2.
119 Nella logica dei predicati questo tipo di enunciato si formalizza nel modo seguente: ∀x (B(x)
→ ¬A(x)) oppure: ¬∃x (B(x) ∧ A(x)).
120 È di massima importanza non confondere le proposizioni particolari con le proposizioni individuali. Quest’ultime costituiscono un giudizio intorno a un individuo, un membro di una
classe dotato di un nome proprio, ad es. Callia o Socrate; le prime, invece, costituiscono un giudizio intorno a un termine universale, preso, però, in una sua parte, e senza nominare gli individui compresi in tale parte. «È vero che, se Socrate è bianco, allora qualche uomo è bianco, ma la
bianchezza di Socrate è una condizione meramente sufficiente, e non necessaria, alla bianchezza
di qualche uomo, e le due asserzioni di certo non si equivalgono» (Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione… p, 89). La confusione tra le proposizioni particolari e le proposizioni individuali
può crearsi scambiando i termini attraverso i quali esse vengono indicate. Aristotele utilizza due
espressioni chiaramente distinte: kaq´›kaston (individuali, lat. singularis, Engl. singular) e ™n
mšrei (particolari, lat. particularis o particulariter, lat. partial. Probabilmente il primo ad usare
il termine “particularis” è stato Apuleio, Peri Hermeneias, 266, 11 ss.). Nel Medioevo, i termini
hanno subìto una confusione: il termine “singolare” è stato a volte utilizzato per indicare quanto
designato dal termine “particolare” (cfr. Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione…, p. 89 n. 13),
cosicché l’aggettivo “particolare” ha assunto, col tempo, il significato di “individuale”, “singolo”, “separato”, al posto di quello di “non universale”. T. Waitz, Aristotelis Organon Graece…,
vol. I: , p. 334, parla di enunciati intorno agli individui come particolari (enuntiatio particularis). Ackrill usa il termine “particolare” nel senso originale; in alcuni casi, tuttavia, traduce
l’espressione kaq' ›kaston con “particolare” (cfr. Ackrill, Aristotle’s Categories…, p. 47, p.
129). Per evitare tali scambi, Whitaker, Aristotle’s De Interpretatione…, non utilizza il termine
“particolare”, a causa della sopraggiunta ambiguità, a favore dell’aggettivo “parziale”.
230
tale fu indicato con la lettera “i” (la seconda vocale della parola latina adfirmo), quindi
la proposizione particolare affermativa può essere rappresentata con AiB 121.
4. Enunciato non universale (particolare) negativo. Esprime il fatto che l’estensione
del soggetto non è totalmente inclusa nell’estensione del predicato. Esiste almeno un individuo che cade sotto il soggetto, ma non sotto il predicato (qualche A non è B). In epoca medievale questo tipo di enunciato fu indicato con la lettera “o” (la seconda vocale
della parola latina nego), quindi la proposizione particolare negativa può essere rappresentata con AoB 122.
Prendendo ora in considerazione i rapporti logici che intercorrono tra queste quattro
tipologie di proposizioni categoriche, ne risulterà uno schema noto come “Quadrato logico aristotelico”, o “Quadrato delle opposizioni”123. I vertici del quadrato sono costituiti dai quattro tipi di enunciati a, e, i, o. I lati e le diagonali del quadrato rappresentano i
diversi tipi di relazione tra gli enunciati, come mostrato nello schema seguente:
121
Nella logica dei predicati questo tipo di enunciato si formalizza nel modo seguente: ∃x (B(x)
∧ A(x)).
122 Nella logica dei predicati questo tipo di enunciato si formalizza nel modo seguente: ∃x (B(x)
∧ ¬A(x)) oppure: ¬∀x(B(x) → A(x)).
123 I quattro modelli di proposizioni che Aristotele individua nel Cap. 7 del De Interpretatione
vennero rappresentati, nel Medioevo, nel “Quadrato logico”, o “Quadrato delle opposizioni”,
che fu all’origine della logica modale. Tale quadrato viene, in alcuni casi, denominato “Quadrato di Apuleio”, in quanto appare per la prima volta, nella sua formulazione grafica, all’interno
del Peri Hermeneias del filosofo di scuola platonica (cfr. Apuleio, Peri Hermeneias, 108, 19
ss.). Il quadrato si ritrova, poi, nei commentatori tardi di Aristotele: in Ammonio, In Aristotelis
De Interpretatione commentarius, edidit A. Busse, Berolini, Reimer 1897, 93, 10-18; tr. ingl.
Ammonius, On Aristotle’s On Interpretation 1-8, Ancient Commentators on Aristotle, Translated by D. Blank, Cornell University Press, Ithaca 1996; e in Boezio, Commentarii in librum
Aristotelis peri hermeneias. Pars posterior secundam edizione et indicem contines, edidit K.
Meiser, Teubner, Lipsiae 1880, 152, 10 ss. Negli anni ‘60 del secolo XX, R. Blanché, Structures
Intellectuelles. Essai sur l’organisation systématique des concepts, Vrin, Paris 1969, integra,
senza affatto voler eliminare Aristotele, cui rende omaggio (cfr. Blanché, Structures Intellectuelles..., p. XXIX), il celebre quadrato in un esagono con l’aggiunta di altre due proposizioni
categoriche: “Solo qualche (ma non ogni) A è B” , e la contraddittoria di essa “O ogni o nessun
A è B”. Se “solo qualche A è B”, allora “solo qualche A non lo è”, e viceversa. Su questa base
si può elaborato una variante della sillogistica classica, storicamente inedita, che introduce, con
il quantificatore “solo qualche”, una sorta di predicazione intermedia tra “ogni A è B” e “nessun
A è B”. In questo modo, si avranno nuovi sillogismi. L’introduzione del quantificatore “Solo
qualche”, infatti, permette la traducibilità di una sillogistica “esagonale”. L’esagono di Blanché
è utile nell’ambito della logica modale in quanto spiega la natura e l’importanza della possibilità
bilaterale, un concetto fondamentale per capire la logica e il linguaggio naturale applicati ai valori modali.
231
1. La contraddittorietà. È la relazione corrispondente alle due diagonali del quadrato,
cioè quella che intercorre tra le proposizioni AaB e AoB, così come anche tra AeB e AiB.
Di due proposizioni contraddittorie, una è vera e l’altra è falsa. Secondo la formalizzazione logica:
(1) AaB ↔ ¬ AoB;
(2) ¬ AoB ↔ AaB;
(3) AeB ↔ ¬ AiB;
(4) ¬ AiB ↔ AeB124.
2. La contrarietà. È la relazione corrispondente al lato superiore del quadrato, quella
che intercorre tra un enunciato universale, espresso in forma universale, affermativo e
un enunciato universale espresso in forma universale negativo, aventi lo stesso soggetto
e lo stesso predicato. AaB e AeB sono contrari.
Se qualcuno afferma di un universale (™pˆ toà kaqÒlou), in forma universale (kaqÒlou), che qualcosa gli appartiene o che non gli appartiene, si avranno degli enunciati
contrari (™nant…ai ¢pof£nseij). Per affermare di un universale, in forma universale,
che qualcosa gli appartiene o che non gli appartiene intendo, ad esempio, “Ogni uomo
è bianco” (p©j ¥nqrwpoj leukÒj) e “Nessun uomo è bianco” (oÙdeˆj ¥nqrwpoj
leukÒj)125.
I giudizi universali contrari possono essere entrambi falsi, ma non entrambi veri126. Secondo la formalizzazione logica, ¬(AaB ∧ AeB), oppure, ¬AaB ∨ ¬AeB127. Si noti che la
dottrina del quadrato logico aristotelico è valida se non si ammettono l’esistenza logica
124
L’operatore logico “↔” del bicondizionale può essere sostituito con “⊢”, col quale si indica
che ciò che si trova a destra di esso è una conseguenza logica di ciò che si trova a sinistra. Cfr.
Mignucci, Aristotele e l’esistenza logica…, p. 5.
125 De Interpretatione 7, 17 b 3-6.
126 Cfr. De Interpretatione 7, 17 b 22-23.
127 Oppure, AaB ⊢ ¬AeB e AeB ⊢ ¬AaB. Ma ¬AaB ⊬ AeB e ¬AeB ⊬ AaB. Cfr. Mignucci, Aristotele e l’esistenza logica…, p. 5.
232
e la possibilità dei termini vuoti, inclusi nei sistemi logici contemporanei128. La relazione logica che intercorre tra due proposizioni contrarie è valida se si considera come assioma che il termine A non possa essere vuoto. Qualora lo fosse, infatti, entrambe le
proposizioni “Ogni A è B” (AaB) e “Nessun A è B” (AeB) risulterebbero “vacuamente”
vere129.
3. La subcontrarietà. È la relazione corrispondente al lato inferiore del quadrato,
quella, cioè, che intercorre tra gli enunciati AiB e AoB. «Aristotele non ha un nome per
indicare le coppie di proposizioni particolari affermative e negative […]. La tradizione
ha supplito introducendo per esse il nome di 'subcontrarie'»130. Essa è caratterizzata dal
seguente rapporto logico: due proposizioni subcontrarie non possono essere entrambe
false, mentre possono essere entrambe vere. In breve, almeno una di esse deve essere
vera131. Quindi:
¬(¬ AiB ∧ ¬ AoB), oppure, AiB ∨AoB132.
Si noti che la relazione logica che intercorre tra due proposizioni subcontrarie è valida
se si considera come assioma che il termine A non possa essere vuoto. Qualora lo fosse,
infatti, entrambe le proposizioni “Qualche A è B” (AiB) e “Qualche A non è B” (AoB)
risulterebbero false.
4. La subalternazione. La tradizione ha chiamato con questo termine la relazione corrispondente ai due lati verticali del quadrato, quella che intercorre tra AaB e AiB e tra
AeB e AoB. Se l’universale è vera (rispettivamente AaB e AeB), allora anche la corrispondente particolare (rispettivamente, AiB e AoB) è vera133. Si hanno, quindi, le due
“leggi di subalternazione” (reductiones ad subalternatam):
(1) AaB → AiB; (2) AeB → AoB, di cui non valgono, invece, com’è ovvio, le reciproche. Si noti che, anche in questo caso, la relazione logica che intercorre tra due proposizioni subalterne è valida se si considera come assioma che il termine A non possa
essere vuoto. Qualora lo fosse, infatti, la proposizione “Ogni A è B” (AaB) sarebbe vera,
mentre la proposizione “Qualche A è B” (AiB) è falsa; come anche “Nessun A è B” (AeB) sarebbe vera, mentre “Qualche A non è B” (AoB) sarebbe falsa.
Riassumendo, le proposizioni contrarie non possono essere contemporaneamente vere; quelle subcontrarie non possono essere contemporaneamente false; le subalterne
(AiB, AoB) sono sempre vere quando la subalternante (AaB, AeB) è vera; delle contraddittorie, infine, la verità dell'una equivale alla falsità dell'altra.
Sono detti “contraddittori” due enunciati che, rispettivamente, affermano e negano
l’appartenenza di una medesima caratteristica a un medesimo oggetto, nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto. Questi enunciati, secondo Aristotele, non possono essere entrambi veri: uno dei due (non importa quale, anzi non si sa quale) deve essere vero,
mentre l'altro deve essere falso.
128
Cfr. Mignucci, Aristotele e l’esistenza logica…, pp. 13-15.
Come Aristotele spiega in Categorie 10, 13 b 15-19.
130 Mignucci, Aristotele e l’esistenza logica…, p. 4.
131 «Aristotele non dice espressis verbis quanto è implicito nella sua caratterizzazione delle relazioni di contrarietà e sucontrarietà e cioè che due proposizioni contrarie possono essere insieme false e due subcontrarie non possono essere insieme false […]», ma le inferenze che riguardano questi rapporti sono «[…] immediatamente ricavabili da quelle da lui apertamente asserite» (Mignucci, Aristotele e l’esistenza logica…, pp. 5-6).
132 Oppure, ¬AiB ⊢ AoB, e ¬AoB ⊢ AiB. Ma AiB ⊬ ¬AoB e AoB ⊬ ¬AiB. Cfr. Mignucci, Aristotele e l’esistenza logica…, p. 5.
133 Cfr. Topici II 1, 109 a 1-6.
129
233
4.3. Gli enunciati contraddittori e il principio di non contraddizione
«L’insostenibilità della contraddizione […] è stata teorizzata in modo pressoché definitivo da Aristotele mediante il celebre “principio di non contraddizione”»134. Conseguentemente, non è possibile analizzare e comprendere gli enunciati contraddittori a
prescindere dalla trattazione di tale principio.
Del principio di non contraddizione possiamo distinguere tre formulazioni: ontologica, logica e psicologica135.
1. La formulazione ontologica intende il principio di non contraddizione come una
legge della realtà, una regola che governa l’esistenza stessa delle cose. Dal punto di vista aristotelico, costituisce la formulazione più importante, sulla quale si fondano le altre due. Il riferimento principale può trovarsi nel IV libro della Metafisica:
È impossibile che la stessa cosa appartenga e non appartenga (tÕ aÙtÕ Øp£rcein te
kaˆ m¾ Øp£rcein ¢dÚnaton) a una medesima cosa (tî aÙtî), nello stesso tempo
(¤ma) e secondo lo stesso rispetto (kat¦ tÕ aÙtÒ) (e si aggiungano pure anche tutte le
determinazioni che si possono aggiungere, al fine di evitare difficoltà di indole dialettica) (kaˆ Ósa ¥lla prosdiorisa…meq' ¥n, œstw prosdiwrismšna prÕj t¦j logik¦j duscere…aj)136.
Tale formulazione comprende delle importanti condizioni («nello stesso tempo», «sotto
lo stesso rispetto», etc.); qualora esse non ricorrano, l’appartenenza e la non appartenenza della stessa caratteristica allo stesso oggetto non dà luogo ad alcuna contraddizione e,
134
E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, Palermo 1987, p.
103.
135 Questa distinzione tripartita, che risente dell’influenza del contributo di H. Maier, Die Syllogistik des Aristoteles, 3 voll., Tübingen, Laupp 1896-1900, è stata assunta e analizzata dal logico polacco Łukasiewicz nella sua opera J. Łukasiewicz, O zasadzie sprzecznosci u Arystotelesa,
Studium krytyczne, Polka Akademia Umieijetnosci, Krakov 1910, ristampato a cura di J. Wolenski, Warszawa, PWN 1987., trad it. a cura di G. Franci e C. A. Testi, Del principio di non
contraddizione, Quodlibet, Macerata 2003. Le tesi contenute nell’opera, poco dopo l’uscita del
testo in lingua polacca, furono riassunte in un articolo in tedesco, tradotto in seguito in inglese e
francese per facilitarne la diffusione: J. Łukasiewicz, Über den Satz des Widerspruchs bei Aristoteles, «Bulletin International de l’Académie des Sciences de Cracovie», Classe d’histoire et
de philosohie, 1910, pp. 15-38. Traduzione inglese: Aristotle on the Law of Contradiction, in J.
Barnes, M. Schofield, R. Sorabji (eds.), Articles on Aristotle, III, London, Duckworth 1975, pp.
50-62. Traduzione francese: Le principe de contradiction chez Aristote, «Rue Descartes», I, 1-2,
1991, pp. 9-32. Attraverso una critica inflessibile al principio di non contraddizione aristotelico,
Łukasiewicz intende dimostrare che è possibile pensare in modo del tutto rigoroso a prescindere
da esso. Tale principio, secondo il logico polacco, consisterebbe in una tesi che «deve essere
provata, ed è possibile trovarne la dimostrazione» (Łukasiewicz, Del principio di non contraddizione…, p. 17); questo contrariamente alle considerazioni di Aristotele, che prevede esclusivamente una difesa confutatoria del principio (cfr. Metafisica G 4). Se, però, il principio non
possiede auto-evidenza, ma necessita di essere fondato a posteriori, il suo presunto valore universale diventa labile. Per mostrare tutto ciò, Łukasiewicz prende le mosse dalla distinzione del
principio di non contraddizione in tre formulazioni. Pur non intendendo negare, sulla scia di
Łukasiewicz, la validità del principio di non contraddizione, reputo interessante e utile la distinzione dei tre aspetti indicati dal logico polacco.
136 Metafisica G 3, 1005 b 19-20.
234
dunque, non costituisce un’infrazione della regola137. Il principio di non contraddizione,
in questo senso, «concerne l’appartenenza reale (Øp£rcein) di una cosa a un’altra, cioè
di una proprietà a un sostrato, perciò ha un valore fondamentalmente ontologico, ovvero, come si suol dire, è innanzitutto una legge dell’essere»138.
2. La formulazione logica implica una concezione del principio di non contraddizione come legge del lÒgoj, che è insieme pensiero e linguaggio. Anche tale formulazione
è riscontrabile nel libro IV della Metafisica:
[…] le affermazioni contraddittorie non possono essere vere insieme (tÕ m¾ enai
¢lhqe‹j ¤ma t¦j ¢ntikeimšnaj f£seij)139
[…] è impossibile che i contraddittori, riferiti a una medesima cosa, siano veri insieme
(¢dÚnaton t¾n ¢nt…fasin ¤ma ¢lhqeÚesqai kat¦ toà aÙtoà)140
della quale Aristotele dice che si tratta della «nozione più salda di tutte» (bebaiot£th
dÒxa pasîn)141. Secondo quanto precedentemente detto, due enunciati contraddittori
non possono essere veri contemporaneamente: uno dei due (non importa quale, anzi non
si sa quale) deve essere vero, e l’altro deve essere falso.
La validità della formulazione logica si fonda sulla validità della prima, poiché la
questione della verità degli enunciati nasce in riferimento a ciò di cui essi parlano. Per
Aristotele, la verità è la fedeltà degli enunciati a uno o più stati di cose esterni, e cioè la
conformità degli enunciati con la realtà. Il motivo per cui due enunciati contraddittori
non possono essere entrambi veri risiede nel fatto che, nella realtà, a uno stesso oggetto
non può appartenere e non appartenere la stessa caratteristica nello stesso tempo. Poiché
il valore di verità di un enunciato viene deciso attraverso il confronto con la realtà e con
l’essere delle cose, i principi e le questioni che riguardano gli oggetti conosciuti e che
vengono significati nel discorso non possono restare indipendenti dalle problematiche
ontologiche. Nella logica aristotelica la verità si fonda sulla corrispondenza del pensiero
con la realtà142.
137
«[…] Aristotele si preoccupa, nella formulazione del principio di non contraddizione, di precisare che l’impossibilità dell’appartenenza e insieme della non appartenenza di uno stesso predicato ad uno stesso soggetto vale solo “nello stesso tempo” (¤ma) e “sotto lo stesso aspetto”
(kat¦ tÕ aÙtÒ): nulla vieta, infatti, che in tempi diversi, o nello stesso tempo ma sotto aspetti
diversi, lo stesso predicato appartenga e non appartenga allo stesso soggetto» (Berti, Contraddizione e dialettica…, p. 108).
138 Berti, Contraddizione e dialettica…, p. 103.
139 Metafisica G 6, 1011 b 13-14.
140 Metafisica G 6, 1011 b 16-17.
141 Metafisica G 6, 1011 b 13.
142 «[…] la impossibilità che una cosa spetti e non spetti - nello stesso tempo e sotto lo stesso
riguardo - una determinata proprietà è resa equivalente alla impossibilità che i due enunciati che
affermano rispettivamente il possesso e il non possesso di questa proprietà siano contemporaneamente veri. Una sovrapposizione - questa - alla cui base sta il principio della adaequatio rei et
intellectus: solo presupponendo che i nostri enunciati rispecchino la struttura profonda del reale,
che siano cioè immagini delle cose con le quali stanno in una relazione diretta di carattere biunivoco, l’incongruenza ontologica diviene anche una incongruenza logica» (C. Badano, La possibilità e il senso: Un itinerario intorno al tema della possibilità nella filosofia del pensiero:
Meinong Husserl Wittgenstein, Armando Editore, Roma 2008, p. 8). Łukasiewicz si serve della
netta distinzione tra il punto di vista ontologico e quello logico del principio di non contraddizione aristotelico per mostrare come, nel pensiero dello stagirita, i due livelli si sovrappongano
e vengano quasi ad assommarsi, dando luogo a incongruenze logiche. Secondo il logico polac-
235
3. La formulazione psicologica, infine, significa concepire il principio di non contraddizione come legge che riguarda le credenze e le opinioni: due opinioni costituite da
due enunciati contraddittori non possono sussistere nello stesso tempo nella stessa coscienza. Sono coinvolti, in questo caso, non oggetti puramente logici, ma “convinzioni”,
appartenenti alla sfera della decisione soggettiva. Questa declinazione del principio si
trova espressa nel Cap. 3 del libro G della Metafisica:
[…] è impossibile (¢dÚnaton) a chicchessia (Ðntinoàn) di credere (Øpolamb£nein)
che una stessa cosa sia e non sia (taÙtÕn enai kaˆ m¾ enai). […] se un’opinione
(dÒxa) che è in contraddizione con un’altra è il contrario (™nant…a) di questa, è evidente che è impossibile, a un tempo (¤ma), che la stessa persona creda veramente che una
stessa cosa esista e, anche, che non esista (Øpolamb£nein tÕn aÙtÕn enai kaˆ m¾
enai tÕ aÙtÒ): infatti, chi si ingannasse su questo punto (Ð dieyeusmšnoj perˆ toÚtou), avrebbe a un tempo opinioni contrarie (¤ma §n œcoi t¦j ™nant…aj dÒxaj)143.
In questo passo, Aristotele chiarisce «sul piano, diciamo così, gnoseologico»144 quello
che altrove spiega sul piano ontologico e sul piano logico. Anche la formulazione psicologica o gnoseologica si fonda su quella di ordine ontologico145. I motivi per cui due opinioni o due credenze contraddittorie non possono sussistere contemporaneamente nella stessa coscienza sono due. Da un lato, la ragione risiede nel fatto che, se ciò fosse
possibile e accadesse, si dovrebbe verificare esattamente ciò che la formulazione ontologica esclude, e cioè che due caratteristiche contrarie appartengono contemporaneaco, il principio di non contraddizione si rivelerebbe inconsistente, in quanto è possibile che si
diano degli oggetti contraddittori. Poiché Łukasiewicz accoglie e assume la nozione di oggetto
proposta dal filosofo austriaco Alexius Meinong, secondo il quale è oggetto tutto ciò che non è
nulla, avvalendosi della pensabilità degli oggetti inesistenti (la Daseinsfreiheit meinonghiana,
cfr. R. M. Chisholm, Brentano and Meinong Studies, Rodopi, Amsterdam 1982, pp. 59-60. Alla
base della Gegenstandtheorie di Meinong c’è la differenziazione tra gli “oggetti”, Objecte, e gli
“obiettivi”, Objective; la nuova dimensione dell’obiettività, Objectivität, «[…] abbraccia anche
il modo di essere del non-esistente: la funzione critica che l’argomentazione meinonghiana intende assumersi è proprio quella di mostrare come il nostro giudizio non si arresti all’orizzonte
di realtà materiale che si trova di fronte» (Badano, La possibilità e il senso…, p. 22)), egli prende in considerazione non solo gli oggetti reali, di cui abbiamo percezione, ma anche i concetti e
le immagini mentali. Un esempio di oggetto contraddittorio, appartenente proprio all’insieme di
oggetti non reali, ma mentali, è il più grande numero primo. L’espressione “il più grande numero primo” ha un significato perfettamente comprensibile per noi, e riusciamo a costruire mentalmente l’oggetto corrispondente. Tale oggetto, però, è un oggetto contraddittorio perché, in
primo luogo, non esiste qualcosa che sia “il più grande numero”, in quanto la serie dei numeri è
infinita; e, in secondo luogo, perché, se assumessimo come numero l’infinito, dell’infinito non
potremmo dire né che è un numero primo né che non lo è. Si potrebbe controbiettare che gli
“oggetti mentali” contraddittori, tuttavia, non possono essere legittimamente considerati come
smentite del principio di non contraddizione, almeno in quella che Łukasiewicz stesso chiama
“formulazione ontologica” e che riguarda, appunto, oggetti reali e percepiti, intorno ai quali non
si riscontrano contraddizioni.
143 Metafisica G, 3, 1005 b 23-32.
144 Reale, Aristotele: Metafisica…, vol. III, p. 167, n. 15.
145Se la formulazione psicologica del principio di non contraddizione è caratterizzata
dall’incertezza (dato il coinvolgimento non di oggetti puramente logici, ma di convinzioni, appartenenti alla sfera della decisione soggettiva) ed è estranea ai fondamenti della logica, il tentativo di Lukasiewicz è stato quello di comprendere, in base a una disamina critica delle prove elenctiche fornite da Aristotele, se il principio risulti fondato nelle formulazioni logica e ontologica.
236
mente a uno stesso oggetto, il soggetto pensante, la coscienza. «[…] dall’impossibilità
che due proprietà opposte appartengano contemporaneamente alla stessa cosa - la quale
non è che un’altra formulazione dell’impossibilità che una proprietà appartenga e contemporaneamente non appartenga alla stessa cosa -, Aristotele deriva l’impossibilità che
due opinioni opposte appartengano contemporaneamente alla stessa persona, cioè da
un’impossibilità reale deriva un’impossibilità psicologica […], in quanto anche le opinioni, e i pensieri, sono realtà, e dunque sottostanno alla legge della realtà. Si può dire
pertanto che sul valore ontologico del principio di non contraddizione si fonda anche il
suo valore psicologico»146. D’altro canto, poiché gli enunciati hanno come contenuto un
pensiero, il quale, a sua volta, fa riferimento alla realtà, qualora entrambe le proposizioni contraddittorie risultassero vere, nella realtà dovrebbero verificarsi insieme i fatti
proclamati dagli enunciati; ma poiché è impossibile che, nella realtà, a uno stesso oggetto non appartenga e non appartenga la stessa caratteristica nello stesso tempo, non potranno neppure risultare veri insieme gli enunciati contraddittori. Il criterio della verità e
della falsità, infatti, corrisponde alla struttura dell’essere.
La formulazione ontologica risulta, dunque, essere quella preminente, in quanto le altre formulazioni sembrano appoggiarsi su di essa. Resta, in ogni caso, valida la risposta
heideggeriana all’annosa questione della priorità delle formulazioni, che tanto ha diviso
gli interpreti: «[…] il vecchio dibattito, in cui ci si chiede se il principio di non contraddizione abbia in Aristotele un significato “logico” o “ontologico”, è mal posto, perché
non c’è già, prima di Aristotele, né logica né ontologia: l’una e l’altra non vengono alla
luce che sul terreno della filosofia aristotelica»147.
5. L’opposizione: un caso di sinonimia o di omonimia?
Seguendo il metodo consueto ricorrente all’interno delle Categorie, Aristotele, dopo
aver presentato la quadruplice classificazione degli opposti148 e dopo averne schizzato
brevemente le caratteristiche che contraddistinguono ciascuno dei quattro modi attraverso degli esempi, procede a una trattazione più analitica.
Una problematica si presenta ineludibile: come possono i relativi, i contrari, il possesso e la privazione, l’affermazione e la negazione, «pur nella diversità delle accezioni
particolari, ritrovare un senso fondamentale, unico e permanente, del termine opposti?»149. La questione suscitò un dibattito a partire dai pensatori antichi, e probabilmente
146
Berti, Contraddizione e dialettica…, p. 104.
M. Heidegger, 1972, p. 192. Secondo Łukasiewicz, al contrario, i principi logici, come quello di contraddizione, pur risultando non auto-evidenti ed indimostrabili logicamente, risultano
giustificati solo nella misura in cui la loro indiscutibilità risponde a “necessità pratiche”.
Ad avviso di Lukasiewicz, la ragione per la quale il principio di contraddizione è da Aristotele
elevato, in assenza di una dimostrazione, al rango di dogma è da ricercarsi nella natura praticoetica del suo valore. Un valore che, dal suo punto di vista, non distrugge la “necessità” e
l’“oggettività” di cui Aristotele ha dotato il principio, essendo tale valore «talmente rilevante,
che la mancanza di valore logico non risulta avere alcuna importanza» (Łukasiewicz, Del principio di non contraddizione…, p.128).
148 La classificazione corrisponde a quella che si trova in: Topici II 109 b 17-20; Topici II 8, 113
b 15 - 114 a 25; Topici V 6, 135 b 7 - 136 a 13; Topici VI 9, 147 a 12 - b 28; Metafisica D 10;
Metafisica D 3, 1054 a 23-26; Metafisica D 4, 1055 a 35 - b 1; Metafisica D 7, 1057 a 33-37.
149 Pesce, Aristotele. Le Categorie…, p. 85.
147
237
divise gli stessi Peripatetici. Secondo la testimonianza di Simplicio150, «alcuni Peripatetici» affermavano che i diversi tipi di opposizione appartenessero a un unico genere comune151. Con ogni probabilità, dunque, dovevano esserci altri Peripatetici, «[…] forse
addirittura la maggior parte […]»152 - se Simplicio riporta che solo «alcuni» di essi sostenevano una tesi diversa -, i quali, mossi dall’intento di essere il più possibile fedeli
alla posizione del maestro, che affermava di dover «trattare degli opposti, e dire in
quanti modi solitamente si pone l’opposizione»153, assunsero la posizione per cui i quattro opposti potevano essere riportati a un’unica denominazione, ¢ntike…mena, considerata meramente come una Ðmènumoj fwn», cioè come un termine omonimo. In tale prospettiva, «[…] l’opposizione sarebbe di volta in volta differente all’interno di ciascuna
coppia di concetti»154, avendo come unico loro elemento comune un mero nome. Giamblico, tra gli altri, condivise l’esegesi della communis opinio dei Peripatetici155, criticando aspramente Nicostrato, il quale, dunque, doveva aver aderito all’interpretazione secondo la quale gli ¢ntike…mena costituivano un unico gšnoj, e si contrapponeva alla
tesi della maggior parte dei Peripatetici156. La posizione di Nicostrato nei confronti del
dibattito intorno agli ¢ntike…mena è alquanto singolare. Egli, infatti, come spesso anche
Plotino, «[…] ha criticato più volte Aristotele per aver discusso cose eterogenee
all’interno di un’unica e medesima categoria. Ora, per quanto riguarda i Postpredicamenti, le obiezioni di Nicostrato corrono esattamente nella direzione opposta: egli rimprovera più volte ad Aristotele di aver tenuto distinte qui delle cose che in realtà si coappartengono»157. Un tale cambiamento di esegesi e di critica tra il testo dei Predicamenta e dei Postpredicamenta potrebbe far pensare all’inautenticità della seconda parte
dell’opera aristotelica; Nicostrato, invece, non ha mai espresso alcun dubbio intorno
all’autenticità dell’intero scritto158. «I quattro ¢ntike…mena posti da Aristotele […]
sembrano essere […] per Nicostrato suscettibili di una definizione unitaria, e trovare
quindi il loro punto di raccordo in un gšnoj comune e non puramente equivoco»159, costituendo, così, un caso di sinonimia. Ponendosi in sintonia con quel piccolo gruppo di
150
Cfr. Simplicio, In Cat., 380, 22-24; 381, 2-17.
Anche Boezio, Cat., 264 C-D, attribuisce questa tesi ai Peripatetici.
152 Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 120. La stessa attribuzione della tesi alla maggior parte dei Peripatetici anche in Gioè, Filosofi Medioplatonici…, p. 205.
153 Cfr. Categorie 11, 11 b 16: perˆ dO tîn ¢ntikeimšnwn, posacîj e‡wqe ¢ntit…qesqai,
·htšon.
154 Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 120.
155 Sulla posizione di Giamblico, cfr. Simplicio, In Cat., 380, 17 - 381, 2; 381, 17-22.
All’esegesi sostenuta da Giamblico si avvicinano i Neoplatonici: cfr. Gioè, Filosofi Medioplatonici…, p. 206; Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 120: «Anche in Plotino, com’è
noto, compaiono critiche […] contro l’unitarietà delle singole categorie».
156 «Se, al contrario, Nicostrato avesse sostenuto che gli ¢ntike…mena non formano un gšnoj
[…], allora Giamblico non gli avrebbe imputato alcun errore, ma lo avrebbe considerato piuttosto un precursore della propria concezione» (Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 121
n. 116).
157 Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 120. Così anche Gioè, Filosofi Medioplatonici…, p. 205: «È singolare che, mentre l’accusa di base di Nicostrato alle Categorie metteva in
rilievo l’omonimia che veniva a insidiare le molteplici forme dei presunti gšnh, il biasimo ora
rivolto ad Aristotele è quello, di segno contrario, di aver operato nei Postpredicamenta delle distinzioni che rompono l’unità del genere».
158 Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 119 e n. 106.
159 Gioè, Filosofi Medioplatonici…, p. 205.
151
238
Peripatetici, di cui parla Simplicio, Nicostrato doveva essersi preoccupato di «respingere come non pertinenti tutti i tratti distintivi indicati da Aristotele tra i diversi tipi di
¢ntike…mena»160.
La posizione cui Nicostrato aderì, opposta a quella propria della communis opinio dei
Peripatetici, trovò il consenso di Porfirio161 e di Simplicio, che ammette personalmente
di essere incline a considerare gli opposti come appartenenti a un unico genere, e non
semplicemente come un caso di omonimia162. In tale prospettiva, relativi, contrari, possesso e privazione, affermazione e negazione trovano un’unificazione possibile in quanto tutti i quattro modi fanno riferimento a un unico significato di fondo che consiste nella definizione degli opposti e che denota un unico genere: «Sono chiamate opposte tutte
quelle cose che non possono coesistere simultaneamente nello stesso oggetto, secondo
lo stesso rispetto, nello stesso tempo e in riferimento alla stessa cosa»163. Questa definizione, attribuita a Nicostrato164, fu accolta da Boezio, il quale individuò anch’egli «[…]
il nesso unitario che lega le quattro forme di opposti nel fatto che essi non possono coesistere insieme e si escludono a vicenda se attribuiti alla medesima realtà»165 e tradusse
come segue la definizione fatta risalire a Nicostrato: «quae in eodem, secundum idem, in
eodem tempore, circa unam eamdemque rem, simul esse non possunt»166. Tale posizione è stata accolta anche tra i commentatori moderni: Pesce167 sembra essere incline
all’esegesi della sinonimia, e anche Zanatta168 l’accoglie.
Il significato presentato da Nicostrato e, successivamente, da Boezio viene dichiarato
comune in quanto si attribuisce a tutti e quattro i tipi di opposizione. Nel caso dei contrari, è evidente che la stessa cosa non possa essere simultaneamente bianca e nera in relazione alla stessa parte e sotto il medesimo rispetto; neppure ciò che si oppone come il
possesso e la privazione può coesistere nello stesso tempo nella stesso oggetto: è impossibile che ci siano contemporaneamente vista e cecità nello stesso occhio; e neanche
l’affermazione e la negazione possono coesistere con lo stesso valore di verità: se, ad
esempio, l’affermazione “è giorno” è vera, allora la negazione “non è giorno” sarà falsa169. La definizione resta valida persino in riferimento alla relazione, una tipologia di
160
Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 121.
Cfr. Simplicio, In Cat., 381, 24-25.
162 Cfr. Simplicio, In Cat., 381, 25-27. Incerta è, invece, la posizione dello Pseudo-Archita intorno alla questione. In perì ¢ntikimšnwn (De oppositis), ed. Thesleff, Pyth Texts, 15, 14-15,
egli afferma che «kaˆ kat¦ nÒmon kaˆ kat¦ fÚsin ¢ntike‹sqai ¢ll»loij lšgetai», ma
non ci sono affermazioni più precise in merito. Cfr. Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…,
vol. II, tomo 2, p. 192.
163 Simplicio, In Cat., 381, 2-4.
164 Secondo Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 121 n. 117, non è certo che la definizione, attribuita da Simplicio, In Cat., 381, 2-17, ad alcuni Peripatetici, e contestata, come si vedrà, da Giamblico, risalga a Nicostrato, in quanto potrebbe averla egli stesso recepita da altre
fonti precedenti. Raskin, Simplicius. On Aristotle’s Categories 9-15…, p. 216 n. 612, si attiene
all’incertezza professata da Moraux, affermando che, anche se Nicostrato non viene espressamente citato da Simplicio come autore della definizione comune attribuibile agli opposti, è probabile, anche se non sicuro, che la citazione sia stata tratta dagli scritti del medio platonico, o
almeno basata su di essi.
165 Gioè, Filosofi medioplatonici…, p. 206.
166 Boezio, Categ., 264 D - 265 A.
167 Pesce, Aristotele. Le categorie…, p. 85.
168 Zanatta, Aristotele. Le categorie…, p. 642.
169 Cfr. Simplicio, In Cat., 381, 6-15.
161
239
opposizione particolare rispetto alle altre in quanto i relativi sono gli unici opposti che
ammettono, anzi richiedono, una correlazione. Neppure in questo caso, tuttavia, gli opposti possono coesistere in riferimento alla stessa cosa: uno stesso uomo non può essere,
nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto, padrone e schiavo dello stesso uomo, né
padre e figlio, né più piccolo e più grande. E, dunque, se la definizione degli opposti si
adatta a tutte le “specie”, allora la classificazione presentata da Aristotele non è quella
di un termine suddiviso nei suoi diversi significati, ma quella di un genere suddiviso
nelle sue specie; l’opposizione, cioè, non viene predicata omonimicamente, ma sinonimicamente170.
Giamblico obietta che, se l’opposizione fosse realmente un sinonimo, non ci sarebbe
bisogno alcuno di spiegare i diversi modi in cui gli opposti, appunto, si oppongono. La
pretesa definizione comune proposta da Nicostrato perde, a suo avviso, ogni consistenza
nel momento in cui si osserva che essa deve essere declinata diversamente per ogni modalità di opposizione.
Se il termine [“opposti”] non fosse un omonimo (Ðmènumoj), si avrebbero una definizione comune (koinÕj lÒgoj) e un genere comune (koinÕn gšnoj) per tutti gli opposti
(p£ntwn tîn ¢ntikeimšnwn). Poiché, però - dice Giamblico - l’impossibilità di coesistere nello stesso oggetto e secondo il medesimo rispetto si osserva, in un modo, nei relativi, in un altro, nell’affermazione e della negazione, in un altro ancora, negli altri tipi
di opposti, resta vera la definizione originale (Ð ™x ¢rcÁ lÒgoj)171, quella per cui gli
opposti sono omonimi (tÕ Ðmènuma enai t¦ ¢ntke…mena). Perciò - continua - anche
Nicostrato ha sbagliato a rivolgere la sua obiezione a favore dell’appartenenza degli
opposti a un unico genere (ān gšnoj)172.
In questa direzione, e cioè nella direzione di un’omonimia, sembrerebbero andare le parole di Aristotele «Occorre trattare degli opposti, e dire in quanti modi solitamente si
pone l’opposizione»173, come ammette lo stesso Simplicio, pur restando un sostenitore
della tesi della sinonimia174. È possibile, tuttavia, parlare di “diversi modi” pur facendo
riferimento a un unico genere comune, dal momento che un pollacîj legÒmenon non
esprime automaticamente l’omonimia di un termine175. Si potrebbe far, in questo caso,
riferimento all’omominia prÒj ān, cioè all’«omonimia in relazione a uno»,
un’omonimia relativa, a metà strada tra l’omonimia simpliciter (diversità di significati
dello stesso termine) e la sinonimia (identità di significato tra termini diversi)176, e alla
170
Cfr. Simplicio, In Cat., 381, 15-16.
chiama «definizione originale» (Ð ™x ¢rcÁ lÒgoj) quella che intende
l’opposizione come omonimia, forse perché fu la prima posizione sostenuta dalla maggior parte
dei Peripatetici.
172 Simplicio, In Cat., 381, 17-24.
173 Categorie 11, 11 b 16: perˆ dO tîn ¢ntikeimšnwn, posacîj e‡wqe ¢ntit…qesqai, ·htšon.
174 Simplicio, In Cat., 381, 25-26.
175 Cfr. Simplicio, In Cat., 381, 29-30. Un caso simile è, secondo Simplicio, quello della qualità,
della quale Aristotele dice espressamente che si dice in molti modi (cfr. Categorie 8, 8 b 26),
senza, tuttavia, voler affermare che si tratti di un’omonimia. Cfr. Simplicio, In Cat., 438, 18 ss.
Al contrario, Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci…, p. 120, sembra far coincidere automaticamente l’omonimia con un pollacîj legÒmenon, nel momento in cui afferma che la maggior
parte dei Peripatetici, seguiti da Giamblico, «assunsero l’espressione ¢ntike…mena come un
pollacîj legÒmenon».
176 Una sorta di analogia tommasiana, situata tra univocità ed equivocità.
171Giamblico
240
teoria del significato focale (focal meaning)177. In tale prospettiva, l’opposizione si presenterebbe come un caso di omonimia prÒj ān, in cui tutti i diversi tipi di opposti fanno
riferimento a un significato centrale, che è costituito dalla definizione « quae in eodem,
secundum idem, in eodem tempore, circa unam eamdemque rem, simul esse non possunt
».
177
L’omominia prÒj ān è stata, scorrettamente (concordo, in questo, con quanto sostenuto da E.
Berti, La metafisica nella filosofia analitica contemporanea, in G. Movia (ed.), Metafisica e antimetafisica, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 75-91, pp. 84-85), identificata dallo studioso Austin con la paronimia, e definita come teoria del nuclear meaning. Cfr. J.L. Austin, «Agathòn»
and «eudaimonìa» in the Ethics of Aristotle, in J.M.E. Moravcisik (ed.), Aristotle. A Collection
of Critical Essays, MacMillan, London 1968, pp. 260-296; ristampato in J.L. Austin, Philosophical Papers, edited by J.O. Urmson and G.J. Warnock, Oxford University Press, London 1970,
trad. it. di P. Leonardi, Saggi filosofici, Guerini, Milano 1990, pp. 9-36. Cfr. anche J.L. Austin,
The Meaning of a Word, in Philosophical Papers, edited by J.O. Urmson and G.J. Warnock,
Oxford University Press, London 1970, trad. it. di P. Leonardi, Saggi filosofici, Guerini, Milano
1990, pp. 57-75. G.E.L. Owen, allievo di Austin, ha contribuito a una migliore reinterpretazione
dell’omonimia prÒj ān, sganciadola dall’identificazione con la paronimia, e presentandola come
un “tertium quid” di cui le semplici dicotomie “univoco o multivoco” e “sinonimo o ominimo”
non riescono a dar conto (cfr. G.E.L. Owen, Logic and Metaphysics in some earlier works of
Aristotle, in I. Düring and G.E.L. Owen (eds.), Aristotle and Plato in the mid-fourth century,
Elanders Boktryckeri Aktiebolag, Göteborg 1960, p. 179; G.E.L. Owen, The Platonism f Aristotle, «Proceedings of the British Academy», 51, London 1965, pp. 125-150, ristampato in M.
Nussbaum (ed.), Logic, Science, and Dialectic, Cornell University Press, Ithaca 1986, pp. 200220).
241
Capitolo undicesimo
I contrari
'Enant…on dš ™stin ¢gaqù mOn ™x ¢n£gkhj kakÒn, - toàto dOdÁlon tÍ kaq'
›kaston ™pagwgÍ, oŒon Øgie…v nÒsoj kaˆ dikaiosÚnV ¢dik…a kaˆ ¢ndre…v deil…a,
Ðmo…wj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn, - kakù dO ÐtO mOn ¢gaqÕn ™nant…on ™st…n, ÐtO dO
kakÒn: tÍ g¦r ™nde…v kakù Ônti ¹ Øperbol¾ ™nant…on kakÕn Ôn: Ðmo…wj dO kaˆ ¹
mesÒthj ™nant…a ˜katšrJ oâsa ¢gaqÒn. ™p' Ñl…gwn d' ¨n tÕ toioàton ‡doi tij, ™pˆ
dO tîn ple…stwn ¢eˆ tù kakù tÕ ¢gaqÕn ™nant…on ™st…n.
œti tîn ™nant…wn oÙk ¢nagka‹on, ™¦n q£teron Ï, kaˆ tÕ loipÕn enai: ØgiainÒntwn g¦r ¡p£ntwn Øg…eia mOn œstai, nÒsoj dO oÜ: Ðmo…wj dO kaˆ leukîn Ôntwn
¡p£ntwn leukÒthj mOn œstai, melan…a dO oÜ. œti e„ tÕ Swkr£th Øgia…nein tù
Swkr£th nose‹n ™nant…on ™st…n, m¾ ™ndšcetai dO ¤ma ¢mfÒtera tù aÙtù
Øp£rcein, oÙk ¨n ™ndšcoito toà ˜tšrou tîn ™nant…wn Ôntoj kaˆ tÕ loipÕn enai:
Ôntoj g¦r toà Swkr£th Øgia…nein oÙk ¨n e‡h tÕ nose‹n Swkr£th.
DÁlon dO Óti kaˆ perˆ taÙtÕn À e‡dei À gšnei pšfuke g…gnesqai t¦ ™nant…a:
nÒsoj mOn g¦r kaˆ Øg…eia ™n sèmati zóou, leukÒthj dO kaˆ melan…a ¡plîj ™n
sèmati, dikaiosÚnh dO kaˆ ¢dik…a ™n yucÍ. ¢n£gkh dO p£nta t¦ ™nant…a À ™n
tù aÙtù gšnei enai À ™n to‹j ™nant…oij gšnesin, À aÙt¦ gšnh enai: leukÕn mOn
g¦r kaˆ mšlan ™n tù aÙtù gšnei, - crîma g¦r aÙtîn tÕ gšnoj, - dikaiosÚnh dO
kaˆ ¢dik…a ™n to‹j ™nant…oij gšnesin, - toà mOn g¦r ¢ret», toà dO kak…a tÕ gšnoj, - ¢gaqÕn dO kaˆ kakÕn oÙk œstin ™n gšnei, ¢ll' aÙt¦ tugc£nei gšnh tinîn
Ônta.
A un bene è necessariamente contrario un male. Questo risulta chiaro per induzione
dai singoli casi: alla salute, per esempio, è contraria la malattia, alla giustizia
l’ingiustizia, al coraggio la viltà, e lo stesso negli altri casi. A un male, invece, a volte è
contrario un bene, a volte un male. Al difetto, infatti, che è un male, è contrario
l’eccesso, che è egualmente un male. Allo stesso modo, anche il mezzo, che è un bene, è
contrario a ciascuno di essi. Un tale fenomeno, tuttavia, si potrebbe vedere in pochi casi;
nella maggior parte dei casi, invece, a un male è sempre contrario un bene.
Inoltre, non è necessario che, se c’è l’uno dei contrari, ci sia per questo anche l’altro.
Se, infatti, tutti godono di buona salute, ci sarà la salute e non la malattia. Similmente,
se tutte le cose sono bianche, ci sarà la bianchezza e non la nerezza. Inoltre, se Socrate
gode di buona salute è contrario a Socrate è malato, e non è possibile che entrambi appartengano contemporaneamente allo stesso soggetto, non sarebbe possibile che, se c’è
uno dei contrari, ci sia anche l’altro. Se, infatti, c’è che Socrate gode di buona salute,
non potrebbe esserci il fatto che Socrate è malato.
È chiaro che anche i contrari si generano per natura intorno a un soggetto che è il
medesimo o per specie o per genere. Malattia e salute, infatti, si generano nel corpo di
un animale; la bianchezza e la nerezza semplicemente nel corpo; la giustizia e
l’ingiustizia, invece, si generano nell’anima.
È necessario che tutti i contrari si trovino o nello stesso genere o in generi contrari,
oppure siano essi stessi dei generi: bianco e nero sono nel medesimo genere - il colore,
infatti, è il loro genere -; giustizia e ingiustizia sono in generi contrari - il genere
dell’una è la virtù, il genere dell’altra è il vizio -; il bene e il male non sono in un genere, ma essi stessi sono generi di alcune cose.
Sommario
In questo capitolo, Aristotele aggiunge alcune osservazioni alla trattazione della precedente sezione, dedicata ai contrari.
1. La contrarietà di bene e male. a. A un bene è sempre contrario un male. Alla salute, per esempio, che è un bene, è contraria la malattia, che è un male; alla giustizia è
contraria l’ingiustizia, al coraggio la viltà. b. A un male, nella maggior parte dei casi, è
contrario un bene, ma talora è contrario un altro male.
2. Non simultaneità dei contrari. a. Nel caso di due o più soggetti, se esiste uno dei
due contrari, non è necessario che esista sempre anche l’altro. Può accadere, per esempio, che tutte le cose siano bianche, e in questo caso ci sarà la bianchezza, ma non il suo
contrario, e cioè la nerezza. b. Nel caso dello stesso soggetto, se c’è uno dei contrari, è
impossibile che ci sia anche l’altro. Non è possibile, infatti, che Socrate goda di buona
salute e nello stesso tempo sia malato.
3. Generazione dei contrari in uno stesso soggetto. I contrari si generano in relazione
ad un soggetto che è lo stesso o per specie o per genere. La giustizia e l’ingiustizia, ad
esempio, si generano nello stesso soggetto per specie, cioè nell’anima razionale degli
esseri umani; il bianco e il nero, invece, si generano nello stesso soggetto per genere,
cioè nel corpo; malattia e salute, infine, si generano nello stesso soggetto, che è specifico rispetto al corpo in generale.
4. Status dei contrari in relazione ai generi. I contrari: a. o si trovano nello stesso genere - il bianco e il nero, per esempio, si trovano entrambi nel genere del colore; b. si
trovano in generi contrari - la giustizia e l’ingiustizia, per esempio, si trovano, rispettivamente, nella virtù e nel vizio; c. sono essi stessi dei generi - il bene e il male non sono
in un genere, ma costituiscono essi stessi dei generi.
Queste quattro proprietà attribuite ai contrari servono a distinguerli da altri due tipi di
contrapposizioni: le caratteristiche 1) e 2) differenziano i contrari dai relativi, perché
questi ultimi implicano necessariamente l’essere dell’altro relativo in un altro soggetto e
non implicano necessariamente il non essere dell’altro relativo nello stesso soggetto in
relazione ad altri soggetti; le caratteristiche 3) e 4) differenziano i contrari dai contraddittori, perché questi ultimi non implicano un soggetto che sia lo stesso per genere o per
specie e non sono necessariamente inclusi o identificabili in generi contrari».
1. Caratteristiche dei contrari
1.1. La contrarietà di bene e male
In questa prima parte della sezione, Aristotele si sofferma sulla contrarietà in relazione al bene e al male. La dottrina aristotelica a riguardo può essere tradotta in due affermazioni. Da un lato, a. il contrario di un bene è sempre e necessariamente un male, e
244
questo - afferma lo Stagirita - appare evidente per induzione (™pagwgÍ) dai casi singoli1; segue una serie di esempi che riguardano la salute del corpo - alla salute, che è un
bene, è contraria la malattia, che è un male - e la virtù dell’anima - alla giustizia, che è
un bene, è contraria l’ingiustizia, che è un male; al coraggio è contraria la viltà, e così
via. Simplicio interpreta il procedimento di induzione a partire dai casi singoli come una
vera e propria prova (p…stij) che Aristotele porta a sostegno della propria tesi2.
Dall’altro lato, b. il contrario di un male è: b1. nella maggior parte dei casi un bene,
b2. a volte un altro male. Questa volta la tesi viene argomentata facendo uso dei concetti
di “difetto”, “eccesso” e “mezzo”. Sia il mezzo sia l’eccesso sono contrari al difetto: ad
esempio, sia il coraggio - che è il giusto mezzo - sia l’imprudenza - che è un eccesso sono contrari alla codardia. Al difetto, dunque, che è un male, è contrario l’eccesso, che
è egualmente un male. Allo stesso modo, anche il mezzo, che è un bene, è contrario a
ciascuno di essi.
Per comprendere la dottrina aristotelica della contrarietà rispetto alle nozioni di bene
e male, occorre distinguere i diversi punti di vista che l’Autore mette in gioco. In particolare, due sono i modelli di riferimento che lo Stagirita sembra delineare.
1. In primo luogo, un modello binario, per il quale al bene qua bonum è contrario
sempre, solo e necessariamente il male qua malum.
2. Ora, mentre il bene, in quanto misura e ponderazione, è semplice e ha una sola
forma, il male, invece, in quanto dismisura e sbilanciamento, è vario e può assumere, rispetto al bene, due posizioni estreme tra loro opposte: il difetto e
l’eccesso. Si ha, così, un modello ternario che presuppone, da un lato, il bene in
quanto misura e misurato, dall’altro vede dividersi in due parti il male in quanto dismisura e smisurato: il difetto e l’eccesso. Secondo questo schema il coraggio, che è medietà, si oppone all’imprudenza come il bene si oppone al male
in quanto eccesso ma si oppone alla codardia come il bene si oppone al male in
quanto difetto. I contrari, nel loro senso fondamentale, vengono definiti da Aristotele come gli elementi più distanti all’interno dello stesso genere oppure
come generi estremi che non possono sussistere nella stessa cosa allo stesso
tempo e sotto il medesimo rispetto3. Ed essi vanno sempre in coppia, dal momento che per ogni contrario c’è sempre e solo un contrario4. Il contrario di un
male, allora, può risultare essere talora un bene talora un male solo a condizione che lo sia rispetto a due cose diverse o sotto rispetti diversi. Il coraggio e la
codardia, infatti, non potrebbero essere contrari all’imprudenza sotto lo stesso
rispetto e dal medesimo punto di vista, altrimenti l’affermazione aristotelica si
1
Sul ragionamento induttivo (™pagwgÍ), che muove dal particolare al generale, si vedano: Topici I 12, 105 a 13-14; Analitici Posteriori I 1, 71 a 5-9; Etica Nicomachea VII 15, 1039 b 2631.
2 Cfr. Simplicio, In Cat., 409, 22-23. La prova (p…stij) può essere guadagnata tramite un ragionamento sillogistico oppure, come in questo caso, per induzione. Cfr. Gaskin, Simplicius, On
Aristotle Categories…, p. 232, n. 853. Aristotele dovette considerare particolarmente stringente
la prova che porta qui a sostegno della propria tesi, dal momento che appare quasi come una sfida rivolta all’eventuale obiettore a «indicare anche un singolo caso in cui non si verifichi tale
legge» (Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 98, n. 1).
3 Cfr. Categorie 11, 14 a 19-20; De Interpretatione 14, 23 b 22-23; Metafisica D 10, 1018 a 2531; Metafisica I 4, 1055 a 3-29.
4 Cfr. Metafisica I 4, 1055 a 19-21.
245
trasformerebbe in un nonsense. È chiaro che non allo stesso modo il bene e il
male potrebbero risultare contrari a un male.
Potremmo illustrare i due modelli attraverso i seguenti schemi:
1. medietas qua bonum
un solo contrario: malum qua malum
eccesso
2. medietas qua mensura
malum qua dismisura
difetto
Tre sono le componenti del secondo modello, che presenta il bene come medietà tra il
difetto e l’eccesso. Ma a ben vedere, il secondo modello può essere facilmente riportato
al primo, che consta di due elementi, qualora i due estremi venissero considerati insieme, come due facce della stessa medaglia, e cioè come il malum qua dismisura o, se si
preferisce, come l’estremo che si oppone alla medietà. Nel modello binario, infatti, i due
estremi risultano entrambi contrari al mezzo non specificatamente come l’eccesso e il
difetto, ma come lo sbilanciato, lo smisurato è contrario al bilanciato, al misurato5.
Come spiega Simplicio nel suo commento, questi diversi rapporti di contrarietà nascono da differenti nessi tra le categorie6: «[…] il difetto e l’eccesso sono contrari
all’interno della categoria della quantità, mentre bene e male (misura e dismisura) sono
contrari all’interno della categoria della qualità»7. Nel caso dello schema ternario, possiamo, allora, distinguere due tipi di contrarietà rispetto a uno dei due estremi:
1. l’altro estremo, in riferimento alla categoria della quantità;
2. la medietà, in riferimento alla categoria della qualità.
Il bene e il male sono i due elementi maggiormente separati all’interno della categoria
della qualità; le virtù e i vizi, infatti, che sono beni e mali, cadono sotto la categoria della qualità8. I due estremi, invece, sono i due elementi maggiormente separati e lontani
all’interno della categoria della quantità9; infatti «le affezioni, in quanto divisibili, sono
5
Simplicio, In Cat…., 410, 15 ss., spiega questa possibile riduzione del modello trinario al modello binario evidenziando come alla medietà qua bonum sia contraria una sola cosa, il male, e
alla medietà in quanto misura sia contraria una sola cosa, la dismisura, che raccoglie in sé sia
l’eccesso sia il difetto. Gaskin, Simplicius, On Aristotle Categories 9-15…, p. 232, n. 859,
commenta il passo di Simplicio affermando che, ai fini di presentare la contrarietà tra bene e
male - quindi all’interno di un modello binario -, i due estremi devono essere considerati come
un’unità in modo tale che un solo elemento cattivo - l’estremo - risulti contrario al bene. In questo senso spiega anche Apostle, Aristotle’s Categories and Propositions…, p. 91, n. 1: «Il coraggio, ad esempio, considerato in relazione alla sua definizione o alla sua sostanza, è un mezzo
e si trova tra due estremi, l’imprudenza e la codardia, i quali, essendo estremi, sono anche contrari; considerato in relazione all’eccellenza e all’ottimo, invece, il coraggio è un estremo ed è
contrario all’imprudenza e alla codardia, che sono estremi in quanto vizi. In questo modo,
l’imprudenza e la codardia, presi insieme come un’unità, sono quanto vi è di più distante
dall’ottimo e, in quanto tali, costituiscono il contrario del coraggio; ognuno di essi, in quanto
pessimo, si oppone come contrario al coraggio».
6 Simplicio, In Cat…, 410, 15 ss.
7 Gaskin, Simplicius, On Aristotle Categories…, p. 232, n. 860.
8 Cfr. Categorie, 8 b 29.
9 Cfr. Etica Nicomachea, II, 8, 1108 b 26-33: «[…] vi è maggiore contrarietà (ple…sth
™nantiÒthj) degli estremi tra di loro (to‹j ¥kroij prÕj ¥llhla) rispetto al giusto mezzo: infatti sono più lontani tra di loro rispetto al giusto mezzo, come sono più lontani il grande dal
piccolo e il piccolo dal grande rispetto a quanto siano distanti tutti e due rispetto all’uguale. Inoltre, come è evidente, vi è una qualche somiglianza di alcuni estremi con il giusto mezzo, co-
246
delle quantità»10. E lo sono per due ordini di ragioni. In primo luogo, «[…] le affezioni
(cioè gli stati affettivi) possono essere declinate secondo una differenziazione quantitativa poiché ammettono diversi gradi che corrispondono all’eccesso, alla medietà e al difetto, e perciò si trovano all’interno della categoria della quantità al pari che in quella
della qualità»11. In secondo luogo, e, secondo Gaskin, in principal modo, la considerazione è esposta in Metafisica D, 13, 1020 a 26-30, in cui Aristotele spiega che le affezioni o, meglio, le qualità in generale possono essere considerate delle quantità per accidens in virtù della divisibilità quantitativa delle cose cui essere si riferiscono12.
1.1.1. Obiezioni di incompletezza alla teoria aristotelica della contrarietà di bene e male
Come abbiamo osservato, la dottrina aristotelica della contrarietà in relazione al bene
e al male si articola in due affermazioni: 1. il contrario di un bene è sempre e necessariamente un male; 2. il contrario di un male è, nella maggior parte dei casi, un bene, ma
a volte è un altro male. Tale dottrina, contenuta nelle Categorie, è stata tacciata di incompletezza. Simplicio attribuisce a Nicostrato le principali obiezioni.
In primo luogo, il filosofo medioplatonico critica l’incompletezza dell’elenco delle
tipologie di contrarietà presenti in Categorie, 11, 13 b 36 - 14 a 6, sostenendo che, oltre
alla contrarietà di un ¢gaqÒn e di un kakÒn e a quella di un kakÒn e di un altro kakÒn,
Aristotele «[…] avrebbe dovuto aggiungere che anche un ente assiologicamente neutro
(¢di£foron) può essere opposto per contrarietà a un altro ente assiologicamente neutro»13. L’obiezione di Nicostrato appare particolarmente pertinente in quanto tale tipologia di contrarietà veniva menzionata, secondo la testimonianza di Simplicio, nello
scritto aristotelico intitolato per… ¢ntikeimšnwn (Gli opposti)14, andato perduto, in cui
si dice che le cose che non sono né beni né mali (m»te ¢gaq¦ m»te kak¦) possono essere contrarie ad altre cose che non sono né beni né mali. L’unica differenza tra i due
testi sarebbe di natura terminologica, poiché Nicostrato utilizza un vocabolo,
¢di£foron (indifferente), stabilito in ambiente stoico e, quindi, più recente rispetto allo scritto aristotelico, il quale, infatti, non riporta quel termine15. Ora, la questione è:
perché Aristotele, nelle Categorie, non ha affatto menzionato la tipologia di contrarietà
che vede opporsi le cose che non sono né beni né mali ad altre cose che non sono né beni né mali? La risposta di Simplicio si basa sulla natura introduttiva dello scritto16: se
Aristotele avesse menzionato quel tipo di contrarietà, avrebbe poi dovuto affrontare una
me tra la temerarietà e il coraggio e tra la dissipazione e la generosità; invece, riguardo agli estremi, tra di loro la dissomiglianza è massima (to‹j dO ¥kroij prÕj ¥llhla ple…sth
¢nomoiÒthj)».
10 Simplicio, In Cat…, 410, 16.
11 Gaskin, Simplicius, On Aristotle Categories…, p. 232, n. 861.
12 Gaskin, Simplicius, On Aristotle Categories…, p. 232, n. 861. Secondo Gaskin, in realtà, sia
l’argomento aristotelico originale sia il commento di Simplicio risultano non troppo pertinenti,
motivo per cui lo studioso avanza la possibilità che potrebbe trattarsi di una glossa marginale
successivamente inserita all’interno del testo.
13 P. Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci, vol. II, tomo 2: L’Aristotelismo nei nonAristotelici nei secoli I e II d. C., Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 126. Cfr. Simplicio, In Cat.,
410, 25-26.
14 Simplicio, In Cat., 410, 26-29.
15 Cfr. Simplicio, In Cat., 410, 29-30.
16 Sulla natura dello scritto sulle categorie, si veda Infra, pp. ***.
247
serie di problematiche e aporie che avrebbero costituito un excursus di sproporzionata
ampiezza rispetto all’intento dell’opera. Sarebbe sorta - sottolinea Simplicio - l’aporia
se l’indifferente, per usare il termine stoico, si opponga esclusivamente a un altro indifferente, o si opponga anche a un male - ad esempio, l’essere sobrio, inteso in quanto intermedio, sembra essere contrario all’essere ubriaco (meqÚein), che è un male,- o a un
bene - ad esempio, l’essere alticcio, ma non ubriaco (o„nÒsqai), in quanto intermedio,
sembra essere contrario all’esser sobrio, che è un bene. Tuttavia, tali contrarietà, secondo Simplicio, hanno dell’incongruo, perché l’essere sobrio vi viene considerato in due
sensi: da un lato, come un bene, in opposizione all’essere alticcio, dall’altro come un intermedio, in opposizione all’essere ubriaco.17
L’altra obiezione che Nicostrato muove ad Aristotele si fonda sempre sulla presunta
incompletezza dell’elenco delle tipologie di contrarietà presenti in Categorie, 11, 13 b
36 - 14 a 6, ma questa volta riguarda la contrarietà di un bene a un altro bene. Secondo
Nicostrato, lo Stagirita avrebbe dovuto aggiungere che, ad esempio, che un “incedere
ragionevole” è contrario a uno “stato di quiete ragionevole”, e un “piacere ragionevole”
è contrario a un “dolore ragionevole”18. Simplicio risponde all’obiezione di Nicostrato
affermando che, in questo caso, non si tratta di contrari del tipo bene vs bene, da un lato
perché essi si armonizzano in relazione al fine dell’uomo che compie le due azioni o che
prova le due affezioni in modo “ragionevole” (™mfrÒnwj19) e, dall’altro, perché la contrarietà non risiede nella loro connotazione etica, ma nell’opposizione dell’incedere e
dello stare in sé, del piacere e del dolore in sé20. L’obiezione di Nicostrato nasce, dunque, da un evidente errore concettuale, che lo porta a confondere i contrari etici con i
contrari tecnici connotati eticamente mediante l’aggiunta di un avverbio.
1.1.2. La contrarietà di vizi e virtù nell’Etica Nicomachea
La tesi per cui a un male possono essere contrari sia un bene sia un altro male è chiaramente aristotelica, e trova conferma nel capitolo 8 del Libro II dell’Etica Nicomachea,
in cui non si fa esplicitamente riferimento alle nozioni di bene (¢gaqÒn) e di male
(kakÒn), ma viene presentata la contrarietà tra virtù e vizi, di modo che l’orizzonte in
cui si situa la trattazione è chiaramente assiologico. Aristotele ha spiegato, nei capitoli
appena precedenti, che la virtù consiste in una certa medietà (mesÒthj tij)21 tra due estremi che rappresentano, entrambi, il vizio: l’eccesso (Øperbol») e il difetto (œllei-
17
Simplicio, In Cat., 410, 30 - 411, 7.
Cfr. Simplicio, In Cat., 411, 6-9.
19 Gaskin, Simplicius, On Aristotle Categories 9-15…, p. 233, n. 868, fa notare che si tratta di
un avverbio usato da Platone, in particolare in Repubblica, 396 D 1, 517 C 5.
20 Cfr. Simplicio, In Cat., 411, 10-14. «Intenzionale o no, l’errore concettuale di Nicostrato è
evidente. La contrarietà tra bianco e nero non si basa sul fatto che questi due colori appaiono
come eticamente indifferenti. Né tantomeno l’opposizione tra fron…mh perip£thsij e fron…mh
st£sij dipende dal fatto che sono entrambe buone: non si tratta altro che dell’opposizione tra
andare e stare» (Moraux, L’Aristotelismo presso i Greci, vol. II, tomo 2: L’Aristotelismo nei
non-Aristotelici nei secoli I e II d. C…, p. 124).
21 Etica Nicomachea II 6, 1106 b 27.
18
248
yij), e che la medietà risulta sempre lodevole (™painetÒn)22 e retta, e che gli estremi
(¥kra) sono invece biasimevoli (yekt£)23. Aggiunge poi:
[…] Dal momento che vi sono tre disposizioni, due delle quali rappresentano dei vizi
(dÚo mOn kakiîn), l’uno per eccesso (kaq'Øperbol¾n) e l’altro per difetto (kat'œlleiyin), e una rappresenta la virtù (mi©j d'¢retÁj), cioè la medietà (mesÒthj), ognuna
si oppone in qualche modo (¢nt…keinta… pwj) a tutte le altre: infatti le disposizioni estreme (¥krai) sono contrarie (™nant…ai e„s…n) sia a quella intermedia sia tra loro
(kaˆ tÍ mšsV kaˆ ¢ll»laij), e la disposizione intermedia è contraria a quelle estreme
(¹ dO mšsh ta‹j ¥kraij)24.
Ritroviamo qui un modello triadico in cui gli estremi, tra i quali ci sono la massima distanza e la massima differenza e, quindi, sussiste contrarietà, possono essere rappresentati, da un lato, dai due vizi, l’eccesso e il difetto, dall’altro dalla medietà (il bene) e dai
vizi, considerati questa volta come un’unità (il male, contrario al bene). Tale dottrina
non contraddice affatto la tesi aristotelica per cui, per ogni contrario, esiste uno ed un
solo contrario. I due tipi di contrarietà - eccesso/difetto e medietà/vizio -, infatti, si basano su due livelli e su due punti di vista diversi, come spiega chiaramente lo stesso Aristotele:
[…] da un lato, se si prende come punto di riferimento la sostanza e la definizione che
ne esprime l’essenza (kat¦ mOn t¾n oÙs…an kaˆ tÕn lÒgon tÕn tÕ t… Ãn enai), la virtù si configura come una medietà, mentre dall’altro, se il punto di riferimento è l’ottimo
e il bene (kat¦ dO tÕ ¥riston kaˆ tÕ eâ), la virtù si configura come un estremo
(¢krÒthj)25.
Non è sotto lo stesso rispetto che i vizi si configurano come contrari nei due casi: se
vengono considerate la sostanza e la definizione che esprime l’essenza delle cose, la virtù rappresenta una medietà, e i vizi si oppongono al modo in cui l’eccesso è contrario al
difetto; se vengono considerati l’eccellenza morale e l’ottimo, invece, la virtù rappresenta un estremo, e precisamente l’estremo positivo, cui si configurano come contrari i
vizi intesi questa volta come un’unità egualmente biasimevole26. Ritorna, quindi, esattamente come nelle Categorie, uno schema che può essere ternario e binario. La tesi aristotelica dell’unicità dei contrari è ancora pienamente valida: il male è contrario al male,
ovvero il vizio è contrario al vizio, in quanto il vizio inteso come eccesso è contrario al
vizio inteso come difetto; il male è contrario al bene, in quanto il vizio, che è bassezza
morale, è contrario alla virtù, che è eccellenza morale. E il fatto che alla virtù sia contrario il vizio inteso come un’unità formata sia dall’eccesso sia dal difetto ulteriormente testimoniato da quanto Aristotele aggiunge successivamente:
Per quanto riguarda il giusto mezzo (prÕj dO tÕ mšson), poi, esso in certi casi si contrappone maggiormente al difetto e meno all’eccesso (¢nt…keitai m©llon ™f' ïn mOn
¹ œlleiyij ™f' ïn dO ¹ Øperbol»): per esempio al coraggio (¢ndre…v) non si oppone
22
Cfr. Etica Nicomachea II 6, 1106 b 26-27: «[…] il giusto mezzo è lodato e rappresenta la
correttezza (tÕ dO mšson ™paine‹tai kaˆ katorqoàtai)»; Etica Nicomachea II 7, 1108 a 15:
«il giusto mezzo è lodevole in tutte le circostanze (™n p©sin ¹ mesÒthj ™painetÒn)».
23 Etica Nicomachea II 6, 1106 b 25-26: «[…] l’eccesso rappresenta un errore e il difetto
viene biasimato (¹ mOn Øperbol¾ ¢mart£netai kaˆ ¹ œlleiyij [yšgetai])»; Etica Nicomachea II, 7, 1108 a 15-16: «[…] gli estremi non sono né corretti né da lodare, ma piuttosto da
biasimare (t¦ d' ¥kra oÜt' ™painet¦ oÜt' Ñrq¦ ¢ll¦ yekt£)».
24 Etica Nicomachea II 6, 1108 b 11-15. Traduzione di Fermani, Aristotele: Le tre etiche…, p.
511, lievemente modificata.
25 Etica Nicomachea II 6, 1107 a 6-8.
26 Cfr. Zanatta, Aristotele: Le categorie…, p. 668.
249
maggiormente la temerarietà (qrasÚthj), che è un eccesso (Øperbol¾), ma la viltà
(deil…a), che è un difetto (œlleiyij), mentre alla temperanza (tÍ dO swfrosÚnV) non
si oppone maggiormente l’insensibilità (¢naisqhs…a), che costituisce un difetto (œndeia), ma l’intemperanza (¢kolas…a), che è un eccesso (Øperbol¾)27.
Se al bene inteso come virtù, quindi alla medietà, opponiamo il male inteso come vizio
costituito, insieme, dall’eccesso e dal difetto, abbiamo una contrarietà stabile e, dunque,
realmente tale. Se, invece, proviamo a mettere in relazione la medietà da un lato con
l’eccesso e dall’altro con il difetto, non abbiamo più una contrarietà stabile e precisa che, da questo punto di vista, sussiste esclusivamente tra i due estremi negativi -, ma un
tipo di opposizione variabile e soggetta a mutamenti a seconda dei casi presi in considerazione.
La variabilità di tale opposizione si dà - dice Aristotele - per due ragioni. La prima
dipende dalla cosa stessa (™x aÙtoà toà pr£gmatoj): poiché si ritiene che, ad esempio,
al coraggio sia più simile e si avvicini di più la temerarietà piuttosto che la viltà, allora
risulta più consono opporre al coraggio la viltà, che risulta più dissimile e più distante28.
La seconda ragione dipende da noi stessi (™x ¹mîn aÙtîn): ci sono delle cose cui noi
sembriamo più inclini per natura, e queste ci sembrano più contrarie alla medietà costituita dalla virtù. Ad esempio, siamo più inclini ai piaceri, quindi all’intemperanza
(¢kolas…a), piuttosto che al decoro (kosmiÒthta); di conseguenza, ci appare maggiormente contraria al giusto mezzo, in questo caso alla temperanza (tÍ swfrosÚnV),
l’intemperanza piuttosto che il decoro29. Misurare e determinare l’eccesso e il difetto a
partire dal giusto mezzo è cosa estremamente impegnativa e faticosa dal momento che il
medio in questione non è il medio matematico, ma il medio rispetto a noi, soggetto a innumerevoli variazioni30. «A differenza della media aritmetica, che è uguale per tutti i
casi, il “mezzo rispetto a noi” non è fissato una volta per tutte e non è sempre uguale ma
ogni volta deve essere ricercato e rimodulato in base alle circostanze, alle situazioni, agli individui […]. Realizzare il medio, in questo senso, equivale a realizzare
l’eccellenza (mšson te kaˆ ¢riston) e la medietà, lungi dall’essere sinonimo di mediocrità, significa esattamente il contrario: trovare il giusto mezzo equivale a trovare il
culmine, il punto più elevato»31. La medietà non è grandezza matematicamente calcolabile, per questo Aristotele «[…] insiste sulla difficoltà di cogliere il giusto mezzo […] e
ritiene necessario dare indicazioni pratiche per raggiungerlo: I) bisogna tenersi lontani
maggiormente dall’eccesso più contrario; infatti non tutti gli eccessi sono contrari allo
stesso modo rispetto al giusto mezzo […]; II) si deve cercare di reagire alle inclinazioni
naturali, che sempre ci spingono verso uno degli estremi; III) non si deve cedere al pia27
Etica Nicomachea II 8, 1108 b 35 - 1109 a 5.
Cfr. Etica Nicomachea II 8, 1109 a 6-10.
29 Cfr. Etica Nicomachea II 8, 1109 a 13-19.
30 Cfr. Etica Nicomachea II 5, 1106 a 36 - b 7. Un concetto chiaramente espresso anche in Etica
Nicomachea II 9, 1109 a 24-30: «È un compito impegnativo essere uomo di valore (œrgon ™stˆ
spouda‹on enai). Cogliere in ogni cosa il mezzo è un compito impegnativo: per esempio, determinare il centro di un cerchio non è da tutti, ma solo di chi sa. Così, invece, è da tutti ed è facile adirarsi, e donare denaro e far spese, ma farlo con chi si deve (tÕ d' ú), nella misura giusta
(Óson), al momento opportuno (Óte), con lo scopo e nel modo convenienti (oá ›neka kaˆ éj)
non è più da tutti né facile. Ed è per questo che il farlo bene è cosa rara, degna di lode e bella
(diÒper tÕ eâ kaˆ sp£nion kaˆ ™painetÕn kaˆ kalÒn)».
31 A. Fermani, Aristotele e la felicità: Flessibilità metodologica e versatilità esistenziale, in M.
Migliori - A. Fermani (eds.), Platone e Aristotele: Dialettica e logica, Morcelliana, Brescia
2008, pp. 107-149, p. 140.
28
250
cevole. […] Facendo così avremo molte possibilità di cogliere il giusto mezzo (1109 b
18-20). Sono indicazioni che presuppongono la variabilità della risposta giusta nella situazione data, e l’impossibilità di determinarla esattamente»32.
1.2. Non simultaneità dei contrari
In Categorie 11, 14 a 6-14, Aristotele presenta una seconda caratteristica dei contrari: il fatto che la loro simultaneità sia, da un lato, non necessaria, dall’altro, impossibile.
1. 14 a 6-10. Nel caso di due o più soggetti, se esiste uno dei due contrari, non è necessario che esista anche l’altro. Se, ad esempio, tutte le cose sono bianche, ci sarà la
bianchezza, ma non è necessario che ci sia il suo contrario, la nerezza; allo stesso modo,
se tutti godono di buona salute, ci sarà la salute e non il suo contrario, la malattia.
2. 14 a 10-14. Nel caso in cui uno dei contrari sia presente in un individuo, in un unico soggetto, è impossibile che ci sia anche l’altro contrario. Non sarebbe possibile, infatti, che, ad esempio, Socrate goda di buona salute e, nello stesso tempo, sia malato.
Salute e malattia, che sono due contrari, non possono appartenere contemporaneamente
allo stesso soggetto, dal medesimo punto di vista e sotto il medesimo rispetto.
La proprietà per cui i contrari non sono simultanei e non dipendono l’uno dall’altro,
ma sono perfettamente autonomi e, anzi, in alcuni casi, si autoescludono, li differenzia
nettamente dai relativi, perché quest’ultimi, come si è visto in Categorie, 7, 7 b 16 ss., si
generano e si annullano insieme33.
Simplicio fa notare come i pensatori, tra i quali Eraclito, che pongono i contrari come
principi, non potranno essere d’accordo sulla reciproca esclusione assoluta dei contrari
posta da Aristotele, dal momento che, all’interno del loro sistema, qualora risultasse
mancante uno dei contrari, tutto il reale si corromperebbe e svanirebbe34. In difesa dello
Stagirita, a fronte di questa ipotetica obiezione, Simplicio spiega che il Filosofo non intende dimostrare che i contrari non possono sussistere simultaneamente nel mondo, ma
che uno stesso soggetto non può, ad esempio, essere insieme in buona salute e malato
(2). Se un solo individuo è malato, infatti, nulla impedisce che un altro goda di buona
salute. Ma se tutti sono malati, allora non ci sarà salute da nessuna parte (1).
Si potrebbe obiettare che, nel caso di un individuo che ingerisca una bevanda scottante e dolce, sussistano contemporaneamente sia il dolore sia il piacere. Tuttavia, in
questo caso, il dolore e il piacere non riguardano lo stesso organo di senso, in quanto è il
tatto a essere afflitto e il gusto a essere deliziato35.
32
C. Natali, La saggezza di Aristotele, «Elenchos», Collana XVI, Bibliopolis, Roma 1989, p.
55.
33 «Aristotele […] chiarisce che i contrari non sono simultanei. Il rilievo, benché esplicitamente
non faccia riferimento ai relativi, […] ha però come implicito sfondo proprio il confronto con
queste determinazioni. Sì che esso, mentre definisce ulteriormente la nozione di contrarietà, fornisce anche una nuova ragione per la distinzione di questa forma di opposizione da quella testé
data» (Zanatta, Aristotele, Categorie…, pp. 670-671).
34 Simplicio, In Cat., 412, 25-26, riporta che Eraclito aveva addirittura criticato Omero per aver
scritto, in Iliade, 18, 107, «Perisca la discordia fra gli uomini e fra gli dèi», auspicando, in questo modo, l’annullamento di uno dei principi che era alla base della filosofia eraclitea.
35 A questo argomento di risposta, Simplicio ne aggiunge uno ulteriore, tratto dal Gorgia di Platone, 495 E - 497 D. Socrate sta cercando di confutare la tesi edonista di Callicle, secondo il
quale il vero bene per l’uomo è il piacere. In un primo argomento contro l’identificazione di
piacere e bene, e quindi anche di dolore e male, Socrate mostra come, per tutte le coppie dei
contrari (™nant…a) quali salute/malattia, forza/debolezza, velocità/lentezza, felicità/infelicità e,
251
Giamblico amplia ulteriormente la possibilità di una commistione di contrari, affermando che alcuni di essi possono mescolarsi per formare un qualcosa di diverso da entrambi. In realtà, tuttavia, in questi casi, non si può propriamente affermare che i due
contrari sussistano simultaneamente, in quanto, nella commistione, essi danno vita a
qualcosa che, in un certo senso, li accomuna, ma che, insieme, li nega36.
1.3. Generazione dei contrari in uno stesso soggetto
In Categorie, 11, 14 a 18-25, Aristotele presenta una terza proprietà dei contrari. Essi
si generano per natura (pšfuke) in relazione ad un soggetto (perˆ taÙtÕn) che è lo
stesso o per specie (e‡dei) o per genere (gšnei).
Il soggetto può essere lo stesso da tre diversi punti di vista: per il genere, per la specie e, infine, per il numero.
in massimo grado, bene/male, se in un soggetto è presente un contrario, non può essere presente
l’altro. Qualora, dunque, si trovassero delle cose che un individuo può contemporaneamente
perdere e possedere, esse non potranno essere bene e male, perché questi si autoescludono. Ora,
l’aver sete (tÕ diyÁn), in quanto è un bisogno dettato da una mancanza, è qualcosa di doloroso
(¢niarÕn); il bere (tÕ p…nein) avendo sete, invece, in quanto soddisfacimento del bisogno
(pl»rws…j tÁj ™nde…aj), è piacevole. Si avrebbe così la particolare situazione per cui colui che
beve avendo sete prova insieme piacere (¹don») e dolore (lÚph). Se piacere e dolore si identificassero, rispettivamente, con bene e male, non potrebbero sussistere contestualmente. Poiché,
tuttavia, questa possibilità si dà, occorre concludere che il godere (tÕ ca…rein) non coincide con
lo stare bene (eâ pr£ttein) né il soffrire (tÕ ¢ni©sqai) con lo stare male (kakîj), e che il piacere è diverso dal bene e il dolore dal male. E Socrate conclude rivolgendosi a Callicle: «Allora,
amico mio, non sono la stessa cosa i beni e i piaceri (oÙ t¦ aÙt¦ g…gnetai... t¢gaq¦ to‹j
¹dšsin) e neppure i mali e i dolori (oÙdO t¦ kak¦ to‹j ¢niaro‹j). Infatti gli uni cessano insieme (tîn mOn g¦r ¤ma paÚetai), gli altri no, appunto perché sono diversi (tîn dO oÜ, æj
˜tšrwn Ôntwn): come potrebbero allora essere i piaceri identici ai beni e i dolori ai mali?»
(Gorgia, 497 D 5-8. La traduzione è tratta da Platone, Gorgia, a cura di M. Migliori, La Nuova
Italia, Firenze 2001). «[…] l’uomo non può essere, insieme, felice e infelice, avere bene e male;
se il piacere è Bene, avremmo la compresenza di bene e male, poiché la sofferenza per la sete e
il piacere di bere sono contestuali. Quando poi uno è dissetato, cessano insieme sia piacere sia
dolore, mentre questo non accade per il bene e il male, che non possono mai sparire insieme: se
uno si libera dal male, accoglie il bene» (M. Migliori, L’uomo fra piacere, intelligenza e Bene.
Commentario storico-filosofico al “Filebo” di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 380).
Gli argomenti platonici contro l’edonismo estremo diventano tanto più stringenti nel Filebo, in
cui si afferma la possibilità di un giudizio assiologico intorno ai piaceri. Esistono piaceri superiori e piaceri inferiori (cfr. Gorgia, 499 C-D, Filebo, 40 C - 46 B): «[…] piaceri buoni, che sono utili e producono qualche bene, e piaceri cattivi, che sono dannosi e producono qualche male» (M. Migliori, L’uomo fra piacere, intelligenza e Bene…, p. 380), e persino i piaceri misti,
dati dalla mescolanza di piacere e dolore. Ora, se il piacere può accogliere il bene e il male,
connotandosi come buono o come cattivo, è evidente che non può identificarsi né con il bene né
con il male.
36 Secondo la testimonianza di Simplicio, In Cat., 413, 6-15, Giamblico annoverava tra gli esempi di contrari che possono dare luogo a una mescolanza il bianco e il nero, che si uniscono
nel grigio, il dolce e l’amaro, che si uniscono nell’assenzio, e persino dei contrari per cui non è
prevista una mescolanza, come la salute e la malattia, possono in alcuni casi dare luogo a una
condizione che i medici chiamano “neutrale”, e cioè né sana né malata.
252
Gli interpreti si sono chiesti come mai Aristotele non abbia fatto menzione, in questo
passo, della contrarietà che si genera all’interno di un soggetto che è numericamente il
medesimo. La domanda troverebbe giustificazione nel Capitolo 5 delle Categorie, in cui
lo Stagirita presenta come caratteristica propria della sostanza quella di avere la capacità
di ricevere i contrari, pur restando la medesima e identica a se stessa37.
Simplicio presenta due possibili spiegazioni di tale mancanza. La prima, di scarsa
importanza teoretica, fa riferimento al fatto che il filosofo ha già chiaramente specificato nel capitolo dedicato alla sostanza che il soggetto in cui si generano i contrari può essere il medesimo per numero, e non aveva, quindi, bisogno di ripeterlo qui. La seconda
motivazione, più articolata e profonda, prende in considerazione lo status dei contrari
rispetto al soggetto in cui si generano. Pur restando vero che i contrari possono generarsi in un soggetto individuale, come testimoniato, appunto, da Categorie, 5, 4 a 10-21,
ciò che Aristotele intende mostrare in Categorie 11 è che i contrari, anche qualora si generassero all’interno di un soggetto che è numericamente lo stesso, non possiedono la
loro contrarietà rispetto all’individuo, ma rispetto alla specie o al genere di appartenenza38. Non si tratta, ad esempio, del fatto che “questa determinata saggezza pratica”, cioè
quella appartenente a un determinato individuo, poniamo di Solone, sia contraria alla
determinata follia del medesimo individuo, né che la determinata salute di un individuo
sia contraria alla malattia del medesimo, come alcuni hanno creduto di poter ravvisare39.
Piuttosto, la saggezza e la follia risultano contrarie senza bisogno della mediazione di
una loro esemplificazione in soggetti individuali40.
Si aggiunga che, in relazione ai soggetti che sono gli stessi per genere o per specie, i
contrari possono esistere simultaneamente, dal momento che essi si generano in soggetti
individuali che differiscono per il numero. Resta, invece, impossibile che i contrari sussistano nel medesimo individuo, se non alternativamente41 o sotto rispetti diversi.
Gli esempi che Aristotele porta per mostrare la terza proprietà dei contrari sono tre:
1. la malattia e salute, che si generano nel corpo di un animale; 3. la bianchezza e la nerezza, che si generano nel corpo in generale; 2. la giustizia e l’ingiustizia, che si generano nell’anima. Gli esempi vengono spesso spiegati attribuendo il primo e il secondo al
gruppo dei contrari che si generano nello stesso soggetto per genere e il terzo al gruppo
dei contrari che si generano nello stesso soggetto per specie42. Il passo necessita, tuttavia, di ulteriori distinzioni. Dividiamo, innanzitutto, la parte che riguarda il corpo da
quella che riguarda l’anima. Dal punto di vista del corpo, abbiamo due possibilità: a. se
37
Cfr. Categorie, 5, 4 a 10-21.
Cfr. Simplicio, In Cat., 414, 11-14.
39 Cfr. Simplicio, In Cat., 413, 28-31.
40 Simplicio, In Cat., 414, 1-3, attribuisce questa posizione a Giamblico, in risposta a coloro che
intendono contrapporre una determinata esemplificazione della saggezza pratica a una determinata esemplificazione della follia.
41 Cfr. Simplicio, In Cat., 414, 15-19. Cfr. Filopono, In Cat., 189, 29 - 190, 5.
42 Un’esegesi presente in Pesce, Aristotele: Le categorie…, p. 98, n. 5: «Per specie, come nel
caso della giustizia e dell’ingiustizia che si generano nell’anima razionale della specie umana,
per genere come negli altri due casi, essendo il corpo e il corpo animale piuttosto dei generi», e
accolta da Zanatta, Aristotele: Le categorie…, p. 671: «Dei tre esempi addotti da Aristotele, la
giustizia e l’ingiustizia sono contrari che si generano in una cosa medesima per specie, e cioè
nell’anima razionale della specie umana; invece la malattia e la salute, la bianchezza e la nerezza sono contrari che si generano in cose medesime per genere, essendo, per l’appunto, piuttosto
genere che specie il corpo ed il corpo dell’animale».
38
253
consideriamo il corpo simpliciter (¡plîj), nel quale si generano i contrari bianchezza/nerezza, siamo in presenza di un soggetto che è lo stesso per genere; b. se consideriamo il corpo di un animale, nel quale si generano i contrari malattia/salute, siamo in
presenza di un soggetto che è lo stesso per specie, e precisamente una specie del genere
corpo simpliciter. Allo stesso modo, a. se consideriamo l’anima simpliciter, presa come
un genere, troviamo che possono generarsi in essa i contrari razionale/non razionale; b.
se consideriamo l’anima propria degli esseri umani, quindi l’anima razionale, troviamo
che possono generarsi in essa i contrari virtù/vizio43. Tale suddivisione confermerebbe
la possibilità, all’interno della dottrina aristotelica delle categorie, di diversi livelli di
specie, da quelle più particolari e determinate a quelle sempre più ampie fino a giungere
al genere. E, relativamente alla specie inferiore, la specie superiore può persino essere
chiamata “genere”, anche se non costituisce un genere vero e proprio, e cioè il genere
sommo. Così, l’anima razionale in cui si generano giustizia e ingiustizia è la stessa per
specie, dal momento che l’anima razionale è specifica in sé; il corpo di un animale in
cui si generano malattia e salute è un soggetto specifico rispetto al corpo simpliciter, che
è lo stesso per genere44.
1.4. Status dei contrari in relazione ai generi
La quarta caratteristica che Aristotele presenta intorno ai contrari riguarda il loro status in relazione ai generi. Le possibilità sono tre:
(1) I contrari possono trovarsi nello stesso genere. Bianco e nero, ad esempio, si trovano entrambi nello stesso genere, quello del colore.
(2) I contrari possono trovarsi in generi contrari. La giustizia e l’ingiustizia, per esempio, si trovano, rispettivamente, nei generi della virtù e del vizio.
(3) I contrari costituiscono essi stessi dei generi. Il bene e il male, ad esempio, non si
trovano all’interno di un genere o di generi contrari, ma sono essi stessi dei generi.
La (1) non crea difficoltà di sorta, dal momento che si inserisce perfettamente
all’interno dell’orizzonte della definizione stessa dei contrari come termini estremi
all’interno di uno stesso genere. Si tratta di un concetto presente anche nel libro IV dei
Topici. Aristotele afferma che si deve indagare se c’è un contrario all’interno della specie e illustra il procedimento di ricerca dichiarando che, in primo luogo, occorre verificare se
[…] la specie e il suo contrario si trovano all’interno dello stesso genere (™n tù aÙtù
gšnei), quando non c’è un contrario del genere (m¾ Ôntoj ™nant…ou tù gšnei); i contrari, infatti, devono trovarsi all’interno dello stesso genere, qualora non esista nessun
contrario del genere45.
La specie e il suo contrario, dunque, si trovano nello stesso genere, qualora non sussista un contrario al genere. Il bianco e il nero si trovano entrambi all’interno del genere
del colore, in quanto il genere colore non ha contrario46.
Anche il caso (2) viene illustrato nei Topici, all’interno dello stesso procedimento
d’indagine appena analizzato per (1):
43
Simplicio, In Cat., 413, 23-27, distingue così i quattro casi.
In questo senso spiega Bodéüs, Aristote: Catégories…, p. 150, n. 6: «Il corpo di un vivente è
un soggetto specifico rispetto al genere costituito dal corpo in generale; ma l’anima dell’uomo è
un soggetto assolutamente specifico».
45 Topici IV 3, 123 b 2-4.
46 Cfr. Metafisica I 7, 1057 b 13 ss..
44
254
Se invece esiste un contrario del genere, occorre indagare se il contrario (della specie)
si trova nel contrario (del genere); infatti, se esiste un contrario del genere, è necessario
che il contrario (della specie) si trovi nel contrario (del genere)47.
Se il genere cui appartengono la specie e il suo contrario ha un contrario, allora la specie
e il suo contrario si trovano nei due generi contrari. La giustizia, ad esempio, appartiene
al genere della virtù, e la virtù ha un contrario: il vizio. La giustizia e l’ingiustizia, allora, si troveranno, rispettivamente, nei generi contrari della virtù e del vizio. In realtà, ragionando in senso stretto, virtù e vizio, per sé considerati, non costituiscono dei generi
contrari, ma delle specie contrarie che appartengono al genere dell’abito48. In questo
contesto, tuttavia, in cui viene messa in risalto la loro contrarietà assiologica (da un lato,
la perfezione e l’eccellenza morale, dall’altro, la bassezza morale), Aristotele ne ha sottolineato la contrapposizione associandoli a due classi opposte ed elevandoli al rango di
generi49. La virtù e il vizio sono specie, se considerati dal punto di vista dell’abito, ma
possono essere visti come generi, se considerati dal punto di vista della giustizia e
dell’ingiustizia. Lo stesso abito, poi, che, dal punto di vista della virtù e del vizio, si presenta come genere, è in realtà anch’esso una specie, dal momento che viene sussunto
sotto il genere della qualità, la quale, essendo una categoria, è un genere sommo. Questo
significa che persino i generi contrari, cui appartengono delle specie contrarie, possono
essere sussunti sotto un genere più ampio che li ricomprenda entrambi50.
Il caso (3) è risultato il più problematico. Anche su questo punto, Aristotele si è espresso nei Topici. Dopo i primi due passaggi sopra menzionati, si dovrà esaminare
[…]se il contrario della specie non si trovi assolutamente in alcun genere (e„ Ólwj ™n
mhdenˆ gšnei tÕ tù e‡dei ™nant…on), ma risulti esso stesso un genere (¢ll' aÙtÕ gšnoj), come ad esempio il bene; infatti, se questa [la specie] non si trova in un genere,
neppure il suo contrario si troverà in un genere, ma sarà esso stesso un genere, così
come accade per il bene e per il male: nessuna di queste due nozioni, infatti, si trova in
un genere (oÙdšteron g¦r toÚtwn ™n gšnei), ma ognuna di esse è essa stessa un genere (¢ll' ˜k£teron aÙtÕ gšnoj)51.
Il passo è risultato aporetico alla maggior parte degli interpreti. Alcuni hanno accolto
alla lettera le affermazioni di Aristotele, sostenendo che bene e male assurgono al rango
di generi supremi in quanto non risultano contenuti in nessun altro genere ad essi superiore52. Altri interpreti hanno, invece, letto nel caso (3) un riferimento alla trascedentalità del bene, al pari di quella dell’essere. In questa chiave ermeneutica, il bene consisterebbe in un concetto equivoco che non appartiene a un solo genere sommo, ma si decli47
Topici IV 3, 123 b 4-7.
Cfr. Categorie 8, 8 b 26-35.
49 «Virtù e vizio costituiscono i termini estremi dello stesso genere abito, ma se si guarda alla
contrapposizione di valore, è preferibile considerarli come due classi opposte, due generi, di cui
le singole virtù e vizi rappresentano le rispettive specie» (Pesce, Aristotele. Categorie…, p. 99,
n. 7).
50 «I generi contrari possono cadere sotto un genere superiore. Virtù e vizio, ad esempio, sono
contrari e costituiscono dei generi con delle specie sotto di essi, ma entrambi sono abiti» (Apostle, Aristotle’s Categories and Propositions…, p. 91, n. 4).
51 Topici IV 3, 123 b 8 ss.
52 Così Pesce, Aristotele: Categorie…, p. 99, n. 8: «[…] sono generi supremi, come non lo erano virtù e vizio che, generi rispetto a giustizia e ingiustizia, sono specie rispetto a bene e male».
Un’interpretazione che sembra essere accolta anche da Zanatta, Aristotele: Categorie…, p. 672:
«Ed è un’esegesi pertinentissima, che ha a suo fondamento le stesse affermazioni di Aristotele
che bene e male sono generi».
48
255
na secondo tutte le differenze categoriali53. Questa esegesi sembra essere avallata da due
passi aristotelici. Il primo si trova nel libro I dei Topici. Aristotele sta trattando dei termini che possiedono diversi significati, come, ad esempio, l’aggettivo “sano”, e aggiunge:
Occorre poi indagare anche i generi dei predicati secondo un solo nome (t¦ gšnh tîn
kat¦ toÜnoma kathgoriîn), se sono gli stessi in tutti i casi. Infatti, se non sono gli
stessi, ciò di cui si parla è chiaramente omonimo; buono (tÕ ¢gaqÕn), ad esempio, è
ciò che produce piacere se si considera il cibo, ciò che produce salute se si considera la
medicina, l’essere di una certa qualità - ad esempio, temperante o coraggiosa o giusta se si considera l’anima (la stessa cosa vale se si considera l’uomo). In alcuni casi, poi,
significa l’essere in un qualche tempo, come ad esempio il bene in riferimento al momento opportuno: ciò che avviene nel momento opportuno si dice, infatti, buono. Spesso poi buona è anche la quantità, come ad esempio quella che riguarda ciò che è misurato: anche ciò che è misurato, infatti, si dice buono. Di conseguenza, il bene è omonimo (Ðmènumon tÕ ¢gaqÒn)54.
Il bene viene presentato come un nome caratterizzato dalla multivocità e che si predica
secondo tutte le categorie. Si tenga presente che, laddove l’italiano ha avuto bisogno di
una traduzione che prediligesse talora il sostantivo (il bene) talora l’aggettivo (buono), il
greco fa uso sempre dello stesso termine ¢gaqÒn, che può essere sia aggettivale sia sostantivato e che assicura, così, la perfetta coerenza e consequenzialità
dell’argomentazione aristotelica.
Il secondo passo si trova nell’Etica Nicomachea. Aristotele sta polemizzando contro
la concezione platonica del Bene inteso come un’idea comune e universale, e scrive:
[…] poiché il bene (t¢gaqÕn) si dice in altrettanti modi quanti l’essere (infatti si dice
nella sostanza come Dio o come l’intelletto; nella qualità come le virtù; nella quantità
come la misura; nella relazione come l’utile; nel tempo come il momento opportuno;
nel luogo come l’ambiente adatto, e così via), è evidente che non potrebbe essere qualcosa di comune (koinÒn), universale (kaqÒlou) e uno (›n). Non sarebbe infatti predicabile in tutte le categorie, ma in una sola55.
Essendo trasversale e transcategoriale, il bene non potrebbe essere considerato un genere inteso in senso tecnico come una delle categorie - quindi come genere sommo - né
come un genere prossimo quale il colore rispetto al bianco e al nero. In che senso, allora, il termine “genere” può essere predicato del bene? Data la multivocità dello stesso
termine “genere”56, si potrebbe pensare che, in questo caso, esso sia usato in un senso
ampio e non tecnico che sottolinei la contrapposizione tra bene e male, ma che non li situi in un preciso rapporto all’interno delle gerarchie generi-specie57.
2. Aporie concernenti i contrari
53
Interpretano così Oehel, Aristoteles: Kategorien…, p. 276; Bodéüs, Aristote: Catégories…, p.
150, n. 10.
54 Topici I 15, 107 a 3-12.
55 Etica Nicomachea I, 4, 1096 a 23-29.
56 Cfr. Metafisica D, 1024 a 29 - b 16.
57 «In senso stretto, “genere” significa o una categoria o una specie (non l’infima) che cade sotto
un’unica categoria, anche se in 11 a 20-38 sono indicate alcune eccezioni. Questo, però, non è il
senso in cui “genere” viene predicato del bene; “genere”, allora, deve essere usato anche in un
senso più generico e più ampio (1004 a 4-5, 1004 b 33 - 5 a 1, 1024 b 10-16). Forse è in questo
senso più ampio che “causa”, “sostanza”, “materia” e altri termini filosofici simili sono chiamati
“generi”» (Apostle, Aristotle’s Categories and Propositions…, p. 91, n. 5).
256
2.1. Possono i contrari essere essi stessi dei generi? Il dibattito presso i commentatori
antichi
Già i commentatori e gli studiosi antichi avevano creduto di poter rintracciare nella
trattazione aristotelica dei contrari una certa erroneità. Come riporta Simplicio, Nicostrato criticò la possibilità che i contrari potessero costituire essi stessi dei generi, come
attesta il caso (3) sopra presentato e discusso58. Secondo il filosofo medioplatonico, infatti, ogni contrario dovrebbe poter essere sussunto all’interno dei dieci generi sommi,
le categorie; se il bene e il male fossero essi stessi dei generi, saremmo costretti a considerare incompleta la divisione in dieci categorie59.
I discepoli di Porfirio tentarono di risolvere la questione ammettendo che alcuni contrari erano omonimi e altri non omonimi; questi ultimi possono essere sussunti o sotto
uno stesso genere o sotto generi contrari; i primi, invece, si dicono di molte cose e sono
essi stessi dei generi.
Omonimi - sono essi stessi dei generi
Contrari
Sussunti sotto uno stesso genere
Non omonimi
Sussunti sotto generi contrari
Secondo tale divisione, il bene sarebbe un omonimo perché si dice di più cose che
appartengono a categorie diverse: nella sostanza di Dio, nella qualità della virtù, nella
quantità come il misurato60.
Sempre secondo la testimonianza di Simplicio, altri interpreti avrebbero sostenuto,
intorno alla terza divisione, che il bene e il male non cadono sotto generi contrari, ma
costituiscono essi stessi dei contrari perché, anche se si provasse che essi siano sussunti
sotto la categoria della qualità, il genere della qualità non è contrario a un altro genere.
In questo caso, però, come giustamente obietta Simplicio, la terza divisione non presenterebbe alcuna differenza rispetto alla prima, che vedrebbe il bene e il male cadere sotto
lo stesso genere61.
Secondo Giamblico, Aristotele avrebbe introdotto la terza possibilità all’interno della
divisione sulla base della dottrina pitagorea delle serie coordinate (sustoic…a62), che
comprendono la coppia bene/male, chiamando “generi” quelli che, per i Pitagorici, erano i principi primi, distinti in dieci coppie di contrari63. In questa chiave di lettura, la
58 Gioè (a cura di), Filosofi Medioplatonici…, p. 177: «Nicostrato si oppone a questa divisione,
dichiarando che la terza parte di essa non ha esistenza reale […]».
59 Simplicio, In Cat., 414, 27-33: «[…] ogni contrario o sarà sussunto sotto uno dei dieci generi
(ØpÒ ti tîn dška genîn tacq»setai) e si troverà interamente sotto quel genere (p£ntwj ØpÒ
gšnoj), e senza ragione (m£thn) è stato detto che i contrari stessi sono generi, o si troverà al di
fuori delle dieci categorie (œxw tîn dška kathgopiîn), e la divisione in dieci (e…j dška
dia…resij) risulterà incompleta».
60 Cfr. Simplicio, In Cat., 415, 1-6.
61 Cfr. Simplicio, In Cat., 415, 10-15.
62 Il termine sustoic…a in riferimento alla dottrina dei Pitagorici compare in Simplicio, In Cat.,
415, 32 al singolare, ma esso dovrebbe essere più appropriatamente usato al plurale, come in
Simplicio, In Cat., 418, 7. Cfr. Gaskin, Simplicius, On Aristotle Categories 9-15…, p. 235, n.
906.
63 Cfr. Filopono, In Phys., 360, 22-24. Nel Pitagorismo la realtà è spiegata dualisticamente
sulla base della contrapposizione tra il bene e il male, il limite e l'infinito, il dispari e il pari. La
257
terza divisione sarebbe stata introdotta non come un’asserzione scientifica, ma come la
presentazione di un’opinione comune64.
2.2. Il male è contrario al bene o è privazione del bene? Simplicio contro l’antitesi di
bene e male
La trattazione aristotelica della contrarietà di bene e di male, secondo i commentatori
antichi, presenta un’ulteriore aporia. Ancora una volta, è Simplicio, nel suo commentario, a sottolinearla in tutta la sua complessità.
Nella nostra opera, lo Stagirita presenta, come esempi di contrarietà, le seguenti coppie: bene/male (¢gaqÒn kakÒn)65, salute/malattia (Øg…eia nÒsoj)66, giustizia/ingiustizia (dikaiosÚnh ¢dik…a)67, scienza/ignoranza (™pist»mh ¥gnoia)68, virtù/vizio (¢ret» kak…a)69; come esempio di possesso e privazione presenta, invece, la
coppia vista/cecità (Ôyij tuflÒthj)70. Ora, qual è il criterio per cui le prime coppie sono, per Aristotele, senza alcun dubbio esempi di contrarietà, e non piuttosto anch’esse
stati di possesso e di privazione? L’aporia sorge dalla costatazione che, da un lato, i
contrari dovrebbero essere entrambi primi, ontologicamente e assiologicamente equipollenti e conformi alla natura - come, ad esempio, bianco/nero e caldo/freddo -, e,
dall’altro, che le coppie sopra menzionate sono formate da parti negative - il male, la
tavola pitagorica completa dei dieci contrari viene riportata da Aristotele in Metafisica A, 986 a
22-26:
(1) limite/illimite (pšraj ¥peiron)
(2) dispari/pari (perittÕn ¥rtion)
(3) uno/molteplice (Ÿn plÁtoj)
(4) destro/sinistro (dexiÕn ¢risterÒn)
(5) maschio/femmina (¥rren qÁlu)
(6) fermo/mosso (ºremoàn kinoÚmenon)
(7) retto/curvo (eÙqÝ kampÚlon)
(8) luce/tenebra (fîj skÒtoj)
(9) bene/male (¢gaqÕn kakÒn)
(10) quadrato/rettangolo (tetr£gwnon ˜terÒmhkej).
Il primo elemento di ciascuna coppia costituisce la parte positiva, cui si affianca il secondo elemento, che costituisce la parte negativa. Per la seconda coppia dell’elenco, si ricordi che i Pitagorici identificavano il pari con l’illimitato e il dispari con il limitato e, di conseguenza, vedevano nel dispari l’elemento determinato e determinante, quindi positivo. L'ordine e la perfezione
stanno dalla parte dei numeri dispari, mentre il disordine e l’incompletezza stanno dalla parte
del pari.
64 Cfr. Simplicio, In Cat., 415, 31-33. La distinzione tra l’asserzione scientifica e l’opinione
comune intorno al medesimo argomento doveva risultare ben presente ad Aristotele. Si veda, ad
esempio, Topici VIII 13, 162 b 31-33 e De Generatione et Corruptione, 318 b 27-28.
65 Cfr. Categorie 10, 11 b 21; 11 b 35-36.
66 Cfr. Categorie 10, 12 a 4-6.
67 Cfr. Categorie 8, 10 b 13.
68 Cfr. Categorie 7, 6 b 17.
69 Cfr. Categorie 7, 6 b 16. Simplicio, In Cat., 416, 25, affianca alla coppia di contrari virtù/vizio quella, equivalente, di eccellenza (spoudaiÒthj) e bassezza morali (faulÒthj). Gaskin, Simplicius, On Aristotle Categories 9-15…, p. 236, n. 919, fa notare che il primo termine,
spoudaiÒthj, veniva usato, nell’accezione accolta da Simplicio, all’interno della tradizione platonica. Cfr. Pseudo-Platone, Definizioni, 412 E 7.
70 Cfr. ad esempio Categorie 10, 11 b 22.
258
malattia, l’ingiustizia, l’ignoranza, il vizio - le quali costituiscono mancanze e fallimenti
(¢potuc…ai)71, deviazioni (parall£xeij), aberrazioni rispetto alla via conforme alla
natura (paratrop£i), esistenze imperfette (parupost£seij)72.
Secondo Simplicio, i contrari sono funzioni e fini della natura; le parti negative delle
coppie, invece, non costituiscono il fine (tšloj) di nulla, ma sono deviazioni, fallimenti
e mancanze della natura. Questo può risultare evidente dall’osservazione di alcuni fenomeni: chi sceglie l’ingiustizia, ad esempio, non la sceglie lucidamente vedendo in essa il fine, ma la sceglie per errore di valutazione (par£krousij), scambiandola per giustizia73; la malattia non costituisce una meta finale, ma può progredire fino al raggiungimento del termine estremo e diventare morte74. Questi casi mostrano come le parti negative delle coppie non costituiscano, in realtà, dei contrari, ma delle privazioni che
hanno il loro corrispettivo stato di possesso nelle parti positive.
Se questa conclusione fosse giusta, per quale motivo Aristotele avrebbe posto la coppia bene/male e tutte le altre sopra menzionate tra i contrari e non, invece, tra gli esempi
di possesso e privazione, che pure, secondo il Filosofo, sono tipi di opposizione? Secondo Simplicio, lo Stagirita avrebbe mancato la corretta classificazione perché influenzato dalle dottrine dei Pitagorici, che ponevano il bene e il male all’interno delle serie
coordinate che costituivano le dieci coppie di contrari. Si tratta di un passo in cui Simplicio è fermamente deciso a emendare la classificazione aristotelica. Egli riafferma con
forza che i contrari sono tali se e solo se entrambi risultano primi, ontologicamente e assiologicamente equipollenti e conformi alla natura e che, pertanto, le coppie indicate da
Aristotele, non soddisfando tali condizioni, non costituiscono dei contrari, ma stati di
possesso e di privazione. In particolare, il male non può essere considerato un principio
accanto al bene. La determinazione di Simplicio su questo punto può essere spiegata
con la sua posizione di aspra polemica nei confronti di «coloro che pongono il male
come principio primo»75, e cioè i pensatori che aderivano al manicheismo76. Nelle coppie aristoteliche di contrari, equamente bilanciati tra loro, l’insopprimibile anelito
all’unità del neoplatonico Simplicio doveva scorgere la minaccia di un sistema dualisti71
Simplicio, In De Caelo, 430, 6-8.
Cfr. Simplicio, In Cat., 416, 30-35.
73 Cfr. Simplicio, In Cat., 417, 2-3.
74 È interessante notare come Simplicio, In Cat., 417, 24-26, opponga alla malattia, presentata
da Aristotele come contrario, ma corretta dal commentatore in stato di privazione, la cecità, presentata da Aristotele come privazione, ma illustrata da Simplicio come il fine e il termine ultimo
dell’oftalmia. Così, in una figura quasi chiastica, il filosofo neoplatonico reinterpreta e modifica
la dottrina aristotelica, espressa, non senza problematizzazione, in Topici IV, 123 b 34-37 : «C’è
un’obiezione (œnstasij) in riferimento alla salute e alla malattia (™pˆ tÁj Øgie…aj kaˆ nÒsou):
la salute, infatti, in senso assoluto, è contraria alla malattia (¡plîj mOn g¦r Øg…eia nÒsJ
™nant…on); una determinata malattia (¹ dO tˆj nÒsoj), invece, che è una specie della malattia
(edoj oâsa nÒsou), - come, ad esempio, la febbre (Ð puretÕj), l’oftalmia (¹ Ñfqalm…a) e tutte
le altre - non è contraria a nulla (oÙdenˆ ™nant…on)».
75 Simplicio, In Cat., 418, 2.
76 I Manichei ponevano alla base della realtà i due principi, equamente fondamentali, del bene e
del male. Simplicio, svuotando il male dell’importanza primaria assunta accanto al bene e riducendolo a mera privazione del bene, elimina il pericolo di una dicotomia metafisica che minava
la possibilità di una riconduzione del reale all’unità. La polemica di Simplicio nei confronti della dottrina manichea è evidente nel suo commento al Manuale di Epitteto. Cfr. Simplicius,
Commentaire sur le Manuel d’ Épictète, introduction et édition critique du texte grec par I. Hadot, Brill, Leiden 1995, pp. 114-144.
72
259
co che si contrapponeva a quello monistico di stampo neoplatonico, di derivazione plotiniana77.
77
Grande era la distanza che separava i due sistemi filosofici, il manicheismo e il neoplatonismo, con notevoli ripercussioni anche nell’ambito religioso. «Se il dualismo era il fondamento
della dottrina manichea, il Neoplatonismo era invece incentrato su una visione monistica del divino. Per la precisione, il Neoplatonismo non rinnegò il politeismo, che rappresentava
un’eredità greca, ma lo spogliò dell’originario significato riassorbendo la molteplicità
nell’unità» (F. Altheim, Der unbesiegte Gott: heidentum und Christentum, Rowohlt Verlag
GmbH, Hamburg 1957, trad. it. di E. Albrile, Deus invictus: Le religioni e la fine del mondo antico, introduzione di G. Casadio, postfazione di L. Albanese, Edizioni Mediterranee, Roma
2007, p.). Sul problema del male nel Manicheismo, si veda S. N. C. Lieu, Manicheism in the later Roman Empire and medieval China, 2° ed. revised and expanded, Mohr, Tübingen 1992, in
particolare il paragrafo 6 del capitolo V, The dualistic appeal of Manicheism, pp. 187-190. Per
quanto negli scritti di Plotino sia chiaro che l’Uno è la sola vera ¢rc», un’aporia sorge nel momento in cui, accanto a questa ¢rc», vuota e ancora senza contenuto, viene posta una ›tera
¢rc», che riempie e dà forma (cfr. Enneadi VI, 16, 33-35): il Nous, il quale, ricevendo i contenuti della sua contemplazione della natura del Bene, costituisce ciò che deriva dal Bene come
suo contenuto. Questo, tuttavia, non significa un ritorno alle metafisiche dualistiche della tradizione indiretta di Platone e dell’Antica Accademia (cfr. Th.A. Szlezák, Platon und Aristoteles in
der Nuslehre Plotins, Schwabe Verlag, Basel/Stuttgart 1979, trad. it. Platone e Aristotele nella
dottrina del Nous di Plotino, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp. 139-140). Ancor più discusso è
il fatto che Plotino, in Enneadi I 8, 6, 33, chiami il male “secondo principio”; anche se esso, «
[…] data la radicale separazione tra materia intellegibile e materia sensibile (II 4, 3, 10; 5, 20;
15, 21; II 5, 3, 13), non ha parte alcuna nella generazione delle ipostasi superiori (solo VI 6, 3, 4
s. sembra accennare al fatto che la forza del male, dominata, è presenta anche nella molteplicità
dell’intellegibile) […]» (Szlezák, Platone e Aristotele…, pp. 139-140, n. 326), Proclo, sulla base
di quel passo, rimproverò a Plotino una concezione dualistica. H. R. Schwyzer, Zu Plotins Deutung der sogenannten platonischen Materie, in: Zetesis: Album Amicorum für E. de Strycker, De
nederlandsche boekhandel, Antwerpen-Utrecht 1973, p. 277 ss., ritiene ingiustificata tale critica
«perché l’¢rc» potrebbe essere sì una grandezza negativa, ma non lo zero», cosa che invece è la
Ûlh, che si identifica con il kakÒn e, dunque, la materia, e di conseguenza anche il male, non
potrebbero essere considerati il contrario assoluto del Bene. «Stranamente Schwyzer non prende
in considerazione I 8, 6, 33 e non spiega perché Plotino si sia attenuto all’esistenza della materia
(lo zero) e al suo contrasto con il bene (I 8, 11, 1-2; 15, 1 ss.; 6, 27 ss. contro il principio aristotelico per cui niente è contrapposto all’oÙs…a), invece di identificarla con la stšrhsij» (Szlezák, Platone e Aristotele…, p. 139, n. 326), un’operazione compiuta invece da Simplicio nel
passo che stiamo esaminando.
260
Sezione Dodicesima
L’anteriorità
PrÒteron ›teron ˜tšrou lšgetai tetracîj: prîton mOn kaˆ kuriètata kat¦
crÒnon, kaq' Ö presbÚteron ›teron ˜tšrou kaˆ palaiÒteron lšgetai, - tù g¦r tÕn
crÒnon ple…w enai kaˆ presbÚteron kaˆ palaiÒteron lšgetai: - deÚteron dO tÕ m¾
¢ntistršfon kat¦ t¾n toà enai ¢koloÚqhsin, oŒon tÕ ān tîn dÚo prÒteron: due‹n
mOn g¦r Ôntwn ¢kolouqe‹ eÙqÝj tÕ ān enai, ˜nÕj dO Ôntoj oÙk ¢nagka‹on dÚo
enai, éste oÙk ¢ntistršfei ¢pÕ toà ˜nÕj ¹ ¢koloÚqhsij toà enai tÕ loipÒn, prÒteron dO doke‹ tÕ toioàton enai ¢f' oá m¾ ¢ntistršfei ¹ toà enai ¢koloÚqhsij.
tr…ton dO kat£ tina t£xin prÒteron lšgetai, kaq£per ™pˆ tîn ™pisthmîn kaˆ tîn
lÒgwn: œn te g¦r ta‹j ¢podeiktika‹j ™pist»maij Øp£rcei tÕ prÒteron kaˆ tÕ Ûsteron tÍ t£xei, - t¦ g¦r stoice‹a prÒtera tîn diagramm£twn tÍ t£xei, kaˆ ™pˆ tÁj
grammatikÁj t¦ stoice‹a prÒtera tîn sullabîn, - ™p… te tîn lÒgwn Ðmo…wj, - tÕ
g¦r proo…mion tÁj dihg»sewj prÒteron tÍ t£xei ™st…n. - œti
par¦ t¦ e„rhmšna tÕ bšltion kaˆ tÕ timièteron prÒteron enai tÍ fÚsei doke‹:
e„èqasi dO kaˆ oƒ polloˆ toÝj ™ntimotšrouj kaˆ m©llon ¢gapwmšnouj Øp' aÙtîn
protšrouj f£skein enai: œsti mOn d¾ scedÕn ¢llotriètatoj tîn trÒpwn oátoj.
Oƒ mOn oân legÒmenoi toà protšrou trÒpoi tosoàto… e„sin. dÒxeie d' ¨n kaˆ
par¦ toÝj e„rhmšnouj ›teroj enai protšrou trÒpoj: tîn g¦r ¢ntistrefÒntwn
kat¦ t¾n toà enai ¢koloÚqhsin tÕ a‡tion Ðpwsoàn qatšrJ toà enai prÒteron
e„kÒtwj fÚsei lšgoit' ¥n. Óti d' œsti tin¦ toiaàta, dÁlon: tÕ g¦r enai ¥nqrwpon
¢ntistršfei kat¦ t¾n toà enai ¢koloÚqhsin prÕj tÕn ¢lhqÁ perˆ aÙtoà lÒgon: e„
g¦r œstin ¥nqrwpoj, ¢lhq¾j Ð lÒgoj ú lšgomen Óti œstin ¥nqrwpoj: kaˆ
¢ntistršfei ge, - e„ g¦r ¢lhq¾j Ð lÒgoj ú lšgomen Óti œstin ¥nqrwpoj, œstin
¥nqrwpoj: - œsti dO Ð mOn ¢lhq¾j lÒgoj oÙdamîj a‡tioj toà enai tÕ pr©gma, tÕ
mšntoi pr©gma fa…neta… pwj a‡tion toà enai ¢lhqÁ tÕn lÒgon: tù g¦r enai tÕ
pr©gma À m¾ ¢lhq¾j Ð lÒgoj À yeud¾j lšgetai. éste kat¦ pšnte trÒpouj prÒteron
›teron ˜tšrou lšgoit' ¥n.
Una cosa si dice anteriore a un’altra in quattro modi. In un primo e principale senso,
si dice secondo il tempo, in base al quale una cosa si dice più vecchia e più antica di
un’altra, poiché è a causa del maggior tempo che si dice sia più vecchia sia più antica.
In un secondo senso, ciò che non può essere invertito nella consequenzialità
dell’essere: l’uno, ad esempio, è anteriore al due. Se c’è il due, segue immediatamente
che c’è anche l’uno, mentre, se c’è l’uno, non è necessario che ci sia il due. Di conseguenza, partendo dall’uno, la consequenzialità dell’esserci dell’altro non si inverte, e
sembra che sia anteriore l’essere a partire dal quale non si inverte l’ordine dell’essere.
In un terzo senso, una cosa si dice anteriore secondo un certo ordine, come nel caso
delle scienze e dei discorsi. Nelle scienze apodittiche, infatti, ci sono un’anteriorità e
una posteriorità secondo un ordine: gli elementi [della geometria], infatti, sono anteriori
alle proposizioni geometriche secondo un ordine, e gli elementi della grammatica sono
anteriori alle sillabe. Lo stesso vale per i discorsi: l’introduzione è anteriore
all’esposizione secondo un ordine.
Oltre a quanto detto, ciò che è migliore e di più alto valore sembra essere anteriore
per natura. E i più sono soliti chiamare “anteriori” le persone da loro più stimate e più
amate. Ma questo è probabilmente il più inappropriato dei sensi.
Questi sono, dunque, i sensi di anteriorità di cui abbiamo parlato. Sembrerebbe, tuttavia, che, oltre a quelli menzionati, ci sia ancora un altro senso di anteriorità. Infatti,
nelle cose che si invertono secondo la consequenzialità dell’essere, ciò che è in qualche
modo causa dell’essere di un’altra dovrebbe essere detto anteriore per natura. È evidente
che ci sono casi di questo genere. Il fatto che ci sia un uomo, infatti, può essere invertito, secondo la consequenzialità dell’essere, con il discorso vero intorno ad esso: se c’è
un uomo, infatti, risulta vero il discorso con il quale diciamo che c’è un uomo; e questo
può essere invertito: infatti, se è vero il discorso con il quale diciamo che c’è un uomo,
allora c’è un uomo. Il discorso vero, tuttavia, non è in alcun modo causa dell’essere del
fatto, piuttosto il fatto sembra essere la causa della verità del discorso, dal momento che
il discorso risulta vero o falso a seconda che il fatto si dia oppure no. Di conseguenza,
una cosa potrebbe dirsi anteriore a un’altra secondo cinque sensi.
Sommario
In questo capitolo, Aristotele enumera i diversi significati dell’anteriorità o priorità1,
affermando che essi sono in numero di quattro, ma, successivamente, ne aggiunge un
quinto2.
1. In un primo senso, l’anteriorità si dà secondo il tempo, in base al quale una
cosa si dice più vecchia e più antica di un’altra.
2. In un secondo senso, l’anteriorità è quella secondo la quale non si danno interscambiabilità e reciprocità rispetto all’implicazione dell’esistenza: in questo senso l’uno, ad esempio, è anteriore al due; infatti, se c’è il due, segue
immediatamente e necessariamente che c’è anche l’uno; se, invece, poniamo
che ci sia l’uno, non è necessario che ci sia anche il due.
3. In un terzo senso, una cosa si dice anteriore secondo un certo ordine: nella
geometria, ad esempio, le definizioni, gli assiomi e i postulati sono anteriori
ai problemi e ai teoremi; nella grammatica, le lettere sono anteriori alle sillabe; nei discorsi, l’introduzione è anteriore all’esposizione.
4. In un quarto senso, si dice anteriore ciò che è migliore e di più alto valore, ma
si tratta del modo più inappropriato di parlare di anteriorità.
5. A questi quattro modi dell’anteriorità, Aristotele ne aggiunge un quinto: tra le
cose che si convertono secondo la consequenzialità dell’essere, si dice anteriore ciò che è in qualche modo causa dell’essere di un’altra. Così, l’esistenza
di un uomo è causa della verità dell’enunciato che afferma l’esistenza
dell’uomo.
1
Sui significati di anteriorità, si confronti Metafisica D 11.
Anche se all’inizio del capitolo, Aristotele enumera quattro significati dell’anteriorità (Categorie 12, 14 a 26), ne aggiunge successivamente uno ulteriore, per cui, alla fine del capitolo, essi
sono nel numero di cinque (Categorie, 14 b 22). Per sistemare questo cambiamento del numero,
Peirce, Aristotle’ notion of priority, Ms. 992, citato da Oehler, Aristoteles, Kategorien…, p. 278,
propone di sostituire l’avverbio tetracîj della riga 14 a 26 con pentacîj o con pollacîj.
2
262
1. Primo modo dell’anteriorità: l’ordine cronologico (Categorie 12, 14 a
26-28)
In un primo (prîton) e principale (kuriètata) senso, l’anteriorità si dice secondo il
tempo (kat¦ crÒnon); in base all’ordine cronologico, infatti, una cosa si dice più vecchia (presbÚteron) e più antica (palaiÒteron) rispetto a un’altra. L’espressione «più
vecchia e più antica» (kaˆ presbÚteron kaˆ palaiÒteron) non può essere considerata
un’endiadi, perché «più vecchia» (presbÚteron) si dice in riferimento agli esseri animati e, in particolare, agli uomini - in questo senso, si dice che, ad esempio, Pitagora è
più vecchio di Socrate -; «più antica» (palaiÒteron) si dice in riferimento alle cose inanimate e agli eventi - in questo senso si dice, ad esempio, che la guerra di Troia è più
antica della guerra persiana3. In ogni caso, in questi esempi si vede bene come, nel primo modo dell’anteriorità, sia importante stabilire un confronto: ciò che è primo, è tale
rispetto a qualcos’altro. In caso contrario, si potrebbe anche pensare che qualcuno possa
essere anteriore a se stesso nel senso che lo è rispetto alla propria giovinezza. Lo stesso
uomo, infatti, da adulto, è più vecchio rispetto a se stesso in gioventù4.
L’anteriorità secondo il tempo è quella principale e più propria perché, da un lato,
corrisponde a un uso linguistico comune ormai radicato5 e immediato6, e, dall’altro,
perché scandisce un ordine di successione, che è la chiave principale delle coppie prima-poi, anteriore-posteriore7.
L’anteriorità di questo tipo si calcola in riferimento al momento presente, come viene
spiegato in Metafisica D 11, 1018 b 14-198:
Alcune cose si dicono anteriori per il tempo (kat¦ crÒnon): certe perché sono più lontane dal momento presente (porrèteron toà nàn), come per esempio gli eventi passati (™pˆ tîn genomšnwn); così le guerre di Troia si dicono anteriori (prÒteron) alle
guerre Persiane in quanto sono più lontane dal momento presente; certe altre perché
sono più vicine al momento presente (tî ™ggÚteron toà nàn), come per esempio gli
eventi futuri (™pˆ tîn mellÒntwn): così i giochi Nemei si dicono anteriori ai giochi
Pizi, perché sono più vicini al momento presente, del quale ci serviamo come punto di
partenza originario (æj ¢rc» kaˆ prètw).
Aristotele assume l’istante attuale (nàn)9 come punto di riferimento e di misurazione
della priorità di tipo cronologico: per quanto riguarda gli eventi passati, risulteranno anteriori quelli più lontani dal momento presente; per quanto riguarda gli eventi futuri, risulteranno anteriori quelli più vicini al tempo presente10.
3
Questa differenza è sottolineata in Simplicio, In Cat., 419, 1 ss; Filopono, In Cat., 191, 26 192, 2; Ammonio, In Cat., 103, 7-8. Questa distinzione risale probabilmente a Porfirio, secondo
quanto riporta Boezio, In Cat., 284 A.
4 Cfr. Simplicio, In Cat., 419, 5 ss.
5 Cfr. Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 101.
6 Cfr. Oehler, Aristoteles, Kategorien…, p. 278.
7 Cfr. Zanatta, Aristotele, Categorie…, p. 675.
8 Sulla priorità secondo il tempo (kat¦ crÒnon) si veda anche Fisica IV, 14, 223 a 4 ss.
9 Aristotele tratta in modo diffuso del tempo e dell’istante in Fisica IV 11, cui rimandiamo.
10 Sull’istante attuale (nàn) come punto di riferimento e di misurazione della priorità di tipo
cronologico, si veda S. Tommaso, In Metaph., 251 b, § 941. Poiché l’anteriorità viene qui considerata come un attributo di ciò che è, e non di ciò che è stato e non è più, né di ciò che sarà e
non è ancora, non sussistono le critiche all’argomento aristotelico che, secondo Bodéüs, Aristo-
263
2. Secondo modo dell’anteriorità: l’ordine ontologico (Categorie 12, 14 a
29-35)
Il secondo modo dell’anteriorità appartiene a
ciò che non può essere invertito (tÕ m¾ ¢ntistršfon) nella consequenzialità
dell’essere (kat¦ t¾n toà enai ¢koloÚqhsin)11.
Questo tipo di anteriorità si ha quando, posto qualcosa, si deve porre che esista qualcos’altro, e la relazione tra i due elementi non può essere invertita, dal momento che, se
si ponesse il solo qualcos’altro, non necessariamente seguirebbe l’esistenza dell’altro
elemento. L’uno, ad esempio, è anteriore al due. Se c’è il due, segue immediatamente e
necessariamente che c’è anche l’uno; se poniamo che ci sia l’uno, invece, non è necessario che ci sia anche il due. La relazione, dunque, tra i due elementi non è biunivoca, e
non può esserci interscambiabilità e reciprocità rispetto all’implicazione
dell’esistenza12.
Questo, secondo molti interpreti, è il modo dell’anteriorità per cui il genere è anteriore rispetto alla specie, dal momento che, se il genere viene eliminato, viene eliminata
anche la specie; se invece viene eliminata la specie, non viene eliminato, per ciò stesso,
il genere. Il genere, infatti, non implica l’esistenza della specie, ma l’esistenza della
specie implica quella del genere. Ad esempio, se si elimina l’animale, si elimina anche
l’uomo; se, invece, si elimina l’uomo, non si elimina l’animale, perché l’esistenza
dell’animale non implica quella dell’uomo come l’esistenza dell’uomo implica quella
dell’animale13.
Secondo Simplicio14, in questo testo c’è una stranezza, che risiede nel fatto che Aristotele non fa affatto menzione dell’anteriorità del genere rispetto alla specie né
dell’anteriorità della specie sull’individuo. Una stranezza piuttosto evidente dal momento che, nel capitolo successivo, dedicato alla nozione di simultaneità, Aristotele presenterà l’anteriorità del genere rispetto alla specie15. I due tipi di anteriorità della cui mancanza si lamenta Simplicio, in ogni caso, devono poter essere pensati in riferimento alla
conoscenza e alle nozioni universali, perché, dal punto di vista strettamente ontologico,
sappiamo che, secondo Aristotele, qualora non esistessero le sostanze prime, non potrebbero esistere le sostanze seconde, cioè i generi e le specie. E, in realtà, in Categorie
13, 15 a 4-7, Aristotele non cita l’anteriorità della specie sull’individuo, ma esclusivate, Catégories…, p. 150, n. 2, sembrano sorgere a una prima lettura, secondo le quali la spiegazione del primo modo dell’anteriorità sembrerebbe: 1. «fallace, perché l’età maggiore non è necessariamente sinonimo di anteriorità (un bambino scomparso tre secoli fa è anteriore a un centenario contemporaneo); 2. parziale, perché c’è anteriorità anche nel futuro (il prossimo inverno
è anteriore rispetto a quello seguente)».
11 Categorie 12, 14 a 30.
12 Simplicio, In Cat., 419, 25 ss, riporta che i «[filosofi] più recenti» rispetto ad Aristotele, intendendo probabilmente gli Stoici (cfr. R. Gaskin, Simplicius, On Aristotle Categories…, p.
238, n. 957), sono abituati a determinare ciò che è anteriore in questo senso con «ciò che non
implica l’altro, ma è implicato dall’altro e ciò che, se eliminato, elimina l’altro, ma non è eliminato se l’altro è eliminato».
13 Si tratta dell’esempio che si legge in Simplicio, In Cat., 420, 1 ss.
14 Cfr. Simplicio, In Cat., 420, 5 ss.
15 Cfr. Categorie 13, 15 a 4-7.
264
mente quella del genere rispetto alla specie. Ontologicamente, infatti, la sostanza prima
resta sempre e comunque il primus, mentre, all’interno delle sostanze seconde, quindi
all’interno di un ambito conoscitivo, si istituiscono dei rapporti di priorità: il genere è
anteriore alle diverse specie (simultanee) che gli appartengono; ad esempio, se esiste la
specie dell’acquatico, allora esiste anche il genere animale, ma se esiste il genere animale, non è detto che esista la specie dell’acquatico; potrebbero, infatti, esistere numerose
specie differenti che non siano quella dell’acquatico. Chiarissimo, intorno a questo punto, il seguente passo tratto dai Topici:
L’eliminazione del genere (gšnoj) e della differenza (diafor¦) coinvolge, infatti, quella della specie (edoj); di conseguenza, il genere e la differenza risultano anteriori
(prÒtera) alla specie. Essi sono anche più noti (gnwrimètera), giacché la conoscenza
della specie (edouj gnwrizomšnou) implica necessariamente (¢n£gkh) anche quella
del genere e della differenza (chi conosce l’uomo conosce anche l’animale e il terrestre), mentre la conoscenza del genere e della differenza non importa necessariamente
quella della specie16.
3. Terzo modo dell’anteriorità: l’ordine logico (Categorie 12, 14 a 35 - b 2)
In un terzo senso (tr…ton), una cosa si dice anteriore secondo un certo ordine (kat£
tina t£xin). Per provare l’esistenza di questo tipo di anteriorità, Aristotele fa ricorso a
degli esempi tratti dalle scienze dimostrative. Nelle scienze apodittiche (œn ta‹j
¢podeiktika‹j ™pist»maij), infatti, ci sono un’anteriorità (tÕ prÒteron) e una posteriorità (tÕ Ûsteron) secondo un ordine (tÍ t£xei): nella geometria, ad esempio, gli elementi (t¦ stoice‹a) - le definizioni, gli assiomi e i postulati - sono anteriori ai problemi e ai teoremi17; e, nella grammatica18, gli elementi - le lettere - sono anteriori alle
16
Topici VI 4, 141 b 28-34.
«[…] le definizioni, i postulati e gli assiomi della geometria sono anteriori alle proposizioni.
Molte “proposizioni” geometriche, infatti, sono soluzioni ai problemi di costruzione (ad esempio Euclide I 1, 2, 3); e la costruzione di diagrammi appropriati ha un ruolo importante anche
nelle dimostrazioni dei teoremi (ad esempio il teorema di Pitagora, Euclide I 47)» (Ackrill, Aristotle’s Categories…, p. 111). Come per gli autori antichi quali, ad esempio, Simplicio e Boezio, anche alcuni commentatori moderni come, appunto, Ackrill e Pesce (cfr. Pesce, Aristotele,
Categorie…, p. 102, n. 5) intendono per “elementi” (t¦ stoice‹a) della geometria le definizioni
(Ôroi) con cui si aprono gli Elementi di Euclide (diversamente dall’interpretazione di T. Waitz,
Aristotelis Organon Graece, 2 voll., Hahn, Lipsiae 1844, rist. Aalen, 1965, vol. I, p. 317), e per
diagr£mmata le descriptiones, cioè i problemi e i teoremi (diversamente dall’interpretazione di
L. Robin, La Théorie platonicienne des Idée set des nombres d’après Aristote, Paris 1908, rist.
Hildesheim 1963, p. 613). Che per “elementi” (stoice‹a) si intendano qui le proposizioni geometriche, e non le figure geometriche, risulta chiaro da Metafisica B 3, 998 a 25-27: «Così
chiamiamo elementi (stoice‹a) delle proposizioni geometriche (tîn diagrammatîn) quelle
proposizioni le cui dimostrazioni (¢pode…xeij) sono contenute in tutte o nella maggior parte delle dimostrazioni delle altre proposizioni», e da Metafisica D 3, 1014 a 35 - b 2: «[…] si parla di
elementi (stoice‹a) delle proposizioni geometriche (tîn diagrammatîn) e in generale di elementi delle dimostrazioni (tîn ¢pode…xewn). Infatti, le dimostrazioni che sono prime e che sono implicite in molte altre dimostrazioni, sono denominate elementi delle dimostrazioni».
18 Che la grammatica sia annoverata da Aristotele tra le scienze risulta chiaro da Categorie 8, 11
a 24 ss.
17
265
sillabe19. Anche nei discorsi, anche in quelli forensi o politici, si dà un’anteriorità secondo un ordine: in questo senso, infatti, l’introduzione (tÕ proo…mion) è anteriore
all’esposizione (tÁj dihg»sewj)20.
La nozione di anteriorità secondo l’ordine è, in realtà, piuttosto vaga, perché non
spiega di che tipo di ordine si tratta e potrebbe risultare difficile distinguerla dalla precedente nozione, dal momento che precedentemente Aristotele ha parlato di “ordine” in
riferimento ai numeri21. In realtà, tuttavia, la priorità secondo l’ordine qui presentata è
ben diversa da quella che appartiene ai numeri è che è stata descritta nel secondo modo;
questa è un’anteriorità di tipo logico e, in qualche modo, temporale, in quanto il proemio viene prima dell’esposizione e le nozioni semplici si imparano prima di quelle
complesse22. Nel caso delle lettere e delle sillabe e delle nozioni della geometria, è chiaro che è anteriore ciò che è più facilmente conoscibile e più noto23.
4. Quarto modo dell’anteriorità: l’ordine assiologico (Categorie 12, 14 b 38)
In un quarto senso, si dice anteriore ciò che è migliore (tÕ bšltion) e di più alto valore (tÕ timièteron) in termini di capacità e di superiorità. In questo senso, si potrebbe
dire che le realtà divine sono “prime” o anteriori rispetto alle mortali24, e, secondo lo
stesso principio, che i più sono comunemente soliti chiamare “prime” le persone da loro
più stimate e più amate.
19
«[…] elementi e principi della parola (fwnÁj stoice‹a kaˆ ¢rcaˆ) sembrano essere quei costitutivi primi di cui le parole risultano intrinsecamente composte» (Metafisica B 3, 998 a 2324), cioè «le vocali e le consonanti, quelle concrete, materiali e fisiche» (Reale, Aristotele, Metafisica, vol. III, p. 129, n. 4). «Le lettere sono dunque anteriori alle sillabe perché, essendone i
costitutivi elementari e primi, in quanto suoni non ulteriormente scomponibili, nell’ordine della
composizione della parola precedono le sillabe» (Zanatta, Aristotele, Categorie…, p. 678).
20 Sull’anteriorità o priorità del proemio rispetto alla trattazione Aristotele si esprime anche in
Retorica, III, 13-24. Qui lo Stagirita spiega come le parti che si incontrano per lo più nei discorsi sono: il proemio (proo…mion), la proposizione (prÒqesij), l’argomentazione (p…stij) e
l’epilogo (™p…logoj) (cfr. Retorica, III, 1414 b 7-10), e successivamente precisa che «il proemio, dunque, è l’inizio (¢rc¾) del discorso (logoà), come nella poesia lo è il prologo (prÒlogoj) e nella flautistica il preludio (proaÚlion): tutti questi, infatti, sono inizi e come preparazioni all’orazione» (Retorica, III, 1414 b 19-21).
21 Cfr. Categorie 6, 5 a 30-32.
22 Anche in Metafisica D 11, 1018 b 26-29 si parla di anteriorità secondo l’ordine, ma in modo
diverso. Lì si intende, infatti, la posizione spaziale occupata in relazione a un punto di riferimento: ad esempio, fra i coreuti, il secondo è anteriore al terzo in relazione al corifeo; nella lira, la
penultima corda è anteriore alla prima in riferimento alla corda di mezzo. In fondo, i tipi di anteriorità secondo l’ordine descritti in Categorie e in Metafisica non sono che casi particolari di
una nozione di anteriorità più generale che consiste nell’ordine rispetto a un determinato punto
di riferimento. Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 152, n. 1.
23 Cfr. Topici VI, 4, 141 b 5-9: «Ciò che è anteriore è in assoluto (¡plîj) più noto (gnwpimèteron) di ciò che è posteriore: il punto, ad esempio, è più noto della linea, la linea è più nota
della superficie, la superficie è più nota del solido, così come l’unità è più nota del numero in
quanto è anteriore a ogni numero ed è principio di ogni numero. Lo stesso vale anche per le lettere rispetto alle sillabe».
24 Cfr. Simplicio, In Cat., 420, 20 ss.
266
Questo è, tuttavia, secondo Aristotele, il più inappropriato (¢llotriètatoj25) dei
sensi, una posizione per la quale Simplicio presenta due motivazioni26. Da un lato, il
quarto senso sarebbe il più inappropriato non perché ciò che è migliore e di più alto valore non sia realmente “primo” o superiore per natura, ma perché il termine “primo” o
anteriore non è appropriato a tali realtà, e di fatti non diventa un costume naturale chiamare così i genitori, gli insegnanti o gli amici che più si stimano. A questa spiegazione,
Simplicio aggiunge un’altra motivazione, che appare molto più verosimile: questo quarto modo si allontana molto dal senso più proprio dell’anteriorità, che è quello
dell’ordine cronologico27; le cose “anteriori” per il valore attribuitogli non sono tali per
un ordine oggettivo insito in esse, ma, per così dire, per una nostra scelta28. Esse non
sono dette migliori in quanto sono “prime”, ma sono dette “prime” in quanto migliori.
La loro priorità, dunque, è debole.
5. Quinto modo dell’anteriorità: ordine “causale” (Categorie 12, 14 b 9-23)
Ai quattro sensi dell’anteriorità enumerati all’inizio del capitolo e successivamente
analizzati, Aristotele aggiunge un quinto senso, quello che si dice secondo l’ordine causale: tra le cose che si convertono secondo la consequenzialità dell’essere29, ciò che è in
qualche modo causa dell’essere (tÕ a‡tion… toà enai) di un’altra dovrebbe essere
detto anteriore (prÒteron) per natura (fÚsei).
Questo tipo di anteriorità si dà, ad esempio, nel caso dell’uomo in rapporto con il discorso vero intorno ad esso. Innanzitutto, in questo caso, si dà reciprocità nell’ordine
dell’essere: il fatto che ci sia un uomo, infatti, può essere convertito con l’esistenza di
un discorso vero intorno ad esso. Se c’è un uomo, risulta vero il discorso con il quale si
dice che c’è un uomo; e il rapporto può essere invertito: se è vero il discorso con il quale
si dice che c’è un uomo, allora c’è un uomo. Sebbene ci sia tale reciprocità e quasi una
“simultaneità” tra i due elementi, tuttavia ciò che costituisce in qualche modo la causa
dell’altro viene detto “anteriore”. È vero che l’esistenza dell’oggetto e la verità
dell’affermazione si condizionano a vicenda, ma la reciprocità non è totale da generare
quasi una simultaneità assoluta30. Il discorso vero non è causa dell’essere del fatto, piuttosto il fatto sembra essere la causa della verità del discorso, dal momento che il discor-
25
Categorie 13, 14 b 7.
Cfr. Simplicio, In Cat., 420, 25 ss.
27 Infatti, «[…] il significato primitivo della coppia prima-poi è appunto quello che si riferisce
alla successione temporale» (Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 102, n. 1). Cfr. Oehler, Aristoteles, Kategorien…, p. 278; Zanatta, Aristotele, Categorie…, p. 678.
28 Cfr. Ammonio, In Cat., 103, 20 ss.
29 Sulla reciprocità in relazione all’implicazione dell’esistenza, cfr. Categorie, 7 b 15 - 8 a 12.
30 «Esistenza dell’oggetto e verità dell’affermazione si condizionano a vicenda, ma, come Aristotele ha già insistito nel capitolo dedicato ai relativi (7 b 22 ss.), non si tratta, in questo caso,
di simultaneità, perché l’esistenza dell’oggetto è prima della verità dell’affermazione» (Pesce,
Aristotele, Categorie…, p. 103). In effetti, come sottolinea Bodéüs, Aristote, Catégories…, p.
153, n. 3, l’esistenza dell’uomo non implica l’esistenza del discorso che afferma l’esistenza
dell’uomo, ma implica la verità di tale discorso. Tuttavia, poiché per Aristotele l’essere implica
l’essere vero (cfr. Metafisica Q 10, 1027 e ss; De Interpretatione 9, 18 a 39 - b 3), l’allora
l’essere inteso come esistenza di una realtà può implicare un altro modo dell’essere, l’essere
come vero, per il soggetto che la conosce e per il discorso che l’afferma.
26
267
so risulta vero o falso a seconda che la realtà si dia oppure no31. Due tesi, quella della
reciprocità nell’ordine dell’essere tra il discorso e l’oggetto del discorso e quella della
realtà come “causa” della verità o falsità del discorso, pienamente aristoteliche, che ricorrono in altri luoghi del corpus. La prima tesi è espressamente chiarita, ad esempio, in
De Interpretatione 9, 18 a 34 - b 3. Aristotele sta spiegando come, qualora si diano
un’affermazione e una negazione intorno a una realtà, sia necessario che l’una sia vera e
l’altra sia falsa - entrambe le determinazioni, infatti, non potranno appartenere simultaneamente alla stessa realtà -, e aggiunge:
[…] se è vero dire che un oggetto è bianco, oppure che non è bianco, esso sarà necessariamente bianco oppure non bianco, e, se un oggetto è bianco oppure non è bianco, era
vero (¢lhqOj) affermare (f£nai) oppure negare (¢po f£nai) la cosa. E se la determinazione non appartiene all’oggetto, chi l’attribuisce a questo dice il falso, e, se chi attribuisce la determinazione all’oggetto dice il falso, la determinazione non appartiene
all’oggetto.32.
In questo passo è chiara la reciprocità tra la verità o falsità dell’enunciato e
l’attribuzione della determinazione all’oggetto: se la determinazione non appartiene
all’oggetto, chi gliel’attribuisce dice il falso; e, viceversa, se chi attribuisce la determinazione all’oggetto dice il falso, la determinazione non appartiene all’oggetto. Si può
concludere, come Aristotele scrive più avanti:
[…] nello stesso modo in cui sono veri i discorsi lo sono gli oggetti33.
In Metafisica Q 10 troviamo, invece, un passo cruciale intorno alla realtà descritta
come “causa” della verità o falsità del discorso. Aristotele sta analizzando i significati
dell’essere come vero e del non-essere come falso, e spiega che, in riferimento alle realtà, si è nel vero se si ritengono separate le cose che sono effettivamente separate e unite
le cose che sono effettivamente unite; si è nel falso quando si ritiene che le cose stiano
in modo contrario a come stanno effettivamente. In cosa, dunque, consiste il vero? Nel
rispecchiare le cose come esse stanno:
[…] non perché noi ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu
sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero34.
Una proposizione è vera solo se lo stato di cose che essa descrive corrisponde a realtà,
la quale, dunque, viene a istituirsi come causa, condizione della verità dell’enunciato.
Questo quinto modo dell’anteriorità indica, in un certo senso, la supremazia
dell’ordine ontologico su quello logico, in quanto l’essere “causa” è “primo” nell’ordine
della complicazione dell’essere.
31
«Infatti, l’oggetto (pr©gma) è la causa della “sentenza vera”, non la sentenza causa
dell’oggetto» Simplicio, In Cat., 421, 4-5.
32 De Interpretatione 9, 18 a 39 - b 3.
33 De Interpretatione 9, 19 a 33: «[…] ÐmÒiwj oƒ lÒgoi ¢lhqe‹j ésper t¦ pr£gmata».
34 Metafisica Q10, 1051 b 6-9.
268
Capitolo tredicesimo
La simultaneità
“Ama dO lšgetai ¡plîj mOn kaˆ kuriètata ïn ¹ gšnesij ™n tù aÙtù crÒnJ:
oÙdšteron g¦r prÒteron oÙdO ÛsterÒn ™stin: ¤ma dO kat¦ tÕn crÒnon taàta
lšgetai. fÚsei dO ¤ma Ósa ¢ntistršfei mOn kat¦ t¾n toà enai ¢koloÚqhsin,
mhdamîj dO a‡tion q£teron qatšrJ toà ena… ™stin, oŒon ™pˆ toà diplas…ou kaˆ toà
¹m…seoj: ¢ntistršfei mOn g¦r taàta, - diplas…ou g¦r Ôntoj ™stˆn ¼misu, kaˆ
¹m…seoj Ôntoj dipl£siÒn ™stin, - oÙdšteron dO oÙdetšrJ a‡tion toà ena… ™stin.
kaˆ t¦ ™k toà aÙtoà gšnouj ¢ntidiVrhmšna ¢ll»loij ¤ma tÍ fÚsei lšgetai.
¢ntidiVrÁsqai dO lšgetai ¢ll»loij t¦ kat¦ t¾n aÙt¾n dia…resin, oŒon tÕ pthnÕn
tù pezù kaˆ tù ™nÚdrJ: taàta g¦r ¢ll»loij ¢ntidiÇrhtai ™k toà aÙtoà gšnouj
Ônta: tÕ g¦r zùon diaire‹tai e„j taàta, e‡j te tÕ pthnÕn kaˆ tÕ pezÕn kaˆ tÕ œnudron, kaˆ oÙdšn ge toÚtwn prÒteron À ÛsterÒn ™stin, ¢ll' ¤ma tÍ fÚsei t¦ toiaàta doke‹ enai: [diaireqe…h d' ¨n kaˆ ›kaston toÚtwn e„j e‡dh p£lin, oŒon tÕ pezÕn
kaˆ tÕ pthnÕn kaˆ tÕ œnudron.] œstai oân k¢ke‹na ¤ma tÍ fÚsei, Ósa ™k toà aÙtoà
gšnouj kat¦ t¾n aÙt¾n dia…res…n ™stin: t¦ dO gšnh tîn e„dîn ¢eˆ prÒtera: oÙ g¦r
¢ntistršfei kat¦ t¾n toà enai ¢koloÚqhsin: oŒon ™nÚdrou mOn Ôntoj œsti zùon,
zóou dO Ôntoj oÙk ¢n£gkh œnudron enai. - ¤ma oân tÍ fÚsei lšgetai Ósa
¢ntistršfei mOn kat¦ t¾n toà enai ¢koloÚqhsin, mhdamîj dO a‡tion tÕ ›teron tù
˜tšrJ toà ena… ™stin, kaˆ t¦ ™k toà aÙtoà gšnouj ¢ntidiVrhmšna ¢ll»loij:
¡plîj dO ¤ma, ïn ¹ gšnesij ™n tù aÙtù crÒnJ.
Simultanee si dicono in senso assoluto e più proprio le cose la cui origine avviene
nello stesso tempo. Nessuna delle due, infatti, è anteriore o posteriore. Tali cose si dicono simultanee secondo il tempo.
Sono simultanee per natura tutte quelle cose che possono essere invertite nell’ordine
dell’essere, ma di cui nessuna può in alcun modo essere la causa dell’esistere di
un’altra. Ad esempio, nel caso del doppio e del mezzo: questi, infatti, si possono invertire - poiché, se c’è il doppio, c’è anche il mezzo, e se c’è il mezzo, c’è anche il doppio -,
ma nessuno dei due è causa dell’essere dell’altro.
Si dicono simultanee per natura anche le cose che si dividono in parti opposte le une
alle altre, ma partendo dallo stesso genere. Si dicono divisioni in parti opposte le une alle altre quelle fatte secondo la stessa divisione, come, ad esempio, il volatile è opposto
al terrestre e all’acquatico. Queste, infatti, sono divisioni in parti opposte le une alle altre, ma partendo dallo stesso genere: l’animale, infatti, si divide in volatile, terrestre e
acquatico, e nessuno di questi è anteriore o posteriore, ma sembrano essere simultanei
per natura. <Ciascuno di questi potrebbe dividersi nuovamente in specie, come, ad esempio, il volatile, il terrestre e l’acquatico>. Saranno, quindi, simultanee per natura le
realtà che derivano dallo stesso genere secondo la stessa divisione. I generi, invece, sono sempre anteriori alle specie; non si dà, infatti, inversione secondo l’ordine
dell’essere: ad esempio, se c’è l’acquatico, c’è anche l’animale, ma, se c’è l’animale,
non è necessario che ci sia l’acquatico. Simultanee per natura, quindi, si dicono tutte
quelle cose che possono essere invertite nell’ordine dell’essere, ma che non possono in
nessun modo essere l’una causa dell’essere dell’altra, e che si dividono in parti opposte
tra loro partendo dal medesimo genere.
Simultanee in senso assoluto, invece, sono le cose la cui origine avviene nello stesso
tempo.
Sommario
Dopo aver indagato, nella sezione precedente, la nozione di anteriorità, in questo capitolo Aristotele analizza il concetto di simultaneità. Di esso sono presentati due significati principali:
1. la simultaneità secondo il tempo;
2. la simultaneità secondo natura.
Il primo significato, quello più proprio, si attribuisce alle le cose la cui origine avviene
nello stesso tempo e delle quali nessuna risulta, pertanto, anteriore o posteriore. Tuttavia, la simultaneità temporale, pura e semplice, non è naturale. La simultaneità secondo
natura appartiene a tutte quelle cose il cui ordine di esistenza può essere invertito, e di
cui nessuna può in alcun modo essere la causa dell’esistere di un’altra. In questo senso
risultano simultanei: 2.1. gli opposti; 2.2. le specie e le sottospecie corrispondenti a ordini e livelli coordinati appartenenti allo stesso genere.
Il capitolo si chiude con una brevissima ripresa della caratteristica del primo significato della simultaneità, in opposizione al secondo appena trattato.
1. La simultaneità secondo il tempo
In un primo senso, il più proprio (kuriètata) e assoluto (¡plîj), si dicono simultanee (¤ma) le cose la cui origine avviene nello stesso tempo (™n tù aÙtù crÒnJ), delle
quali nessuna risulta, dunque, anteriore o posteriore. Tali cose si dicono simultanee secondo il tempo (kat¦ tÕn crÒnon).
Come nella trattazione del capitolo precedente, il senso principale di priorità era
quello legato alla scansione cronologica1, anche qui il senso primo e assoluto di simultaneità è quello che si determina secondo il tempo2.
Come Aristotele spiega in un passo della Fisica,
se la simultaneità secondo il tempo, cioè il non essere né prima né dopo, significa essere nello stesso tempo3
1
Cfr. Categorie 12, 14 a 26-29.
Simplicio, In Cat., 424, 10 ss., afferma che Aristotele, in questo capitolo, presenta per prima la
simultaneità secondo il tempo per eguagliare l’ordine che ha rispettato poc’anzi, nella trattazione della priorità.
3 Fisica IV 10, 218 a 25-30. Cfr anche Fisica V 2, 226 a 18, sempre per quanto concerne il senso temporale. «Nell’ambito del continuo», invece, la simultaneità «contrassegna due momenti
che hanno in comune il medesimo limite» (Aristotele, Fisica, Nuova edizione testo greco a
fronte, a cura di L. Ruggiu, Mimesis, Milano 2007, pp. 521-522). Cfr. Fisica, 243 a 4, 34.
2
270
Inoltre, poiché la coesistenza temporale, ossia di non essere né prima né dopo, significa
l’esser nel medesimo tempo e nell’istante, se si ammettesse la coincidenza di ciò che è
prima e di ciò che è poi nello stesso istante, allora indubbiamente le cose avvenute diecimila anni fa sarebbero simultanee con quelle avvenute oggigiorno, e nessuna cosa sarebbe né prima né dopo in relazione ad un’altra. Trad. Aristotele, Opere, Vol. 3: Fisica,
Del Cielo, Biblioteca Universale Laterza, traduzioni di Antonio Russo e Renato Laurenti, Bari 1983, 1987 .
3
Simultanee sono le cose che hanno inizio nello stesso momento e la cui durata occupa
gli stessi istanti a partire dalla loro origine.
In questo senso, si presentano come simultanee le cause formali rispetto a ciò di cui
esse sono cause.
Le cause motrici (kinoànta a‡tia) esistono anteriormente all’oggetto; le cause formali
(t¦ d\æj Ð lÒgoj) esistono, invece, solo insieme (¤ma) con l’oggetto. Infatti, quando
l’uomo è sano, allora esiste anche la salute, e anche la figura sferica del bronzo esiste
solo unitamente alla sfera del bronzo4.
Nelle cose sensibili, la forma non si dà indipendentemente dalla materia e, a differenza
delle cause motrici o efficienti, che sono anteriori alle cose di cui sono cause, le cause
formali hanno origine nello stesso momento in cui l’hanno le cose e la loro durata occupa lo stesso tempo delle cose a partire dalla loro origine. Infatti, quando l’uomo è sano,
allora esiste anche la salute; quando l’uomo non è più sano, scompare anche la salute.
Aristotele ammette, tuttavia, che ci possono essere delle cause formali che permangono
anche dopo gli oggetti, a seguito della scomparsa delle cose di cui sono cause: ad esempio, l’anima intellettiva, che permane a prescindere dalla materia5.
2. La simultaneità secondo natura
In un secondo senso, le cose simultanee si dicono tali per natura (tÍ fÚsei). Appartengono a questo gruppo tutte quelle cose il cui ordine di esistenza può essere invertito,
e di cui nessuna può in alcun modo essere la causa (a‡tion) dell’esistere (toà enai) di
un’altra. È stato detto che questo secondo modo della simultaneità viene presentato da
Aristotele in opposizione ai significati secondo e quinto dell’anteriorità6. Diversamente
dal secondo senso dell’anteriorità, che si attribuisce a
ciò che non può essere invertito (tÕ m¾ ¢ntistršfon) nella consequenzialità
dell’essere (kat¦ t¾n toà enai ¢koloÚqhsin)7,
infatti, la simultaneità secondo natura ammette reciprocità. Diversamente dal quinto
senso di anteriorità, che si attribuisce alle cose che si convertono secondo la consequenzialità dell’essere, e delle quali ciò che è in qualche modo causa dell’essere (tÕ a‡tion
q£teron qatšrJ toà ena…) di un’altra dovrebbe essere detta anteriore (prÒteron) per
natura (fÚsei), la simultaneità per natura non prevede affatto che una cosa sia per
l’altra causa dell’esistere. Si potrebbe diversamente e più semplicemente dire che questo
modo della simultaneità si opponga al quinto modo dell’anteriorità, del quale, da un la4
Metafisica L 3, 1070 a 21-24.
Cfr. Metafisica L 3, 1070 a 24-26.
6 Cfr. Simplicio, In Cat., 424, 13-14; Filopono, In Cat., 195, 27 - 196, 17; Ammonio, In Cat.,
104, 19 - 105, 6. Così anche Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 153, n. 4.
7 Categorie 13, 14 a 30.
5
271
to, rifiuta la conversione dell’ordine dell’essere, ma col quale, dall’altro, condivide il
rapporto di causalità. In altri termini, «è il pendant del secondo modo dell’anteriorità
che esclude il caso del quinto modo»8.
2.1. La simultaneità degli opposti
È in virtù di questo significato della simultaneità che i relativi sono detti simultanei.
Il doppio e il mezzo, ad esempio, si possono invertire - poiché, se c’è il doppio, c’è anche il mezzo; se c’è il mezzo, c’è anche il doppio, e se non c’è l’uno non c’è neppure
l’altro -, ma nessuno dei due è causa dell’essere dell’altro9. Aristotele adduce qui solamente l’esempio del doppio e del mezzo, che sono dei relativi, ma questo non esclude
affatto che potrebbe aver voluto attribuire la simultaneità secondo natura non esclusivamente a quel modo dell’opposizione che è proprio dei relativi, ma in generale a tutti i
tipi di opposizione. Tale posizione sarebbe giustificata da un passo dei Topici in cui lo
Stagirita afferma:
Gli opposti (tÕ... ¢ntike…menon), infatti, sono simultanei per natura (¤ma tÍ fÚsei)10.
e nuovamente espressa nel seguente luogo, in cui viene presentato l’esempio del doppio
e del mezzo:
[…] gli opposti (t¦ ¢ntike…mena) sono simultanei per natura (¤ma tÍ fÚsei). Sembra
che ciascuno dei due sia anche oggetto della stessa scienza (¹ aÙt¾ ™pist»mh), e di
conseguenza non risulterà l’uno più noto (gnwrimèteron) dell’altro. Non deve essere,
inoltre, trascurato il fatto che non è forse possibile definire (Ðr…sasqai) alcune nozioni, ad esempio il doppio (dipl£sion), a prescindere dalla metà (¥neu ¹m…seoj), e tutte
le altre cose che si dicono relative (prÒj ti) per sé. Per tutte le nozioni siffatte, infatti,
l’essere consiste nello stare in un certo modo (pwj œcein) rispetto a qualcosa, cosicché
risulta impossibile rendere nota (gnwr…zein) una di esse, prescindendo dall’altra. Pertanto è necessario che il discorso (definitorio) di una di esse assuma e comprenda anche
il termine relativo11.
La simultaneità per natura, quindi, va attribuita a tutte le modalità dell’opposizione, e
all’opposizione in generale appartiene anche il fatto che ciascuno degli elementi della
coppia sia oggetto della stessa scienza, cosicché è impossibile che, in un dato momento,
l’uno risulti più chiaro e noto rispetto all’altro, poiché la conoscenza di essi procede unitamente. Nel caso di un determinato modo dell’opposizione, e cioè nel caso dei relativi,
più propriamente nel caso dei relativi per sé, si deve aggiungere che non è possibile definire una nozione, ad esempio il doppio, senza definire insieme e contestualmente il relativo corrispondente, cioè la metà.
2.2. La simultaneità delle specie appartenenti allo stesso genere
Si dicono simultanee per natura anche le specie e le differenze specifiche di uno stesso genere in cui si divide, appunto, il genere e che si oppongono allo stesso livello in
modo tale che non ci possa essere alcuna forma di priorità dell’una rispetto all’altra. Ad
esempio, il genere animale si divide in volatile, terrestre e acquatico, e nessuno di questi
è anteriore o posteriore, ma sono simultanei per natura e si oppongono l’uno all’altro.
Sono simultanee per natura le divisioni che derivano dallo stesso genere allo stesso li8
Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 153, n. 4.
Questo e altri esempi di relativi sono trattati e discussi in Categorie 7, 7 b 15-22.
10 Topici V 3, 131 a 16.
11 Topici VI 4, 142 a 24-31.
9
272
vello, che può essere quello delle specie e quello delle sottospecie. Infatti, «la divisione
è un’operazione che si può ripetere fino a giungere alle specie infime. In ogni atto di divisione, le specie che si ottengono sono logicamente simultanee o, per passare da
un’immagine temporale ad una spaziale, sullo stesso piano, paratattiche o coordinate tra
loro»12. Come per tutte le realtà cui si attribuisce la simultaneità per natura, anche queste ammettono la reciprocità nell’ordine dell’esistenza, ma non possono in nessun modo
essere l’una causa dell’essere dell’altra.
Questa tesi viene anche affermata nei Topici:
Le parti che derivano dalla suddivisione dello stesso genere sono simultanei per natura
(¤ma tÍ fÚsei). Orbene, il dispari (perittÕn) e il pari (¥rtion) derivano dalla medesima suddivisione; sono, infatti, entrambi differenze (diafora…) del numero
(¢riqmoà)13.
In questo caso, vengono presentati come esempi non le divisioni del genere animale, ma
il pari e il dispari, differenze dello stesso genere: il numero.
I generi, invece, sono sempre anteriori alle specie e mai ad esse simultanei; non si dà,
infatti, possibilità di invertire l’ordine del loro essere: ad esempio, se c’è l’acquatico, c’è
anche l’animale, ma, se c’è l’animale, non è necessario che ci sia l’acquatico. Ne consegue, infatti, che tutti gli acquatici sono animali, ma non tutti gli animali sono acquatici.
Tale precisazione di Aristotele sull’anteriorità del genere rispetto alla specie è finalizzata anche a spiegare come sia impossibile che si dia simultaneità anche tra le specie corrispondenti a ordini e livelli diversi appartenenti allo stesso genere14.
3. Simultaneità secondo il luogo
Altrove, a questi significati della simultaneità presenti nelle Categorie, Aristotele aggiunge uno ulteriore: la simultaneità secondo il luogo (kat¦ tÒpon), come, ad esempio,
nel seguente passo della Fisica:
Dico simultanee secondo il luogo tutte quelle cose che sono in un solo luogo primo (™n
˜n… tèpw... prètw)15.
Lo stesso concetto è presente anche in Metafisica:
Simultanee secondo il luogo sono tutte quelle cose che stanno in uno stesso luogo che è
primo16.
Aristotele «Dice “primo” perché si dicono simultanee secondo il luogo tutte le cose che
sono in un solo luogo primo, e cioè proprio. Se, infatti, delle cose si trovano in un luogo
comune, non per questo si dice che siano simultanee: in questo modo, infatti, tutto ciò
che è contenuto nella volta celeste si direbbe simultaneo»17. La simultaneità secondo il
luogo, dunque, non indica che due cose occupano nello stesso tempo la stessa posizione
spaziale - cosa, peraltro, impossibile, dal momento che il posto occupato da una cosa
non può essere simultaneamente occupato che da un’altra -, ma significa che non c’è
12
Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 106, n. 4.
Topici VI 4, 142 b 8-10.
14 Cfr. Zanatta, Aristotele, Categorie…, pp. 683-684.
15 Fisica, V, 3, 226 b 21.
16 Metafisica K 12, 1068 b 26.
17 Tommaso, In Metaph., p. 563 a, § 2404.
13
273
nulla tra le cose, nulla di interposto o di intermedio18. Si tratta, cioè, di cose che hanno
in comune il medesimo limite19.
Questo significato della simultaneità è prettamente spaziale e, in quanto tale, Aristotele non deve averlo avvertito come utile o necessario alla trattazione delle Categorie. In
entrambi i passi sopra riportati, in cui esso viene presentato, se ne parla contestualmente
al movimento, una trattazione che Aristotele perfeziona e completa analizzando «alcuni
concetti chiave che entrano nella costituzione del movimento quali “assieme”, “separato”, “in contatto”, “intermedio”, “consecutivo”, “contiguo” e “continuo”. Per quanto
concerne il concetto di “continuo” applicato al movimento, egli chiarisce che una cosa è
mossa con continuità se essa non lascia nessun intervallo tra le cose»20.
4. Collegamenti con la prima parte delle Categorie
Se Aristotele non discute, in questa sezione, di ulteriori significati del concetto di simultaneità, come quello secondo il luogo e quello che potrebbe essere pensato in opposizione all’anteriorità secondo l’ordine, e cioè la simultaneità delle cose dello stesso valore21, è perché gli risulta conveniente, ai fini della chiarezza dei temi che sono stati
precedentemente trattati, tralasciare le questioni più astruse per mantenere l’equilibrio
con la prima parte, i capp. 1-922.
Diverse chiarificazioni presenti in questo capitolo, infatti, ricordano da vicino i temi
precedentemente trattati, spiegandone alcuni aspetti23. Ad esempio, la tesi per cui le
specie, le sottospecie e le differenze specifiche di uno stesso genere che si oppongono
allo stesso livello sono simultanee contengono, per opposizione, un riferimento ai
18
Oehler, Kategorien…, p. 284.
Nella Fisica, infatti, sono presenti i seguenti significati del termine ¤ma (insieme): «in senso
temporale, indice due eventi simultanei, cioè che sono nello stesso “ora” (218 a 25; 226 a 18).
Nell’ambito del continuo, contrassegna due momenti che hanno in comune il medesimo limite
(243 a 4, 34)» (Aristotele, Fisica, a cura di L. Ruggiu, Mimesis, Milano 2007, pp. 521-522).
Sfugge, forse, a Simplicio, In Cat., 426, 12-24, la simultaneità secondo il luogo intesa come
continuità, dal momento che egli lamenta la mancanza, nella sezione delle Categorie, il significato di simultaneità in riferimento al luogo, come nella sezione precedente si era trattato
dell’anteriorità secondo il luogo (cfr. In Cat., 421, 31 - 422, 1). La simultaneità secondo il luogo
- continua Simplicio - viene usata nel significato dell’avverbio “insieme” e, in questo senso, secondo l’uso comune, sono simultanee le cose posizione nello stesso luogo, abitano “insieme”
coloro che dimorano nella stessa casa e operano simultaneamente coloro che agiscono per ottenere lo stesso effetto pratico (come, ad esempio, coloro che sono al governo). Tuttavia, spiega
Simplicio, «forse non è possibile, in senso stretto, chiamare casi di simultaneità quelli sopra citati, se non in senso lato, dal momento che è impossibile che due corpi stiano o siano posizionati
nello stesso luogo, in modo tale da poter essere detti simultanei in senso stretto. Per questo Aristotele ha tralasciato questi punti» (In Cat., 426, 22-24). In realtà, Aristotele non ha trattato in
questa sede della simultaneità secondo il luogo non perché non la ritenesse possibile - ne parla,
infatti, come abbiamo visto, in Fisica e in Metafisica -, ma perché l’argomento non ne richiedeva la trattazione.
20 S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Fisica di Aristotele, traduzione e introduzione di B.
Mondin, Vol. I, Libri 1-3, ESD, Bologna 2004, p. 12.
21 Come ha evidenziato Giamblico, riportato da Simplicio, In Cat., 425, 25 ss.
22 Cfr. Simplicio, In Cat., 426, 35 - 427, 3.
23 Si tratta degli aspetti che Simplicio, In Cat., 427, 3 - 9, pone in rilievo.
19
274
[…] generi diversi e non subordinati l’uno all’altro24
e all’affermazione per cui
ma che nessuna sostanza non può essere detta ciò che è in misura maggiore o minore25
e cioè che, nel caso delle sostanze che si situano allo stesso livello (le sostanze prime, le
sostanze seconde), nessuna di esse può essere più sostanza rispetto alle altre26.
La simultaneità per natura, che appartiene a tutte quelle cose il cui ordine di esistenza
può essere invertito, e di cui nessuna può in alcun modo essere la causa dell’esistere di
un’altra, rimanda alla precedente trattazione sui relativi, in cui si diceva espressamente
che
Sembra che i relativi siano simultanei per natura (doke‹ dO prÒj ti ¤ma tÍ fÚsei
enai). E questo risulta essere vero nella maggior parte dei casi: doppio e mezzo, infatti, sono simultanei (¤ma g¦r dipl£siÒn tš ™sti kaˆ ¼misu), e se c’è il mezzo c’è anche il doppio, e se c’è lo schiavo c’è anche il padrone. E lo stesso avviene negli altri casi27.
Qualora si volesse difendere la tesi dell’inautenticità della seconda parte dell’opera
nota come Categorie, i cosiddetti Postpraedicamenta, dunque, si dovrebbe, in ogni caso, riconoscere che l’Autore di essa conosce molto bene i primi capitoli, ne utilizza lo
stesso apparato concettuale e ne cita gli esempi.
24
Categorie 3, 1 b 16.
Categorie 5, 3 b 35-36.
26 Cfr. Categorie 5, 3 b 33 - 4 a 9.
27 Categorie 7, 7 b 15-19.
25
275
Capitolo quattordicesimo
Il mutamento
Kin»sewj dš ™stin e‡dh ›x: gšnesij, fqor£, aÜxhsij, me…wsij, ¢llo…wsij, kat¦
tÒpon metabol». aƒ mOn oân ¥llai kin»seij fanerÕn Óti ›terai ¢ll»lwn e„s…n: oÙ
g£r ™stin ¹ gšnesij fqor¦ oÙdš ge ¹ aÜxhsij me…wsij oÙdO ¹ kat¦ tÒpon metabol»%, æsaÚtwj dO kaˆ aƒ ¥llai: ™pˆ dO tÁj ¢lloièsewj œcei tin¦ ¢por…an,
m»pote ¢nagka‹on Ï tÕ ¢lloioÚmenon kat£ tina tîn loipîn kin»sewn
¢lloioàsqai. toàto dO oÙk ¢lhqšj ™stin: scedÕn g¦r kat¦ p£nta t¦ p£qh À t¦
ple‹sta ¢lloioàsqai sumbšbhken ¹m‹n oÙdemi©j tîn ¥llwn kin»sewn koinwnoàsin: oÜte g¦r aÜxesqai ¢nagka‹on tÕ kat¦ p£qoj kinoÚmenon oÜte meioàsqai,
æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn, ésq' ˜tšra ¨n e‡h par¦ t¦j ¥llaj kin»seij ¹
¢llo…wsij: e„ g¦r Ãn ¹ aÙt», œdei tÕ ¢lloioÚmenon eÙqÝj kaˆ aÜxesqai À meioàsqai ½ tina tîn ¥llwn ¢kolouqe‹n kin»sewn: ¢ll' oÙk ¢n£gkh. æsaÚtwj dO kaˆ
tÕ aÙxÒmenon ½ tina ¥llhn k…nhsin kinoÚmenon ¢lloioàsqai: ¢ll' œsti tin¦ aÙxanÒmena § oÙk ¢lloioàtai: oŒon tÕ tetr£gwnon gnèmonoj periteqšntoj hÜxhtai
mšn, ¢lloiÒteron dO oÙdOn gegšnhtai: æsaÚtwj dO kaˆ ™pˆ tîn ¥llwn tîn toioÚtwn. ésq' ›terai ¨n e‡hsan aƒ kin»seij ¢ll»lwn.
”Esti dO ¡plîj mOn k…nhsij ºrem…v ™nant…on: ta‹j dO kaq' ›kasta, genšsei mOn
fqor£, aÙx»sei dO me…wsij: tÍ dO kat¦ tÒpon metabolÍ ¹ kat¦ tÒpon ºrem…a
m£lista œoiken ¢ntike‹sqai, kaˆ e„ ¥ra ¹ e„j tÕn ™nant…on tÒpon metabol», oŒon
tÍ k£twqen ¹ ¥nw, tÍ ¥nwqen ¹ k£tw. tÍ dO loipÍ tîn ¢podoqeisîn kin»sewn oÙ
·®dion ¢podoànai t… potš ™stin ™nant…on, œoike dO oÙdOn enai aÙtÍ ™nant…on, e„
m» tij kaˆ ™pˆ taÚthj t¾n kat¦ tÕ poiÕn ºrem…an ¢ntiqe…h [À] t¾[n] e„j tÕ ™nant…on
toà poioà metabol»[n], kaq£per kaˆ ™pˆ tÁj kat¦ tÒpon metabolÁj t¾n kat¦ tÒpon
ºrem…an À t¾n e„j tÕ ™nant…on tÒpon metabol»n, - œsti g¦r ¹ ¢llo…wsij metabol¾
kat¦ tÕ poiÒn: - éste ¢nt…keitai tÍ [kat¦ tÕ poiÕn kin»sei ¹] kat¦ tÕ poiÕn
ºrem…a [À] ¹ e„j tÕ ™nant…on toà poioà metabol», oŒon tÕ leukÕn g…gnesqai tù
mšlan g…gnesqai: ¢lloioàtai g¦r e„j t¦ ™nant…a toà poioà metabolÁj gignomšnhj.
Esistono sei specie di movimento: generazione, corruzione, aumento, diminuzione,
alterazione, mutamento secondo il luogo. Risulta evidente, dunque, che i vari movimenti sono diversi gli uni dagli altri: la generazione, infatti, non si identifica con la corruzione, né con l’aumento e la diminuzione né con il mutamento secondo il luogo, e così
per gli altri casi.
Nel caso dell’alterazione, invece, si presenta un’aporia: se non sia necessario che ciò
che si altera si alteri secondo qualcuno degli altri movimenti. Ma questo non risulta vero. Infatti, in quasi tutte le affezioni o nella maggior parte di esse ci capita di alterarci
senza partecipare a nessuno degli altri movimenti. Ciò che si muove per un’affezione
non è necessario che aumenti né che diminuisca; e lo stesso vale anche negli altri casi,
di modo che l’alterazione risulterebbe essere diversa rispetto agli altri movimenti. Se,
infatti, fosse uguale, occorrerebbe che ciò che si altera automaticamente aumentasse anche, o diminuisse, o fosse conforme a uno degli altri movimenti; ma questo non è neces-
sario. Allo stesso modo, anche ciò che aumenta o che si muove secondo un altro tipo di
movimento dovrebbe anche alterarsi. Ma ci sono alcune cose che aumentano, ma non si
alterano: se si applica lo gnomone al quadrato, quest’ultimo aumenta, ma non si è alterato. E lo stesso vale in tutti gli altri casi simili a questo. Di conseguenza, i movimenti dovranno essere diversi gli uni dagli altri.
In senso assoluto, il movimento è contrario alla quiete; rispetto a ogni tipo di movimento, invece, lo sono la corruzione alla generazione e la diminuzione all’aumento. Al
mutamento secondo il luogo, poi, sembrerebbero opporsi, in primo luogo, la quiete, e
poi il movimento verso il luogo contrario, come, ad esempio, al movimento in giù si
oppone quello in su, e al movimento verso il basso si oppone quello verso l’alto. Per
quanto riguarda il tipo di movimento rimasto di quelli che abbiamo presentato, non è facile esporre che cosa gli sia contrario; sembrerebbe che nulla gli sia contrario, a meno
che, anche in questo caso, non vi si opponga la quiete secondo la qualità oppure il movimento verso la qualità contraria, nello stesso modo in cui, nel caso del mutamento secondo il luogo, si oppone la quiete del luogo oppure il movimento verso il luogo contrario. L’alterazione, infatti, è un movimento secondo la qualità. Di conseguenza, al movimento secondo la qualità si oppone la quiete secondo la qualità oppure il movimento
verso la qualità contraria, come, ad esempio, il diventare bianco si oppone al diventare
nero. Quando, infatti, c’è movimento della qualità, si ha un’alterazione verso i contrari.
Sommario
Il presente capitolo è interamente dedicato alla trattazione del mutamento.
I. Nella prima parte, Aristotele presenta sei specie di mutamento: 1. la generazione
(gšnesij), 2. la corruzione (fqor£), 3. l’aumento (aÜxhsij), 4. la diminuzione
(me…wsij), 5. l’alterazione (¢llo…wsij), 6. il movimento di luogo (kat¦ tÒpon metabol»). Ciascuna di queste sei specie di mutamento è diversa dall’altra e nessuna di esse
può essere ridotta all’altra. La generazione, infatti, non si identifica con la corruzione,
né con l’aumento e la diminuzione né con il movimento di luogo, e lo stesso vale per gli
altri casi. Nel caso dell’alterazione, tuttavia, non è evidente che essa differisca dagli altri
tipi di mutamento; sembra, piuttosto, che ciò che si altera lo faccia secondo qualcuno
degli altri movimenti, ma questo non è vero, e per dimostrarlo Aristotele si rivolge
all’esperienza sensibile. 1. Ci sono alterazioni che avvengono senza che siano coinvolti
altri tipi di mutamento - ad esempio, ciò che si altera non è necessario che aumenti né
che diminuisca. 2 Gli altri tipi di mutamento avvengono senza che, per ciò stesso, si verifichi anche l’alterazione. Ci sono, infatti, cose che aumentano, ma non si alterano, come nel caso in cui si applica lo gnomone al quadrato: quest’ultimo aumenta, ma non si
altera. Di conseguenza, anche l’alterazione risulta diversa rispetto agli altri tipi di mutamento.
II. Nella seconda parte del capitolo, Aristotele indica ciò che è contrario al mutamento: 1. inteso in quanto tale, in senso assoluto, 2. nelle sue determinazioni a seconda della
categoria all’interno della quale ha luogo. Al mutamento inteso in senso assoluto
(¡plîj) è contraria la quiete (ºrem…v); al mutamento nelle sue determinazioni sono
contrari: alla generazione la corruzione, all’aumento la diminuzione, al movimento secondo il luogo a) la quiete secondo il luogo e b) il movimento verso il luogo contrario,
all’alterazione a) la quiete secondo la qualità e b) il mutamento verso la qualità contraria.
278
1. Le specie di mutamento e l’alterazione
Nella presente opera, Aristotele aveva già precedentemente accennato al mutamento
nella trattazione della categoria della quantità1, e, in generale, le categorie che implicano
agire e patire appaiono così vicine al mutamento che alcuni pensatori2 hanno persino ipotizzato che esse potessero essere ascritte all’unico genere del mutamento. Essendo,
quello del mutamento, un concetto ricorrente e profondamente rilevante all’interno delle
categorie, evidentemente Aristotele dovette reputare che fosse necessario introdurre una
sessione interamente e specificatamente dedicata a esso.
Innanzitutto si distinguono sei specie di mutamento: 1. la generazione (gšnesij), 2.
la corruzione (fqor£), 3. l’aumento (aÜxhsij), 4. la diminuzione (me…wsij), 5.
l’alterazione (¢llo…wsij), 6. il movimento di luogo (kat¦ tÒpon metabol»), il moto.
Per indicare la nozione generale di mutamento Aristotele utilizza qui il termine kin»sij,
che significa “movimento”, “moto”, ma che deve essere in senso più ampio come metabol», “mutamento”. Anche il termine “specie” qui usato non deve essere interpretato in
senso tecnico come «ciò che è situato sotto il genere e a cui il genere è attribuito essenzialmente»3, ma in senso lato, come un concetto che è parte o elemento di un altro concetto, poiché il mutamento non viene presentato da Aristotele come un genere4.
Ognuno dei mutamenti sopra elencati differisce chiaramente dagli altri; nessuno di
essi, infatti, può essere identificato con nessun altro: in questo senso, la generazione non
può in nessun modo identificarsi con la corruzione, né con l’aumento né con la diminuzione né con il mutamento di luogo, e lo stesso vale per tutti gli altri casi. Per quanto riguarda il caso dell’alterazione, tuttavia, Aristotele sostiene che potrebbe presentarsi
l’aporia se non sia necessario che ciò che si altera subisca anche un altro tipo di mutamento in virtù del solo fatto che si sta alterando. Lo Stagirita prende in considerazione
questa aporia esclusivamente nel caso dell’alterazione perché si tratta del mutamento
che solitamente si presenta concomitante agli altri tipi di mutamento. È concomitante,
per esempio, in riferimento alle cose che aumentano o diminuiscono e che si generano o
si corrompono, perché è proprio attraverso l’alterazione di qualcosa che alcuni di questi
mutamenti hanno luogo. E anche nel caso delle cose che subiscono un mutamento di
luogo o sono in quiete secondo il luogo si verificano contestualmente dei riscaldamenti
o dei raffreddamenti e dei cambiamenti di colorazione5. Se l’alterazione risultasse sempre concomitante ad altri mutamenti, non potrebbe essere considerata un mutamento per
se. E se questo fosse vero, dovrebbe risultare che: 1. ciò che si altera dovrebbe contestualmente subire per necessità un altro tipo di mutamento - dovrebbe, ad esempio, anche aumentare o diminuire; 2. ciò che si muove per un altro tipo di movimento - per e1
Cfr. Categorie 6, 5 b 3.
Cfr. Simplicio, In Cat…., 427, 10 ss.
3 Porfirio, Isagoge, 4, 10 ss.
4 Cfr. Simplicio, In Cat., 427, 18.
5 Questi esempi di concomitanza possono essere letti in Simplicio, In Cat., 431, 15-20. Per questa stretta relazione tra l’alterazione e gli altri tipi di movimento, era opinione diffusa che il mutamento secondo la qualità fosse concomitante con gli altri, tanto che Simplicio, In Cat., 432, 510, sostiene che Aristotele sia stato il primo a distinguere l’alterazione dagli altri mutamenti e
ad assegnarle uno statuto autonomo.
2
279
sempio, se aumenta - dovrebbe automaticamente anche subire un’alterazione. Questi
due casi, tuttavia, - afferma Aristotele - non si verificano. E se anche l’alterazione dovesse risultare concomitante ad altri mutamenti, questo non significherebbe che essa si
identifica con questi. 1. Sulla base empirica, possiamo osservare molte cose che diventano bianche o che si scaldano o che in qualche modo mutano secondo la qualità e che,
tuttavia, non aumentano né diminuiscono, non si generano né si corrompono, e neppure
subiscono un movimento secondo il luogo. Ciò dimostra che le cose si alterano senza
partecipare a nessuno degli altri movimenti. 2. Sempre dal punto di vista empirico, possiamo affermare che ci sono molte cose che aumentano, ma che non si alterano. Per esempio, il quadrato cui si applica lo gnomone6 aumenta, ma non per questo si altera, in
quanto mantiene le stesse proporzioni. Ciò dimostra che le cose subiscono l’aumento o
la diminuzione o altri tipi di mutamento senza partecipare dell’alterazione.
Di conseguenza, i mutamenti differiscono tra loro, e l’alterazione risulta essere chiaramente distinta rispetto agli altri mutamenti.
2. Le specie di movimento in Fisica e nel De Generatione et Corruptione
La suddivisione del mutamento in sei specie, presente in questo capitolo, ha spesso
costituito una ragione di sospetto nei confronti dell’autenticità di tale passo, quasi considerato come un corpo estraneo all’opera. Tale sospetto si fonda sulla presunta contraddizione con Fisica V 1, 225 a 7 - b 8, in cui viene presentata una diversa dottrina del
mutamento. In primo luogo, Aristotele distingue tre tipologie di mutamento (metabol»):
Dalle cose che abbiamo detto, risulta che i mutamenti (metabol£j) sono tre (tre‹j): 1.
quello da sostrato (™x Øpokeimšnou) a sostrato (e„j Øpoke…menon), 2. quello da sostrato (™x Øpokeimšnou) a non sostrato (e„j m¾ Øpokeimšnou), e 3. quello da non sostrato
(™x m¾ Øpokeimšnou) a sostrato (e„j Øpoke…menon)7.
Non è possibile, invece - aggiunge per completezza Aristotele - che si dia un mutamento
da non sostrato a non sostrato, in quanto
ogni mutamento (p©sa metabol») avviene da qualcosa (œk tinoj) verso qualcosa (e‡j
ti)8
e, in quel caso, non ci sarebbe alcun rapporto di opposizione.
6
Per il greco, il termine gnomone (gnèmwn) può riferirsi a diverse realtà. Può indicare l’ago,
cioè la parte dell’orologio solare che proietta la propria ombra sul piatto, oppure l’orologio stesso. Secondo la testimonianza di Erodoto, fu Anassimandro a introdurre in Grecia lo gnomone,
che consisteva in un’asta piantata perpendicolarmente su di una superficie orizzontale la cui posizione dell’ombra proiettata dal sole sulla superficie faceva dedurre l’orario del giorno. Per Euclide, lo gnomone è un trapezio aggiunto alla base di un triangolo in modo da formare con esso
un ulteriore triangolo, quindi un parallelogrammo complementare a un altro parallelogrammo o
di un triangolo. I Pitagorici chiamavano gnomoni i numeri impari, con i quali si poteva formare
una figura costituita da due bracci eguali ortogonali collegati da un’unità punto che si trova nel
vertice della squadra. Per Aristotele, lo gnomone è una sorta di squadra grazie alla quale si può
ingrandire l’area di un quadrato, pur mantenendone le proporzioni.
7 Fisica V 1, 225 a 7-10.
8 Fisica V 1, 225 a 1. Lo dimostra - spiega Aristotele - il termine metabol» stesso, che, ponendo qualcosa dopo un qualcosa, indica un prima (prÒteron) e un poi (Ûsteron) (cfr. Fisica V 1,
225 a 1-2).
280
Il mutamento che avviene dal non sostrato al sostrato è la generazione (gšnesij). Il
mutamento che avviene dal sostrato al non sostrato è la corruzione (fqor£). Aristotele
distingue due tipi di generazione (e, quindi, anche di corruzione): 1. la generazione simpliciter, assoluta (¡plîj), che implica un cambiamento totale e deriva da un non-essere
assoluto; 2. la generazione secundum quid, relativa, particolare, la gšnes…j ti, che deriva da un non-essere relativo - ad esempio, la generazione del bianco dal non-bianco è
generazione non simpliciter, ma generazione di questo bianco particolare. La stessa distinzione vale per la corruzione: 1. c’è una corruzione simpliciter, che si attua nel passaggio dalla sostanza al non-essere assoluto, e 2. una corruzione particolare, secundum
quid, che avviene nel passaggio da un essere relativo a un non-essere relativo.
Questa distinzione, che, apparentemente, risulta di grande efficacia e semplicità, racchiude una delle maggiore aporie che hanno attraversato il pensiero greco: la generazione dal non essere e la corruzione verso il non essere. Mentre le generazioni relative non
pongono difficoltà, dal momento che derivano sempre da qualcosa di preesistente, la
generazione simpliciter, se considerata dal punto di vista della tavola delle categorie,
viene immediatamente associata alla prima categoria, quella della sostanza, e il generarsi assoluto, in questo senso, significherebbe generarsi da qualcosa che non è sostanza,
quindi dal nulla9. Aristotele tenta, in primis, di risolvere l’aporia attraverso la sua dottrina della potenza e dell’atto: la generazione ¡plîj è generazione non dal non-essere assoluto, ma dal non-essere in atto, che, in qualche modo, è pur sempre un essere, cioè un
essere in potenza. «Ma il problema, in concreto, si ripropone. Che cos’è infatti
quest’ente? Se infatti non è determinato secondo nessuna categoria, è il non essere, e
siamo da capo; se è determinabile secondo una categoria che non sia la sostanza, avremmo l’assurdo di affezioni che esistono in sé, separate dalla sostanza cui ineriscono10. Se poi si concedesse che la sostanza già c’è, allora non si comprenderebbe più perché si parli di generazione assoluta»11. La soluzione adottata da Aristotele è, allora,
quella per cui la generazione di una cosa non è generazione dal nulla, ma corrisponde e
si identifica con la corruzione di un’altra cosa; allo stesso modo, la corruzione non termina nel nulla, ma la corruzione di una cosa corrisponde e si identifica con la generazione di un’altra cosa. Tutto ciò è reso possibile dalla permanenza di un sostrato materiale: la materia prima12. «Ed è proprio questa che permette di affermare che ogni realtà
è e non è: è, in quanto è quella realtà che è (ad es. terra), non è in quanto materia, in
quanto cioè conserva la possibilità di ricevere forme diverse da quelle che attualmente
possiede»13. Generazione e corruzione, dunque, diventano degli stadi di un andamento
ciclico, che continuamente tramuta in generazione la corruzione di qualcosa, e viceversa14.
9
A questo problema è dedicato il capitolo La generazione e la corruzione A 3.
«Ciò che non è sostanza non può essere qualificato, quantificato o determinato in qualsiasi
altro modo: tutte le affezioni, infatti, sono affezioni di una sostanza, e il loro “essere” consiste
nel caratterizzare una sostanza. Pertanto, “ciò che non è in alcun modo una sostanza” non è in
alcun modo, e cioè è il puro nulla» (H. H. Joachim, Aristotle. On Coming-to-be and Passingaway, Oxford 1922, rist. New York 1970, p. 90).
11 Migliori, Introduzione…, in Aristotele, La generazione e la corruzione…, p. 30.
12 œti Ûlhn de‹ Øpe‹nai kaˆ tî gignomšnw kaˆ tî metab£llonti, «Sia a ciò che si genera sia
a ciò che muta è necessario che soggiaccia la materia» (Fisica V 2, 226 a 10).
13 Migliori, Introduzione…, in Aristotele, La generazione e la corruzione…, p. 30.
14 Di “processo ciclico” parla A. Doninelli, Dal non-essere all’essere. Generazione naturale ed
eternità del mondo nel De Generatione et Corruptione di Aristotele, Prefazione di E. Berti,
10
281
Si continua, tuttavia, a parlare di generazione e corruzione assolute perché i più, secondo il senso comune, considerano generato qualcosa che, da impercettibile, diventa
sensibile e percepibile, e considera corrotto ciò che, da percepibile, diventa non più percepibile dai sensi.
Ai più (to‹j pollo‹j), però, sembra che la differenza maggiore sia quella tra ciò che è
percepibile e ciò che non lo è: quando c’è un cambiamento in una materia percepibile,
dicono che c’è generazione, quando c’è cambiamento in una materia non percepibile,
dicono che c’è corruzione, definiscono l’essere e il non essere in base all’essere o al
non essere percepiti (tÕ g¦r ×n kaˆ tÕ m¾ ×n tî a„sq£nesqai kaˆ tî m¾
a„sq£nesqai dior…zousin) […]15.
I più confondono l’esse delle cose con il loro percipi, considerando come generazione
assoluta il passaggio dall’impercettibile al percettibile16.
Dopo aver identificato il mutamento che avviene dal non sostrato al sostrato con la
generazione (gšnesij) e il mutamento che avviene dal sostrato al non sostrato con la
corruzione (fqor£), entrambi intese, con le dovute cautele sopra spiegate, come assolute, in quanto riferite alla categoria della sostanza (kat\oÙs…an), resta da analizzare il
terzo tipo di mutamento presentato da Aristotele, quello da sostrato a sostrato. Si tratta,
in questo caso, di gšnes…j ti, cioè di generazioni secundum quid, parziali, particolari,
che riguardano solo un aspetto della cosa, e non l’intero di forma e materia17. Queste
generazioni sono le uniche, dei tre tipi di movimento elencati dallo Stagirita, che possono essere intese come movimenti (kin»seij) veri e propri. Nei tipi di mutamento che
prevedono la partecipazione del “non-essere”, non ci può essere kin»sij, movimento,
dal momento che è impossibile che il non-essere si muova. Infatti,
[…] tutto ciò che è mosso (p©n tÕ kinoÚmenon) è in un luogo (™n tÒpw), mentre il
non-essere (tÕ dO m¾ ×n) non è in un luogo, altrimenti esso esisterebbe in qualche parte18.
È, allora, movimento (kin»sij) soltanto quel mutamento (metabol») che avviene da
sostrato a sostrato. Se, dunque, è vero che
ogni movimento (p©sa kin»sij) è un mutamento (metabol» tij)19
non risulta vero, però, il contrario: come abbiamo visto, infatti, non ogni mutamento è
movimento. Quali sono, allora, i movimenti? Scrive Aristotele:
Se le categorie si dividono in sostanza, qualità, luogo, tempo, relazione, quantità, agire
e patire20, è necessario che vi siano tre movimenti (tre‹j kin»seij): secondo la qualità
Rubbettino, 2006, pp. 34-35: «Generazione e corruzione costituiscono, quindi, un processo ciclico: la corruzione di qualcosa non sfocia nel non-essere assoluto, ma nel non-essere più quella
determinata cosa e, contemporaneamente, la cosa che si genera non si produce dal non-essere
assoluto, ma da qualcos’altro che è allo stesso tempo (1) un’altra sostanza in atto e quella sostanza in potenza e (2) da qualcosa che non è, cioè dalla privazione della forma della sostanza
che sta per generarsi».
15 La generazione e la corruzione A 3, 318 b 18-22.
16 Questa convinzione fondata sui sensi conduce i più all’errore. Essi considerano, infatti, meno
reali il vento e l’aria rispetto alla terra, che risulta più percepibile, mentre, invece, l’aria ha maggiore consistenza ontologica rispetto alla terra, in quanto la contiene e possiede una forma più
propria. Cfr. La generazione e la corruzione A 3, 318 b 27-33. Cfr. Filopono, In Gen. Corr., 58,
5-15.
17 Cfr. La generazione e la corruzione A 2, 317 a 20-27.
18 Fisica V 1, 225 a 31-32.
19 Fisica V 1, 225 a 34.
282
(t»n te toà poioà), secondo la quantità (t»n te toà posoà), secondo il luogo (t»n
kat¦ tÒpon)21.
Il termine greco «metabol» indica il mutamento, cioè il divenire in generale, e comprende sotto di sé la gšnesij o generazione e la k…nhsij o movimento»22. Tre sono i
movimenti secondo Aristotele, quelli secondo le categorie della qualità, della quantità e
del luogo. All’interno delle altre categorie viene escluso il movimento: nella categoria
della sostanza, perché
non c’è nessun essere che sia contrario alla sostanza23
- si dovrebbe, infatti, far riferimento al non-essere -; nella categoria della relazione, perché
è possibile che, pur mutando uno dei due relativi (qatšrou metab£llontoj), l’altro sia
vero e non sia vero pur senza mutare, cosicché il loro movimento è solo accidentale
(kat¦ sumbhbekÕj ¹ k…nhsij aÙtîn)24;
nelle categorie dell’agire e del patire, perché
non c’è movimento di un movimento (oÙk œsti kin»sewj k…nhsij) né generazione di
una generazione (oÙdO genšsewj gšnesij) né, in generale, mutamento di un mutamento (oÙd\Ólwj metabolÁj metabol»)25.
Possiamo rappresentare quanto sin qui detto intorno alle nozioni di mutamento e di
movimento con il seguente schema:
20
Come in altri luoghi aristotelici, sono qui omesse le altre due categorie, œcein e ke‹sqai,
l’avere e la posizione, ricordate in Categorie 4, 1 b 27, 2 a 2-3, e in Topici A 9, 103 b 23.
21 Fisica V 1, 225 b 5-9.
22 Reale, Aristotele, Metafisica…, vol. III: Sommari e commentario, p. 347, n. 6.
23 Fisica V 1, 225 b 10.
24 Fisica V 1, 225 b 11-13.
25 Fisica V 1, 225 b 13-16. Simplicio, In Cat., 435, 15 ss., si mostra particolarmente attento alla
questione per cui Aristotele, dopo aver chiaramente affermato nel libro III della Fisica che esistono tante forme del mutamento e del movimento quante sono quelle dell’essere (cfr. Fisica III
1, 201 a 8-9), poi, nel libro V della stessa opera (cfr. Fisica V 1, 225 b 5-9) e nella nostra opera,
enumera non dieci (o otto, secondo la lista ridotta), ma quattro forme di movimento. Aristotele
giustifica questa scelta in Fisica V 1, 225 b 10-16, un passo che Simplicio analizza nel suo
commentario In Phys., 408, 15 ss; 859, 16 ss. Un commento di cui il filosofo neoplatonico si
vanta dal momento che sembra che sia del suo medesimo parere uno dei migliori discepoli di
Aristotele, Teofrasto, il quale afferma che non è difficile stabilire quale sia per lo Stagirita la
nozione generale di movimento, e cioè un processo incompleto di qualcosa che è in potenza (una nozione pienamente aristotelica, come conferma il passo Metafisica K 9, 1066 a 20-26) in
riferimento ai generi delle categorie, un processo che, tuttavia, risulta più o meno evidente dal
punto di vista della percezione.
283
Mutamento (metabol») = il divenire
Generazione/corruzione assolute
secondo la sostanza (kat\oÙs…an)
Generazione/corruzione relative (gšnes…j ti) =
movimento (k…nhsij)
Secondo la quantità
(kat¦ posÒn)
Secondo la qualità
(kat¦ poiÒn)
Secondo il luogo
(kat¦ tÒpon)
Aumento/diminuzione
(aâxij/fq…sij)
Alterazione
(¢llo…wsij)
Spostamento
(for£)
Una dottrina del mutamento e del movimento che concorda con quanto Aristotele scrive
in un altro passo della Fisica:
[…] perché vi sia mutamento, è indispensabile che la cosa muti o per sostanza o per
quantità o per qualità o per luogo26.
In questo caso, il movimento non viene distinto dal mutamento, ed è quindi del tutto lecito che si parli della categoria della sostanza insieme alle categorie della quantità, della
qualità e del luogo.
Tornando ora alla nostra opera, la divisione del mutamento in sei specie non è affatto
in contraddizione con la divisione in quattro specie che troviamo nella Fisica, in quanto,
nell’enumerazione che troviamo nelle Categorie, Aristotele omette di catalogare
l’aumento e la diminuzione come due sensi opposti di un unico mutamento - quattro sono le specie, di cui due sono doppie -, quello secondo la quantità, e la generazione e la
corruzione come «due aspetti che presenta uno stesso movimento a seconda che si guardi, nel trapasso da una sostanza ad un’altra, alla sostanza che nasce o a quella che muore»27.
Resta, tuttavia, un’aporia. Poiché, secondo la dottrina presentata in Fisica e in La generazione e la corruzione, nella categoria della sostanza non c’è spazio per il movimento, ma solo per il mutamento, affinché la tesi esposta nelle Categorie non presentasse
opposizione con quella della Fisica, nella frase iniziale del Capitolo quattordicesimo,
avremmo dovuto leggere non, come leggiamo,
Esistono sei specie di movimento (kin»sewj): generazione, corruzione, aumento, diminuzione, alterazione, mutamento di luogo (kat¦ tÒpon metabol»)28
ma «esistono sei specie di mutamento (metabolÁj)». Qualora in questo utilizzo del termine k…nhsij, a posto del più corretto metabol», si vedesse la prova che si tratti di un
mero corpo estraneo alle Categorie, a rigore si dovrebbe guardare con sospetto anche a
Fisica III 1, 201 a 8-11, in cui si dichiara che
del movimento (kin»sewj) e del mutamento (metabolÁj) ci sono tante forme (e‡dh)
quante sono quelle dell’essere (toà Ôntoj)29
26
Fisica III 1, 200 b 33-34. Cfr. Metafisica Z 7, 1032 a 15.
Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 107.
28 Categorie 14, 15 a 13-14.
29 Fisica III 1, 201 a 8-9.
27
284
e, successivamente, per illustrare i tipi di movimento - che sono sempre l’atto di qualcosa che è in potenza, o, meglio, l’attualizzazione di qualcosa che è in potenza30 -, si fa riferimento alle sei specie indicate in Categorie, 15 a 13-14: l’alterazione, l’aumento e la
diminuzione, la generazione e la corruzione, lo spostamento31. Si deve pur notare che
siamo in presenza di alcune differenze: (a) in riferimento alla diminuzione, viene utilizzato il termine fq…sij piuttosto che me…wsij; (b) in riferimento allo spostamento, viene
utilizzato il termine for£ piuttosto che l’espressione ¹ kat¦ tÒpon metabol». (a) Nel
caso della diminuzione, sembra che Aristotele utilizzi il termine fq…sij semplicemente
come una variatio; anche in un passo dei Topici, infatti, esso viene usato al posto di
me…wsij32. (b) Quanto al mutamento secondo il luogo, risulta chiaro che, per Aristotele,
esso non è completamente univoco e che si possono operare delle distinzioni al suo interno. Lo Stagirita afferma esplicitamente in alcuni passi che esso non si identifica totalmente con il trasporto, for£, cioè con il movimento obbligato:
Il mutamento secondo il luogo non è sempre il trasporto33.
Infatti, il movimento obbligato e, quindi, involontario, viene attribuito agli oggetti inanimati, che mutano di luogo in modo non spontaneo. La marcia, l’incedere (b£disij),
invece, non possono essere considerati movimenti obbligati, pur rientrando di diritto nel
mutamento secondo il luogo34. Altrove sembra, invece, che Aristotele utilizzi il termine
for£ come sinonimo di movimento locale, considerato come un genere di cui afferma
persino che l’incedere sia una specie35. Si tenga, infatti, presente che lo Stagirita non
tiene rigorosamente fissa la terminologia che utilizza intorno alla sfera del mutamento e
del movimento. Capita, infatti, a volte, che egli chiami k…nhsij tutti i tipi di mutamento,
gšnesij compresa36, o che, viceversa, chiami gšnesij tutti i mutamenti37. Questo perché Aristotele, secondo un’abitudine spesso operante in lui, si preoccupa di analizzare
rigorosamente il linguaggio e di valutarlo dal punto di vista concettuale, criticandone
magari l’uso consueto e convenzionale e introducendo distinzioni tecniche; poi, nondimeno, continua egli stesso a utilizzare i termini del senso comune, probabilmente perché
sono ormai patrimonio tradizionale legittimato dall’uso. In questo senso, dopo aver precisamente distinto le due nozioni di metabol» e di k…nhsij, egli continua pacificamente
a utilizzare il termine k…nhsij per indicare non solo i movimenti veri e propri, ma anche
i mutamenti, che sarebbero stati più correttamente descritti attraverso l’uso del termine
metabol».
A tale osservazione, si aggiunga la possibilità che, nei testi aristotelici, vigano più
sensi delle nozioni di generazione e di corruzione. Non mi riferisco esclusivamente alla
distinzione, espressamente dichiarata e spiegata dall’Autore nei testi sopra citati, tra generazione (e corruzione) assoluta, simpliciter, che consiste nella generazione sostanziale, e generazione parziale, relativa, secundum quid, che consiste nella generazione non
dell’intera sostanza, ma di un’affezione (mutamento quantitativo, qualitativo, locale).
Sembra, infatti, che alle diverse trattazioni del mutamento e del movimento sia sottesa
30
Fisica III 1, 201 a 10-11: ¹ toà dun£mei Ôntoj ™ntelšceia... k…nhs…j ™stin.
Fisica III 1, 201 a 11-15.
32 Topici IV 2, 122 a 28.
33 Topici IV 2, 122 b 31-32: oÜq\ ¹ kat¦ tÒpon metabol¾ p©sa for¦.
34 Cfr. Topici IV 2, 122 b 31-32.
35 Cfr. Topici IV 2, 122 a 21-30.
36 Cfr. Fisica VIII 7, 261 a 27 ss.
37 Cfr. La generazione e la corruzione I 2, 315 a 26-29.
31
285
una tacita distinzione tra: 1. una generazione assoluta (¡plîj) secondo la sostanza
(kat\oÙs…an), per cui la generazione di una cosa coincide con la corruzione di un’altra,
in quella trasformazione continua e ciclica resa possibile da un sostrato materiale che
permane, la materia prima; e 2. una generazione che chiameremo pur sempre assoluta
(¡plîj) e secondo la sostanza (kat\oÙs…an) per poter distinguerla dalle generazioni
parziali, che avvengono secondo la quantità (kat¦ posÒn), secondo la qualità (kat¦
poiÒn) e secondo il luogo (kat¦ tÒpon), ma che è, per così dire, meno assoluta della
prima, in quanto riguarda la generazione di una sostanza intesa come sinolo da una materia che non è la materia prima - impercettibile dai sensi e, quindi, quasi comparabile al
non-essere - ma una materia che è già essa stessa unione di forma e materia (ad esempio
il ferro, il bronzo, etc.), e che è, dunque, perfettamente percepibile dai sensi38. Se
l’analisi del divenire dovesse riguardare esclusivamente l’ambito dei fenomeni percepibili, dovremmo escludere la generazione di primo tipo, perché questa affonda le sue radici in una sfera che esula dall’esperienza empirica. Ed è chiaro che, per Aristotele, esiste un livello ulteriore, tant’è vero che il Filosofo critica le persone comuni, che scambiano l’essere e il non-essere con l’essere percepibile e il non-essere percepibile39. Tuttavia, per poter osservare e analizzare le generazioni parziali, e cioè i movimenti propriamente detti, c’è bisogno di indagare un livello di realtà in cui siano già disponibili le
sostanze individuali intese come sinoli, come unioni di forma e materia. Sia il movimento di alterazione, sia il movimento di accrescimento e diminuzione, sia il movimento locale, infatti, presuppongono l'esistenza della sostanza, cioè del sostrato che è soggetto al mutamento, come sancito dal seguente passo tratto dalla Metafisica:
In tutti i mutamenti che avvengono tra opposti, c’è qualcosa che funge da sostrato (tÕ
Øpoke…menon) ai mutamenti (ta‹j metabola‹j). Nei mutamenti secondo il luogo, ad
esempio, c’è qualcosa che ora è qui e successivamente è altrove; nei mutamenti di accrescimento (kat\aÜxhsin) c’è qualcosa che ora ha una determinata grandezza e che
successivamente diventa minore o maggiore; nei mutamenti di alterazione
(kat\¢llo…wsin) c’è qualcosa che ora è sano e che successivamente è malato40.
Affinché si dia movimento locale, ci deve essere un sostrato che ora è un luogo e che
successivamente possa spostarsi in un altro; affinché si dia mutamento secondo la quantità - e cioè aumento e diminuzione -, ci deve essere un sostrato che ora aumenta ora
diminuisce; affinché si dia mutamento secondo la qualità - e cioè alterazione -, ci deve
essere un sostrato che possa riceve in tempi diversi affezioni opposte. E non è tutto. Aristotele aggiunge che la stessa generazione e la stessa corruzione, per aver luogo, hanno
bisogno di un sostrato:
similmente, nei mutamenti secondo la sostanza, c’è qualcosa che ora si trova nel momento della generazione e successivamente in quello della corruzione, e che ora è so-
38
Su questa linea di pensiero, che distingue diversi sensi di generazione e corruzione, sembra
situarsi C. J. F. Williams, Aristotle’s De Generatione et Corruptione, translated with notes, Oxford 1982, pp. 88-89, che mette in evidenza un doppio uso dell’avverbio greco ¡plîj a partire
dal passo 318 a 28, in cui si distinguerebbe un senso concettuale della corruzione da un senso,
invece, che concerne l’ente individuale. Diversamente intende Joachim, Aristotle, On Comingto-be…, p. 95, per il quale alla generazione assoluta si oppongono, da un lato, la generazione
parziale e, dall’altra, la generazione di una sostanza individuale. Concorda con la visione di Joachim Doninelli, Dal non-essere…, p. 36.
39 Cfr. La generazione e la corruzione, 318 b 29-33.
40 Metafisica H 1, 1042 a 32 - b 1.
286
strato nel senso di qualcosa di determinato (tÒde ti), e che poi è sostrato nel senso di
soggetto della privazione (kat¦ stšrhsin)41.
È chiaro che, in questo passo, Aristotele non può riferirsi alla generazione assoluta che
ha luogo dalla materia prima, perché quest’ultima non potrebbe in alcun modo essere
«qualcosa di determinato», essendo per definizione indeterminata42; mentre sarebbe del
tutto lecito affermare che, ad esempio, in una statua, il marmo è qualcosa di determinato
perché ha assunto una forma, e tornerà a essere privo di forma nel momento in cui la
statua verrà distrutta. Il marmo, anche se non avrà la forma di un dio rappresentato nella
statua, sarà pur sempre marmo e sarà percepibile e riconoscibile come tale; non siamo
alla corruzione intesa come ritorno alla materia prima, inaccessibile ai sensi.
Se teniamo presenti queste considerazioni e queste distinzioni, allora, il fatto che Aristotele, all’inizio della sezione quattordicesima della nostra opera, enumeri la generazione e la corruzione tra i movimenti non sorprende più. In uno scritto in cui la realtà
prima e assoluta viene additata nella sostanza prima, individuale, perfettamente percepibile, è evidente che la generazione e la corruzione fanno riferimento alla costituzione e
alla distruzione di sinoli, i cui movimenti sono fenomenicamente manifesti ai sensi.
3. La contrarietà nel movimento
Poiché il movimento, come alcune delle categorie, è capace di ricevere i contrari, Aristotele afferma che, da un lato, al movimento inteso in senso assoluto (¡plîj) è contraria la quiete (ºrem…v) - ove per quiete non si intende la permanenza, la stabilità,
l’immobilità, cioè la st£sij43, ma la negazione e la privazione del movimento.
Dall’altro lato, restando all’interno del movimento, ai movimenti particolari sono contrari movimenti particolari: così, per la categoria della sostanza, alla generazione è contraria la corruzione, per la categoria della quantità, all’aumento è contraria la diminuzione. Per quanto riguarda la categoria del luogo, occorre operare un distinguo: al movimento senza ulteriori specificazioni si oppone la quiete, questa volta non intesa come
41
Metafisica H 1, 1042 b 1-3. Cfr. Fisica IV 7-9.
Di certo, la materia prima non può essere considerata come pura indeterminazione relegata
alla sfera del non-essere, altrimenti ricadremmo nell’aporia della generazione dal non-essere e
della dissoluzione nel non-essere che l’introduzione della nozione di materia prima ha cercato di
risolvere. Come pura indeterminazione la intende N. Luyten, Matter as Potency, in E. McMullin
(ed.), The Concept of Matter in Greek and Mediaeval Philosophy, Notre Dame 1963, pp. 106107: «Si potrebbe dire che la materia, in quanto opposta alla determinazione propria della sostanza, non potrebbe essere nulla di più che la mera determinabilità […]. Si è costretti ad affermare che tale mera determinabilità debba escludere qualsiasi determinazione. In altre parole, essa deve essere pura indeterminazione». La materia prima, tuttavia, pur non essendo indeterminata, deve poter essere in qualche modo accessibile al pensiero, se non ai sensi, e, quindi, deve poter essere una nozione mentale ben formata. Cfr. B. Jones, Aristotle’s Introduction of Matter,
«The Philosophical Review», vol. 83, n. 4 (1974), pp. 474-500, p. 476: «la materia (hulē) è una
nozione puramente “formale”, e cioè una categoria filosofica usata come uno strumento per
tracciare la mappa concettuale del linguaggio quotidianamente usato intorno al mutamento; una
nozione perfettamente coerente».
43 «Stasis è la condizione dei cieli, che non è incompatibile con il movimento, ma è costituita da
un moto regolare e uniforme. Êremia è un fenomeno sublunare, temporalmente conseguito dai
fenomeni i cui movimenti sono irregolari e non uniformi» (Gaskin, Simplicius, Categories 915…, p. 243, n. 1061).
42
287
negazione e privazione del movimento, ma come ºrem…v, cioè come stabilità e immobilità, in breve lo stare fermi; al movimento verso un luogo, invece, è contrario il movimento verso il luogo opposto (¹ e„j tÕn ™nant…on tÒpon metabol»): al movimento verso il basso, ad esempio, si oppone quello verso l’alto44.
Resta, infine, il movimento secondo la categoria della qualità, cioè l’alterazione. In
questo caso, non è facile - sostiene Aristotele - specificare quale sia il contrario. Di primo acchito, sembrerebbe addirittura che il movimento secondo la qualità non abbia contrari. E questo - aggiunge spiegando Simplicio45 - non perché non esistono qualità contrarie, ma perché il concetto di opposizione, in questo caso, è poco usuale (non ci sono
termini che contraddistinguono i due mutamenti contrari come per le coppie generazione/corruzione e aumento/diminuzione) e, in secondo luogo, perché l’alterazione non è
un mutamento facilmente percepibile come la traslazione (il movimento rispetto al luogo), ma risulta evidente solamente a chi vi pone attenzione. Così, Aristotele tenta di risolvere la questione attraverso un’analogia con quanto ha precedentemente espresso intorno al caso del movimento secondo il luogo. Al movimento secondo la qualità si possono opporre: 1. la quiete secondo la qualità (come al movimento senza ulteriori specificazioni si opponevano la stabilità e l’immobilità); 2. il movimento verso la qualità
contraria (come al mutamento di luogo si opponeva il movimento verso il luogo contrario)46. Al diventar bianco, che è un’alterazione, ad esempio, sono contrari: 1. Lo stato di
quiete, inteso come privazione del movimento, nel nero; 2. il diventar nero.
L’alterazione, infatti, - spiega Aristotele - si presenta sempre come un movimento da un
contrario verso l’altro47.
44
Sulla contrarietà di queste determinazioni, si veda Categorie 6, 6 a 12 e ss. Sulla struttura cosmologica aristotelica, organizzata secondo la coppia di contrari alto/basso, si veda L. Palpacelli, The relation of contrariety in the ancient thought and in the Aristotelian formalization, pp. 328, in U. Savardi (ed.), The perception and cognition of contraries, McGreaw-Hill, Milano
2009, pp. 21-23.
45 Cfr. Simplicio, In Cat., 433, 2-9. Cfr. anche Filopono, In Cat., 204, 18-21.
46 «La contrarietà nell’alterazione viene così ricalcata su quella inerente al moto locale: opposizione tra mutamento e quiete (assenza di mutamento) e opposizione data dai due sensi in cui si
può procedere tra due contrari» (Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 109, n. 6).
47 «L’alterazione è sempre infatti movimento da un contrario all’altro anche se può arrestarsi ad
un termine intermedio, quando questi ci siano» (Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 109, n. 6).
288
Capitolo quindicesimo
L’avere
TÕ œcein kat¦ ple…onaj trÒpouj lšgetai: À g¦r æj ›xin kaˆ di£qesin À ¥llhn
tin¦ poiÒthta, - legÒmeqa g¦r ™pist»mhn œcein kaˆ ¢ret»n: - À æj posÒn, oŒon Ö
tugc£nei tij œcwn mšgeqoj, - lšgetai g¦r tr…phcu mšgeqoj œcein À tetr£phcu: - À
æj t¦ perˆ tÕ sîma, oŒon ƒm£tion À citîna: À æj ™n mor…J, oŒon ™n ceirˆ daktÚlion:
À æj mšroj, oŒon ce‹ra À pÒda: À æj ™n ¢gge…J, oŒon Ð mšdimnoj toÝj puroÝj À tÕ
ker£mion tÕn onon, - onon g¦r œcein tÕ ker£mion lšgetai, kaˆ Ð mšdimnoj puroÚj:
taàt' oân œcein lšgetai æj ™n ¢gge…J: - À æj ktÁma: œcein g¦r o„k…an kaˆ ¢grÕn
legÒmeqa. legÒmeqa dO kaˆ guna‹ka œcein kaˆ ¹ gun¾ ¥ndra: œoike dO
¢llotriètatoj Ð nàn ·hqeˆj trÒpoj toà œcein enai: oÙdOn g¦r ¥llo tù œcein guna‹ka shma…nomen À Óti sunoike‹. ‡swj d' ¨n kaˆ ¥lloi tinOj fane…hsan toà œcein
trÒpoi, oƒ dO e„wqÒtej lšgesqai scedÕn ¤pantej kathr…qmhntai.
L’avere si dice in molti modi.
Si dice, infatti, nel senso di stato abituale e disposizione o di qualche altra qualità diciamo, infatti, di avere scienza o virtù -, oppure nel senso di quantità, ad esempio
l’altezza che capita di avere - si dice, infatti, che qualcosa ha un’altezza di tre piedi o di
quattro piedi -, oppure nel senso delle cose che adornano il corpo, come, ad esempio, un
mantello o una tunica; oppure nel senso di ciò che si ha in una parte, come, ad esempio,
un anello in una mano; oppure nel senso di parte, come, ad esempio, una mano o un
piede; oppure nel senso di recipiente, come, ad esempio, il medimno contiene il grano o
l’anfora contiene il vino - si dice, infatti, che l’anfora ha il vino, e che il medimno ha il
grano -; oppure nel senso di possesso: diciamo, infatti, di avere una casa o un campo. E
l’uomo dice di avere una donna e la donna di avere un uomo. Sembrerebbe, tuttavia, che
quello appena detto sia il senso più improprio dell’avere: con avere una donna, infatti,
intendiamo solo dire convivere.
Potrebbero forse essere mostrati altri modi di avere, ma si può dire che i sensi abituali sono stati enumerati (considerati) quasi tutti.
1. L’avere si dice in molti modi
L’ultima sezione dello scritto, non legata alla precedente attraverso alcun elemento di
coordinazione, è un’analisi dell’avere, inteso non come categoria, precedentemente
menzionata1 e brevemente trattata dallo Stagirita, ma come un termine omonimo che si
1
Cfr. Categorie 1, 2 a 3; 9, 11 b 12-14.
dice in molti modi, quale viene analizzato anche in Metafisica D 232. La trattazione contenuta in questa sezione viene per lo più considerata di scarso valore filosofico3.
L’avere si dice in molti modi (TÕ œcein kat¦ ple…onaj trÒpouj lšgetai4).
1. In un primo senso, l’avere si dice in relazione a un abito (æj ›xin) o una disposizione (di£qesin) o di qualche altra qualità ¥llhn tin¦ poiÒthta). Se qualcuno o qualcosa è qualificato in un qualche modo, sia in termini di “stato” o di “condizione” o di
forma o colore etc., si dice che possiede o ha la qualità in virtù della quale si dice qualificato in un determinato modo5. In questo senso, diciamo, ad esempio, di avere scienza
o di avere virtù6. Questo primo senso corrisponde al secondo senso dell’avere che viene
presentato in Metafisica D 23, 1023 a 11-13:
In secondo luogo, il ricettacolo in cui una cosa si trova contenuta si dice che ha questo
qualcosa: il bronzo, per esempio, ha la forma della statua e il corpo ha la malattia.
Il corpo, infatti, è suscettibile di ricevere la qualità della malattia7 come il bronzo è suscettibile di ricevere la qualità della forma.
2. In un secondo senso, l’avere si dice in relazione a una quantità (æj posÒn). Ciò
che è quantificato, infatti, si dice che ha una quantità. Un uomo, ad esempio, si dice che
ha una certa altezza (mšgeqoj)8.
3. In un terzo senso, l’avere si dice in relazione alle cose che adornano il corpo (æj
t¦ perˆ tÕ sîma) inteso come un intero, come, ad esempio, un mantello o una tunica.
Anche se il mantello o la tunica non coprono necessariamente tutto il corpo, ne coprono,
tuttavia, la maggior parte9.
4. In un quarto senso, l’avere si dice in relazione a ciò che si ha in una parte (æj ™n
mor…J) del corpo, come, ad esempio, un anello in una mano. Si dice, infatti, che una
persona ha un anello nella mano10. Questi ultimi due sensi sono entrambi compresi in
2
Per il riconoscimento per cui l’avere qui trattato non sia identificabile con la categoria
dell’avere sopra esaminata, ma il termine equivoco analizzato anche in Metafisica D 23, si veda
Simplicio, In Cat., 437, 10 ss.; Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 156, n. 3; Ackrill, Aristotle’s
Categories…, p. 112.
3 Cfr., ad esempio, Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 111: «Più che essere un’analisi della categoria dell’avere quest’ultimo capitolo, che presenta un interesse filosofico assai scarso, elenca i
principali significati del verbo, considerato come un termine equivoco». Così anche Zanatta, Aristotele, Categorie…, p. 695, che, tuttavia, rivaluta la sezione dal punto di vista storico, in
quanto essa offrirebbe un importante documento per datare questa parte dello scritto aristotelico.
4 Categorie 15, 15 b 17.
5 «Avere la scienza equivale ad essere scienziati, in generale avere una qualità equivale ad essere quali (cioè in certo modo qualificati)» (Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 111).
6 Sulla virtù e sulla scienza intese come qualità, si veda Categorie 8, 8 b 29 e 11 a 33-34.
7 Cfr. Categorie 5, 4 b 14-15; 8, 8 b 36.
8 Simplicio, In Cat., 436, 23, riporta che Giamblico aggiunge che, in questo senso, si può anche
dire che qualcuno “ha otto schiavi domestici”; ma questo, secondo Simplicio è un senso che appartiene piuttosto al settimo significato dell’avere, inteso come possesso. In questo passo, si trovano le due uniche occorrenze del termine mšgeqoj nelle Categorie. mšgeqoj si riferisce alle
quantità continue, e non è sicuro che l’avere si dica anche in riferimento alle quantità continue.
9 Cfr. Simplicio, In Cat., 436, 25.
10 Questo senso dell’avere, presentato, dalla maggior parte degli interpreti, compreso Simplicio,
come quarto, è stato interpretato da Apostle, Aristotle’s Categories…, p. 96, come una specificazione del senso precedente. «Ma l’esegesi non soltanto non pare suffragata, oltre che dal sen-
290
quel senso riportato in Metafisica D 23, 1023 a 9-11, per cui l’avere vuol dire il “portare
con sé”, il “portare in proprio dominio” (¥gein... kat¦ t¾n aØtoà Ðrm»n).
5. In un quinto senso, l’avere si dice in relazione alla parte stessa del corpo (æj
mšroj). Diciamo, infatti, di avere, ad esempio, una mano o un piede. Questo senso potrebbe essere riassunto, seguendo Metafisica D 23, 1023 a 15-16, con l’affermazione per
cui il tutto - in questo caso, il corpo - contiene, e, quindi, si dice che ha la parte - in questo caso, la mano o il piede -:
In terzo luogo, avere si dice del contenente rispetto al contenuto: infatti ciò che contiene una cosa si dice che ha una cosa: per esempio il vaso ha il liquido, la città ha gli uomini e la nave ha i marinai, e così diciamo anche che il tutto ha le parti.
A differenza degli esempi portati in questo passo della Metafisica, in cui compaiono riferimenti anche a oggetti inanimati (il vaso, il liquido, la nave), nelle Categorie l’avere
non viene riferito a una qualsiasi cosa, animata o inanimata che sia, ma precisamente a
una sostanza, e cioè a una parte del corpo rispetto al corpo nella sua interezza. Come esplicitato in Categorie 5, 3 a 29, infatti, il corpo è una sostanza e le parti di una sostanza
sono anch’esse sostanza11.
6. In un sesto senso, l’avere si dice in riferimento a un recipiente (æj ™n ¢gge…J),
come, ad esempio, il medimno contiene il grano o l’anfora contiene il vino. In questo
senso si dice, infatti, che l’anfora ha il vino, e che il medimno ha il grano. Questo sesto
senso corrisponde al terzo senso dell’avere che viene presentato in Metafisica D 23,
1023 a 15-16, il passo sopra riportato, in cui si fondono il quinto e il sesto significato.
7. In un settimo senso, l’avere si dice nel senso di possesso (æj ktÁma): diciamo, infatti, di avere una casa o un campo. Questo senso è piuttosto debole o, al limite, secondario, in quanto qui l’avere funge da mero sostituto del verbo possedere (kt©sqai)12.
8. In un ottavo e ultimo senso, infine, l’avere si dice come l’uomo dice di avere una
donna e la donna di avere un uomo. Si tratta del senso più improprio dell’avere, in
quanto, da un lato, con avere una donna si intende solo dire convivere e, dall’altro, si
tratta dell’unica situazione di reciprocità, dal momento che, se un uomo ha una donna,
si può anche dire che la donna ha l’uomo, mentre non sarebbe legittimo che ciò che ha
sia anche avuto13.
Non è semplice trovare un’unità all’interno di questa serie di significati dell’avere.
Probabilmente non c’è una vera e propria unità filosofica, e l’intento dell’Autore è semplicemente quello di presentare un inventario generale delle modalità dell’avere, scandagliando gli usi del linguaggio comune.
I primi due significati indicano la relazione tra la sostanza e, rispettivamente, le categorie della qualità (Categorie 15, 15 b 17-19) e della quantità (Categorie 15, 15 b 1921)14. Come sappiamo dalle prime sezioni delle Categorie, una determinata qualità o
so, dall’espressione; ma - a questo livello - essa è, anzi, smentita, come risulta dall’impiego di ½
per distinguere significati diversi di “avere”» (Zanatta, Aristotele, Categorie…, p. 696).
11 Per il riferimento alla sostanza implicate in questo senso dell’avere, si veda Tricot, Aristote,
Organon…, p. 75, n. 6.
12 Cfr. Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 157. Per questa debolezza, tale senso non compare
nell’elenco presentato in Metafisica D 23.
13 Cfr. Filopono, In Cat., 205, 18-19.
14 La presenza della qualità e della quantità nelle divisioni dell’avere ha portato alcuni commentatori a supporre «che la distinzione dei modi dell’avere qui espressa costituirebbe il primo impacciato saggio, tentato da Aristotele, per stabilire sistematicamente le distinzioni categoriali e
che, pertanto, l’ultimo capitolo del nostro trattato conserverebbe una vecchia brutta copia del
291
una determinata quantità sono in un soggetto, cioè nella sostanza15. Se si esamina il rapporto dal punto di vista della qualità o della quantità, è giusto e logicamente corretto dire che esse sono in un soggetto; dal punto di vista della sostanza, tuttavia, si può dire
che questa abbia una determinata qualità e una determinata quantità. Questo è, in qualche modo, provato dal passo di Metafisica D 23, 1023 a 23-25:
L’essere in qualche cosa (tÕ œn tini enai) ha significati simili (ÐmotrÒpwj) e corrispondenti al termine avere (tù œcein).
Naturalmente, avere una qualità non è una qualità, né avere una quantità è una quanAristotele non intende certo affermare che la scienza o la virtù o l’altezza di tre o
quattro piedi siano un avere, quasi che l’avere possa entrare a far parte della loro essenza, del loro tÕ t… Ãn enai; l’avere esprime, infatti, non un oggetto, ma il rapporto tra
due realtà.
Gli altri significati sembrano indicare differenti tipi di relazione: il tutto con la parte
(3, 4 e 5), il contenente con il contenuto (6)17, il possessore con il possedimento (7 e, in
un certo senso, 8).
tità16.
2. Aporie intorno alla collocazione della trattazione dell’avere
Intorno a quest’ultima sezione dello scritto, ci si potrebbe chiedere, da un lato, per
quale ragione Aristotele abbia scelto di collocare la divisione dei modi dell’avere alla
fine del testo, e non nella parte in cui ha menzionato il genere dell’avere (e cioè prima
dei cosiddetti Postpraedicamenta, in Categorie 9), e, dall’altro, come sia possibile stabilire una divisione dell’avere come qualcosa che si dice in molti modi, dal momento che
l’avere è stato, appunto, presentato come un genere?18
In primo luogo, come già detto precedentemente, ciò che viene qui analizzato non è
l’avere inteso come genere, cioè come categoria, e questo è testimoniato da tre fattori.
1. Gli esempi addotti da Aristotele per i primi due sensi sono stati estratti, senza alcuna modifica, rispettivamente dalle categorie della qualità - ha scienza, ha virtù
(™pisthm» œcein kaˆ ¢ret»n) - e della quantità - ha un’altezza di tre piedi o di quattro
piedi (tr…phcu mšgeqoj œcein À tetr£phcu). Questi esempi differiscono molto da quelli addotti nel caso dell’avere inteso in senso stretto, come categoria, nei quali non compare, ad esempio, ha le scarpe, ma è calzato (Øpodšdetai), e neppure ha le armi, ma è
armato (éplistai). Seguendo la modalità degli esempi addotti per l’avere in senso
stretto, avremmo dovuto trovare che ciò che ha una qualità è qualificato e ciò che ha una
quantità è quantificato.
filosofo, inopportunamente aggiunta all’esposizione di un pensiero più evoluto» (Bodéüs, Aristote, Catégories…, p. 156). Come lo stesso Bodéüs riconosce, tali supposizioni sono molto poco verosimili, e la differenza tra le categorie e i modi dell’avere è troppo evidente perché
quest’ultimi siano all’origine di quelle.
15 Cfr. Apostle, Aristotle’s Categories…, p. 96.
16 Come, d’altra parte, secondo l’affermazione espressamente riportata da Aristotele, «avere un
abito non è l’abito» (Categorie 10, 12 a 35-36).
17 Nel sesto significato, Tricot, Aristote, Organon…, p. 75, n. 1, individua un riferimento alla
categoria del dove. Si tratterebbe, cioè, della relazione dell’essere in qualcosa, inteso, stavolta,
in termini spaziali e tradotto in una modalità inversa: se il vino, ad esempio, è nell’anfora, allora
diremo che l’anfora ha il vino. Cfr. Apostle, Aristotle’s Categories…, p. 96.
18 Cfr. Simplicio, In Cat., 437, 12 ss.
292
2. L’avere nel senso del genere richiede che il possessore (o il contenitore) sia un essere animato; l’avere, in questo senso, infatti, è una sorta di collocamento che manifesta
il controllo del possessore su un oggetto inanimato - un senso che può essere identificato soltanto con il terzo e il quarto senso dell’avere qui presentati -19. In questa analisi,
invece, sono incluse sia le realtà incorporee sia le parti del corpo, divisibili e separate,
sia le cose collocate all’interno di oggetti inanimati (il medimno ha il grano, l’anfora ha
il vino).
Non trattandosi dello stesso avere che costituisce un genero sommo, cioè una categoria, risulta, a questo punto, ragionevole che Aristotele non collochi questa analisi a ridosso della trattazione di quella categoria20.
19
Per queste ragioni, Simplicio, In Cat., 438, 30 ss, riporta che Archita (in realtà PseudoArchita), nelle sue scrupolose indagini intorno all’avere inteso come genere, affermava che esso
significa un certo controllo sulle cose acquisite.
20 Cfr. Simplicio, In Cat., 437, 30 ss.
293
PARTE TERZA
IL VALORE DELLE CATEGORIE ALL’INTERNO
DEL PENSIERO ARISTOTELICO
Premessa metodologica
Il “realismo” aristotelico e il pollacîj legÒmenon come cifra teorica ed
ermeneutica
1. Un “realismo del senso comune”
Nella lettura, nell’analisi e nell’interpretazione dei testi aristotelici, in cui sussistono
spesso posizioni in evidente tensione reciproca, se non si vogliono sacrificare dei passaggi, se non addirittura interi capitoli o libri, e se non si vuole porre su larga parte degli
scritti l’ipoteca dell’inautenticità, occorre evitare di unilateralizzare i discorsi ed essere
disposti ad accettare quella che potrebbe essere considerata una strutturale polivalenza
di posizioni. Con ciò non si intende sostenere che Aristotele presenti degli assunti in palese contraddizione o impossibili da conciliare, e neppure che egli abbia apportato sostanziali modifiche e correzioni al proprio pensiero nel corso del percorso formativo filosofico, come propone l’ipotesi evoluzionista. È importante individuare «[…] una differenza fondamentale, quella che rende così difficile, a volte, comprendere il pensiero di
“classici” come Platone e Aristotele. Per esprimere questa difficoltà in una formula, potremmo dire che, mentre il pensiero moderno, figlio delle “idee chiare e distinte” di cartesiana memoria, tende a pensare nella formula “aut… aut”, cioè nella contrapposizione
tra posizioni inconciliabili, il pensiero classico, soprattutto quello platonico-aristotelico,
pensa nella forma “et… et” (che, com’è ovvio, comprende anche la possibilità - rara della forma “aut… aut”), tende cioè ad allargare le maglie e la struttura della sua analisi
in modo da includere il numero massimo possibile di dati. In questa chiave, alcune posizioni che sembrano contraddittorie risultano coerenti»1.
Occorre evitare di attribuire ad Aristotele, da un lato, una forma di relativismo che,
se esasperato, potrebbe condurre ad uno scetticismo gnoseologico e, dall’altro, una forma di “realismo metafisico”. Questi due estremi, tanto distanti tra loro, sono tuttavia accomunati dalla convinzione che esista una realtà interamente precostituita e assolutamente indipendente dalla nostra conoscenza di essa; lo scetticismo sottolinea
l’inconoscibilità strutturale di tale realtà, il “realismo metafisico”, quasi dogmatico, fa
appello a una teoria corrispondentistica della conoscenza, secondo la quale la realtà è
descrivibile in unico modo, che fissa in modo assoluto e definitivo l’ontologia, e presuppone una struttura della realtà eterna e immutabile, che richiede un unico vocabolario univoco per poter essere descritta. Ora, se il “realismo metafisico” risulta adatto
all’essere di cui si occupa la filosofia prima (o metafisica), immutabile e separato, non
può altrettanto esserlo per la fisica e per quell’ontologia che studia e descrive la realtà
sensibile. In una simile ottica, infatti, si dovrebbe sostenere che un ente possiede realmente una proprietà esclusivamente nel caso in cui mostri di averla sempre, in ogni circostanza e sotto qualsiasi punto di vista. Una condizione non facilmente rinvenibile
nell’ambito del divenire, del molteplice e del polivoco. In tale sfera, non è possibile at1
M. Migliori, Ma c’è interiorità nei dialoghi di Platone, in M. Migliori - L.M. Napolitano
Valditara - A. Fermani (edd.), Interiorità e anima. La psychè in Platone, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 123-164, p. 162.
tribuire neppure nessun “realismo interno” o pragmatico in ambito aristotelico, una posizione di sapore kantiano secondo la quale la verità coincide con quanto è conoscibile
in condizioni epistemiche ideali. Condizioni che, nella maggior parte dei casi, non si
danno in una realtà mutevole.
Una realtà molteplice, diversa nelle varie circostanze, considerata da diverse prospettive e sotto diverse condizioni, richiede che siano possibili diverse descrizioni corrette
di essa, e che nessuna di queste possa essere adeguatamente e legittimamente sostituita
da un’altra nel proprio contesto. Il compito che una descrizione o classificazione
dell’ontologia del sensibile deve svolgere è quello di dar conto, nel modo migliore possibile, di una realtà. È, dunque, possibile che, a fronte di contesti e di rispetti diversi, le
descrizioni possano essere diverse, a seconda della loro utilità esplicativa, dal momento
che una fondazione apodittica e definitiva risulterebbe controproducente quanto un letto
di Procuste. L’obiettivo aristotelico è quello di dar conto di una realtà esterna, senza
perdere di vista i fenomeni, ed evitando di cadere in classificazioni troppo rigide e dai
caratteri dogmatici che rischiano di amputare la ricchezza multiforme del reale. Aristotele prende la mosse da un “realismo ingenuo” o “del senso comune”, per cui si individuano degli oggetti esterni, che appartengono alla nostra esperienza ordinaria, di cui occorre dar conto. Come percepiamo il mondo che ci circonda? Come possiamo dar conto
dei fenomeni che ci appaiono nella maniera più possibile adeguata? E, infine, come possiamo parlare di tali fenomeni e comunicarli? L’indagine risulta, allora, strutturata almeno in tre livelli: la percezione empirica di una realtà che si presenta costituita da sinoli cui appartengono diverse proprietà (qualità, quantità, posizione, etc.); la necessità di
un’ontologia che permetta di spiegare l’esistenza di individualità e, nello stesso tempo,
di caratteristiche comuni a una pluralità di individui, nonché di dar conto dell’esistenza
di sostrati dalla consistenza essenziale e, contestualmente, di determinazioni accidentali;
la formulazione di un linguaggio atto a spiegare la complessa ontologia e a comunicarla
nella maniera più chiara possibile evitando confusioni, incomprensioni ed equivoci.
298
Capitolo primo
Natura e struttura delle Categorie
1. Il titolo dell’opera
Come si è visto nel primo capitolo dedicato alla trattazione dello stato della questione, molte sono le problematiche che hanno aperto la strada, fin dall’antichità, a diversi
dibattiti e controversie che concernono lo scritto pervenutoci con il titolo di Categorie.
I dubbi riguardano quasi ogni aspetto di esso, e le questioni sorgono già a partire dal
titolo. È d’obbligo chiarire che non si deve insistere troppo sulla questione del titolo in
quanto i Greci raramente attribuivano un titolo alle loro opere, per cui i titoli con cui gli
scritti ci sono pervenuti sono quasi sempre posteriori all’autore e non esprimono una sua
scelta1. Questo risulta ancora più evidente quando, come nel nostro caso, ci troviamo di
fronte a un testo che non era stato ideato e scritto in vista di una pubblicazione, ma che
fu steso sotto forma di appunti e rivolto esclusivamente a coloro che appartenevano alla
scuola aristotelica. Lo scritto pervenutoci con il titolo di Categorie è chiaramente un testo esoterico2.
Stante la dovuta cautela nei confronti del titolo, esso resta, comunque, un importante
strumento per valutare il modo in cui gli antichi recepirono il testo. Il titolo, infatti, era
strettamente connesso al contenuto e, quindi, variava a seconda dell’intento che veniva
attribuito all’opera. Come si ricordava nello status quaestionis3, la tradizione ci ha trasmesso i diversi titoli che lo scritto ha ricevuto a partire dall’età ellenistica, fino ai primi
secoli dell’età cristiana. Le diverse titolazioni possono essere ricondotte a due gruppi:
1. Un primo gruppo è costituito da quei titoli che connettono l’opera alla dialettica,
ponendola a ridosso dei Topici attraverso le denominazioni di PrÕ tîn topikîn
(Prima dei Topici) e di PrÕ tîn tÒpwn (Prima dei luoghi), con delle implicazioni sulle quali tornerò.
2. Il secondo gruppo ha origine dalla lettura interpretativa di Andronico di Rodi, redattore delle opere aristoteliche, che giudicò lo scritto come un’introduzione alla
dottrina del sillogismo - attraverso l’analisi degli elementi costitutivi delle premesse -, e reputò l’intera la parte dei Postpraedicamenta (Capp. 10-15) apocrifa e
accorpata alla parte precedente da qualcuno che non era Aristotele. Decise, dunque, di considerare autentica esclusivamente la prima parte (Capp. 1-9), alla quale attribuì il titolo di Kathgor…ai.
Come sappiamo, la denominazione di Andronico diventò classica e si impose nella tradizione. Il titolo Kathgor…ai, però, contrariamente alle intenzioni di Andronico, venne
attribuito all’intero testo (Capp. 1-15), e superò le varianti proposte, che possono essere
ricondotte a due diversi modi di intendere la natura e il tema dell’opera aristotelica: a)
l’interpretazione ontologica, per cui il testo tratta dei generi più universali dell’essere,
1
Cfr. P. Moraux, Les listes anciennes des ouvrages d’Aristote, Louvain, Publications universitaires de Louvain, 1951, p. 7 n. 17.
2 Cfr. Infra, p. ***.
3 Cfr. Supra, p. ***.
che attribuisce i titoli Aristotšlouj kathgor…ai perˆ tîn dška genikot£twn genîn
(Le categorie di Aristotele. I dieci generi più universali), Perˆ (tîn) genîn (I generi),
Perˆ tîn dška (genikot£twn) genîn (I dieci generi (più universali)), Perˆ tîn genîn toà Ôntoj (I generi dell’essere)4; b. l’interpretazione logico-concettuale, per cui le
cose «dette senza connessione»5 sono espressioni razionali dei concetti più universali,
che attribuisce allo scritto il titolo di Kathgor…ai6.
La denominazione Kathgor…ai proposta da Andronico e in seguito diventata classica
nasceva, quindi, da una lettura, da parte del redattore delle opere aristoteliche, squisitamente “logica” - nel senso stoico del termine - della prima parte dello scritto, cioè dei
Praedicamenta, e la poneva in uno stretto nesso con l’analitica. Questo stesso titolo, tuttavia, una volta assunto da Porfirio, da tutti i neoplatonici e divenuto tradizionale e accolto quasi all’unanimità a partire da Alessandro di Afrodisia7, perse la sua valenza logica per assumere quella ontologica. Pur nello stesso titolo, dunque, c’è uno slittamento
di valore attribuito allo scritto. Andronico, probabilmente influenzato dalle dottrine logiche degli Stoici, avvicinò l’opera all’analitica, che è l’unica vera e rigorosa “logica”
del Corpus aristotelicum; i Neoplatonici, più interessati all’aspetto ontologico, dimenticarono l’aspetto analitico messo in risalto dal rodense per guardare alle categorie come
ai generi dell’essere.
Stante il fatto che, come ho mostrato nel corso dell’analisi, l’aspetto ontologico è
chiaramente presente nel testo, mi sembra rilevante dare il giusto peso alla più antica
denominazione che avvicina la nostra opera non tanto all’analitica quanto alla dialettica.
Su questo punto è importante la posizione, dissidente nei confronti dell’ortodossia filosofica dell’epoca, di Adrasto di Afrodisia8, il quale riteneva che il cammino filosofico
dovesse iniziare non con lo studio della logica del vero e del necessario, che è il campo
proprio dell’analitica, ma con lo studio della logica del verosimile e del probabile (che
costituisce la maggior parte delle nostre conoscenze), che è il campo della dialettica. Le
Categorie, allora, in un ipotetico ordine di lettura delle “lezioni” di Aristotele, andrebbero poste a ridosso dei Topici come introduzione al metodo dialettico.
I due gruppi di titolazioni ci aiutano a identificare la natura della nostra opera: da un
lato, il titolo Prima dei Topici delinea un possibile asse argomentativo “dialetticocomunicativo”, che si situa su un altro versante rispetto a quello scientificoargomentativo dell’analitica; dall’altro il titolo di Categorie intese in quanto generi
sommi dell’essere radica tale asse su delle chiare fondamenta ontologiche.
2. La paternità aristotelica
Come abbiamo visto nel capitolo primo9, molto ampio è il dibattito sorto intorno
all’autenticità e all’inautenticità delle Categorie. Ci si è chiesti fin dall’antichità: è davvero aristotelica l’opera pervenutaci con il titolo Categorie? Le prove addotte dai soste4
Per tutti i riferimenti alle testimonianze, rimando al Capitolo Primo, supra, pp. ***.
Cfr Categorie 2 e 4.
6 Sui motivi per cui la denominazione di Andronico ha prevalso sulle varianti qui brevemente
riassunte, rimando al Capitolo Primo, supra, pp. ***.
7 Cfr. Alessandro di Afrodisia, In Top., 97, 27-98; In Met., 242, 15; 245, 35.
8 Cfr. Supra, P. ***. Su Adrasto di Afrodisia e le sue posizioni intorno alle Categorie, si veda
Moraux, L’aristotelismo presso i Greci…, vol. II, parte 1, pp. 307-312.
9 Cfr. Supra, pp. ***.
5
300
nitori dell’inautenticità riguardano due aspetti dell’opera: da un lato, la forma dello
scritto, dall’altro il contenuto, il merito delle dottrine. Di fatto, la nostra opera presenta
alcune caratteristiche peculiari che fanno di essa un caso particolare.
2.1. Anomalie nella forma e acroamaticità dell’opera
A livello lessicale, formale e stilistico, diverse sono le peculiarità del nostro testo sottolineate dagli antichi e dai moderni10:
1. l’assenza di un’introduzione o di un passo iniziale che presenti la natura e la finalità dello scritto;
2. l’uso di termini rari nel Corpus e persino di alcuni hapax legomena11;
3. l’uso peculiare delle particelle e, in particolare, l’ingente ricorso alla particella
greca ge12;
4. la frequenza, a posto dell’uso presente nei Topici dell’aggettivo neutro sostantivato, del corrispettivo sostantivo astratto, come ad esempio melan…a, nerezza, al
posto di tÕ mšlan, nero13;
5. il periodare che chiude la dimostrazione ripetendo il demonstrandum14.
Alcune di queste peculiarità possono essere comprese. Per quanto riguarda la 2), tra i
termini presenti nelle Categorie, ma che non si riscontrano in nessuno degli otto libri dei
Topici15, molti sono i termini che servono a illustrare gli esempi di ciascuna categoria.
In particolare, ha costituito un argomento a favore dell’inautenticità il fatto che, tra gli
esempi della categoria del luogo che vengono presentati in Categorie 4, si fa riferimento
al Liceo16 il che - è stato detto - tradirebbe la paternità di un autore ellenistico17. Ora, lo
stesso esempio è presente anche in Fisica IV, 11, 219 b 21, per cui o si sostiene che entrambi i testi siano apocrifi o, più probabilmente, entrambi possono essere in modo legittimo attribuiti ad Aristotele.
La 4) è una chiara scelta stilistica motivata dalla distinzione che Aristotele presenta
in Categorie 8 b 25 tra la qualità (poiÒthj) intesa come categoria e ciò che da essa viene qualificato (poiÒn) Come abbiamo osservato in sede analitica18, infatti, Aristotele ha
ben presente la distinzione e, coerentemente con la sua dottrina, utilizza dei termini diversi per indicare, da un lato, la qualità della nerezza e, dall’altro, l’ente che accoglie la
nerezza e si qualifica come nero.
Tuttavia, se possiamo comprendere, con spiegazioni di tipo teorico, l’utilizzo di alcuni vocaboli tecnici, dobbiamo, però, ammettere che non avremmo altrettante giustificazioni concettuali per poter esplicare la 3), e cioè l’uso di molti altri termini meno tecnici usati nelle Categorie e non presenti nei Topici o in altre opere: si tratta soprattutto
10
Per la trattazione più specifica di tali peculiarità, si veda lo status quaestionis, supra, pp. ***.
Cfr. supra, p. ***.
12 Cfr. Bonitz, Index Aristotelicus, p. 147 a 48-50. Cfr. supra, p. ***.
13 Cfr. supra, p. ***.
14 Cfr. supra, p. ***.
15 B. Collin - C. Rutten, Aristote. Categoriae. Index verborum. Listes de fréquence, C.I.P.L.,
Liège 1993.
16 Cfr. Categorie 4, 2 a 1-2.
17 Cfr. W. Jager, Aristoteles. Grundlinien einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin 1923,
trad. It. Aristotele: prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, versione autorizzata
di Guido Calogero, con aggiunte e appendice dell'autore, La Nuova Italia, Firenze 1935.
18 Cfr. capitolo ottavo, supra, pp. ***.
11
301
di verbi, avverbi, o particelle come ge. Mi sembra, tuttavia, che la spiegazione della 3) e
della 5) possa fare appello al fatto che le Categorie sono un’opera chiaramente acroamatica e che il metodo di presentazione ivi presente non può assumere quasi mai formule definitive; il ripetere, alla fine del ragionamento, il demonstrandum potrebbe costituire semplicemente un segno in più del fatto che le Categorie sono la raccolta di un materiale didattico rivolto a degli studenti.
L’esotericità è, peraltro, confermata da altre caratteristiche tipiche della lezione:
1. nel capitolo terzo, e precisamente nel passo in cui Aristotele spiega che i generi
superiori si predicano dei generi inferiori, in una maniera tale che tutte le differenze del predicato risultano anche differenze del soggetto19, l’assenza di esempi
ci potrebbe fare pensare che lo Stagirita stia presentando un tipo di tesi evidente o
già trattata precedentemente in altre lezioni o in altri scritti; in ogni caso, si starebbe rivolgendo a un pubblico che era in grado di poter capire senza bisogno di
esempi. Infatti, nel caso in cui le Categorie rappresentassero uno scritto di carattere introduttivo o divulgativo, ci sarebbero molti esempi e molte spiegazioni; la
forma è, invece, specie nei primi quattro capitoli, estremamente serrata ed ellittica20.
2. L’uso della seconda persona singolare, come se ci si stesse rivolgendo a qualcuno21.
3. L’uso di espressioni che rinviano alla sfera dell’oralità e ad una continuità didattica quali: “come si è detto”, “le cose dette”, “si dirà”.
4. Il fatto che in alcuni casi quanto detto non vada preso in senso assoluto, ma accade che, in seguito al sollevamento di un’obiezione o di un’aporia, Aristotele si
dedichi ad argomentare le diverse tesi. Questo accade, in modo rilevante, a) per il
discorso e l’opinione, che possono accogliere i contrari pur non essendo sostanze22; b) per la dimostrazione che “grande” e “piccolo” non sono delle quantità,
ma dei relativi23; c) per i relativi che non ammettono conversione reciproca24; d)
per le sostanze seconde: se possano considerarsi a volte dei relativi25; e) per la distinzione tra lo stato e la disposizione26; e) per le qualità che possono essere considerate come dei relativi27; f) per la descrizione della privazione28; g) per la difesa della tesi secondo la quale privazione e possesso non sono contrari29.
5. Il ripensamento intorno a una tesi appena sostenuta: nel capitolo ottavo, subito
dopo aver ascritto alla qualità il raro e il denso, il ruvido e il levigato, Aristotele
afferma che, in realtà, queste sembrano esprimere una qualità, ma in realtà sarebbe conveniente che fossero estranee a tale categoria30. In un testo scritto, si fisse19
Cfr. Categorie 3, 1 b 20-24.
Cfr. capitolo terzo, supra, p. ***.
21 Cfr., tra gli altri, Categorie 5, 2 a 24.
22 Cfr. Categorie 5, 4 a 22 - b 18; cfr. capitolo quinto, supra, pp. ***.
23 Cfr. Categorie 6, 5 b 15 - 6 a 11; cfr. capitolo sesto, supra, pp. ***.
24 Cfr. Categorie 7, 6 b 36 - 7 b 14; cfr. capitolo settimo, supra, pp. ***.
25 Cfr. Categorie 7, 8 a 13-35; cfr. capitolo settimo, supra, pp. ***.
26 Cfr. Categorie 8, 8 b 27 - 9 a 10; cfr. capitolo ottavo, supra, pp. ***.
27 Cfr. Categorie 8, 11 a 20-38; cfr. capitolo ottavo, supra, pp. ***.
28 Cfr. Categorie 10, 12 a 25 - b 1; cfr. capitolo decimo, supra, pp. ***.
29 Cfr. Categorie 10, 12 b 26 - 13 a 36; cfr. capitolo decimo, supra, pp. ***.
30 Cfr. Categorie 8, 10 a 18-19; cfr. capitolo ottavo, supra, pp. ***.
20
302
rebbe la formula definitiva; qui invece sembra proprio trattarsi di un ragionamento in fieri, come se qualcuno avesse posto una domanda o un’aporia e si stesse rispondendo.
Lo stesso livello lessicale, formale e stilistico, oltre alle suddette peculiarità utilizzate
dai sostenitori dell’inautenticità, ci offre delle prove della paternità aristotelica dello
scritto: la profonda affinità che l’opera presenta con il libro D della Metafisica, di cui,
come vedremo, specie nel caso dei Post-praedicamenta, potrebbe rappresentare una
versione non scientifica e divulgativa, e con, ancora una volta, i Topici, col quale condivide un vocabolario molto simile.
Nonostante i tanti argomenti addotti contro l’autenticità delle Categorie, sia
nell’antichità che nell’epoca moderna, mi sembra di poter affermare che l’opera resta,
tuttavia, basata su un’ispirazione fedele sia al metodo sia, come abbiamo visto nel corso
dell’analisi e come stiamo per rivedere in forma schematica, alle dottrine propriamente
aristoteliche, tanto che, come ebbe a dire Siriano31, se si trattasse davvero di un apocrifo, allora avremmo avuto due Aristotele! Malgrado i dubbi portati avanti da secoli di
commento, interpretazione e lettura, mi sembra che possiamo essere ancora autorizzati a
porre il testo sotto l’autorità tradizionale di Aristotele.
2.2. Incongruenze contenutistiche
2.2.1. La dottrina della sostanza nelle Categorie e nella Metafisica
Come già sottolineato nello status questionis32, è soprattutto a causa del contrasto tra
la dottrina della sostanza presentata nelle Categorie e quella presente, invece, nella Metafisica, che la prima delle due opere è stata giudicata in autentica. Secondo i sostenitori
dell’inautenticità, le due opere sembrano presentare due posizioni inconciliabili intorno
allo statuto della sostanza. Più precisamente, gli antichi hanno sottolineato una discrepanza tra le Categorie e Metafisica L; i moderni, invece, hanno dedicato maggiore attenzione alle dottrine presentate, da un lato, nelle Categorie e, dall’altro, in Metafisica
Z.
Per quanto riguarda la presunta discrepanza tra Categorie e Metafisica L, la distanza
tra le due trattazioni è evidente. Sostanza prima, nelle Categorie, è, come abbiamo visto,
l’individuo concreto, fenomenicamente presente e realmente esistente, il quale non si
dice di nessun soggetto né è in nessun sostrato; soggetto ultimo della predicazione e sostrato ultimo dell’inerenza, la “sostanza prima” delle categorie è ciò di cui si dicono la
specie e il genere, che vengono chiamate “sostanze seconde”, in quanto non indicano un
qualcosa di determinato e di individuale, ma sono dei predicati comuni. In Metafisica L,
invece, sostanza prima è la separata da sensibile e, pertanto, soprasensibile, immutabile,
immobile ed eterna. La nostra opera, dunque, attribuisce la priorità alla sostanza individuale, sensibile e corruttibile33, laddove Metafisica L dà un forte rilievo all’ordine delle
sostanze separate, immutabili e intellegibili.
Per quanto riguarda la presunta discrepanza tra Categorie e Metafisica K, ci si rifà
aalle dottrine presenti in quest’ultima opera, in cui “sostanza prima” è la forma che de-
31
Cfr. David, In Cat., 133, 24-25.
Cfr. Supra, pp. ***.
33 Cfr. Categorie, 2 a 11 e ss.
32
303
termina le sostanze composte e sensibili34, e, quanto agli universali, di essi si afferma
chiaramente che non possono, in alcun caso, essere considerati sostanza35. Una posizione che, apparentemente, contrasta con quella sopra ricordata delle Categorie.
Nella Metafisica, dunque, due sono i tipi di sostanze che meritano il titolo di sostanza prima: da una parte, la forma dei composti, causa determinante del sinolo, che si identifica con l’essenza, cioè con l’oggetto della definizione (Metafisica K), e, dall’altra,
la forma separata, soprasensibile (Metafisica L). In entrambi i casi, “sostanza prima” risulta ciò che è massimamente determinato e determinante. La stessa parola greca edoj,
che nelle Categorie indica la specie, nella Metafisica, assume il significato di forma, intesa come causa determinante ed elemento costitutivo del sinolo.
Chiarita la differenza di trattazione tra Metafisica K e Metafisica L, resta tuttavia ancora da spiegare come possibile che Aristotele presenti, in opere diverse, e cioè nelle
Categorie e nella Metafisica, delle posizioni tanto diverse intorno alla tematica della sostanza. Non sono mancate ipotesi di conciliazioni che facessero riferimento ad
un’evoluzione della concezione aristotelica della sostanza da una fase giovanile e antiplatonica, rappresentata dalle Categorie, in cui Aristotele, sotto l’influenza di Speusippo
e ancorato a una posizione nominalista, avrebbe assegnato il primato nella categoria della sostanza all’individuo, a una fase più matura e platonizzante, rappresentata da Metafisica Z, in cui egli, sotto l’influenza di Senocrate, avrebbe assegnato il primato, e quindi
la sostanzialità, alla specie36.
A mio avviso, si può, tuttavia, scorgere una via di conciliazione senza dover ricorrere
alla spiegazione evoluzionistica. Si tratta del distinguere attentamente le diverse trattazioni, tenendo «presente che l’aggettivo “primo” ha sempre un significato relativo, cioè
indica il primo elemento di una serie, per cui, al variare della serie presa in considerazione, varia anche il significato di ciò che è primo»37. Per questo, nelle Categorie, in cui
vengono prese in considerazione le forme di predicazione, sono dette “prime” le sostanze non ulteriormente predicabili, gli individui realmente esistenti, i quali né si dicono di
un soggetto né sono in un soggetto; nella Metafisica, invece, “sostanza prima” è la forma, prima rispetto alla materia e al composto stesso, poiché è la causa che li determina
entrambi. Leggendo le dottrine come due punti di vista diversi sulla realtà, si elimina la
contraddizione, poiché diverso risulta il titolo in base al quale possono essere considerati “sostanza prima”, rispettivamente, l’individuo concreto e la forma38.
Una conciliazione, questa, che si riallaccia agli argomenti di cui si avvalevano anche
gli antichi per spiegare l’apparente contraddizione dei due testi aristotelici: da un lato,
un argomento di carattere ontologico - per il quale, servendosi di una distinzione espressamente spiegata da Aristotele39, la sostanza di cui si parla nelle Categorie è “prima” in
rapporto a noi e in senso cronologico, mentre la sostanza cui fa riferimento Metafisica K
34
Cfr. Metafisica K 11, 1037 a 5-7; Metafisica K 17, 1041 b 7-9, 26-28.
Cfr. Metafisica K 13, 1038 b 8 e ss.
36 Cfr. H. J. Krämer, Aristoteles und die akademische Eidoslehre, «Archiv für Geschichte der
Philosophie», LV (1973), pp. 119-190. Per tutti gli altri studiosi che seguono la teoria evoluzionista, si veda il capitolo primo, supra, pp. ***.
37 E. Berti, Il concetto di «sostanza prima» nel libro Z della Metafisica, «Rivista di Filosofia»
vol. LXXX, n. 1 (1989), pp. 3-23, p. 7.
38 Per gli studiosi che sostengono l’autenticità delle Categorie a partire dall’osservazione secondo la quale la dottrina in esso contenuta non contrasta con quella del settimo libro della Metafisica, si veda il capitolo primo, Supra, pp. ***.
39 Cfr. Metafisica k, 1018 b 30-37.
35
304
è la sostanza “prima” per natura; dall’altro, un argomento di carattere metodologico per il quale le Categorie e la Metafisica occupavano due posizioni completamente diverse all’interno della didattica aristotelica: il loro impianto e la loro ricerca sono molto
diverse, quindi non è assurdo che presentino delle dottrine che non coincidono.
2.2.2. Ulteriori pretese incongruenze contenutistiche
Altre incongruenze contenutistiche poste dagli antichi rilevavano dei nodi problematici nel momento in cui il nostro scritto veniva messo in relazione con altre opere dello
Stagirita. Tre sono le divergenze che venivano messe in risalto40:
1. La presunta assenza, in Categorie 1, 1 a 1 e ss., in sede di presentazione degli omonimi, dei sinonimi e dei paronimi, della trattazione dei polionimi e degli eteronimi;
in realtà, come abbiamo visto in sede analitica, lo Stagirita, tuttavia, pur rifacendosi ad
una distinzione accademica che poneva accanto, ai sinonimi e agli omonimi, i polionimi
e gli eteronimi, la mutua trasformandola criticamente; in lui, infatti, quest’ultimi scompaiono. Egli non li ha accolte nella trattazione in quanto, da un lato, non pongono difficoltà intorno alla comprensione dei significati e, dall’altro, di essi non avrà bisogno nella successiva discussione41.
2. L’affermazione, presente in Categorie 7, 7 b 23-24, che l’oggetto della scienza è
anteriore alla scienza stessa sarebbe in contraddizione con la tesi esposta nella Fisica
sulla simultaneità dei relativi; in realtà nulla di simile sarebbe espressamente affermato
nella Fisica, ma la divergenza avrebbe origine da un travisamento nell’interpretazione
del testo delle Categorie42;
3. In Categorie 14, 15 a 13, la generazione e la corruzione vengono considerate come
forme di movimento, il che non si accorderebbe con Fisica V, 1, 225 a 3, in cui le stesse
vengono intese come dei cambiamenti, ma si tratta, come abbiamo visto, di due diversi
tipi di terminologia, di approccio e di finalità43.
3. Elementi a favore dell’autenticità
La caratteristica più particolare delle Categorie atta a rafforzare la posizione di coloro che ne sostengono l’inautenticità è forse quella per cui tale opera è totalmente isolata,
sia internamente sia esternamente nel Corpus Aristotelicum. Mancano totalmente, infatti, dei chiari riferimenti e rimandi testuali: le Categorie non rimandano direttamente a
nessuna altra opera, e nessuna altra opera rimanda esplicitamente alle Categorie. Si tratta di una prerogativa che appartiene alle opere che, pur essendo state integrate nel Corpus, sono state dichiarate apocrife44.
Tuttavia, mentre è evidente, almeno a livello testuale (mentre non è escluso a livello
contenutistico), che nelle Categorie non ci sono rimandi ad opere appartenenti
all’Organon - al De Interpretatione, agli Analitici, ai Topici e alle Confutazioni Sofistiche -, né ad altre opere esterne all’Organon, non possiamo escludere in modo definitivo
40
Tali divergenze vengono riportate e spiegate nelle testimonianze di Olimpiodoro, In Cat., 22,
38 - 24, 9 e del cod. Urbinas 35, 33 a 30 - b 25.
41 Cfr. capitolo primo, supra, pp. ***.
42 Cfr. capitolo settimo, supra, pp. ***.
43 Cfr. capitolo quattordicesimo, supra, pp. ***.
44 Per l’elenco di tali opere, si veda il capitolo primo, supra, pp. ***.
305
che altre opere non rimandino alle trattazioni presenti nelle Categorie. È evidente che
non si può considerare, al modo di Simplicio45, ogni riferimento alle “dieci categorie”
presente nei testi aristotelici come un rimando all’opera, dal momento che le categorie
sono presentate o menzionate anche in altre opere (anche se l’elenco completo delle categorie in numero di dieci è presente solo nelle Categorie e nei Topici46, quindi si restringe di molto il campo di indagine). Non è escluso, tuttavia, che alcuni riferimenti alla nostra opera possano essere presenti nei Topici o nelle Confutazioni Sofistiche. In
particolare, alcuni loci delle Confutazioni Sofistiche fanno riferimento alle categorie e
accennano brevemente al concetto di accidente come se se ne fosse già trattato. È chiaro
che il primo rimando da valutare è quello ai Topici, dove queste tematiche sono ampiamente discusse, ma non possiamo escludere a priori che i destinatari di quei testi non
avessero in mente anche le trattazioni presenti nella nostra opera. È sì vero che Aristotele non si riferisce mai esplicitamente a questo testo, ma è altrettanto vero che usa il termine kathgor…ai per riferirsi alle distinzioni presentate nella nostra opera47 singolarmente oppure all’interno di espressioni quali t¦ gšnh tîn kategoriîn (i generi delle
categorie)48 e t¦ sc»mata tÁj kategor…aj (gli schemi delle categorie)49.
Si tratta chiaramente, in questo caso, di argomenti piuttosto deboli se considerati singolarmente, ma se rivisti anche alla luce delle affinità contenutistiche che innegabilmente le Categorie hanno con altre opere del Corpus, cooperano a una difesa
dell’aristotelicità dello scritto.
Di seguito cercherò di mostrare, infatti, come già esplicitato in sede analitica, che i
contenuti teorici delle Categorie sono rapportabili a quelli espressi dallo Stagirita in altre opere (mostrerò, in particolare, la vicinanza con il De Interpretatione, i Topici, la
Metafisica), il che non solo costituirebbe una prova a favore dell’autenticità dello scritto, ma contribuirebbe anche a mettere in evidenza l’unità del pensiero aristotelico.
4. L’unità interna dell’opera
Le Categorie ci sono pervenute tradizionalmente suddivise in quindici capitoli. Come sappiamo, però, questa divisione non apparteneva al testo originario, per cui la divisione concettuale non sempre può rivelarsi perfettamente sovrapponibile ai capitoli imposti allo scritto.
A livello contenutistico, l’opera può essere suddivisa in tre parti:
1. Una prima parte, costituita dai capp. 1-3, per così dire “introduttiva”, ma che nulla ha di introduttivo, di divulgativo e di “iniziatico” se si osservano i caratteri che
la rendono profondamente serrata ed ellittica. Nel capitolo primo si spiega cosa
sono gli omonimi, i sinonimi e i paronimi; nel capitolo secondo si dividono le cose che vengono dette in due grandi gruppi: quelle che si dicono secondo connessione e quelle che si dicono senza connessione e si presenta una divisione degli
enti in quattro gruppi; nel capitolo terzo, vengono presentati i rapporti tra generi,
sottogeneri, specie e differenze specifiche.
45
Cfr. Simplicio, In Cat., 18, 9-14. Cfr. supra, pp. ***.
Cfr. Topici, 103 b 21-23.
47 Categorie, 1 b 26-27. In questo passo, Aristotele utilizza il termine categorie
(kkkkkkkkkk) all’interno dell’opera delle Categorie.
48 Topici I 9, 103 b 20-21.
49 Metafisica k 7, 1017 a 23.
46
306
2. La seconda parte, detta dei Praedicamenta, costituita dai capitoli 4-9, presenta le
dieci categorie e analizza con uno studio metodico le categorie della sostanza
(capitolo 5), della quantità (capitolo 6), della relazione (capitolo 7), della qualità
(capitolo 8), dell’agire e del patire (capitolo 9). A questo punto l’analisi metodica
delle categorie ha fine.
3. La terza parte, detta dei Post-praedicamenta, costituita dai capitoli 10-15, presenta uno studio delle diversi modi di dirsi di sei nozioni: l’opposizione (capitolo
10), la contrarietà (capitolo 11), l’anteriorità (capitolo 12), la simultaneità (capitolo 13), il mutamento (capitolo 14), l’avere (capitolo 15).
L’organicità e l’unitarietà non appare certo di per sé evidente. In particolare urge capire
come la prima parte possa essere considerata utile ai fini della comprensione del resto
dello scritto, e come la terza parte abbia una sua ragione di trovarsi subito dopo la trattazione analitica delle categorie.
4.1. Valore e funzione dei capitoli 1-3: omonimi, sinonimi, paronimi
4.1.1. I sinonimi e i rapporti intracategoriali
Vengono definite “sinonime” le cose che possiedono lo stesso nome e la stessa definizione. Così vengono presentati i sinonimi nel primo capitolo50. La stessa definizione
sarà ripresa nel Capitolo 5 facendo esplicito riferimento a qualcosa di cui già si è trattato.
Come si è detto, sono sinonime le cose di cui il nome e la definizione sono gli stessi51.
I due termini dell’esempio, uomo e bue risultano sinonimi non in quanto presi in se
stessi, ma dal punto di vista della loro definizione, del loro significato, del genere cui
appartengono, cioè in quanto animali. Essi, infatti, hanno evidentemente nomi diversi,
ma se risaliamo alla loro essenza, troviamo che possiamo chiamare entrambi animali,
cioè possiamo dar loro un nome comune. Se, procedendo ulteriormente, ci chiediamo
che cosa, poi, significhi animale per ciascuno di essi, scopriamo di usare questo termine
con la stessa accezione per entrambi i casi, cioè come sostanza animata (o vivente) dotata di sensazione. Uomo e bue, cioè, risultano sinonimi, perché vengono chiamati entrambi animali, e perché vengono entrambi definiti attraverso la nozione di animale52.
Animale, cioè, si predica sia di uomo sia di bue, perché è il genere cui sia la specie uomo sia la specie bue appartengono.
La sinonimia, come chiaramente espresso dalle seguenti citazioni tratte dai Topici, è
la cifra attraverso la quale si esprimono i rapporti tra specie e genere.
[…] il genere e la specie sono sinonimi53.
Si può anche esaminare se il genere e la specie non siano sinonimi: in realtà il genere si
predica di tutte le specie secondo una designazione sinonima54.
Tutti i generi si predicano in forma sinonimica delle specie, poiché queste ricevono tanto il nome quanto il discorso definitorio dei generi55.
50
Cfr. Categorie 1, 1 a 6-12.
Categorie 5, 3 b 7-8.
52 Pesce, Aristotele. Categorie…, p. 21.
53 Topici IV, 3, 123 a 28.
54 Topici IV, 6, 127 b 5-6.
55 Topici II, 2, 109 b 6-7. Cfr. Confutazioni Sofistiche, 5, 167 a 24 ss.
51
307
Sono sinonimi anche la specie e gli individui in essa compresi
[…] Dal momento che la specie e l’oggetto che vi è compreso sono sinonimi56.
Ma in che modo la sinonimia può assurgere al ruolo di espressione di un tipo di predicazione interno alle categorie, e quindi di tipo essenziale? Qui c’è bisogno di approfondire la questione della predicazione per capire bene i rapporti che si istaurano, da un lato, all’interno di ogni singola categoria, e, dall’altro, tra una categoria e l’altra.
4.1.1.1. I tipi di predicazione. Una chiarificazione dai Topici
I Topici sono l’opera, compresa nell’Organon, che tratta del sillogismo dialettico, vale a dire del ragionamento che conclude da elementi fondati sull’opinione: studiarne le
leggi significa acquisire abilità di argomentare su qualsiasi problema al fine di prevalere
nelle discussioni. Prima di addentrarsi nello studio del sillogismo dialettico, però, in
quest’opera, Aristotele introduce e spiega alcuni concetti propedeutici all’indagine del
procedimento argomentativo. Per ragionare bene, infatti, occorre «conoscere bene le
leggi che regolano la correttezza delle diverse proposizioni»57. Poiché le formulazioni di
una ricerca e, in generale, le proposizioni si formano dalle relazioni tra un soggetto ed
un predicato, per argomentare bene bisognerà studiare le leggi che regolano i modi in
cui un predicato appartiene ad un determinato soggetto. L’appartenenza di un predicato
ad un soggetto, per Aristotele, può aver luogo in quattro diversi modi:
1. come «definizione» (ÐrismÒj; ὅρον) La definizione è un discorso che esprime
l’essenza di un soggetto58. Essa risponde alla domanda «che cos’è essere una
certa cosa?» (t… ™sti, o meglio, tÕ t… Ãn e‹nai59), e non è costituita da un solo
predicato, ma da due: il genere, che è un predicato universale, e la differenza
specifica, anch’essa predicabile di più soggetti, ma meno universale del genere,
poiché contraddistingue la specie del soggetto in questione dalle altre specie
che rientrano nell’ambito dello stesso genere60.
2. come «proprio» (‡dion). Il proprio è ciò che, pur non rivelando l’essenza e la
specie di un soggetto, appartiene, tuttavia, al soggetto del quale si predica, e a
tutti i soggetti della stessa specie, e sta rispetto ad essi in un rapporto convertibile di predicazione. Il proprio esprime una condizione necessaria e sufficiente.
Ad esempio, se è proprio dell’uomo l’essere suscettibile di apprendere la
grammatica, allora ogni ente capace di apprendere la grammatica sarà un uomo.
Non così, ad esempio, il dormire, che, infatti, non è un proprio61.
3. come «genere» (gšnoj). Il genere è un predicato, immanente all’essenza, di
molti soggetti differenti per specie; esso fa parte dell’essenza della specie, ma
non coincide perfettamente con essa, perché ne sporge, inglobando in sé anche
56
Topici VIII, 4, 154 a 18 ss.
Berti, Profilo…, p. 66.
58 Cfr. Topici 102 a 1.
59 Topici 101 b 38.
60 Cfr. Topici 101 b 38 - 102 a 17.
61 Cfr. Topici 102 a 18-30. Cfr. A.E. Taylor, Aristotle, revised edition, Dover Publications Inc.,
New York 1955, p. 23: «The predicate may not express the inmost nature of the subject, and yet
may belong only to the class denoted by the subject and to every member of that class. The
predicate is then called a Proprium or property, an exclusive attribute of the class in question».
57
308
tutte le altre specie ad essa congeneri62. «Tra il genere e la specie vi è dunque
un rapporto di predicazione abbastanza intenso, cioè essenziale, nel senso che il
genere concorre ad indicare l’essenza della specie, e quindi anche un rapporto
di predicazione universale e necessaria, cioè per sé, ma non una relazione di identità, come nel caso della definizione»63.
4. come «accidente» (sumbebhkÕj). L’accidente è un predicato che può appartenere, ma che può anche non appartenere al soggetto; può, cioè, appartenere ad
un singolo determinato soggetto, ma non alla specie cui il soggetto appartiene.
Un uomo, ad esempio, può essere bianco, ma ci sono molti uomini che non lo
sono. L’accidente è, pertanto, il tipo di predicazione più debole, non essendo né
essenziale, né universale, né necessaria64.
Riassumendo questo schema, Aristotele, in Topici 103 b 5-20, afferma che è necessario che ogni predicato stia, rispetto al soggetto di cui si predica, o in un rapporto convertibile, cioè biunivoco, di predicazione, oppure in un rapporto non convertibile di predicazione. Nel primo caso, il predicato o è una definizione, se esprime l’essenza, oppure è
un proprio; nel secondo caso, invece, il predicato è un genere, se fa parte degli elementi
formulati nella definizione del soggetto, oppure è un accidente.
La distinzione in questi quattro tipi di predicazione ci permette di ipotizzare un modello in cui tutti i predicati possibili siano disposti in una molteplicità di colonne parallele, all’interno di ciascuna delle quali vengono sistemati, dal basso verso l’alto, individui, specie e generi, in ordine crescente di universalità. Prendendo le mosse dagli individui e risalendo, attraverso specie e generi, le colonne, o divisioni, fino all’apice, troviamo che esse fanno capo a dei generi universalissimi, i «generi della predicazione»,
che sono le «categorie», in numero di dieci.
La predicazione potrà aver luogo sia tra termini che appartengono alla stessa colonna, «quando, ad esempio, un genere si predica di una specie, o una specie di un individuo, che costituisce un suo caso particolare, oppure quando una definizione si predica
della specie o dell’individuo di cui è definizione»65: chiamerò questo tipo di predicazione intracategoriale; sia tra termini che appartengono a colonne diverse, «quando ad esempio un genere o una specie o un individuo di una colonna si predicano rispettivamente di un genere, di una specie o di un individuo di un’altra»66, nel qual caso la chiamerò transcategoriale. E, poiché la predicazione intracategoriale è la predicazione vera
e propria, in qualche modo essenziale, si tratterà del «dirsi di un soggetto»; la predicazione transcategoriale, invece, indicando non propriamente un predicato, ma qualcosa
che è presente, o inerente ad un soggetto, in maniera accidentale, si identificherà con
l’«essere in un soggetto».
Intrecciando la distinzione, sopra ricordata, tra predicazioni convertibili e predicazioni non convertibili con la distinzione tra la predicazione vera e propria («dirsi di un
soggetto») e l’inerenza («essere in un soggetto»), avremo uno schema simile al seguente:
Predicazione intracategoriale
Predicazione transcategoriale
62
Cfr. Topici 102 a 31 - 102 b 3.
Berti, Profilo…, p. 68.
64 Cfr. Topici 102 b 4 - 102 b 26. Nulla impedisce - dice Aristotele - che l’accidente diventi talvolta "proprio" relativo o temporale, ma mai lo sarà assolutamente.
65 Berti, Profilo…, p. 69.
66 Berti, Profilo…, p. 69.
63
309
(«dirsi di un soggetto»)
Predicazione
convertibile
Predicazione
non convertibile
(«essere in un soggetto»)
definizione
proprio
genere o differenza
accidente
Si tratta ora di tornare alle Categorie, per valutare se questo schema può aiutare a
sciogliere i nodi concettuali emersi e a chiarire la dottrina della predicazione precedentemente esaminata.
4.1.1.2. La predicazione intracategoriale
All’interno di ogni colonna, che corrisponde ognuna ad una categoria, e cioè tra individui, specie e generi che fanno capo allo stesso genere universalissimo o categoria, vige la predicazione di tipo «dirsi di un soggetto». Per non confondere questa predicazione vera e propria con l’inerenza, e, quindi, per essere in grado di formulare sempre ragionamenti corretti, bisogna prestare molta attenzione a ricondurre individui, specie e
generi sotto la giusta categoria cui appartengono, dunque a dividere ed ordinare correttamente le colonne. Scrive Aristotele nei Topici:
Si deve inoltre indagare se il genere e la specie non rientrino nella stessa distinzione, risultando questa una sostanza e quello una qualità, oppure questa una relazione e quello
una qualità. Ad esempio, la neve ed il cigno sono sostanze, mentre bianco non è sostanza, ma qualità, sicché il bianco non risulta genere né della neve né del cigno67.
Dobbiamo, dunque, essere molto attenti a non confondere i diversi tipi di predicazioni e le categorie. Nella stessa colonna vanno inseriti solamente gli individui, le specie ed
i generi che fanno capo allo stesso genere di predicazione. Se, ad esempio, mi trovo
all’interno della categoria della sostanza, posso inserire, come individuo, un determinato
cigno; risalendo la colonna verso l’alto, verso, cioè, una sempre maggiore universalità,
potrò inserire la specie cigno, la classe degli uccelli ed il genere animale. Nel considerare che i cigni hanno, per lo più, un piumaggio bianchissimo, non dovremmo essere spinti a credere che il bianco vada inserito, anch’esso, nella colonna della sostanza. Predicare il bianco del cigno è già una predicazione di tipo transcategoriale: il bianco, infatti,
non è una sostanza, e, perciò, non può essere genere del cigno; può, però, essere predicato del cigno in quanto proprio68. Il bianco è una qualità, e, come tale, deve essere in67
Topici 120 b 37-39. La traduzione del testo dei Topici che adotto è tratta, con alcune modifiche, da Aristotele, Opere…, vol. II: Organon: Topici, Confutazioni sofistiche, Traduzione di
Giorgio Colli.
68 Il bianco sembra poter essere considerato un proprio del cigno, in quanto, pur non rivelando
l’essenza e la specie del cigno, appartiene, tuttavia, al cigno, e a tutti i soggetti della stessa specie, cioè a tutti i cigni. Leggiamo in Topici 140 a 33 - b 5: «Se la determinazione aggiunta è un
proprio, una volta eliminata, anche la parte restante della definizione risulta propria, e rivela la
sostanza. Nella definizione dell’uomo, ad esempio, l’essere ciò che può accogliere il sapere costituisce un’aggiunta superflua: anche quando si elimina questa espressione, infatti, la parte rimanente della definizione risulta propria e rivela la sostanza. In breve, superfluo è tutto ciò che
può venir eliminato, mentre la parte che rimane rende, ciononostante, evidente l’ente definito.
310
serito all’interno della categoria, appunto, della qualità, che comprenderà anche il genere colore.
Per dirla in termini generali, occorre che il genere e la specie rientrino nella medesima
distinzione; se infatti la specie è sostanza, anche il genere lo sarà; e se la specie è qualità, anche il genere sarà una qualità: se, ad esempio, il bianco è una qualità, anche il colore lo sarà69.
In questo passo è chiaro che le cose che rientrano nella stessa colonna devono essere
congeneri. Se, ad esempio, prendo un determinato uomo, il quale rientra nella categoria
della sostanza, anche la specie cui appartiene, cioè la specie uomo, farà parte della categoria della sostanza, e la stessa movenza varrà per il genere animale70.
Questo poter attraversare verticalmente le colonne e spaziare tra le serie di individui,
specie e generi all’interno di ogni categoria è quanto credo possa essere ben espresso
con il “modello del cursore”71. Il concetto di cursore, da una parte, ha il vantaggio di
farci subito pensare ad una possibilità di scorrere in su e in giù le colonne, ed effettivamente il modello della serie di generi, specie ed individui, presentato da Aristotele, contiene in sé quella grande peculiarità della dialettica, di stampo platonico, di essere e ascensiva e discensiva. D’altra parte, tuttavia, esso, se enfatizzato oltremodo, potrebbe
seminare il rischio di scambiare quella che è, in senso lato, una dialettica di risalita e discesa scorrevole, con una «convertibilità» di predicazione, intesa nel senso tecnico sopra specificato, che non si verifica certo in ogni predicazione di tipo intracategoriale.
Innanzitutto, dal punto di vista del «dirsi di un soggetto», è vero che ciò che, nella
colonna, sta più in alto ed è più universale si dice di tutto ciò che gli è subordinato: così,
il genere si dice e della specie e dell’individuo, la specie si dice soltanto degli individui,
e gli individui non si dicono di nulla, perché sono sostanza prima e non hanno più nulla
sotto di loro; non è vero, però, il contrario: l’individuo non si dice dell’uomo, l’uomo
non si dice dell’animale. Il «dirsi di», inteso in senso strettamente tecnico, infatti, è unidirezionale.
Inoltre, dal punto di vista del criterio della “convertibilità” della predicazione, bisogna fare attenzione ad attribuire un rapporto biunivoco alla predicazione della definizione, e a non attribuirlo, invece, alla predicazione della specie o del genere. Esaminiamo,
in primo luogo, quest’ultimo caso: se, ad esempio, il genere animale si dice dell’uomo,
non è altrettanto vero che l’ uomo si dice del genere animale72. Nel caso, invece, della
definizione, se, ad esempio, predico «animale razionale» di un certo uomo, risulterà veDi questa natura sembra essere anche la definizione dell’anima, se davvero essa si può dire un
numero che muova se stesso. Infatti, anche ciò che muove se stesso è anima, secondo la definizione di Platone. Forse si potrebbe dire che quest’ultima determinazione è propria dell’anima,
ma non rivela la sostanza, quando il termine “numero” sia stato eliminato».
69 Topici 121 a 6-9.
70 Cfr. Analitici primi 47 a 28-30: «Se dall’essere uomo segue necessariamente l’essere animale,
e dall’essere animale segue necessariamente la sostanza, allora dall’essere uomo seguirà necessariamente la sostanza».
71 Devo questa espressione e questo contributo ai guadagni conseguiti durante il seminario di
Storia della Filosofia Antica, sulle Categorie aristoteliche, organizzato dal prof. Maurizio Migliori, coadiuvato dalla dott.ssa Arianna Fermani, per l’anno accademico 2006/2007, e agli interventi, sempre interessanti, della professoressa Ivana Bianchi, che ha preso attivamente parte
agli incontri.
72 Cfr. Pesce in Aristotele, Categorie…, p. 38, n. 10: «Se è vero che i cani sono animali, non è
vero che gli animali sono cani, perché potrebbero altresì essere gatti, cavalli, uomini etc.».
311
ro, da un lato, che tale definizione sarà sempre e solo attribuita all’uomo (poiché contiene in sé la differenza specifica, la quale ingloba sì molti enti, ma che non rivelano differenze quanto alla specie), dall’altro, ogni ente, se è un uomo, sarà anche, automaticamente, un animale razionale, poiché la definizione identifica perfettamente, quanto alla
specie, il soggetto di cui si predica73.
Detto in altri termini: in senso stretto, il «dirsi di» non esprime mai un rapporto di
simmetria, poiché esso procede unidirezionalmente da ciò che viene predicato a ciò di
cui si predica, cioè al soggetto; c’è, però, un caso di predicazione di tipo «dirsi di» in
cui si verifica «convertibilità», ed è il caso in cui ad essere predicato non è solo il genere, ma l’intera definizione, senza omissioni, composta di genere e differenza specifica.
Questo perché la definizione è sufficientemente circoscritta; se ci si ferma al genere, invece, il definiendum resta non ancora definito, dal momento che non si saprebbe a quale
delle specie incluse in quel genere appartiene74.
In senso lato, resta poi vero che, all’interno di ciascuna colonna, in una direzione, ciò
che si situa più in alto ingloba ed abbraccia tutto ciò che gli è subordinato; nell’altra direzione, ciò che è subordinato appartiene a (tÕ ™n tin… Øp£rcei) ciò lo sovrasta: è per
questo che, con le debite precisazioni e calibrazioni, continuo a ritener valido e calzante
il modello del cursore75.
4.1.1.3. Il “dirsi di” un soggetto e la sinonimia
È chiaro da quello che si è detto che anche il nome e la definizione delle cose che sono
dette di un soggetto è necessario che siano predicati del soggetto. Ad esempio, uomo è
detto di un soggetto, di un certo uomo: in verità e gli è predicato il nome - infatti predicherai uomo di un certo uomo - e la definizione di uomo sarà predicata di un certo uomo - infatti un certo uomo è anche l’uomo. Di conseguenza anche il nome e la definizione saranno predicati del soggetto76.
La predicazione di tipo «dirsi di un soggetto» è intracategoriale, e di ciò che si dice
di un soggetto si applicherà al soggetto in questione sia il nome sia la definizione. Questo risulta chiaro dall’esempio: un determinato uomo è, appunto, un uomo, ma è anche
un «animale razionale», che è precisamente la definizione di uomo, formata da genere
prossimo e differenza specifica; sicché la definizione di uomo si predicherà di un certo
uomo, e la definizione di animale si predicherà sia della specie uomo sia di un determinato uomo77.
Allo stesso modo, poiché le differenze vengono annoverate da Aristotele tra le cose
che si dicono di un soggetto, anche le definizioni delle differenze saranno predicate di
73
Naturalmente, l’identità che la definizione restituisce non sarà mai quella numerica, ma sempre e solo quella specifica. Aristotele distingue tre tipi di identità: per numero, per specie (in cui
gli oggetti compresi sono molti, ma non specificamente differenziati: uomo è identico a uomo,
cavallo è identico a cavallo), per genere (sono identici per genere, ad esempio, uomo e cavallo).
Cfr. Topici 103 a 8-14.
74 Cfr. Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 38, n. 8.
75 Cfr. Analitici primi 27 a 19-20: «Una conclusione, in cui risulti l’appartenenza (Øp£rcein), può
fondarsi sui termini sostanza - animale - uomo; una in cui non risulti l’appartenenza può fondarsi sui termini sostanza - animale - numero. Il medio è sostanza».
76 Categorie 2 a 19-27.
77 Cfr. Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 41, n. 21: «Socrate è un animale razionale (animale
razionale è la definizione della specie uomo); Socrate è un vivente dotato di sensazione (vivente
dotato di sensazione è la definizione del genere animale) ».
312
ciò di cui sono dette le differenze: se, ad esempio, terrestre viene detto di uomo, anche
la definizione di terrestre sarà predicata di uomo; l’uomo, infatti, è un animale terrestre78.
Gli enti che avevano in comune sia il nome sia la definizione erano stati chiamati,
nel primo capitolo delle Categorie, sinonimi79. Tutti i predicati di tipo «dirsi di» sono,
dunque, predicati sinonimicamente del soggetto. Questo, nel testo, viene esemplificato
soprattutto con particolare riferimento alla categoria della sostanza.
Le sostanze prime accolgono sia la definizione delle specie che quella dei generi, e la
specie accoglie la definizione del genere: infatti, tutte le cose che sono dette del predicato saranno dette anche del soggetto; e parimenti le specie e gli individui accolgono
anche la definizione delle differenze. Ma, per l’appunto, sono sinonime, come si è detto, le cose di cui e il nome e la definizione è la stessa. Di conseguenza, tutte le cose che
discendono dalle sostanze e dalle differenze sono dette sinonimamente80.
Quindi, tutte le predicazioni che implicano l’attribuzione della definizione, cioè
l’espressione dell’essenza di una data cosa, sono sinonime.
4.1.2. La predicazione intercategoriale: l’ “essere in” un soggetto. Omonimia e paronimia
La predicazione di tipo «essere in un soggetto», chiamata dai commentatori “inerenza”, non permane nell’ambito della stessa colonna, ma richiede un passaggio da categoria a categoria; e, poiché l’unica categoria che esprime qualcosa di determinato in sé,
capace di sussistere per se stessa, e di fungere, così, da soggetto a tutti i predicati, è
quella di sostanza, ogni predicazione “transcategoriale” indicherà il fatto che ad una sostanza, prima o seconda, venga applicato un elemento contenuto all’interno di una delle
restanti nove categorie. Inoltre, poiché l’inerenza non è una predicazione di tipo essenziale, giacché non resta all’interno di una colonna secondo il modello del cursore, essa
esprimerà sempre o un “proprio” (se dà luogo ad rapporto convertibile di predicazione)
o un “accidente” (se dà luogo ad un rapporto non convertibile di predicazione).
Questa dottrina non differisce da quella che Aristotele presenta negli Analitici secondi, in cui viene, anzi, spiegata ancor più chiaramente ed esplicitamente che nelle Categorie.
Ciò che esprime la sostanza è ciò che esprime la cosa stessa o una certa determinata cosa della quale si predica; invece, ciò che non esprime la sostanza, ma si dice di qualcos’altro che è un sostrato, il quale non è né uguale a quello né uguale ad una determinazione di quello, sono accidenti, come, per esempio, il bianco detto dell’uomo81.
Ciò che non esprime la sostanza deve necessariamente predicarsi di un qualche sostrato, ed è necessario che non sussista nulla di bianco che sia solo bianco senza essere
qualcos’altro82.
78
Cfr. Categorie 3 a 21-25. Cfr. Pesce, Aristotele, Categorie…, p. 41, n. 20: «Socrate non si
predica di niente, perché può fungere soltanto da soggetto; uomo (specie) si predica di Socrate
(Socrate è un uomo); animale (genere) si predica della specie (l’uomo è un animale) e degli individui (Socrate è un animale [razionale]); le differenze si predicano della specie (l’uomo è razionale) e degli individui (Socrate è razionale)». Anche le differenze, infatti, appartengono
all’ambito della predicazione dell’essenziale e comportano, pertanto, sinonimia.
79 Cfr. Categorie 1 a 6-12.
80 Categorie 3 b 2-9.
81 Analitici secondi, 83 a 24-28.
82 Analitici secondi, 83 a 30-32.
313
Il testo pone bene in luce l’asimmetria che intercorre tra la sostanza e le restanti nove categorie: quella esprime qualcosa in se stessa; queste devono necessariamente predicarsi di una sostanza che funga da sostrato, al quale attribuire o una quantità, o una
qualità, o una relazione, o una determinazione spaziale, o una determinazione temporale, o una posizione, o un possesso, o un agire, o un patire. Ciascuna di queste determinazioni categoriali non può sussistere in quanto tale, ma deve inevitabilmente essere determinazione di qualcosa. Riprendendo l’esempio che il nostro autore pone negli Analitici secondi, se noi indichiamo una qualità, ad esempio il colore bianco, questo non potrà in alcun modo sussistere solo in quanto qualità, ma dovrà essere qualità di qualcosa,
e precisamente di una sostanza. Si vede, allora, bene, come ci sia un’istanza relativa ed
intenzionale nel cuore di tutte le categorie diverse dalla sostanza: ciascuna di esse è una
determinazione relativa ad una sostanza.
L’«essere in», che viene, così, a presentarsi in maniera tanto distante dal «dirsi di»,
differisce da quest’ultimo anche sotto un altro aspetto. Come abbiamo visto, sia il nome
sia la definizione delle cose che sono dette di un soggetto vengono predicati del soggetto; in altri termini, la predicazione implica sinonimia.
Invece, delle cose che sono in un soggetto, per la massima parte né il nome né la definizione saranno predicati del soggetto; ma per alcune nulla vieta che il nome sia predicato del soggetto, la definizione invece è impossibile. Ad esempio bianco, che è in un
soggetto, nel corpo, è predicato del soggetto - infatti un corpo si dice bianco -, ma la
definizione di bianco non sarà mai predicata del corpo83.
Nel caso dell’inerenza, nella maggior parte dei casi, né il nome né la definizione
vengono predicati del soggetto (la sinonimia viene qui, in ogni caso, esclusa); a volte,
tuttavia, può succedere che si diano casi di omonimia. Risulta evidente, dall’esempio,
quanto ciò accada raramente, poiché discende da alcune particolari inflessioni della lingua greca. Qui la grammatica italiana ci aiuta a capire l’esempio aristotelico, senza particolari stravolgimenti. Quando noi attribuiamo una qualità, ad esempio il colore bianco,
ad una sostanza, ad esempio un corpo, affermando: «il corpo è bianco», non intendiamo
certo dire che il corpo è un colore di una superficie che rifletta tutte le radiazioni visibili
emesse dal sole, avendo assunto questa come definizione di bianco. Il discorso definitorio del bianco non potrà mai predicarsi del corpo, perché la definizione di corpo è eterogenea rispetto alla definizione di bianco84. In realtà, è come se stessimo, più correttamente e rigorosamente, dicendo: «il bianco è nel corpo», cioè enunciando una predicazione di tipo «essere in». Il termine bianco, presente nelle due affermazioni che abbiamo appena presentato, viene usato con una valenza grammaticale diversa: in un caso, in
«il bianco è nel corpo», esso è un sostantivo che designa propriamente il colore;
nell’altro, in «il corpo è bianco», esso è un aggettivo attribuito ad una sostanza che ha
83
Categorie, 2 a 27-34. Così anche in Categorie, 3 a 15-21: «Inoltre delle cose che sono in un
soggetto nulla impedisce che il nome talvolta sia predicato del soggetto, ma la definizione è impossibile; invece delle sostanze seconde sia la definizione che il nome sono predicati del soggetto - infatti la definizione di uomo si predicherà di un certo uomo, ed anche quella di animale -:
cosicché la sostanza non potrebbe essere tra le cose che sono in un soggetto».
84 È questa la distanza maggiore rispetto al «dirsi di» della predicazione essenziale. La nozione
di Socrate, ad esempio, non è estranea o incompatibile con la definizione di uomo; Socrate, anzi, non potrà essere adeguatamente definito che attraverso la definizione di uomo. Della sostanza prima, in quanto intesa come materiale, sensibile, non c’è una definizione; in quanto intesa
come forma, invece, può ricevere definizione come spiegazione dell’essenza. Questo sarà meglio spiegato ed approfondito nella parte dedicata alla Metafisica.
314
ricevuto il bianco come sua qualità. In greco, questo è reso possibile dal fatto che lo
stesso termine, leukÕn, nel primo caso, è un aggettivo sostantivato, di genere neutro; nel
secondo caso, è un aggettivo a tutti gli effetti, al genere neutro, perché concordato con il
termine, neutro, sîma, «corpo». Questo fatto, che è la coincidenza delle terminazioni
del sostantivo e dell’aggettivo, è puramente casuale, e non capita molto spesso.
In altri casi, in cui intendiamo predicare qualcosa di una sostanza, se vogliamo, ad
esempio, dire che la virtù del coraggio è in Socrate, cioè che Socrate possiede coraggio,
affermiamo: «Socrate è coraggioso», facendo, evidentemente, uso di un paronimo. La
stessa cosa vale nel caso in cui vogliamo dire che Socrate possiede la scienza della
grammatica, ed affermiamo: «Socrate è grammatico»85. Si tratta, dunque, di un espediente linguistico, di cui ci serviamo per riferire una qualità ad una sostanza.
3.1.3. I paronimi e la categoria della qualità
Il concetto di paronimia, presentato nel capitolo primo delle Categorie come segue
“Paronime”, infine, si dicono le cose che vengono nominate in base a un certo nome da
cui, però, differiscono per la terminazione. Ad esempio, il grammatico deriva dalla
grammatica e il coraggioso dal coraggio86
viene ripreso nel Capitolo 8 per spiegare il rapporto che, nella maggior parte dei casi, si
viene ad instaurare tra una qualità e la realtà da essa qualificata. Nella maggior parte dei
casi (™pˆ tîn ple…stwn), infatti, - sostiene Aristotele - le realtà qualificate stanno con le
qualità corrispondenti in un rapporto di paronimia87.
Tre sono gli esempi che Aristotele porta nel Capitolo 8: a. il bianco dalla bianchezza,
b. il grammatico dalla grammatica, c. il giusto dalla giustizia. Uno di essi è lo stesso
presentato già nel primo Capitolo, appena citato: quello del grammatico (Ð grammatikÕj), cioè di colui che possiede la scienza della grammatica, e da tale scienza (¢pÕ
tÁj grammatikÁj) deriva la propria denominazione. All’esempio del grammatico, si
aggiungono quello dell’individuo bianco (Ð leukÕj), così chiamato a partire dal colore
che lo determina, e cioè la bianchezza (¢pÕ tÁj leukÒthtoj)88, e quello della persona
giusta (Ð d…kaioj) che deriva la propria denominazione dalla virtù che possiede, la giustizia (¢pÕ tÁj dikaiosÚnhj).
Si noti che le realtà qualificate che si dicono in modo paronimico mutuano le loro
denominazioni dalle qualità che possiedono e che determinano il loro essere. I paronimi,
dunque, che, stando alla definizione data nel Capitolo 1, sono individuati da un fenomeno esclusivamente linguistico, esprimono, invece, un rapporto di inerenza di cui il piano
terminologico è solo una veste esteriore.
Le realtà qualificate, come si diceva poc’anzi, stanno con le qualità corrispondenti in
un rapporto di paronimia nella maggior parte dei casi (™pˆ tîn ple…stwn), non quindi
in tutti. Ci sono dei casi, infatti, in cui i qualificati non costituiscono dei paronimi. E
questo può avvenire per due diversi ordini di ragioni:
1. In alcuni casi, le realtà qualificate non possono essere dette paronimicamente a
partire dalle qualità corrispondenti perché tali qualità non hanno dei nomi. Ad e85
I due esempi di paronimia sono quelli presentati da Aristotele nel primo capitolo. Cfr. Categorie 1 a 12-15.
86 Categorie 1, 1 a 12-15. Si veda Supra, p. ***.
87 Cfr. Categorie 8, 10 a 29-32.
88 Esempio citato anche in Categorie 5.
315
sempio, Ö dromikoÝj, e cioè chi è valente nella corsa, il buon corridore, viene
così chiamato non perché deriva il nome paronimicamente da qualcosa, ma perché possiede un’attitudine naturale alla corsa.
2. In altri casi, pur avendo le qualità un nome, le realtà qualificate da esse non vi derivano paronimicamente il proprio nome. È il caso dell’uomo moralmente retto (Ð
spouda‹oj), che si dice tale perché possiede la qualità della virtù, ma non deriva
dal termine ¢retÁ la propria denominazione. Ma questo - aggiunge Aristotele accade in pochi casi.
Il significato di paronimo presente nel capitolo primo trova, quindi, la sua funzione nel
capitolo 8, in cui risulta chiaro che «[…] la paronimia è senz’altro la chiave principale
per risolvere, in modo esplicito dal punto di vista linguistico, la relazione tra qualità ed
ente qualificato; purtroppo non è esaustiva»89.
4.2. Valore e funzione dei capitoli 1-3: le cose dette con connessione e senza connessione e i quattro gruppi di enti
4.2.1. Le categorie: cose dette senza connessione
I legÒmena, si dice nel capitolo secondo, possono essere detti secondo connessione
(sumplokÁ) oppure senza connessione. La sumplokÁ non è, come si è visto, un qualsiasi tipo di connessione, di unione, di composizione tra parole, ma precisamente quella
connessione che