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teatri in asia

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Storia del teatro
Le idee e le forme dello spettacolo dall'antichità a oggi - Luigi Allegri
8. Teatri in Asia
8.1 Vedere altri teatri
I teatri in Asia non hanno solo tratto nutrimento dall’ecosistema culturale che li ha visti nascere, ma hanno
a loro volta contribuito a forgiarlo facendosi a proprio modo agenti attivi della storia di cui erano e sono
parte.
Ruolo di particolare rilievo nella nascita, sviluppo e significazione dei teatri asiatici lo giocano le fedi e,
ancor di più, le connessioni con il mito. Nel mito origina il teatro e nel mito esso trova giustificazione e
valore oltre che temi, eroi e vicende da rappresentare. Il mito in Asia, non si e’ ancora intiepidito giocando
un ruolo attivo nel quotidiano e trovandosi in una peculiare forma di continuità con la storia.
Un esempio possibile e’ la trance sciamanica che, in manifestazioni e gradazioni differenti, emerge i
contesti performatico coreani, indonesiani, mongoli e tibetani. Un rapporto biunivoco lega il teatro alla
storia della cultura che lo ha visto nascere e svilupparsi: solo tutelando questo legame e’ possibile un
discorso sul teatro in Asia che minimizzi il rischio di fraintendimenti o interpretazioni che distorcano
l’oggetto osservato decontestualizzandolo, ponendolo cioè al di fuori della storia che gli e’ propria.
• “Orientalismo” lo ha definito Said (1991) un termine dall'accezione negativa cui corrisponde un modo di
guardare l'Orienta incardinato nel “posto speciale che questo occupa nell'esperienza europea”, un modo
che rende l'Oriente addirittura superfluo, essendo il discorso su di esso una costruzione discorsiva interna
agli orizzonti del sapere occidentale. Ma Gramsci, al quale Said guarda, svelava: “E' evidente che Est e
Ovest sono costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori dalla storia ogni punto della
terra è Est e Ovest nello stesso tempo”. E infatti Said palesa che l'Oriente e l'Occidente sono entità
culturalmente e storicamente definite di per sé.
Da ciò si deduce che è necessario discostarsi per traguardare ciò che in realtà si situa oltre l'orizzonte a noi
familiare. Non si tratta di abbandonare, o peggio, abiurare i sistemi di valori che ci sono propri. Piuttosto di
considerarli criticamente e di arricchirli, dando la possibilità ad altri sguardi di interesse con essi una
relazione dialettica.
Il Novecento teatrale europeo più inquieto e votato alla ricerca di un'identità e di un'etica dell'arte nuove
ha guardato a Oriente per meglio perseguire i propri traguardi. Certi incontri hanno saputo entrare nella
mitologia della scena novecentesca: la folgorazione di Artaud per il teatro balinese o l'influenza della
recitazione di Mei Lanfang nella definizione dello straniamento brechtiano. Più assidue e consapevoli le
incursioni orientali delle generazioni successive – da Grotowski a Barba a Brook – primariamente tese a
fare tesoro di conoscenze ed esperienze spendibili in patria.
A oggi, gli scambi tra Oriente e Occidente si è venuto intensificando e ha avuto impatto sulle scene di
entrambe le sponde interessate. In tal modo è stata favorita la nascita di una generazione di performers che
qualcuno ha definito “interculturali”: uomini di teatro capaci di mediare tra differenti culture sceniche e di
competere con i limiti stabiliti dei generi di tradizione.
Se non esiste una cultura che possa essere individuata con precisione e oggettivamente restituita, ne deriva
che non esiste una cultura asiatica, né tantomeno un teatro asiatico fatto di costanti e similitudini
(impossibile individuare un’univoca storia dell’Asia). E’ necessario, quindi, spostare l'attenzione alle
questioni di fondo sulle quali ogni tradizione si è interrogata trovando di volta in volta risposte originali.
E' doveroso precisare che in questo capitolo sarebbe stato corretto parlare sempre di teatro-danza e
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di attore-danzatore, ma che per economia di linguaggio è stato espresso nei termini “teatro” e “attore” o
“danza” e “danzatore”.
8.2 Il teatro dei codici: fissare, affermare, trasmettere il sapere
L’Asia può essere ritenuta la terra dei codici. Il termine “codice” induce immediatamente a pensare a un
sapere messo per iscritto, ma la scrittura non e’ l’unica tecnica di fissazione rinvenibile (solamente alcune
tradizioni teatrali possiedono trattati scritti o istoriati).
Il trattato teatrale scritto, quando presente, e’ in genere precluso agli allievi che attingono agli
insegnamenti in esso contenuti per tramite del maestro, la cui maturità artistica ed etica o spirituale
assicura la capacita’ di leggere e interpretare correttamente trattati complessi e a volte esoterici. Tutti i
trattati scritti sono testi ibridi poiché’ trovano compimento in presenza di un maestro che ne colmi i
sottintesi o ne declini i contenuti in scena e nel training degli allievi.
La prevalente forma di trasmissione tra le generazioni e’, dunque, quella diretta tra maestro e allievo.
L’esistenza di un codice dato e la guida di un maestro che mantenga l’allievo negli argini della tradizione
non devono condurre alla formazione di attori uguali gli uni agli altri, ma devono mettere gli attori nelle
condizioni di manifestare la propria cifra personale.
Trattati, maestri e allievi, in sinergia tra loro, riescono a mantenere vive tradizioni di lungo corso
preservandone le forme codificate ed evitando al contempo l’entropia.
La fissazione di un trattato risponde a molteplici esigenze. La prima e’ la necessità di definire un canone,
dare cioè a un’ipotesi scenica un’identità precisa, riconoscibile e gestibile: chi ha scritto un trattato o ha
originato una tradizione acquisisce l’autorità della disciplina.
Escludendo oggi e pochi casi isolati nel corso della storia, gli attori sono sempre stati relegati ai gradini piu’
bassi ella piramide sociale.
I fondatori non mancano mai di far discendere direttamente la pratica teatrale o la genealogia d’arte da
episodi mitici o da divinità. Da questo legame con il mito si sostanzia per simmetria la funzione e
l’accettazione sociale ambite dal teatro e dalla sua schiatta in terra. Il più delle volte gli attori e il loro
magistero erano accettati e apprezzati nella cornice temporalmente limitata della festa, della celebrazione
culturale o rituale per ritornare ad essere considerati, come si appellavano gli attori kabuki nel Giappone
del XVII secolo “mendicanti che dormono sulle sponde dei fiumi” appena smessi i panni del personaggio.
Al di là delle costanti individuate – codificare, sancire, affermare, trasmettere un sapere – la trattatistica
teatrale asiatica è varia quanto i generi che vi si riferiscono. In alcuni casi sono testi rivelati, donati agli
uomini delle divinità o rubati a esse in sogno o durante sessioni di meditazione, in altri frutto
dell'esperienza pratica e della riflessione di eccezionali uomini di teatro, in altri ancora è la visione estetica
di un monarca a farsi canone di una spettacolarità che ne rifletta il gusto, la magnificenza e la maestà.
Il Natyasastra
Il Natyasastra, trattato sull'arte recitativa dell'India classica, è un testo rivelato nato dalla mente di Brahma,
il creatore, che ne ha l'immediata visione in risposta alla sollecitazione di Indra, re degli dei, il quale, in
tempi di decadenza e corruzione dei costumi, fa sua l'esigenza di un divertimento che potesse essere di
conforto per gli uomini di tutte le classi sociali, anche quelle solitamente non ammesse al sapere dei testi
sacri. Brahma definisce la sua creazione “quinto Veda” (veda= “conoscenza”) rimarcandone l'eccezionalità:
è questo un appellativo tributato a quei testi che possono essere considerati una sorta di completamento
del sapere vedico della Quadruplice raccolta, raccolta sapienziale a fondamento dell'induismo.
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Per far sì che la creazione di Brahma giungesse agli uomini in forma comprensibile, fu richiesto l'aiuto di
Bharatamuni, il saggio Bharata, che ne derivò il Natyasastra in trentasei capitoli e coinvolse i suoi cento figli
per la prima rappresentazione teatrale di sempre: il sostantivo bharata indicava in antichità la comunità
degli attori. Fissato in sanscrito su precedenti fonti orali tra il II secolo a.C. ed il II secolo d.C., ma
sicuramente rielaborato almeno fino al V, mantiene traccia della sua origine orale nel ritmo della
versificazione e nelle reiterazioni funzionali alla memorizzazione.
Il termine natya, reso in genere con “dramma”, ha come radice nat, “danza”, tanto che il suo senso più
esteso suggerisce l'idea di azione scenica in ragione della sua prossimità concettuale all'abhinaya:
quell'insieme di elementi espressivi che il danzatore usa per creare la relazione con il pubblico. Gli elementi
sono:
1) angika abhinaya = gestualità corporea
2) vacika abhinaya = comunicazione verbale
3) aharya abhinaya = apparato scenico e mascheramenti
4) sattvika abhinaya = espressione dei sentimenti.
Assieme al natya, danza significante ossia semantica, il Quinto Veda si occupa anche della danza pura,
astratta detta nrtta.
Finalità della rappresentazione è l'assaporamento del rasa (“succo”, “gusto”) da parte del pubblico. Il rasa
risiede nella mente dello spettatore ma è compito dell'interprete produrre la combinazione perfetta di
sentimenti e stati emotivi affinché una potente esperienza estetica possa condurre alla beatitudine
suprema della liberazione.
Il trattato affronta ogni possibile pertinenza teatrale, dalla forma e dimensione dei teatri alla necessità di
aprire una rappresentazione con la cerimonia di purificazione, fino alle regole, date nel XX e XXI capitolo,
della composizione drammatica. Il IV capitolo ha ispirato uno straordinario trattato di pietra ancora oggi
fruibile nelle 108 formelle scolpite sulle pareti dei gopura (torri) del tempio di Siva Nataraja (FIG.8.1) a
Chidambaram. Risalenti al XIII secolo, i bassorilievi riproducono una danzatrice (devadasi, letteralmente
“sposa di Dio”) accompagnata da un percussionista e un suonatore di cembali, di dimensioni minori, a
indicare che la scena si riferisce a un'azione in esecuzione.
→ Lo studioso Venkataraman Raghavan (1908-79) e la danzatrice Rukmini Devi (1904-86) emendarono gli
accenti più sensuali delle danze delle devadasi e, guardando ai modelli estetici forniti dagli antichi trattati,
formalizzarono un genere di teatro-danza che risolve in sé il paradosso di essere simultaneamente antico e
contemporaneo. Il suo insegnamento fu disciplinato nella rinomata accademia di danza Kalakshetra (luogo
sacro delle arti) fondata da Rukmini Devi nel 1936. Il bharatanatyam è probabilmente oggi il genere indiano
di tradizione che vanta più allievi nel mondo.
Il ‘Cham Yig
Nel 1951, le armate cinesi occuparono militarmente il Tibet annettendolo alla Repubblica Popolare da poco
nata: la furia iconoclasta con cui si vollero affermare i principi rivoluzionari portò alla distruzione di
numerosi templi e delle tradizioni a essi collegate. Tra ciò che si perse quasi del tutto rientrano i cicli rituali
'cham danzati da monaci mascherati come forma di meditazione in movimento, utili ai fedeli per la
comprensione delle sottili ed esoteriche verità del buddhismo lamaista e alla comunità tutta per la capacità
di esorcizzare le influenza negative.
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A partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento in Tibet si è tornati lentamente a riallestire i 'cham
che, per lungo tempo, erano stati eseguiti solo nella capitale della diaspora tibetata in India. Il governo
tibetano in esilio, consapevole dell'importanza culturale del 'cham e delle altre manifestazioni
performative, istituì nello stesso anno il Tibetan Institute of Performing Arts.
La distruzione dei templi comportò anche la distruzione delle biblioteche annesse la scomparsa di numerosi
'cham yig, testi sacri e al contempo manuali di danza nei quali, dalla fine del XIV secolo, trovarono
codificazione scritta le danze 'cham tramandate a lungo oralmente, in occasione della fondazione del
monastero di Samye.
Tra i testi scampati alla distruzione vi è il 'cham yig attribuito al V Dalai Lama (detto il Grande Quinto),
fortunatamente raccolto e tradotto negli anni Cinquanta del secolo scorso. In esso è scritto a proposito
delle tecniche di danza: “Il corpo dovrebbe essere capace di assumere le posture assunte in precedenza
dagli dei quando eseguirono una danza accompagnata dalla musica. La voce dovrebbe rombare come un
tuono quando si proferiscono i mantra segreti. La mente dovrebbe ricevere un addestramento spirituale
adeguato.
Di conseguenza, una danza rituale così importante non ammetteva improvvisazioni ed esigeva una
precisione formale minuziosa, essendo il 'cham finalizzato alla doppia identificazione tra il monaco
danzatore e la divinità evocata, e tra gli spettatori e le divinità presentificate. Ogni elemento doveva essere
al suo posto come in un mandala (“cosmogramma”) e affinché non venisse modificata la partitura celeste
un 'cham dpon (“maestro di danza”) soprassiedeva ogni esecuzione. La danza definita dal trattato e’ una
forma di espressione totale
Il trattato, strutturato in sezioni e ulteriori livelli di sottosezione che ne frammentano i contenuti in piccole
unità testuali, usa una lingua ridondante e allitterativa per facilitarne la memorizzazione e può essere
considerato una partita che indica con dovizia di dettagli in cosa consiste la danza e quali oggetti siano
necessari.
I trattati di Zeami
A Zeami Motokiyo, geniale e poliedrico uomo di teatro, si deve la prima codificazione, del teatro no
giapponese, una delle più antiche tradizioni sceniche giunte come arte viva fino all'oggi.
Voluto a corte come favorito dello shogun Ashikaga Yoshimitsu, un mecenate illuminato, Zeami ottiene per
sé e per i suoi attori una collocazione sociale inusitata. In questa ascesa i trattati ebbero un ruolo non
marginale. Zeami ne inizia la stesura nel 1400 per terminarla quasi quarant'anni dopo. Egli scandaglia ogni
aspetto pertinente al teatro e lo fa strutturando una via etica all'estetica. La lettura cronologica dei suoi tsti
assomiglia alla stratigrafia dell’evoluzione di un pensiero estetico e propriamente teatrale continuamente
messo alla prova della scena e capace di trasformare un teatro di origine e tenore popolare in un maturo
teatro d’arte, il no.
Il Fushikaden (Del trasmettersi del fiore dell'interpretazione), trattato in sette libri scritto tra il 1400 e il
1418, è lo scritto zaemiano più esteso e in esso si ritrova la maggiora parte delle questioni affrontate e
precisate negli altri trattati. La breve premessa che lo apre è una rubrica sintetica dei contenuti e dei valori
che lo animano, segnalando le origini divine del genere, la considerazione che ne ebbero gli antichi
regnanti, e bellezze della natura e della poesia come ispirazione, la dedizione totale che questa via richiede,
il divieto di modificare lo stile codificato, l'esaltazione della grazia e il bando a ogni volgarità.
La tradizione segreta è la modalità designata da Zeami per non depauperare il senso profondo di un sapere
esoterico e complesso fissato per iscritto. La sua declinazione applicata è invece assegnata alla tradizione
orale, che edifica il legame tra maestro e allievo attraverso le generazioni.
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I principi estetici posti da Zeami sono:
1) La consonanza del kokoro (“cuore”) dell'attore – la sua unità psico-fisico-emotiva – con quella del kokoro
del pubblico e del cosmo;
2) lo jo-ha-kyu (“principio-sviluppo-finale) che disciplina il procedere drammatico su una precisa alternanza
di picchi emotivi;
3) lo yugen (“incanto sottile”) che incarna l'orizzonte estetico fatto di sobrietà, eleganza, bellezza austerae
grazia.
Hana (“fiore”) è la metafora di più difficile definizione del vocabolario estetico zaemiano. Il fiore, effetto di
una eccellente interpretazione che interessa il pubblico, può essere di un momento o duraturo. Solo
quest'ultimo è il fiore autentico, poiché il suo sbocciare e appassire sono a discrezione dell'attore.
L'apparire del fiore, apice del percorso di crescita artistica ed esaltazione della relazione teatrale, conduce
al meraviglioso, una dimensione della bellezza che sfugge a ogni definizione. Da una metafora zen Zeami
deriva la definizione dello “Stile del fiore meraviglioso”, assegnato al nono giardino, il piu’ alto della scala
ideale che l’attore dovrebbe compiere nel suo percorso di elevazione artistica e umana.
Giunto a questo punto l'attore perviene alla “non-recitazione”, poiché non vi è più discrimine tra l'attore e
l'uomo che ha dedicato la vita a rivelare l'attore che celava in sé.
Gli scritti zeamiani, dopo secoli nei quali si credevano perduti, sono fortunatamente riapparsi nel 1909
suscitando un viso interesse tra studiosi e uomini di teatro di tutto il mondo.
8.3 Il teatro di figura: natura dell’artificio
Marionette, burattini, ombre e figure costituiscono nel loro insieme il cosiddetto “teatro di figura”, un
teatro che in Asia non sconta alcuna forma di inferiorità rispetto al teatro d'attori. E’ opportuno marcare
tale sottolineatura in via preliminare per ribaltare un sentimento ormai abbastanza sedimentato in
Occidente, quel sentire che gia’ Gordon Craig stigmatizzava nel momento in cui prefigurava la
Supermarionetta come ideale superamento dell’approssimazione professionale degli attori del suo tempo.
Craig doveva la sua forza anche al legame, ormai sbiadito ma inequivoco, con il divino.
Il legame dei vari generi di teatro di figura asiatici con il divino non è mai venuto meno. I teatri di figura
assolvono funzioni medianiche, liminali, dando voce e corpo agli archetipi collettivi o agli eroi eponimi,
ponendo in continuità il mito e la storia e rendendo possibile il dialogo tra i diversi piani – ultraterreno,
terreno e ctonio – dell'esistenza.
Una possibile classificazione associa ombre e figure al culto dei defunti, marionette e burattini alla
rievocazione degli archetipi collettivi.
L'oggetto inanimato, privo di emozioni proprie, di tratti somatici e conformazioni fisiche riconducibili a uno
specifico individuo, realizzato il più delle volte secondo prassi ritualmente definite, è il ricettacolo ritenuto
perfetto per animare in scena il personaggio, conferendo il massimo della naturalezza a ciò che dovrebbe
coincidere con il massimo dell'artificialità.
I primi a essere consapevoli di tale qualità sono proprio gli attori che, più volte, hanno attinto alle modalità
esecutive di marionette, burattini, ombre o figure per acquisire efficacia scenica e cogliere i favori del
pubblico. Si possono ricordare i prestiti degli attori kabuki dalle movenze delle marionette bunraku in
Giappone o, ancora, il caso del nang e del khon, rispettivamente teatro delle ombre e teatro mascherato
thailandese. La derivazione del secondo dal primo è evidente nell'acting degli attori, basato su movimenti
orizzontali e posture che esaltano la silhouette del corpo, e nell'uso di maschere che obliterano i volti degli
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interpreti.
Sempre in Thailandia esiste una sorta di genere intermedio, il nang tit tua khon, nel quale ombre e attori –
originariamente dei manipolatori - condividono la scena esprimendosi attraverso stilemi comuni.
Un cenno deve essere dedicato al manipolatore: attraverso il suo magistero, agisce e mette in vita,
operando di frequente a vista del pubblico, quanto resterebbe inerte senza la sua presenza. Un performer
che il più delle volte assomma in sé molteplici attitudini essendo al contempo artigiano (realizza i suoi pezzi
conoscendone le caratteristiche), attore (non solo muove ma spesso dà voce ai personaggi agiti) e
sciamano.
In Indonesia il dalang (“manipolatore”) può essere ritualmente iniziato, potendo così condurre alcuni riti di
guarigione o purificazione nell'ambito di spettacoli di ombre o di burattini: un vero e proprio sacerdote e
guaritore.
Wayang Kulit: le ombre giavanesi
Con wayang kulit si indica un genere di teatro di figura diffuso in Indonesia che conta una serie di varianti
territorialmente connotate. Le due varianti principali, per complessità e storia, sono quelle di Giava e di
Bali: pur condividendo un sostrato comune i due modelli palesano significative differenze formali e
sostanziali che dipendono in buona misura dalla maggiore (Giava) o residuale (Bali) permeabilità all'influsso
islamico. Le ombre di Giava sono piu’ allungate e stilizzate in risposta alla prescrizione che vieterebbe la
raffigurazione del corpo. Le prime testimonianza del wayang kulit risalgono al IX secolo, mentre
l’islamizzazione inizia a diffondersi nel XIII secolo innestandosi su una precedente base induista che
permane ancora riconoscibile. L’Islam non ha sostituito in toto l’induismo.
Le ombre del wayang kulit hanno una doppia natura: realizzate con pelle di bufalo acquatico attraverso una
serie di lavorazioni atte a tenderle e a renderle traslucide, una volta ritagliate nella foggia richiesta dal
personaggio vengono dipinte su ambo i lati perché il pubblico può decidere di assistere allo spettacolo dal
lato del manipolatore godendo la vista di figure, oppure di fruirlo dal lato dello schermo di proiezione
trovandosi di fronte a delle ombre.
Il vocabolo wayang significa contemporaneamente “ombra”, “burattino”, “teatro” e “spettacolo”: il termini
che vi si associa permette di indicare il genere teatrale specifico cui ci si vuole riferire. Il suo etimo ribadisce
la sua ascendenza rituale connessa all'evocazione degli antenati.
Temi privilegiati delle rappresentazioni sono gli episodi dell’epica indiana, compendio ed esaltazione dei
valori induisti strutturati sull’inesauribile lotta tra bene e male, luce e ombra, dei e demoni e ogni altra
opposizione binaria di poli complementari.
Tre bacchette (una fissata, al corpo, le altre due agli arti superiori mobili) sono usate dal dalang per la
manipolazione. Da solo può gestire fino a sessanta ombre dando a ognuna una voce diversa timbricamente
tarata sulle connotazioni psicologiche del personaggio e usando registri linguistici propri al rango sociale
dello stesso.
Uno spettacolo, della durata di nove ore comprese tra le nove di sera e le sei del mattino, è suddiviso in tre
sezioni, tutte scandite dall'apparizione del kayon, o gunungan, l'ombra ritenuta più importante e
simboleggiante la montagna sacra sede degli dei o l'albero della vita.
Nel cosmo rappresentato dal wayang kulit ogni cosa ha un posto e buoni e cattivi sono immediatamente
riconoscibili per la loro collocazione codificata dalla tradizione.
Il dalang si posizione di fronte al kelir, un telo bianco, seduto su un tronco di banano, come di bananoè il
tronco nel quale sono conficcate le ombre in attesa di essere utilizzate. Verificata la luce della lampada a
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olio, la cui fiamma tremula contribuisce a vivificare le ombre, e la cassa, dove le ombre sono conservate e
che il dalag percuote con i piedi per produrre effetti sonori, lo spettacolo -o il rituale- può iniziare. Sul
piano mistico possiamo associale il kelir al cielo, il tronco di banano alla terra, le ombre all'uomo e il dalang
a dio che porta in vita l'uomo.
Il wayang kulit giavanese ha un repertorio di circa duecento drammi che i dalang si trasmettono oralmente
assieme ai segreti del mestiere. Essi dispongono della libertà di improvvisare e dialogare con gli spettatori.
In queste scene il beniamino del pubblico e’ Semar, grottesco buffone che alla salacità unisce la saggezza
necessaria all’eroe. Alle voci del dalang si uniscono la musica di un'orchestra di metallofoni e un coro
femminile per la parti cantate.
Yokthe Thay: le marionette birmane
(Birmania Myamar)
In Birmania l’influenza induista sulle arti sceniche, differentemente dai paesi circostanti, ha avuto un ruolo
minore rispetto al buddhismo.
Lo yokthe thay, teatro birmano delle marionette, ha sempre goduto di profonda considerazione. Nato su
basi autoctone con apporti culturali esterni – India e Cina in primis – in un periodo compreso tra XI e XV
secolo associava le funzioni rituali a quelle del cerimoniale cortese. Era un divertimento, certo, ma
ammantato di valori e un terreno di dialogo comune tra il monarca e il popolo. Un divertimento ma anche
ammantato di valori e funzioni che trascendono la mera evasione ne facevano uno strumento di
educazione educazione e un terreno di dialogo comune tra il monarca e il popolo: agli spettacoli allestiti a
corte, per esempio, si demandava la comunicazione al sovrano delle lamentele e delle istanze provenienti
dal basso. Gli allestimenti popolari, invece, erano frequentemente satirici e sferzanti il malcostume politico,
tanto da essere stati spesso vietati e i marionettisti incarcerati.
L'intreccio tra potere monarchico e teatro delle marionette ha prodotto un'intensa attività legislativa sullo
yokthe. Un editto del 1776 definisce “basse arti drammatiche” il teatro d'attori, i quali dovevano per questo
recitare a terra, e “altre arti drammatiche” quello di marionette, poiché gli allestimenti potevano avvenire
su piattaforme rialzate. La legislazione più influente sui destini dello yokthe thay si deve all'editto del 1821.
1) Si abroga il precedente divieto di assegnare a una marionetta le fattezze del re che, oltre a essere
ritratto, potrà essere portato in scena in abiti contemporanei;
2) si definiscono rigide norme drammaturgiche;
3) si fissa a 36 il numero di marionette che costituisce un set completo;
4) si stabiliscono orari di inizio e fine degli spettacoli, forme e misure dello spazio scenico, costi degli
ingaggi, permessi da richiedere per allestire uno spettacolo e legno da utilizzare per costruire le marionette.
Le credenze folcloriche sono alla base dei rituali e delle prassi costruttive delle marionette. In giorni ritenuti
fausti dagli astrologi, ad esempio, viene abbattuto un albero (gmelia arborea) e il tronco viene gettato in
acqua: sulla porzione che emerge vengono scolpite le marionette femminili, su quella sommersa le
maschili. Tutto il set di marionette dovrebbe essere realizzato dallo stesso tronco con l’ulteriore
prescrizione che le marionette dei personaggi principali siano ricavate dalla parte alta del tronco, quelle dei
personaggi piu’ umili e degli animali dalla parte prossima alle radici.
Le rappresentazioni a corte avvenivano su una pedana rialzata. Le marionette in quanto oggetti, non erano
tenute a rispettare il divieto di trovarsi sempre a un livello inferiore rispetto al re. Come doppio, o analogo
all’uomo, la replica del monarca, a lungo vietata, doveva essere normata per scongiurare l’insolubile
presenza di due sovrani.
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Le marionette, alte tra i 35 e i 70 centimetri, nascono dall'assemblaggio di varie componenti: la testa e le
mani sono le più importanti. Rivestite di abiti in seta afferiscono a tre gruppi: animali, esseri mitologici e
divinità, esseri umani. Le scene di danza e i combattimenti sono il cimento preferito per i manipolatori che
vogliano incantare il pubblico con il loro virtuosismo.
Le rappresentazioni potevano durare una o piu’ notti ed erano inaugurate da una scena a carattere rituale
senza legami con l’opera.
Lo yokthe thay è ancora oggi considerato una gloria nazionale.
Ningyo Joruri o Bunraku: le marionette giapponesi
I nomi Ningyo Joruri e bunraku, con i quali ci si riferisce al principale teatro di figura giapponese, recano
importanti tracce circa la nascita e lo sviluppo, dai rudimentali burattini delle origini alle sofisticate
marionette odierne.
La presenza di burattini e fantocci in Giappone è documentata dall'VIII secolo in associazione al culto. Usati
come sussidi nelle pratiche sciamaniche o come sostituti rituali in azione di danza e combattimento, era
loro riconosciuta l'attitudine a incorporare il divino più che a rappresentarlo. A partire dal X secolo
l'impiego dei burattini passò nelle mani di artisti girovaghi che li adoperarono per intrattenere il pubblico
popolare sancendo uno slittamento verso un loro uso ludico.
Sul finire del XVI secolo era sorto sul greto del fiume Kamo a Kyoto un variegato quartiere dei divertimenti
animato da artisti e intrattenitori vari. Tra questi il narratore Menukiya Chozaburo il quale, assicurandosi la
collaborazione di un burattinaio e un suonatore di shamisen (liuto a tre corte), allestisce l'opera
Junidanzoshi (“Volume in dodici sezioni”), dove un personaggio storico oggetto di frequente mitizzazione
nelle arti colte e popolari, si distingue non per le marziali gesta eroiche ma per l’appassionata storia
d’amore con la principessa Joruri: medesima passione avvampa i cuori dei primi spettatori che finirono per
attribuire al genere che l’aveva artisticamente fatta nascere il nome dell’eroina. Il termine ningyo indica la
bambola o il burattino
Le tre arti (quella del narratore, burattinaio e suonatore) concorrono a creare una proposta teatrale
unitaria, essi corrono su binari paralleli ma autonomi. Con il consolidamento del genere i tre linguaggi si
preciseranno, portando i rispettivi interpreti a forme di spazializzazione altissime. All’'inizio saranno i
narratori -forti dell'antica tradizione del teatro di narrazione nipponico- a coglierei maggiori favori del
pubblico e a godere del maggiore prestigio sociale in quanto “letterati”.
La tradizione orale del repertorio lascia presto spazio alla codificazione scritta.
Lo sviluppo delle prassi narrative e drammaturgiche ha implicitamente invocato burattini più evoluti e
adeguati. Nel 1734 avviene un passaggio epocale: dai burattini agiti da un solo manovratore si passa a
marionette, progressivamente arricchite di meccanismi e parti mobili (occhi, bocca, sopracciglia, falangi),
agite da tre manipolatori in contemporanea. Da quel momento l'innovazione diventa la norma, ancora oggi
in uso. I tre manipolatori devono agire con una coordinazione assoluta per consentire alla marionetta, che
può giungere a un metro e più di altezza, la grazia e l'artificiale naturalezza che la connotano: il
manipolatore principale (omozukai) muove la testa e il braccio destro, lo hidarizukai il braccio sinistro elo
ashizukai, il più basso in rango, i piedi. La manipolazione avviene a vista del pubblico -sebbene per
convenzione i manovratori siano invisibili- e solo l'omozukai può apparire in scena a volto scoperto, gli altri
indossano un costume e un cappuccio nero sul capo.
All'omozukai è richiesta un'espressione neutra, impassibile, poiché è la marionetta che deve esprimere il
sentimento.
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Il tayu, che assieme al suonatore di shamisen costituisce un complesso chiamato chobo, fornisce da solo la
voce a tutti i personaggi differenziando l'eloquio sulle caratteristiche psicofisiche degli stessi e palesando in
modo enfatico le loro emozioni attraverso una mimica facciale portata all'estremo.
Dopo l’età dell’oro, la chiusura dei teatri Takemoto e Toyotake poco prima del 1770 porta il genere sull'orlo
dell'estinzione, sebbene a Tokyo riesca a mantenere una qualche popolarità. A risollevarne le sorti,
riaccendendo l'interesse del pubblico, un manipolatore straordinario di nome Uemura Bunrakuken, che
aprirà a Osaka il teatro Bunrakuza nel 1805. A lui si rifà il nome con il quale oggi ci si riferisce al teatro
tradizionale di marionette giapponese: bunraku.
Il sentimento e la tecnica sono rispettivamente il traslato della natura e dell’artificio dal cui connubio
scaturisce l’arte.
8.4 Gli spazi del teatro, la relazione con il pubblico
Alla pluralità dei teatri asiatici corrisponde una pluralità di spazi non riconducibili a una tipologia fissa e
uniformemente diffusa di luogo per lo spettacolo. Manca, in Asia, l'analogo architettonico e concettuale di
quello che in Occidente ha finito per imporsi come “il teatro” comunemente inteso.
Anche dove lo spazio scenico è diventato palcoscenico e il palcoscenico è inserito nel ventre di un teatro
propriamente detto la divisione sala-scena e la frontalità della fruizione sono in qualche modo evitate o
attenuate. Il Giappone offre ottimi esempi in proposito. Il bunraku, colloca il pubblico frontalmente al palco
dove le marionette sono agite, spezzando però questa direttrice con il chobo posizionata su un apposito
palco laterale a scindere l’asse della visione da quella dell’ascolto: al pubblico il compito di ricomporre le
diverse sollecitazioni prodotta dai performers.
Nei teatri kabuki una lunga passerella attraversa la platea collegando il palco al fondo della sala e
funzionando da luogo privilegiato di recitazione per l’attore che si trova fisicamente ad agire in mezzo agli
spettatori. La luce in sala e’ solitamente accesa affinché’ gli attori possano meglio cogliere la presenza del
pubblico. Nei generi comici giapponesi (altro teatro laico) la luce accesa in sala consente il dialogo
l’ammiccamento diretto con il pubblico.
Il mito quale origine più frequente dei teatri asiatici avverte che questi, in molti casi, vivono a cavallo di un
confine difficile da definire, quello con il rito. Le danze ‘cham possono essere lette come teatro, ma per i
monaci danzatori e per chi le fruisce (fedeli) appartengono all’ambito del culto.
Le numerose danze balinesi, ad esempio, possono essere ricondotte a tre categorie connesse agli spazi in
cui vengono eseguite in ragione del maggiore o minore tenore rituale che possiedono.
1) Le danze wali, le più sacre, sono integrate ai rituali religiosi, prevedono un'intensa partecipazione degli
spettatori, comprendono in genere fenomeni di trance e si svolgono nel cortile più interno e sacro del
tempio.
2) Le danze bebali, drammi danzati legati al potere delle corti e alle tradizioni hindu, sono allestite nel
secondo cortile del tempio per intrattenere le divinità e i presenti.
3) Le bali balihan, infine, proposte nel terzo ed esterno cortile del tempio, sono danze secolari che mirano a
divertire il pubblico e di frequente a produrre profitto economico.
Lo spazio scenico asiatico, sia esso prettamente teatrale o meno, è tendenzialmente vuoto, addossando agli
attori il compito di creare allusivamente attraverso l'acting il contesto e gli ambienti in cui la vicenda
avviene.
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Una risaia come palcoscenico: le marionette sull’acqua vietnamite
Esempio unico al mondo, il mua roi nuoc, teatro delle marionette vietnamita, ha trovato nella risaia
centrale del villaggio lo spazio del suo prodursi.
Gli spettacoli di mua roi nuoc non si basano su una precisa drammaturgia, strutturandosi su una seriedi
quadri autonomi che si susseguono senza un filo conduttore.
Soggetto prevalente è la vita del villaggio con i suoi lavori agricoli, i passatemi e gli animali che la animano.
Non mancano scene di rievocazione storica e danze di ninfe, il tutto vivacizzato da fuochi d'artificio che,
oltre a stupire con il loro colorato fragore, suscitano ammirazione per il prodigioso fuoriuscire dall'acqua.
Gli allestimenti iniziano con l'ingresso in scena della marionetta più amata dal pubblico, Teu (letteralmente,
“risata”), personaggio comico e intelligente, abile oratore: portatore della voce del pubblico, introduce
l'elemento satirico, aggiorna la comunità sugli eventi più rivelanti che la riguardano e presenta il
programma della giornata fungendo da ideale ponte tra lo spettacolo e il pubblico. Su un lato della risaia è
allestito un apparato scenico che assomiglia a un tempio con tetto a falde che, al piano più basso, ospita la
danza dei manovratori: la stanza è ampia per consentire la complessa manipolazione che avviene con il
corpo per metà immerso nell'acqua.
Le marionette, realizzate in legno di fico e decorate a lacca per aumentarne l'impermeabilità, sono scolpite
per consentire il miglior galleggiamento. I manovratori le agiscono tramite lunghe pertiche subacquee a
forma di L lungo le quali corrono i tiri per azionare le parti mobili: la forza fisica richiesta è notevole per la
resistenza esercitata dall'acqua.
Un'orchestra con cantanti sottolinea la scena creando la giusto atmosfera.
Nel mua roi nuoc la comunità si aggrega attorno alla risaia-palcoscenico, fonte i vita e di divertimento per la
comunità, in un doppio rispecchiamento:
1) quello reale, prodotto dallo specchio d'acqua,
2) quello simbolico, prodotto dalla rappresentazione che permette al pubblico di riflettere su se stesso
vedendosi messo in scena due volte.
Oggi le rappresentazioni nei villaggi sono sempre più sporadiche, ma il mua roi nuoc è assurto a emblema
della cultura nazionale tanto che si sono fondati un Teatro e una Compagnia nazionale per preservarne la
tradizione. Per questo nella capitale, Hanoi, si allestiscono spettacoli in teatri al chiuso dove la risaia è
sostituita da una vasca e la comunità da un pubblico pagante seduto in poltrone di fronte alla prima.
La decontestualizzazione è evidente quanto lo slittamento funzionale da momento di coesione comunitaria
a spettacolo. Le forme e le tecniche permangono, ma mutuano i presupposti e le finalità.
Butai: il palcoscenico del teatro No giapponese
Le prime recite del teatro no avvenivano sul terreno o sfruttando i padiglioni dei templi nei quali gli attori
erano chiamati a sostegno delle attività rituali in capo ai monaci.
Nella precisazione del codice estetico si giunse anche alla standardizzazione del butai (“luogo della danza”)
già nella seconda metà del XVI secolo (FIG.8.3).
→ La struttura architettonica ricorda quella dei padiglioni templari all'aperto, tanto che anche i teatri
moderni realizzati al chiuso sono caratterizzati da un tetto sorretto da pilastri a copertura delle due aree
performative che li costituiscono: lo honbutai (palco principale) e l'hashigakari (ponte). Più che estetiche, le
motivazioni sono di ordine tecnico e antropologico, poiché i pilastri fungono da punto di riferimento per
l'attore -che indossa in scena una maschera che ne limita alquanto la vista- mentre il tetto sancisce la
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sacralità della superficie che ricopre.
Lo honnbutai ha forma quadrata e misura circa sei metri di lato. Una mensola aggettante lo prolunga sul
lato destro per ospitare il coro, mentre su quello sinistro vi si innesta, con decorso obliquo, l'hashigakari,
anch'esso luogo deputato alla recitazione e la cui lunghezza è variabile.
L'hashigakari collega la scena al dietro le quinte, più precisamente alla kagami no ma (camera dello
specchio), luogo nel quale l'attore protagonista conclude il processo di spersonalizzazione e, seduto davanti
a uno specchio, indossa la maschera come ultimo atto prima di entrare in scena essendosi ormai palesato,
suo tramite, il personaggio.
Gli elementi scenografici sono assenti o ridotti a piccoli oggetti che la convenzione teatrale permette di
amplificare: un ramo di ciliegio fiorito può rappresentare una distesa di colline imbiancate di petali. Sul
fondo scena, alle spalle dell'area in cui si posiziona l'orchestra è sempre dipinto un vecchio pino affiancato,
su una parete che si innesta sul fondo ortogonalmente e che ospita una piccola porta scorrevole, da piante
di bambù: tutti vegetali dal forte valore simbolico.
Sul lato frontale dello honbutai una piccola scala, oggi inutilizzata, permane a raccordare sala e scena
ricordando il tempo delle origini allorchè gli attori, terminata la rappresentazione, la scendevano per
ricevere le regalie dei propri mecenati e signori. Una striscia di ghiaia bianchissima circonda palco principale
e ponte, un margine fisico e simbolico che trasforma lo spazio scenico in una sorta di isola intermedia.
Il pubblico si siede a ventaglio nello spazio compreso tra hashigakari e lato anteriore dell'honbutai
abbracciando l'intera area scenica il cui centro risulta fluttuante in base alla dinamica della
rappresentazione e al punto di vista di ogni spettatore.
Lo spazio scenico del no è, insomma, un cosmogramma precipitato in geografia teatrale.
Tsechu, in Bhutan la comunità si raccoglie attorno alle danze mascherate
Il Bhutan e’ un paese himalayano stretto tra India e Tibet. La presenza tibetana nel Bhutan e’ antica (IX
secolo). Il tratto piu’ continuativo con il Tibet e’ l’elemento religioso.
In linea generale, pur nelle ineludibili differenze dottrinali, simboliche ed esecutive, le danze rituali
mascherate del Bhutan possono essere lette nella cornice gia’ tracciata per i ‘cham yig tibetani. Nella
tradizione autoctona si celebrano con particolare pompa i giorni ritenuti fausti come il giorno della discesa
in terra di Buddha. Il tsechu puo’ considerarsi un festival religioso.
Le comunità del Bhutan sono divise in distretti che si sviluppano attorno a uno dzong, una struttura
architettonica polifunzionale che al proprio interno ospita uffici amministrativi e spazi dedicati ai monaci e
alle pratiche religiose nonché alla formazione e allo studio. E' di base una fortezza, assolvendo anche
funzioni militari, o almeno così era in passato.
I cham sono eseguiti dai monaci nei centri più grandi, da monaci e laici, oppure esclusivamente da laici, nei
villaggi più remoti a significare una permeabilità tra le due sfere in funzione dello scopo rituale da
pervenire: la venerazione delle divinità, da un lato, e l'esorcismo di influenze negative, dall'altro.
Raccolgono vere e proprie folle di fedeli.
Se le danze, con le loro traiettorie circolari attorno al centro ideale dello spazio rituale, e i danzatori, con le
rotazioni sul proprio asse, tracciano le astratte volute di un tanka o di un mandala, espressioni grafiche
della bellezza del divino e della geografia cosmica del creato, il cerchio formato dal pubblico di fedeli che
assistono ne è la cornice.
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8.5 Il corpo scenico e i suoi mascheramenti
I maestri guidano gli allievi sul sentiero che essi stessi hanno già percorso assicurandosi che le basi tecniche
siano puntualmente incorporate al punto da poter essere applicate con precisione e naturalezza. La sfida
per l'attore risiede nel fare propria la tecnica per superarla, nel non soccombere alla fissità del modello ma,
piuttosto, nel riuscire a mostrare la propria cifra interpretativa attraverso lo stesso, rendendolo personale.
La forza comunicativa del corpo, ossia dell'attore, trova un fondamentale sostegno nei costumi, nelle
maschere, nel trucco e negli oggetti che impugna in scena e che per comodità potremmo chiamare
mascheramenti: tutto ciò che materialmente sta addosso all'attore.
Le maschere teatrali asiatiche non nascondono la verità ma la manifestano, la rivelano affinché la si possa
riconoscere. L'importanza dei mascheramenti è amplificata dalla già osservata vuotezza degli spazi scenici.
Sono marcatori semantici tanto sintetici quanto precisi nel veicolare sesso, età, condizione sociale e
peculiarità psicologiche del personaggio.
A prescindere dalla tradizione specifica, si potrebbe affermare che i mascheramenti agiscano sul corpo
dell'attore uccidendolo e al contempo esaltandolo: uccidono, ossia obliterano, la sua contingenza storica ed
esaltano, ossia universalizzano e rendono maggiormente leggibile, il personaggio.
Il corpo Kathakali, un dono del maestro che lo plasma nell’allievo
Il kathakali (“dramma danzato”) è una sintesi felice di danza, canto e musica che mette in scena storie
legate all'epica indiana. L'attore, dispensato dal dover cantare e narrare le vicende, può concentrare tutta
la propria maestria e intenzione interpretativa sul corpo. Non si tratta di una banale traslitterazione mimica
del dettato drammaturgico, ma di una sapiente trasposizione di modelli codificati che non indicano cose
materiali ma la loro sostanza: di un fiore non si restituisce realisticamente la forma, ma in modo allusivo
l'essenza.
Per conseguire tale abilità l'allievo deve sottoporsi, generalmente a partire dai dodici anni di età, a un lungo
training che può durare tra i 6 e i 10 anni di età, sebbene l'addestramento si intenda perpetuo
estendendosi all'intera vita artistica dell'attore.
Il guru (“maestro”) ha come primo obiettivo quello di conferire all'allievo un corpo kathakali, e agli esercizi
finalizzati a sviluppare in tal senso tutti i muscoli -compresi quelli del bulbo oculare- aggiunge lunghe e
dolorose sedute di massaggio: l'allievo giace a terra supino e il maestro ne danza letteralmente il corpo
massaggiandolo con i propri piedi per scioglierne le giunture e donargli la giusta elasticità, forma e
consapevolezza. Il guru è un secondo padre -la relazione tra una figlia e un allievo del guru è percepita
come incestuosa- colui che permette all'allievo già nato come uomo di rinascere come attore.
Pur non trattandosi di un genere propriamente religioso, il kathakali è abitato da divinità celesti e
demoniache nonché da eroi di rango divino.
Gli attori sentono la responsabilità che ne deriva e vivono con attenzione le ore precedenti l'andata in
scena dedicate all'elaborata fase di trucco. - Tale fase, che può durare fino a cinque ore, si svolge in
un'apposita stanza prossima al palco e inizia con la stesura di un colore giallo, simbolo di nobiltà sul volto.
Questo primo velo giallo è temporaneo e verrà tolto per applicare il trucco definitivo del personaggio
interpretato. - Si sancisce così un tempo di preghiera che è votato alla richiesta di non commettere errori in
scena.
L'attore è impegnato in prima persona a truccarsi con l'aiuto di un truccatore. Il fine non è stendere il
colore e incollare gli elementi posticci che arricchiscono il trucco, piuttosto questi sono il mezzo che
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instrada la concentrazione dell'attore verso l'incontro con il personaggio, sono strumenti funzionali
all'impersonificazione. Senza trucco l'attore non potrebbe danzare poiché non avrebbe i mezzi per colmare
la distanza che intercorre tra la sua umanità e la natura altra dei personaggi cui presta temporaneamente il
corpo.
I colori base -verde, rosso, nero, arancione, bianco, giallo- forniscono indicazioni utili a leggere i personaggi
e tracciano una griglia ideale per classificarli in sei categorie.
Il corpo totale degli attori dell’opera di Pechino
Il Jingju (“teatro della capitale”) ha nelle componenti musicali e canore gli elementi fondanti ma trova la sua
completezza nella fusione armonica di recitazione, canto, danza, pantomima e azioni acrobatiche.
La scena, pressochè vuota, se si escludono un tavolo e due sedie rossi che, di volta in volta, possono
rappresentare un letto nuziale come una montagna da scalare o ogni altro luogo, è totalmente consegnata
agli attori, i quali sono interpreti specializzati in uno dei quattro ruoli tipo del jingiu: sheng (personaggi
maschili), dan (personaggi femminili, tradizionalmente interpretati da maschi), jing (facce dipinte) e chou
(clown).
A prescindere dal ruolo in cui si sono formati, tutti gli attori devono padroneggiare le tecniche di recitazione
connesse a canto, dizione, gestualità e movimento per conseguire in scena la capacità evocativa che lo
stilizzato e allusivo linguaggio dell'Opera di Pechino richiede.
Gli attori seguono un lungo addestramento al cui centro, ancora una volta, si trova il corpo (nella sua
accezione estesa di unità psico-fisico-emotiva) che deve connaturare gesti sintetici atti a restituire azioni
complesse: un lungo viaggio attraverso una deambulazione circolare al centro del palco, un balzo con un
frustino in mano per dire che si è saliti a cavallo e così via.
La formazione si fonda su “quattro prerequisiti” -cantare, recitare, proferire, abilità nelle arti marziali e sulle
“cinque tecniche” -uso delle mani, degli occhi, del tronco, andamento, personalità-.
L'attore è supportato da costumi straordinari e connotato da un trucco facciale che è al contempo
elemento di decodifica e prodigio estetico. Tale è il rilievo di questi elementi che molti specialisti hanno
visto nell'interprete del jingju il sostituto materiale della scenografia.
L'attore deve dare corpo a un che di astratto poggiando su un principio estetico diffuso in Giappone per il
quale la natura, solo se rielaborata nell'arte, può assurgere, in quanto artificio, al grado massimo di
bellezza: non dovendo rappresentare una donna ma l'ideale maschile che la sottende, è il corpo maschile,
più di quello femminile, a essere ritenuto capace di un simile conseguimento. L'attore mira a restituire la
quintessenza della femminilità così come un uomo la concepisce, avversando quindi ogni deriva verso
l'effeminatezza.
I pollici nascosti sotto il palmo delle mani a renderle più affusolate, le gambe flesse con piedi discosti e
ginocchia accostate tra loro (attitudine acquisita esercitandosi per ore a non far cadere un foglio di carta
tenuto tra le ginocchia) per un incedere elegante, le misurate torsioni del busto e le inclinazioni del campo
a mostrare l'erotico attaccamento dei capelli sul collo, il biancore del volto e l'eleganza dei costumi hanno
fatto innamorare generazioni di spettatori.
Il corpo Kabuki: l’arte oltre la natura
Il kabuki vive della grandezza degli interpreti che ne calcano la scena, attori totali che padroneggiano. le
attitudini artistiche, trasmesse dalle origini nel XVII secolo a oggi da generazioni di maestri e allievi,
esplicitate dal suo nome: ka (canto), bu (danza) e ki (abilità drammatiche). La drammaturgia, lo spazio
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scenico, i costumi e la musica esistono solo in funzione dell’attore. Lo spazio si plasma attorno al suo corpo
e procede al ritmo del suo cuore, un cuore kabuki.
Gli attori hanno fissato nel corso del tempo gli stili e le tecniche di recitazione in kata, modelli sulla cui
esecuzione si fonda il severo addestramento che accompagna l’allievo all’incontro con il pubblico. L’attore,
mantenendo fisso quello della famiglia d’arte cui appartiene, cambia piu’ nomi in funzione della sua
progressione nell’arte: da un nome semplice a uno blasonato fino a giungere a ereditare il nome del
maestro o del capofamiglia.
Il divieto di recitare per le donne imposto nel 1629 pose le condizioni affinché’ l’arte dell’interpretazione
maschile di ruoli femminili (onnagata) originasse e divenisse uno dei tratti peculiari del kabuki. L’arte
dell’onnogata propugnava la necessità per l’attore di vivere come onnogata anche la quotidianità, mira a
restituire la quintessenza della femminilità cosi come un uomo la concepisce, avversando quindi ogni deriva
verso l’effeminatezza. L’attore deve dare corpo a un che di astratto poggiando su un principio estetico
diffuso in Giappone per il quale la natura, solo se rielaborata dall’arte, può assurgere, in quanto artificio, al
grado massimo di bellezza: non dovendo rappresentare una donna ma l’ideale maschile che la sottende, e’
il corpo maschile , piu’ di quello femminile, a essere ritenuto capaci di un simile conseguimento.
In nome dell’artificio gli attori kabuki possono sospendere il divenire scenico per prodursi in un kata privo di
significato narrativo, chiamato mie, atteso dal pubblico e coincidente con l’acme di un’azione o sequenza
interpretativa che ha portato l’attore ad accumulare il massimo dell’energia fisica, emotiva e intellettuale.
Questa eccedenza, che riguarda l’interprete e non il personaggio, e’ donata al pubblico secondo uno
schema formalizzato che blocca l’attore in una posa raggiunta attraverso il bilanciamento di gambe e
braccia, la circonduzione del busto e del collo a culminare in un rapido arresto della testa e, a volte,
nell’incrocio degli occhi. La vibratile immobilità esteriore vive di un vorticoso accesso energetico interiore
che contagia il pubblico facendolo prorompere in fragorosi applausi e urla di apprezzamento: un’emozione
che transita da corpo a corpo.
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