Età augustea. Il quadro storico. Alle Idi di marzo del 44 a.C. Cesare era stato assassinato in Senato da un manipolo di nostalgici della respublica oligarchica, guidati da Bruto, figlio adottivo dello stesso dittatore. Dopo quell’evento altamente traumatico, la situazione politico–istituzionale a Roma precipitò rapidamente: i cesaricidi (Bruto, Cassio e altri congiurati) non avevano infatti elaborato nessun piano coerente per gestire il dopo-Cesare mentre il Senato appariva esitante e incerto. Dall’altra parte, i capi della fazione cesariana, Marco Emilio Lepido e Marco Antonio (l’uomo forte della situazione), risultavano ben determinati a difendere l’eredità politica del dittatore. Stava intanto salendo all’orizzonte l’astro politico del giovane Gaio Ottavio, figlio di Azia, una nipote di Cesare. L’ex dittatore lo aveva adottato come figlio e Ottaviano, malgrado la giovane età, si comportò in quei difficili frangenti come un politico consumato. Riuscì ad assicurarsi il favore dei militari (veterani di Cesare), entrando così in collisione con Antonio. A questo punto seppe con astuzia sfruttare l’ostilità fra questi e il Senato, giungendo a stipulare con Antonio un’alleanza e lasciando al Senato solo l’utopistica difesa dell’antica respublica celebrata da Cicerone. Nel 43 a.C. si giunse così alla costituzione del secondo triumvirato, al quale aderirono i capi dello schieramento antisenatorio: Antonio, Lepido e Ottaviano. Il loro accordo, a differenza del primo triumvirato, rappresentava una magistratura a tutti gli effetti in quanto rettificata dai comizi. Il programma prevedeva la spartizione dei territori dello stato fra i tre triumviri e, soprattutto, la vendetta dell’assassinio di Cesare. Al termine di una breve campagna militare i cesaricidi furono sconfitti nel 42 a.C. a Filippi, in Grecia, dall’esercito dei triumviri. Con la morte o la resa degli ultimi repubblicani veniva così decretata la fine della respublica tradizionale. In seguito i vincitori si suddivisero le varie province: ad Ottaviano toccarono la Gallia, Spagna e Italia; a Lepido l’Africa e la carica di pontefice massimo; ad Antonio l’Oriente e la penisola balcanica. Gli atteggiamenti autocratici di cui però Antonio diede ben presto prova, la sua decisione di fissare la propria residenza ad Alessandria d’Egitto, la sua volontà di assegnare i territori delle province ai figli nati dall’unione con la sovrana tolemaica Cleopatra VII, indussero i senatori e Ottaviano a dichiarare guerra alla regina egizia, al fine di colpire lo stesso triumviro. Abilmente la propaganda di Ottaviano presentò il conflitto come uno scontro fra “civiltà” diverse: l’Oriente, impersonato da Antonio e Cleopatra, emblema del dispotismo e della luxuria, e l’Occidente, cardine delle tradizioni italiche e del mos maiorum degli avi. Lo scontro decisivo si giocò nelle acque di Azio, nel 31 a.C.: Antonio e Cleopatra vennero sconfitti e l’anno successivo si suicidarono ad Alessandria, per non cadere nelle mani del vincitore Ottaviano. Questi era rimasto, di fatto, l’unico padrone dello stato: Lepido si era infatti ritirato a vita privata nel 36 a.C., mentre l’Egitto diveniva provincia romana. Tornato a Roma, nel 29 a.C. Augusto fece chiudere le porte di Giano in segno di pace: finite tutte le guerre, non era più necessario ricorrere alla magia bellica attribuita al dio. Le radici del potere imperiale. Il nuovo padrone di Roma volle a questo punto accreditarsi agli occhi del Senato come colui che avrebbe riformato le istituzioni politiche romane: il passato repubblicano, ormai definitivamente superato, non andava rinnegato ma rinnovato. Molteplici e abilmente congegnate furono le mosse politiche di Ottaviano per rinforzare la sua figura: rese il senato un’assemblea più docile ai propri voleri, inserendovi uomini di fiducia; nel 23 a.C. si fece conferire la tribunicia potestas, annuale e perpetua, in virtù della quale acquisiva i diritti dei tribuni della plebe senza rivestirne la carica: otteneva il diritto di veto, l’intercessio, e di aiuto, l’auxilium, il potere di imporre ai cittadini l’obbedienza (coercitio), di proporre leggi e di convocare le assemblee; nel 27 a.C. si fece attribuire il titolo di princeps (“primo” nel senato) e di “Augusto” (“venerabile, protetto dagli dèi”); la sua persona divenne sacra e inviolabile (sacrosanctitas); 1 si aggiudicò il comando di tutte le truppe stanziate nelle province e il titolo di pontefice massimo. Ottaviano aveva dichiarato che non avrebbe mai contraddetto la tradizione costituzionale della respublica; e, in effetti, volle rispettare, almeno nella forma, la legalità repubblicana, acquisendo uno dopo l’altro, come scritto sopra, i principali poteri che venivano esercitati nell’ambito delle istituzioni repubblicane. La differenza sostanziale era che tali poteri venivano ora assunti da un unico individuo, in virtù dell’auctoritas che lo stesso Ottaviano dichiarò connessa alla sua persona. Tale confluenza di poteri fece di Augusto una sorta di principe, o, come più tardi si chiameranno i suoi successori, di “imperatore”, termine che in età repubblicana designava chi deteneva il comando supremo dell’esercito, di norma il consul. Lo stato veniva così trasformato a tutti gli effetti in una monarchia dinastica, anche se priva di connotati assolutistici. Il capolavoro di Ottaviano fu precisamente l’aver fondato un sistema nuovo, il principato, senza che fosse abbattuto, almeno in apparenza, l’ordinamento della respublica tradizionale. Augusto riformò in profondità anche l’apparato amministrativo dello stato: suddivise le province in senatorie (pacifiche e poste lontano dai confini) e imperiali (localizzate nelle regioni recentemente conquistate, controllate direttamente dal principe attraverso i suoi delegati); introdusse 4 nuove magistrature (le prefetture del pretorio, dei vigili, dell’Egitto e dell’annona); il potere del senato, che a livello formale fu mantenuto inalterato, piano piano venne cancellato: le decisioni erano prese dal principe e dal suo ristretto gruppo di consiglieri. Per il resto Augusto mantenne inalterato l’insieme delle cariche pubbliche: un po’ tutto il governo di Ottaviano si caratterizza, come già detto, per questo sapiente equilibrio tra vecchio e nuovo. E sarà questa la struttura che avrebbe garantito il funzionamento dell’impero per diversi secoli. Età Augustea. Il quadro culturale. La “propaganda” augustea. Una dimensione essenziale del governo di Augusto è la sua politica culturale, finalizzata alla coesione delle diverse componenti sociali intorno al programma di governo del principe. In complesso, viene proposto un modello unitario e interclassista di società, incentrato su riforme restauratrici in materia religiosa e morale e su un’immagine del principe come benefattore e guida divinizzata dell’impero (il divus augustus). Il cardine di questa politica è il ripristino degli ideali del mos maiorum: al loro abbandono sono ora imputate la crisi morale della repubblica e la lunga scia di sangue delle guerre civili. La “propaganda” augustea, ovvero l’insieme dei messaggi offerti attraverso l’arte, la letteratura, la religione, le leggi ecc., si sforza di accrescere l’idea che sotto Augusto e grazie a lui siano finalmente recuperate la pax sociale e le priscae virtutes, le “antiche consuetudini”. Parte integrante del programma erano il ritorno alla terra e alla moralità familiare e il mito di Roma, la città benedetta dagli dèi e da loro destinata a governare il mondo. Era un’illusione pensare di “rifare” Roma, di ripristinare la mitica (o fantomatica) “respublica dei contadini” di un tempo, senza quel tessuto di libertà e di responsabilità civili che aveva fatto dell’Urbe un unicum nel panorama del mondo antico; e cadde come tutte le illusioni, soprattutto perché nessuna rigenerazione morale può essere imposta d’autorità. Ma l’illusione, attecchita su un terreno reso fertile dal sangue e dalle zuffe civili, per qualche tempo poté prosperare e dare frutti magnifici. Infatti Augusto fece una scelta lungimirante, assicurata dall’intelligente opera di Mecenate, uno dei suoi più ascoltati consiglieri ed amici: la scelta di affidare il canto dei nuovi valori morali e civili all’opera dei più prestigiosi letterati ed artisti dell’epoca, tra cui i poeti Virgilio ed Orazio e lo storico Tito Livio. 2 Del cosiddetto “circolo di Mecenate” dovrò, per la sua rilevanza strategica in sede letteraria, parlare più avanti. Ma va detto fin d’ora che gli scrittori che ne fanno parte non sono semplicemente i portavoce del potere: essi esprimono, in realtà, ideali largamente condivisi dalla società romana del tempo. La politica di Augusto si reggeva su un’evidente ambiguità. Proprio colui che aveva distrutto l’antica respublica affermava di volerla restaurare, nulla pretendendo per sé, desideroso solo di restituire ai cittadini l’antica libertas; chi si presentava come il pacificatore, il fondatore di un nuovo equilibrio universale - la pax augustea – era stato, prima di ciò, un distruttore, uno dei contendenti, responsabile della sua parte di sangue e di stragi. L’entourage del principe badò a presentare tutta l’azione politica di Augusto come effetto dell’atto più onorevole che un giovane possa compiere, ovvero la vendetta sugli assassini di suo padre: il “padre” di Ottaviano era Cesare e la “vendetta” in questione era la guerra mossa ai cesaricidi, Bruto e Cassio. Invece l’ultima guerra, quella contro Antonio, fu abilmente presentata non come l’ennesimo conflitto interno, bensì come la guerra del capo dell’Italia civile, Ottaviano, contro l’oriente caotico e barbaro, capeggiato da una donna, Cleopatra: è il messaggio affidato all’autobiografia augustea, le Res gestae. In linea più generale, Augusto chiese ai poeti e agli intellettuali d’impegnarsi al suo fianco nel riesumare gli antichi valori del mos maiorum: fedeltà alla tradizione nazionale, rispetto per la religione, amore per la campagna, attaccamento alla famiglia, fede nel destino e nella missione di Roma. Questo è il perno di ciò che chiamiamo “propaganda” o “ideologia” augustea. In certi momenti essa parve offuscare la sincerità dell’ispirazione artistica, ma, come vedremo, i poeti della cerchia del princeps, anche quando sembravano rilanciare i temi ufficiali, in realtà lo facevano a modo loro, problematizzandoli, aprendo interrogativi, più che dando risposte. E’ quanto accade, per fare un esempio, in una tra le maggiori “odi civili” oraziane, la 37 del libro 1, che celebra la grande vittoria colta da Ottaviano ad Azio nel 31 a.C. Orazio tributa però un inatteso omaggio alla sconfitta Cleopatra, alla sua determinazione di non cadere prigioniera nelle mani del vincitore; l’esito della lotta tra Occidente e Oriente acquista in tal modo una valenza “problematica”. E’ la differenza che corre tra la grande poesia e la propaganda di regime. In linea con questo quadro ideologico, anche se meno condivisi dalla società del tempo, erano i provvedimenti emanati tra il 18 e il 17 .C. allo scopo di moralizzare la società romana: la lex Iulia de maritandis ordinibus che rendeva quasi obbligatorio il matrimonio e offriva privilegi agli uomini sposati; la lex Iulia de adulteriis coercendis che faceva dell’adulterio un delitto pubblico; la lex sumptuaria che tentava di ridurre il lusso. Nel 9 a.C. fu introdotta la lex Papia Poppea che mitigava le precedenti prescrizioni sul matrimonio, offrendo comunque incentivi a chi avesse figli. In ambito religioso Augusto cercò di ripristinare le credenze tradizionali, alterate dalla crescente diffusione di culti orientali, recuperando anche cerimonie ufficiali. L’ansia di pace dopo le convulsioni della tarda repubblica suggeriva uno stato d’animo di attesa religiosa; l’uomo che riuscì ad appagarla, non poteva non destare associazioni messianiche. Fin d’ora si posero dunque le premesse per il culto dell’imperatore, tipico di una concezione orientale della monarchia. Augusto non volle però mai urtare la diffidente mentalità romana e preferì dare di sé, specie davanti all’aristocrazia, l’immagine di un altissimo magistrato, piuttosto che di un monarca. Pertanto mitigò, almeno in apparenza il culto della sua persona diffuso tra gli strati bassi della popolazione, associandolo alla devozione per il Genius Augusti, entità soprannaturale considerata sua protettrice; essa veniva offerta alla venerazione dei passanti negli altari dei Lares compitales (“Lari dei crocicchi”), che sorgevano al centro dei numerosi quartieri in cui si divideva l’Urbe. In tal modo la nuova religione imperiale veniva ad inserirsi, senza rumore, nel solco della religione tradizionale. In Oriente invece il principe lasciò che la sua persona venisse divinizzata in forma diretta, coerentemente con la visione del monarca tipica in quelle regioni. 3 Lo stesso Augusto amava proporsi agli intellettuali del suo tempo quale punto di riferimento obbligato, nella duplice veste di committente e di giudice. Come sappiamo dalla biografia di Svetonio, egli “incoraggiò in tutti i modi gli ingegni del suo secolo; fu benigno e paziente ascoltatore degli scrittori che gli sottoponevano le proprie opere, di poesia e storia, ma anche orazioni e dialoghi. Si risentiva tuttavia se sul suo conto si scriveva senza la necessaria elevatezza stilistica, da parte di scrittori poco provveduti; ammoniva i pretori che nei certami letterari il suo nome non venisse svilito” (Aug. 89). Tra le varie iniziative culturali di Augusto, vanno segnalati gli sforzi affinché giungessero a Roma e vi si trattenessero maestri per lo più di origine greca. Una vera e propria scuola di stato sarebbe sorta solo un secolo più tardi, nell’età dei Flavi e poi con Nerva e Traiano, ma è già significativa questa attenzione prestata dal regime augusteo alla formazione della gioventù. Per incoraggiare (e, insieme, sorvegliare) l’attività culturale del suo tempo, Augusto creò inoltre due biblioteche pubbliche, in aggiunta (ma sarebbe meglio dire, in antitesi) a quella che Asinio Pollione aveva istituito fin dal 39 a.C. Inaugurate rispettivamente nel 28 e nel 23 a.C., le due nuove biblioteche di Augusto avevano sede l’una nel portico del tempio di Apollo Palatino e l’altra nel portico di Ottavia. In qualità di prefetti delle due biblioteche vennero nominati Giulio Igino, un liberto, e Gaia Melisso, liberto e amico di Mecenate. Il loro compito era tra l’altro quello di decidere se accogliere o meno le opere nuove via via pubblicate: essi finivano così per esercitare una sorta di controllo (e di censura) sulla produzione letteraria contemporanea. Anche gli scritti giovanili di Giulio Cesare, considerati disdicevoli per la dignitas del fondatore, vennero banditi. E a maggior ragione fu rifiutata l’Ars amatoria di Ovidio, a cui poco giovò l’amicizia con Igino: evidentemente la ripulsa partì da Augusto in persona. Infine, per conferire magnificenza alla capitale e accrescere il prestigio dello stesso principe, importanti monumenti vennero ad abbellire il volto di Roma, grazie alla collaborazione degli architetti migliori: uno di loro, Vitruvio, ci ha lasciato l’inestimabile trattato De architectura. Furono costruiti o restaurati i templi di Apollo sul Palatino, di Giove Tonante sul Campidoglio, di Marte Ultore (Vendicatore) nel Foro ecc.: tutti luoghi che simbolicamente dichiaravano l’alleanza tra il potere terreno del principe e la volontà celeste degli dèi. Fu eretto il Pantheon (il tempio “di tutte le divinità”), totalmente ricostruito da Adriano nel II secolo d.C.; si completò il teatro di Marcello, già intrapreso da Cesare. Le due maggiori imprese furono la realizzazione dell’Ara Pacis, che celebrava la pace finalmente restaurata grazie ad Augusto, un vasto complesso monumentale che si risolveva nell’esaltazione e nella glorificazione del princeps. I poeti del “Circolo di Mecenate” “Mecenatismo” è la parola di chi intelligentemente profonde i propri mezzi per proteggere, incentivare e favorire le lettere, l’arte e la cultura, sovvenzionando gli scrittori e i centri di elaborazione, di ricerca e di produzione intellettuale. Il termine prende il nome da Mecenate, figura emblematica dei tempi nuovi anche sul piano biografico: era un semplice cavaliere, un eques, cioè un cittadino senza poteri ufficiali. Ma egli esercitava un’autorità indiretta, che gli proveniva dalla fiducia in lui riposta da Augusto. Comunque, per incontrare manifestazioni di mecenatismo non dobbiamo giungere fino ad Augusto: il fenomeno era già presente nell’età ellenistica, dove rientrava nell’orbita dell’assolutismo regio. Proteggere i poeti era, per i sovrani, una manifestazione di autorità e di prestigio. Ma il “patronato” di Augusto aveva dimensioni vaste ed effetti più importanti e duraturi. Per proteggere gli artisti il princeps si avvalse della collaborazione di Mecenate, appunto, al quale lasciò la delicata incombenza di fungere da discreto consigliere, protettore e benefattore dei letterati (almeno dei maggiori) dell’epoca. Attorno a sé Mecenate raccolse, quindi, in una cerchia intellettuale di altissimo livello (il cosiddetto “circolo di Mecenate”) gli artisti più prestigiosi dell’epoca, riunendoli da varie parti d’Italia: l’umbro Properzio, il mantovano Virgilio, il venosino Orazio, ma anche i meno noti Domizio 4 Marso, Vario Rufo e Valgio Rufo, tutti e tre già operanti prima dell’inizio del principato e già schierati con Ottaviano; l’unico entrato nella cerchia meceneziana dopo l’inizio del principato fu Properzio. Nessun altro scrittore fu accolto nel gruppo; non a caso il giovane Ovidio si accostò al circolo di Messalla Corvino. L’unico scrittore di rilievo che aveva fatto parte della cerchia augustea e che poi se ne allontanò fu il poeta elegiaco Cornelio Gallo: perduta l’amicizia del principe, si suicidò. Mecenate fu in grado di destreggiarsi con tatto e finezza nel suo ruolo così delicato di guida di poeti e di loro consigliere letterario, mediando tra le spinte individualistiche degli scrittori e le esigenze di coesione sociale e culturale proprie del regime augusteo. In linea con i fini della restaurazione culturale e morale voluta da Augusto, promosse una letteratura nutrita di forte impegno ideale; una letteratura “nazionale” attenta al mito e al destino di Roma, anche se in modo non smaccato o propagandistico. Si dice, tra l’altro, che sia stato Mecenate a suggerire a Virgilio, da poco entrato nel circolo, l’argomento delle Georgiche: il poeta stesso definì quelle pressioni haud mollia iussa, “inviti tutt’altro che lievi” (Georg. III, 41). Le Georgiche vennero alla fine dedicate a Mecenate, così come il libro II delle elegie di Properzio. Ma nessuno dei maggiori scrittori dell’età di Augusto si restrinse ad un’interpretazione troppo miope della politica culturale del princeps. Essi ne assecondarono, ora più ora meno, la politica culturale, cantando il mito di Roma e dei suoi eroi, le tradizioni e le priscae virtutes, ma il valore poetico delle loro opere e l’universalità della loro fruizione riposano nel fatto che essi hanno attinto ad una visione dell’uomo e del suo mondo sottratta ad un legame troppo ristretto o opportunistico con i desideri di Mecenate o di Augusto. In sintesi: l’esaltazione della patria romana e il canto dei mores antiqui innervano il tessuto profondo dell’Eneide, ma il poema è un capolavoro perché va ben oltre queste dimensioni. Difficile dire fino a dove si spingessero le pressioni di Mecenate e, indirettamente, di Augusto sui poeti. Certo la protezione di Mecenate era generosa (a Orazio donò una tenuta in Sabina, Virgilio fu reso da lui economicamente indipendente) e sicuramente non disinteressata. Tuttavia alcuni segnali ci fanno pensare ad una tutela “morbida”, più che a forme di sorveglianza o, peggio, di censura. Per esempio, è significativo il fatto che nessuno dei poeti augustei accettò di scrivere quel poema epico sulle vittoriose campagne militari di Augusto che veniva loro sollecitato. E nemmeno fu prodotto quel rinnovamento del teatro, in chiave “nazional-popolare” auspicato dal princeps. E poi, contrariamente ai gusti e alle volontà del principe, Mecenate stesso e molti scrittori del circolo inclinavano all’epicureismo. Anche queste simpatie epicuree, peraltro circoscritte ad un ambito personale di raffinatezza di gusto, costituivano un segno di indipendenza dall’ideologia ufficiale augustea. Un’indipendenza tollerata, perché l’essenziale, agli occhi di Augusto, era che gli intellettuali appoggiassero almeno nelle linee generali il suo programma; preso atto di ciò, non erano richieste altre opzioni o scelte specifiche. Non vi fu coercizione, semmai, come la chiama Gian Biagio Conte, una “cooperazione politicoculturale in cui i poeti hanno spesso un ruolo attivo e individuale”. Si trattava di un incontro di reciproche esigenze, di un rapporto dinamico, e non di imposizioni da parte del potere politico o di acquiescenza da parte dei poeti a direttive superiori. Alla fin fine, contavano i risultati: lasciata libera da adulazione e servilismo, la creatività degli artisti finiva indirettamente per esaltare la generosità del principe protettore, il cui prestigio veniva così accresciuto. Età Augustea. Il dissenso al regime. Il governo di Augusto ebbe l’effettivo merito di soddisfare l’esigenza universalmente sentita della pax, davanti alla quale a molti parve sacrificabile la stessa libertas. Poche e rapidamente condannate al silenzio le voci degli oppositori, in genere nostalgici delle antiche prerogative repubblicane; i vincitori si premurarono di cancellare ogni loro traccia, così che poco o nulla ce n’è rimasto. Il caso più noto di dissenso fu quello legato all’esilio (o, meglio, alla relegazione, non comportando quest’ultima la confisca dei beni) comminato a Ovidio nell’8 d.C. Il poeta di Sulmona, quello che più intimamente di tutti era legato alla vita mondana della capitale, ne venne cacciato con 5 ignominia; alla condanna si aggiunse l’esclusione dei suoi libri dalle biblioteche pubbliche. L’esilio di Ovidio poté apparire clamoroso, ma in realtà possiamo ben comprenderne la logica. Senza volerlo, egli aveva toccato i nervi scoperti dell’ideologia augustea e rivelato ciò che non doveva essere detto: nel mondo di lussi, di piacere, di libero amore, una mentalità che circolava ormai ovunque nella capitale, non c’era più posto (se mai ce ne fu uno…) per le priscae virtutes (fedeltà alla famiglia, purificazione dei costumi, sanità di vita) celebrate dal principe. Il caso di Ovidio fu l’unico che riguardò un poeta, ma il dissenso covava in almeno altre due categorie di intellettuali: gli oratori e i filosofi. Grazie alla testimonianza di Seneca padre, sappiamo di alcuni oratori che vollero opporsi all’atticismo trionfante: essi fecero dell’asianesimo una spinta insieme emotiva e ideologica e unirono alla fioritura dello stile l’amore per la libertà repubblicana. L’oratore Gaio Albucio Silo, di Novara, nel 14 d.C. fu difensore in un processo per omicidio: poiché i littori reprimevano chi lo applaudiva, deplorò apertamente lo stato presente dell’Italia, dicendola ridotta a provincia e chiamando a testimonio Marco Bruto, effigiato in una statua lì presente, quale ultimo difensore delle leggi e delle libertà. Seguiva l’indirizzo asiano anche tito Labeno, oratore e storico di discreta fama, soprannominato Rabienus per l’avversione sempre manifestata verso Augusto: il senato fece dare alle fiamme i suoi scritti (Svetonio, Cal. 16) e Labieno si suicidò per il dolore. Ugualmente bruciate furono le opere del suo amico Cassio Severo, che osò accusare di veneficio (assassinio per avvelenamento) Nonio Asprenate, un protetto di Augusto. Cassio Severo ebbe la peggio in tribunale e nell’8 d.C. fu confinato a Creta, dove morì dopo venticinque anni di esilio. Quel rogo pubblico dei libri di Tito Labieno e di Cassio severo, avvenuto nel 12 d.C., fu un momento emblematico della svolta intervenuta nell’ultima fase del governo di Augusto. Esso verrà accolto qualche anno più tardi con parole indignate dal retore spagnolo Seneca padre (Controv. X, Praef. 5-7) : Cosa nuova e mai vista! Condannare a morte gli studi! Grandemente fortunati noi, per Ercole, che una simile crudeltà che prende di mira le intelligenze è stata ritrovata dopo Cicerone: cosa sarebbe mai successo se i triumviri avessero pensato di proscrivere anche l’ingegno di Cicerone? Buon per noi che simili condanne all’intelligenza sono cominciate nel secolo in cui le grandi intelligenze erano ormai venute meno! Le opere di Cassio Severo e di Labieno saranno rimesse in circolazione, trent’anni dopo, da Caligola. Età augustea. Cultura “non allineata”: Asinio Pollione e il Circolo di Messalla. A un’impressione superficiale, parrebbe che la letteratura di quest’epoca sia tutta “augustea”, prosperata cioè all’ombra del princeps e di Mecenate, risolta solo in pochi scrittori grandissimi e nei loro capolavori. Non è però così. Accanto a Virgilio e Orazio, infatti, fioriscono nell’ambito del “Circolo di Mecenate” diversi scrittori minori, come già detto, che costituiscono il necessario sottobosco dal quale sempre la grande arte trae alimento. E poi, accanto al “circolo di Mecenate”, la Roma coeva presenta altri raggruppamenti intellettuali, altre iniziative interessanti: benché meno note e per noi meno conoscibili, esse offrivano quel tessuto connettivo indispensabile perché potesse crescere una cultura “augustea” più variegata e ricca di quanto porterebbe a credere una ricognizione limitata ai soli capolavori. 6 In particolare, due figure di riferimento si impongono alla nostra attenzione, quelle di Asinio Pollione e di Messalla Corvino, che del loro tempo furono, in campo culturale e letterario, protagonisti di poco inferiori allo stesso Mecenate. Cominciamo da Asinio Pollione, che fu come Mecenate protettore di letterati e animatori di cultura, anche se di una cultura non pienamente integrata nel regime augusteo. Asinio Pollione era stato uno dei protagonisti della vita politica romana, nel periodo incandescente delle guerre civili, ma aveva militato dalla parte sbagliata, quella di Antonio; se ne era poi staccato, senza però prendere apertamente partito per Ottaviano. Sembra che già dopo il 39 a.C. si sia ritirato dalla vita politica, per dedicarsi all’attività culturale. Il suo maggior merito risale al 41 a.C., quando scoprì il talento poetico di Virgilio. Asinio gli venne in aiuto allorché, dopo Filippi, al giovane scrittore mantovano era stato sequestrato il podere. Virgilio lo ricambiò lodandolo nella celebre ecloga IV (intitolata Pollio). Un ulteriore evento di primo piano che si lega a lui risale al 39 a.C. In quell’anno, riprendendo un vecchio progetto di Cesare, Pollione fece aprire la prima biblioteca pubblica di Roma, che volle collocare nell’Atrio della Libertà (l’antica sede dei censori all’estremità settentrionale del Foro di Cesare): una sede certo non casuale, che poneva la promozione delle lettere sotto la protezione di Libertas, la divinità statale poco onorata dal principe. Pollione che si dilettava di eloquenza, di teatro e di poesia e che doveva la sua fama soprattutto alle Historiae sulle guerre civili, fu lodato, come detto, dal Virgilio bucolico e anche da Orazio (Carm. II, 1); poi però, e non è certo un caso, sembra quasi scomparire nel ricordo diretto dei poeti meceneziani. Un vero circolo di poeti e letterati costituì invece attorno a sé Messalla Corvino. Egli apparteneva anche ideologicamente all’oligarchia senatoria; aveva militato con i nemici di Ottaviano, combattendo a Filippi al fianco dei cesaricidi e poi con Antonio; era quindi passato dalla parte del princeps poco prima dello scontro decisivo di Azio. Messalla era una personalità in vista a Roma, seppur non ben integrata (sembra per sua scelta) nella cerchia degli amici di Ottaviano. Dai contemporanei era ritenuto uno dei massimi oratori viventi, di tendenza attivista come Asinio Pollione. La sua fama maggiore è dovuta al fatto che fu il patrono di Tibullo e dei poeti della sua cerchia, tra cui Ovidio giovane e altri minori, come il veronese Emilio Macro: poeti tutti appartati rispetto alle tendenze promosse da Mecenate. Lo stesso Messalla, tra le altre cose, compose poesie amorose e bucoliche in greco, il che lo collega ulteriormente a Tibullo e al clima superiore di raffinatezza del suo Circolo. Nei poeti protetti da Messalla si rintracciano spunti graditi all’ideologia augustea, ma in misura più sfumata di quanto non avvenga negli scrittori attivi sotto l’ala di Mecenate. Ciò si può spiegare con il fatto che Messalla approvava nella sostanza la politica del principe, ma senza mai farsi apertamente un propagandista dell’ideologia del principato. Molto indicativa in tal senso è la prima elegia di Tibullo: il poeta canta l’amore per la sua Delia e il rifiuto della guerra; loda la quiete agreste ed esalta la vita ritirata, al riparo degli affanni pubblici e dalle ricchezze. 7