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BERNARD NOMINE (1)

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Napoli, 20 ottobre 2018
I nodi della scrittura nella clinica
Bernard Nomine
È con piacere che ho risposto al cortese invito di Francesca dopo il nostro primo incontro a Baveno, l’anno scorso.
Quest’incontro che abbiamo creato a Baveno, di fronte alle isole Borromee, è l’occasione per unire gli sforzi di
tutti i colleghi che vogliono provare ad affrontare l’ultimo periodo dell’insegnamento di Lacan, un momento in cui
egli dedica tutti i suoi sforzi per cercare di scrivere in modo logico, ciò che la psicoanalisi gli ha insegnato
relativamente alla clinica psichiatrica.
È a questo sforzo di scrittura della clinica che dedico le mie ricerche da qualche anno. Ed è quello che cercherò di
trasmettervi.
Cominciamo con un punto di storia.
La storia dell’incontro di Lacan con il nodo Borromeo
Questa storia merita di essere sottolineata. È all’epoca del seminario Ou pire … che Lacan ci consegna una sua
formula che prende come formula della lettera d’amore, più esattamente della lettera d’(a)muro. Una lettera che
evidenzia che tra l’uomo e la donna c’è il muro dell’amore. La formula è la seguente: “ Io ti domando di rifiutare ciò che
ti offro perché non è questo”. Egli è molto impegnato nel cercare di scrivere, in un grafo complesso, la congiunzione
improbabile di questi tre verbi, quando viene a sapere che un certo Guilbaud, matematico di riferimento per Lacan,
ha appena tenuto un corso sulla catena che è l’emblema dello stemma della famiglia Borromeo.
Non appena Lacan s’impadronisce di quello che sembra calzargli come un anello, il nodo borromeo non lo lascerà
più. Quindi cosa ha intravisto? Ha intravisto che i tre verbi che non si articolano naturalmente nella sua formula
un poco speciale che, però, descrive bene la clinica della vita amorosa, questi tre verbi non possono articolarsi, che
a condizione di porre che: ciò che io ti domando non è questo che voglio, ciò che ti offro neanche questo è ciò che vuoi, ed è proprio
a titolo di ciò che non è questo, che tu hai tutte le ragioni di rifiutarmelo. Se rappresentiamo ciascuno dei tre verbi con un
anello di corda, vediamo che la frase non ha senso se non articolando i tre verbi intorno ad un non è questo centrale
che li fa tenere insieme. Il famoso non è questo rappresenta il posto dell’oggetto a al centro del nodo. “…è da un nodo
di senso che sorge l’oggetto a”.1
Prendo in considerazione della storia dell’invenzione della teoria borromea di Lacan, tre cose essenziali:
1. Lacan ha scelto la catena borromea per rappresentare un dire, non importa quale, un dire che fa evento, il
dire dell’amore. Il nodo rappresenta questo dire.
2. In questo dire, che ha la struttura della catena borromea, tre cerchi si articolano in modo tale che se ne
togliamo uno, gli altri due si desolidarizzano. dissociano
3. Ma non dimentichiamo che i tre cerchi si articolano intorno ad un oggetto che non è questo ma che li implica
tutti e tre.
Ora voglio mettervi a parte di quello che ho incontrato trattando la questione della teoria borromea in Lacan. È
una serie di sorprese, di sviste intraviste, in breve, cose, che davo per sicure, si disfacevano per riannodarsi in altro
modo. Io credo che questo attenga alla difficoltà di elaborazione di una logica ternaria. Ciò non toglie nulla
all’interesse di questo momento appassionante dell’insegnamento di Lacan. Egli ci ha lasciato uno strumento per
supportare il nostro pensiero sulla psicoanalisi. È uno strumento geniale ma non è l’attrezzo che permetterebbe di
far entrare tutti i tasselli nei piccoli buchi. Resterà sempre un non è questo che ci spinge più lontano. Ed è in questo
che ci è indispensabile per pensare la psicoanalisi.
1
Lacan S XIX Ou pire. Champfreudien Seuil, p.87
2
Primo punto: quello che ho presentato a Medellin, il nodo olimpico, che è il contrappunto del nodo borromeo di
cui Lacan ci dice nel Les non dupe… che è il nodo della nevrosi. Uno dei cerchi vi manca e voi ve ne uscite perché
gli altri due sono annodati. Di conseguenza i nevrotici sono indistruttibili a prova di foratura. Lacan lo dice in
modo deciso, ma non ci ritornerà su né per confermarlo, né per sconfermarlo. Eppure ciò ha secondo me delle
conseguenze fondamentali, se prendiamo in considerazione la dinamica del transfert e dell’atto analitico.
È sulla base di questo nodo olimpico che Lacan considera la fobia del piccolo Hans. E se avete l’opportunità di
studiare l’errore del nodo di cui consiste la realtà psichica di Joyce, vedrete che Reale e Simbolico sono annodati
tra loro, lasciando l’Immaginario alla deriva. Ciò contraddice la tesi secondo la quale nella psicosi i tre cerchi sono
liberi tra loro, a meno che non si consideri che non è sicuro che Joyce sia pazzo.
Secondo punto: quando si evoca la catena borromea si situa il Reale come uno dei suoi elementi accanto al
Simbolico e all’Immaginario. Ma ciò che Lacan precisa man mano che procede nella sua elaborazione, è che il
Reale si riferisce necessariamente al tre. In altri termini il Reale non è solamente il cerchio del Reale, il Reale è il
nodo e precisamente il nodo a tre. È qualcosa che Lacan propone nel Les non dupe… ed è qualcosa che non toccherà
più. Egli dirà per esempio nel seminario Il Sinthomo: “… all’immaginario e al simbolico cioè a cose del tutto estranee l’una
all’altra, il reale fornisce quell’elemento che può farli stare insieme. Si tratta di qualcosa che posso dire di considerare né più né meno
che il mio sintomo.”2 Ed egli precisa che questo sintomo è una risposta all’invenzione dell’inconscio freudiano. Si
tocca qui un punto essenziale dell’invenzione lacaniana. In risposta all’invenzione freudiana, Lacan isola la categoria
del Reale che si definisce per restare al di fuori dell’immaginario e al di fuori del Simbolico, ma di essere anche ciò
che li unisce e che dunque li fa partecipare del suo carattere di Reale, perché essi fanno parte della catena.
Vengo ora, dunque, al punto che mi ero riservato nel programma, ossia la questione del quarto cerchio posto
inizialmente come implicito.
Il nodo a quattro.
Infatti, quando Lacan ci porta a distinguere il cerchio del Reale e il Reale del nodo, introduce una sorta di quarto
implicito. Perché ci è più comodo immaginare che il cerchio del Reale ed il Reale del nodo siano due entità
differenti. Qui è necessario ritornare alla logica di Riccardo di San Vittore nel suo De Trinitate per vedere come i
teologi sono usciti da questa aporia, ma credo di ricordare bene che San Vittore ricusa il quattro e si attiene al tre.
Questo non è frutto del caso, né del filo delle mie associazioni, se passando dal tre al quattro arrivo a fare
riferimento alla funzione del Dio-il-padre.
Lacan ci conduce lì necessariamente quando osserva, nel suo seminario RSI, che in Freud le tre consistenze non
sono annodate e ha bisogno di inventare un quarto termine: la realtà psichica, che non è altro che il complesso di
Edipo. E per Lacan questo Edipo non è così complesso, ed è ciò che egli preferisce chiamare il Nome-delPadre,“che non vuol dire niente altro che il Padre come Nome, il Padre come colui che nomina.” E Lacan precisa: “Quando dico
il Nome-del-Padre, vuol dire che se ne possono avere, come nel nodo borromeo, un numero indefinito.”
Infatti supponiamo tre cerchi rosso giallo e verde non annodati, si può farne una catena a condizione di utilizzare
un quarto cerchio che non avrà niente di particolare se non questa funzione di riunirli in catena. “ tutto è basato su
uno che, in quanto buco, comunica la sua consistenza a tutti gli altri.” Cf, RSI, 11marzo 1975. Alla fine di RSI Lacan parla
del quarto in quanto nominazione.
2 Lacan, sem.XXIII, p.129
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Nella conferenza alla Columbia University fatta nel dicembre del 75, Lacan dice questo: “dovremmo meravigliarci
della terza dimensione prima di farne una in più. Non c’è niente di più facile che farne una in più. Quando i tre cerchi vanno
alla deriva, basta farne un quarto.”
La particolarità del nodo del Sinthomo.
Questo annodamento appare sotto la penna di Lacan il 13 marzo 1975, nell’ultima parte del suo seminario
RSI.
Quello, che qui vedete disegnato, è un cerchio che in un certo modo raddoppia il cerchio del reale. Lacan
propone di considerare questo come nominazione del Reale, vale a dire l’angoscia. L’angoscia fa il nodo
nominando il Reale. Ma, potete anche raddoppiare il cerchio dell’Immaginario e arrivate alla nominazione
dell’Immaginario, che Lacan considera come inibizione. L’inibizione fa il nodo nominando l’Immaginario. E
infine potete raddoppiare il cerchio del Simbolico e ottenete allora la nominazione del Simbolico, che Lacan
considera come il sintomo. Il sintomo fa il nodo nominando il Simbolico. L’anno seguente, appoggiandosi
essenzialmente sul caso Joyce e sul modo con cui egli ha supplito alla sua psicosi con la sua scrittura, Lacan
4
affronterà l’annodamento particolare del sinthomo, che egli aveva discusso nell’ultima seduta di RSI. Lascio
per il momento da parte questo punto e ci ritorneremo nel dibattito se lo desiderate.
Veniamo ora all’essenziale di quello che ho previsto di trattare, vale a dire l’interesse della scrittura borromea
per la scrittura della clinica psicoanalitica. Che cos’è che si scrive dell’esperienza analitica? Non grandi cose
interessanti, niente che possa fare letteratura, eppure qualcosa dovrebbe potersi scrivere ed è quello che ci
sforziamo di fare quando costruiamo un caso, quando riflettiamo su di una presentazione clinica. Molto spesso
si produce qualcosa in un momento del dibattito tra noi, qualcosa che dopo essersi costruito poco a poco,
prende di colpo un aspetto evidente. È questo! Ebbene questo “è questo” testimonia che qualcosa si è scritto
della logica con cui ci siamo orientati, la logica del percorso particolare del soggetto.
Bisogna dire che i casi di cui disponiamo nelle costruzioni o al momento delle presentazioni cliniche sono casi
difficili. Le nostre categorie classiche di nevrosi, psicosi o perversione non sono sufficienti a individuare la logica
del caso. Invece sottolineo che sempre più spesso utilizzo la logica borromea per orientarmi e vi propongo dunque
di riflettere con me su questa esperienza di una possibile scrittura borromea della clinica.
Lacan diceva che „ La clinica è il reale in quanto è impossibile da sopportare“3
E‘ per questo che è leggittimo voler scrivere, abbozzare questo reale. E lo strumento borromeo sembra adeguato
a questo compito, che resta al limite del possibile, poichè si tratta del reale.
Numerose volte nel suo seminario „Les non dupes…“ Lacan evoca una scrittura che non è da leggere, una scrittura
del reale che sarebbe la scrittura del nodo borromeo.
E‘ davvero sorprendente constatare che molto presto nel suo insegnamento, dal 1953, Lacan ha magistralmente
distinto tre dimensioni con le quali l’essere parlante si reperisce: il Simbolico, l’Immaginario e il Reale. Ma bisogna
aspettare 1972, cioè il suo incontro con il nodo borromeo, affinchè Lacan possa considerare l’articolazione di
queste tre dimensioni tra loro. A partire da quel momento, diventa un’evidenza che Reale, Simbolico e
Immaginario sono legati tra loro e che è questo annodamento che permette all’essere parlante di orientarsi, di non
errare troppo.
Il nodo borromeo scrive, dunque, un‘articolazione tra queste tre dimensioni, precisando che queste non sono le
tre dimensioni dello spazio euclideo ma le tre dit-mension dello spazio abitato dall’essere parlante. Parlare di ditmension implica il dire e, dunque, il tempo e l’evento.
Ciò che il nodo fa e ciò che scrive , è un incastro (intrappolamento, schiacciamento). La logica dell’ annodamento
fa in modo che se due dimensioni scivolano l’una sull’altra senza fermarsi , è necessaria una terza, messa nel modo
giusto per bloccare questo scivolamento infinito o eterno. Il nodo dà un colpo d’arresto a questa eternità. Qualche
cosa smette di non scriversi e fa evento.
Il nodo, come scrittura dell’evento, implica un tempo. Lacan ci suggerisce che il nodo mostra le tensioni (conflitti)
“tiraillements” del tempo.
La questione delle tensioni del tempo mi ha portato a lavorare la questione del tempo e ho riletto in quest’ottica
lacaniana il Libro XI delle Confessioni di Sant’Agostino. Tutta la sua argomentazione poggia sul fatto che il passato
e il futuro non esistono se non come rappresentazioni nel discorso del presente. Tutto ciò lo porta a questa
formulazione: „Ci sono tre tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Il presente del passato è la
memoria; il presente del presente è l’intuizione diretta; il presente del futuro è l’attesa „.
Questa sottile strutturazione trinitaria del tempo in Agostino combinata alle tre ek-stasi della temporalità in
Heidegger mi ha condotto ad iscrivere questa strutturazione della temporalità secondo i tre registri con i quali noi
ci orientiamo nella realtà: il Simbolico, l’Immaginario e il Reale.
Vi propongo di assimilare il passato alla categoria del Simbolico, poichè è fatto di rappresentazioni che si
organizzano in storia. Il futuro, poichè ha un‘esistenza solo quando è immaginato, è sicuramente da assimilare
3
Lacan “Apertura della Sezione Clinica” « La clinique c’est le réel en tant qu’il est impossible à supporter »
5
all’immaginario. Non ci resta che ammettere che il presente è assimilabile al reale. E‘ assimilabile, lo è perchè fugge
costantemente, esso non è che cessando di essere, diceva Agostino.
Dunque se il presente è assimilabile al reale, comprendiamo che il nevrotico cerca di sfuggirgli. Tuttavia essere
aperto al presente, ha qualche vantaggio, è saper approfittare della contingenza, è saper approfittare della realtà.
Essere nella realtà, è quello che si può augurare di meglio all’essere parlante. Vuol dire poter affrontare il presente
del reale con il presente del passato simbolico , cioè le nostre rappresentazioni, i nostri ricordi, e il presente del
futuro immaginario, ossia le nostre aspettative, i nostri desideri. Categorizzare così il presente reale, il passato
simbolico e il futuro immaginario, mi conduce a inscrivere questa costruzione trinitaria del tempo soggettivo con
l’aiuto dei tre cerchi di Eulero che rappresentano le tre categorie del passato e del futuro.
Presente del futuro = attesa
I
FUTUR Futuro anteriore
Presente del presente
R
PRESENT
S
PASSÉ
Présente del passato= memoria
All’intersezione tra presente e passato, potete inscrivere il presente del passato, cioè la memoria, i ricordi.
All’intersezione tra presente e futuro, Agostino ci consiglia di scrivere l’attesa e qua possiamo mettervi altrettanto
bene sia il desiderio, quando si attendono delle buone cose, che l’angoscia quando si immagina il peggio.
Resta da vedere ciò che potremmo inscrivere all’intersezione tra il passato e il futuro. A priori ci sfugge, al di fuori
del fatto che il passato e il futuro si articolano in parte grazie al presente del presente.
Ma c’è un’articolazione che esiste tra il passato e il futuro, al di fuori del presente, è l’ipotesi del futuro anteriore,
ciò che vi fa dire «sarà stato». È un incastro particolarmente importante del tempo, perché è quello che determina
la significazione, après-coup, di un evento. La nozione di après-coup evidenziata da Freud mostra che il discorso
può produrre effetti di significazione che possono modificare rappresentazioni del passato, riorganizzare ricordi e
anche creare traumatismi après-coup.
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Ho sentito dire recentemente da Boris Cyrulnik4, interrogato sulla memoria traumatica, questa semplice cosa: il
traumatizzato soffre due volte, soffre del colpo e della rappresentazione del colpo. In definitiva, la memoria
traumatica testimonia di un passato che non passa, cioè che non si dimentica, che resta in questo statuto
particolarmente reale del presente del presente agostiniano.
Dire che il passato passa è dire che nel momento presente non è più là, è naturalmente dimenticato, anche se è
inscritto da qualche parte ed è proprio perché si è inscritto da qualche parte in termini di tracce mnestiche, che
hanno preso un senso e che si sono inscritte in una storia, che il passato passa e resta al suo posto.
Insomma questa scrittura del nodo del tempo che vi propongo è una scrittura che annoda il reale del presente al
simbolico del passato e all’immaginario del futuro. Bisogna potere fare questo nodo per costruirsi una storia e
potersi accomodare alla realtà presente.
Avrete notato che quando tutto va bene, quando si ha un progetto, quando si sa dove si va, quando il passato resta
al suo posto e non ci obbliga a rimuginare, non vediamo passare il tempo. Vale a dire che dimentichiamo che passa.
Mentre se interrogate un malinconico vi dirà che per lui il tempo è eterno non passa, non può dimenticare: il
malinconico non può dimenticare il suo essere per la morte, cioè che non pensa che a morire. Cioran diceva molto
opportunamente che per lui, nei suoi momenti più forti di melanconia, «il tempo non si abbassa all’evento».
Inscrivendosi nell’evento, il tempo come oggetto reale si dimentica, passa senza che ce accorgiamo, senza che ce
ne preoccupiamo troppo.
Per ritornare alla questione della memoria traumatica, si potrebbe dire che essa testimonia di qualcosa che non
passa alla scrittura dell’evento. Vuol dire che è la ripetizione di qualcosa che resta reale, atrocemente presente. È
una pagina che non si gira e se si riflette bene, è una pagina sulla quale non si è potuto scrivere niente.
Freud non diceva un’altra cosa quando cercava di comprendere il significato dei sogni traumatici. Se si producono
e si ripetono questo genere di sogni, è per riprodurre il trauma e cercare di dominarlo, cioè di farlo passare ad una
scrittura simbolica. Si potrebbe concepire la memoria traumatica come un particolare annodamento del reale del
presente al simbolico del passato o, per essere più precisi, è come se il reale del presente e il simbolico del passato
fossero in continuità, come se passassero dall’uno all’altro senza taglio né nodo.
Questa ipotesi rispecchierebbe ciò che, nel Quattrocento, si chiamava arte dell’oblio. Si descriveva così un rimedio
contro l’invadenza di questa memoria ripetitiva. Si prescriveva al paziente di tradurre in immagine il ricordo
importante, di tracciare l’immagine su una carta che si accartocciava, si strappava, si bruciava o che si gettava
nell’acqua corrente. Si trattava dunque di reintrodurre l’immaginario per permettere un altro legame tra il reale e il
simbolico, un passaggio attraverso la scrittura per estinguere questo fenomeno ripetitivo.
Io pratico da lungo tempo, senza saperlo, questa arte nella cura dei bambini. Quando mi parlano di incubi ricorrenti,
li invito a cercare di disegnarli; questo fa generalmente venire fuori degli elementi significanti di cui cerco di fare
intendere loro il valore equivoco, cosa che spesso li fa ridere e spostare l’accento terrorizzante. Nella maggioranza
dei casi si rivela molto efficace, la ripetizione dell’incubo cessa. Oggi comprendo perché: per il fatto che propongo
il passaggio attraverso l’immagine per annodare in un altro modo il reale al simbolico.
Nel suo libro, Lete. Arte e critica dell’oblio, Harald Weinrich5 cita il caso di un paziente di un neuropsichiatra russo, il
dott. Alexandre Romanovitch Luria, un paziente affetto da ipertrofia della memoria da cui ne traeva un beneficio
sostaziale presentandosi in pubblico come un mnemonista professionale. Lui, che si esibiva più volte a serata, aveva
bisogno di garantirsi degli intervalli di oblio. Aveva messo a punto una strategia: annotava per iscritto ciò che
voleva dimenticare. Qualora questo espediente non risultava sufficiente per cancellare il ricordo importuno,
strappava il foglio, lo bruciava o lo gettava nell’acqua. «È interessante osservare per quale strano giro, il ricorso alla scrittura
– alla quale attribuiamo generalmente un così grande ruolo nella memoria culturale e individuale – è qui messo al servizio dell’oblio».
Questa annotazione è importante. Effettivamente, tutti coloro che cercano di esercitare la loro memoria hanno
fatto ricorso a dei mezzi di mnemotecnica. I soggetti affetti da sindrome di Asperger, che sono condannati a non
dimenticare nulla, lo testimoniano facilmente: si tratta sempre di associare una cifra ad un colore, ad un’immagine.
Ciò che è sorprendente è constatare che lo sforzo fatto per memorizzare un significante, che consiste nel fissarlo
ad un’immagine, è dello stesso ordine dell’espediente preconizzato attraverso l’arte dell’oblio per sbarazzarsi di un
significante importuno. Questo fatto ci porta a considerare che memoria e oblio sono senza dubbio le due facce
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5
Medico, etologo, psichiatra e neurologo
Harald Weinrich, linguista e insegnate tedesco.
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di uno stesso processo che mette in gioco la scrittura, cioè un modo di fissare i significanti in una rete, secondo le
tre coordinate essenziali della struttura: il Reale, il Simbolico e l’Immaginario, cosa che realizza la scrittura di una
storia e fa l’ordinamento tra ciò che succede, ciò che è successo e ciò succederà.
L’inconscio freudiano fa precisamente il giunto tra memoria e oblio. Ciò che è rimosso è certo scritto da qualche
parte. Ed è anche perché c’è un nodo di scrittura, perché un significante è preso in una catena, che è trattenuto
prigioniero e che non è mobilizzabile per la rimemorazione.
Per dimenticare, l’inconscio trattiene alcuni significanti nella sua scrittura. L’inconscio scrive perché il soggetto
possa dimenticare.
Per potersi servire correttamente di questa logica borromea, bisogna estrarne i principi.
Il pincipio essenziale è che ogni dit-mension – che Lacan chiama anche consistenza – può servire da mezzo
per annodare le altre due. Nessuna consistenza va privilegiata a questo riguardo. Riguardo alla catena borromea
a tre, è perché due non sono annodate che, una terza, quale essa sia, può fare il nodo. Riguardo alla catena a quattro,
è perché tre non sono annodate, che una quarta può fare il nodo.
Il problema è che, visto che non ci sono che tre consistenze, il quarto cerchio sarà, necessariamente dunque, un
raddoppiamento di uno degli altri due. Lacan risolve questa difficoltà designando il quarto sia come nominazione
– simbolica, immaginaria o reale – sia come sintomo.
Nel suo libro su Lettere del sintomo, Erik Porge sviluppa un teorema efficace dicendo che ciascuna catena a n
consistenze può essere considerata come riparazione di un nodo sbagliato a n-1 consistenze. Così, la catena a tre
supplisce al fatto che due non sono annodate, la catena a quattro supplisce al fatto che tre non siano annodate e
così via. Questo punto mi sembra importante perché permette di vedere che il borromeo comincia a tre e che il
cerchio a quattro non è che una versione, che obbedisce alla stessa logica.
Un secondo principio è che se le tre consistenze sono equivalenti a livello delle loro funzioni di annodamento, il
fatto di servirsi di tre anelli dello stemma Borromeo per designare, distinguendone le tre consistenze simbolico,
immaginario e reale, ci obbliga a reperirvi nel modo migliore possibile, nell’esperienza clinica, ciò che è dell’ordine
simbolico, ciò che è dell’ordine immaginario e ciò che resta dell’ordine del reale.
Così in un’esplorazione clinica tradizionale ci sforziamo di reperire, a livello dei rapporti di ogni soggetto con la
catena significante che lo costituisce, la metafora paterna o la sua preclusione, la funzione fallica, i punti di capitone,
la metonimia. Ora, per potere scrivere in termini borromei gli elementi della storia di ciascuno e i momenti cruciali
del suo percorso in una cura analitica, dobbiamo saperle categorizzare, senza nessun pregiudizio, nei tre ordini
simbolico, immaginario o reale.
Un terzo e ultimo principio che vi propongo è che bisogna conoscere il maneggiamento della catena borromea.
Conoscere i suoi principali errori, misurarne le conseguenze e conoscere le riparazioni possibili. Si entra allora nel
solfeggio del nodo.
La catena borromea a tre comporta 6 punti di incrocio. Ma per ogni cerchio ci sono 4 punti di incrocio con gli altri
due. Ognuno di questi incroci risponde ad una alternanza di sopra sotto e per rispettare la logica borromea ciascuno
degli anelli deve incrociare gli altri due allo stesso modo – o sempre sopra o sempre sotto – altrimenti due cerchi
vanno ad annodarsi tra di loro, ciò che è escluso.
Visto che vogliamo favorire un lavoro di laboratorio, vi sottopongo un piccolo esercizio nel quale mi sono lanciato
per individuarvi i principali errori del nodo e misurare le loro conseguenze.
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Notate che ci sono dei punti di incrocio centrali – chiamerò centrali A,B,C – poi degli incroci periferici – li
chiamiamo D,E,F.
Cominciamo a studiare gli errori in periferia.
Errore nel punto F,
Il cerchio rosso dopo essere passato sotto il giallo, passa sotto il blu invece di passare sopra rispettando la
successione sotto sopra. Se guardate bene, questo errore libera il cerchio giallo. Altra conseguenza, il rosso e il blu
si inanellano.
Per i punti E e D vale lo stesso: un errore nel punto E libera il cerchio blu e incatena il rosso e il giallo. Un errore
nel punto D libera il cerchio giallo e incatena il blu al giallo.
Ora esaminiamo gli errori al centro. Sono più facili da vedere.
Errore nel punto A
Il cerchio rosso dopo essere passato sotto il giallo, passa ancora sotto il blu. Questo errore libera il cerchio giallo e
rosso e blu si inanellano. Si tratta dell’errore che Lacan attribuisce al caso Joyce, ne è almeno una versione perché
se leggete attentamente il seminario sul sinthomo, constaterete che Lacan dà, senza necessariamente accorgersene,
due versioni distinte del nodo sbagliato in Joyce.
Non entro nei dettagli degli errori in B o C, in quanto rispondono alla stessa logica: liberazione di un cerchio,
incatenamento degli altri due.
A seguire, mi sono sentito in dovere di studiare le conseguenze della coniugazione dei due errori al centro e alla
periferia.
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Errori in A e F
Vedete immediatamente che i tre cerchi si liberano.
Errore in E e C o in B e D
È la stessa cosa, i tre cerchi si liberano. La sola differenza è l’ordine di sovrapposizione ma è assolutamente senza
conseguenze.
Si può concludere che un cerchio resta bloccato a condizione che i due incroci nei quali non è direttamente
implicato non siano sbagliati: per esempio l’incrocio A&F per il cerchio giallo, l’incrocio B&D per il cerchio rosso
e l’incrocio C&E per il cerchio blu. Si tratta di un punto interessante perché questi punti nevralgici sono quelli che
definiscono i tre spazi che Lacan nomina: godimento fallico – riguardo A&F, senso – riguardante C&E e
godimento dell’Altro – riguardo B&D. È l’inanellamento che risulta dall’intreccio di questi tre godimenti che
assicura l’annodamento borromeo.
C’è un’altra combinazione di errori possibili, che portano a dei nodi complessi che non sono borromei né realmente
olimpionici. Esiste una tabella di nodi principali alla quale bisognerebbe riferirsi per potere qui definire questi nodi,
ma è un lavoro molto grosso al quale non ho avuto il tempo di dedicarmi.
Quello che riporto è che la scrittura di un nodo borromeo non si sbaglia così facilmente. Ho dovuto fare sforzi
per inscrivere questi errori. È interessante come esperienza perché questa sembra contraddire ciò che Lacan ci
dice, poiché lui, nei suoi primi passi della logica del nodo, passava molto tempo a sbagliarsi nella loro scrittura.
Non so cosa posso trarre da queste osservazioni ma è così.
Sia quel che ne sia, un nodo borromeo può sbagliarsi . E non è per forza un dramma, ciò può fornire l’occasione
al soggetto, a chi si è trasmessa la scrittura di questo errore di trovarne una soluzione.
Se evoco una trasmissione possibile dell’errore del nodo, è perché Lacan lo suggerisce in una piccola nota a
proposito della successione. Egli passa dalla scrittura della successione dei sopra-sotto nella catena borromea, per
ottenere la buona forma, a quello che trattano i notai negli affari di successione, cioè l’eredità. Lì parla del “ titolo
di nobiltà, l’anzianità della famiglia, che è, per il genealogista, sempre disponibile, per qualunque imbecille e dunque per qualunque
imbecillità”
Certamente si eredita un titolo di nobiltà che vale come riconoscimento puramente simbolico, ma non c’è bisogno
di cercare molto lontano nella Storia per dimostrare che la trasmissione di un titolo di nobiltà non garantisce che
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questa eredità non sia accompagnata dalla trasmissione di un errore del nodo. Gli esempi dove il titolo di nobiltà
copre l’errore del nodo non sono rari.
Infine vorrei introdurre un ultimo punto concernente questa catena borromea, cioè che, a condizione di fargli
subire un piccolo trattamento che consiste nel sezionare i cerchi in D, E, F, e nel fare tre tagli che mettono in
continuità il cerchio giallo con il bleu, il bleu con il rosso e il rosso con il giallo, si ottiene il primo dei nodi primi
che è il nodo di trifoglio.
Ricorderete che questo nodo di trifoglio corrisponde all’intreccio delle tre modalità di godimento che Lacan situa
al cuore della catena borromea. Tirando ciascun principio di godimento dal suo lato, il nodo si blocca intorno
all’oggetto “a” che si trova al centro e questo blocco evita che un principio di godimento lo trascini sugli altri due.
La catena borromea a tre risponde allo stesso principio matematico del nodo di trifoglio.
Se fate questa operazione sui tre cerchi che non sono incatenati in maniera borromea, otterrete un falso nodo di
trifoglio, altrimenti detto nodo triviale che si riduce a un giro. Capite bene che l’intreccio dei tre godimenti ne è
completamente perturbato, i tre principi di godimento non sono più distinti. Lacan si serve di questa
trasformazione della catena borromea in nodo di trifoglio per analizzare il caso Joyce. Se in Joyce i tre cerchi non
sono annodati, allora la riduzione della catena darà un falso nodo di trifoglio.
E ci mostra che si può riparare l’errore là dove si è prodotto o altrove, ciò che non avrà gli stessi effetti.
E’ a proposito del nodo a trifoglio che si può cominciare a ravvisare un solfeggio del nodo, cioè una scrittura
matematica della successione degli incroci incontrati quando si immagina di percorrere il nodo. Si sceglie un punto
di partenza e si vede che si incontra all’inizio un tunnel 1, poi un ponte, un secondo tunnel 2, poi un ponte e infine
un terzo tunnel 3, un ultimo ponte e si è arrivati. Si sono incontrati dunque 6 incroci: 3 tunnel e 3 ponti. Si
caratterizza ciascun tunnel per il ponte che lo sovrasta e il senso del tragitto su questo ponte a seconda che su
questo ponte si passa da sinistra a destra o da destra a sinistra. Si ottiene così la matrice del nodo che servirà da
base alla scrittura di un polinomio, cioè una scrittura logica che renda conto della natura del nodo. E poiché il nodo
è reale, si ha dunque una scrittura del reale. Si comprende perché Lacan si è accanito a definire ( trovare ) la logica
del nodo. E’ a questo punto all’orizzonte che mirava cercando di elaborare una scrittura che rendesse conto della
clinica psicoanalitica.
Per terminare, con degli esempi pratici ( en guise de traveaux pratiques) vi propongo la costruzione di un caso che
abbiamo potuto fare con una collega spagnola, Roser Casalprim, al momento della relazione di un caso che aveva
costruito nell’ambito della formazione clinica.
Questo uomo è venuto a consultarla dopo un episodio delirante in apparenza scatenato per l’assunzione di una
sostanza allucinogena. In realtà la collega è riuscita a rintracciare la logica dello scatenamento di questa psicosi in
un paziente il cui ambiente familiare è il seguente: una madre depressa, uno zio materno schizofrenico che si è
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suicidato, una depressione nel padre in seguito al fallimento della sua impresa, un fratello diagnosticato
schizofrenico il cui scatenamento della psicosi ha scosso seriamente il paziente.
Questo uomo stava redigendo una tesi in Inghilterra sul tema delle migrazioni quando la sua compagna rimane
incinta, e suo fratello, al quale è molto legato, ha uno scompenso della sua psicosi. Grazie alla costruzione fatta
dalla sua analista, si comprende che con lo scompenso del fratello egli perdeva un appoggio immaginario che
l’aveva sostenuto fino a quel momento. Del resto il lavoro di tesi si svolge bene, ma l’idea di ottenere questo titolo
universitario, proprio come l’idea di essere padre, lo rinviano ad un sentimento di impostura e ad idee di suicidio.
Fugge agli antipodi da cui ritorna assai presto dopo avere allucinato “ le vie del deserto” nell’entroterra australiano.
Ciò che ha attirato la mia attenzione, è un significante maggiore nel paziente, un significante che la sua analista ha
reperito. Questo significante, è “arrastrado” ( trascinato, spazzato via,) un significante che dice ciò che questo
paziente teme, di essere attirato suo malgrado, di essere trascinato verso il caos, l’inferno o la follia. Questo
significante indica proprio che questo paziente si sente male ancorato, che rischia di scivolare, in breve che il
blocco (la tenuta) attraverso il nodo non è assicurato per lui.
Questo si traduce in fenomeni corporei inquietanti. L’immaginario contribuisce grandemente a queste angosce
frammentanti. Egli racconta che un giorno assisteva a uno spettacolo del mimo Marceau che interpretava un
personaggio folle, spaventato. Il paziente ha dovuto lasciare la sala perché si sentiva irresistibilmente trascinato
dalla follia del personaggio. Ne è seguito un episodio allucinatorio nel quale vedeva personaggi bizzarri dall’aspetto
di guru che lo inseguivano.
Un punto ha attirato particolarmente la mia attenzione nel caso presentato, è un punto che mostra la funzione
dell’immaginario in questo paziente. In Inghilterra ha preso la passione per una danza folcloristica un po’ desueta,
la danza Morris , che si effettua su una linea ( si pratica essendo allineati), esclusivamente tra uomini da 6, 8 a 10
che si fronteggiano due a due ed eseguono gesti simmetrici. Sono conciati in maniera ridicola, sono armati di
bastone con il quale colpiscono il suolo rispettando una cadenza e simulano di incrociare le spade. Questa danza
molto rozza e desueta non quadra veramente con il livello intellettuale di questo paziente insegnante ricercatore e
non ha niente a che vedere con la tradizione culturale catalana. E ciononostante egli si appassiona a questa attività
e giunge anche a scrivere un articolo nel quale fa un parallelo tra questa famosa danza Morris e il folklore catalano.
Ciò che colpisce in questa famosa danza, è che ciascuno ricalca i suoi movimenti su quelli del partner che ha di
fronte . Ciò che potrebbe passare per movimenti disordinati di folli e stravaganti è nei fatti perfettamente regolato
da una simmetria e dalla cadenza di una musica molto ripetitiva. Vi si ritrova la funzione dell’immagine in questo
paziente, una funzione nello stesso tempo captatrice – egli rischia di essere inghiottito dalla simmetria come è stato
ingoiato dallo scatenamento della psicosi del fratello o dall’immagine del folle rappresentato dal mimo – e nello
stesso tempo, se l’immagine di fronte tiene, soprattutto se è inquadrata come nel rituale di questa danza inglese
tradizionale, allora lo stabilizza.
Ciò che ugualmente ha attirato la mia attenzione nel caso presentato dalla mia collega Roser, è il modo di
stabilizzazione ottenuto dal paziente nel corso della cura. Lui che non sopportava le separazioni trova il modo di
stabilizzarsi negli andirivieni dei suoi soggiorni all’estero. Supporta la sua funzione di insegnante ricercatore,
incontra una nuova compagna con la quale fa un figlio, è attualmente padre di una figlia di 6 anni. Più cose
sembrano avere contribuito alla sua stabilizzazione.
Una ricerca sulle sue origini, uno sforzo di istorizzazione sui suoi ascendenti, il suo gusto per la storia – si è
soprattutto occupato della biografia di Cesare Augusto, un modello per lui di qualcuno che non si è lasciato
trascinare dal suo ambiente ( enteurage)- e poi soprattutto il passaggio per un’altra lingua, l’inglese, lingua nella
quale ha redatto la sua tesi rifiutando che fosse tradotta in spagnolo. Si può supporre che questa altra lingua abbia
fatto supplenza di un simbolico mancante. E’ giunto perfino a fare modificare l’ultima lettera del suo nome che è
anche il nome di suo padre e dello zio materno suicida, dando al nome un aspetto anglosassone e collegandolo a
un eroe di Shakespeare.
Il suo rapporto alla lingua inglese gli dà uno statuto di extra territorialità nell’ambito dell’Università, ciò gli permette
di non lasciarsi trascinare, inghiottire nel godimento dell’Altro come al tempo in cui il suo corpo rischiava la
frammentazione per le immagini e le parole incontrate nel suo cammino.
Se ragioniamo in termini borromei, possiamo dire che prima dello scatenamento questo soggetto teneva grazie a
una relazione mimetica con il fratello. Senza dubbio, i due fratelli si sostenevano l’un l’altro in questo modo. Come
se in questa configurazione, la relazione fraterna venisse a raddoppiare l’immaginario di ciascuno e assicurare
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l’annodamento mancante. Lo scatenamento dell’uno scatena la psicosi nell’altro. Appariva allora che i tre registri
erano snodati. Male ancorato il corpo rischia dunque di partire nell'erranza di essere trascinato (entrainé) verso il
caos.
Si potrebbe fare l’ipotesi che è la scrittura che lo salva. Ma questa ipotesi mi appariva un po’ miope (courte).
Certamente egli scrive, ma non nella lingua materna ed è questo che lo fa tenere, ciò che gli fa sopportare di essere
un autore. Ciò che lo salva, è un Altro di soccorso che egli si è costruito con la lingua inglese al punto da
anglicizzare il suo nome e rientrare nella danza che civilizza il suo godimento. Trova, dunque, nel corso della cura,
il modo di riannodare la catena che si era snodata raddoppiando il cerchio del simbolico attraverso la sua pratica
dell’inglese; questo gli permette di essere riconosciuto senza rischiare l’identificazione devastante quale la si
rincontra nella psicosi quando l’identificazione ideale viene a essere aspirata dal buco della forclusione, come nel
caso del Presidente Schreber quando è chiamato da sua madre al posto di doversi fare garante delle Associazioni
Schrebergarten alla morte del padre.
In definitiva quello che mi è apparso molto dimostrativo nel caso relazionato dalla nostra collega, è che il
paziente si è appoggiato sul lavoro del suo analista per costruire un annodamento di stabilizzazione e che la
costruzione del caso ci fa valutare quello che si era scritto per quest’uomo, non tanto una bibliografia, fosse
anche in inglese, ma la scrittura di un nodo che gli permette di tenere, di cessare di essere trascinato da un lato o
dall’altro al rischio degli incontri della vita.
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