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Economia Regionale, Roberta Capello, Il Mulino (ed 2015)-Riassunto

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La distribuzione disomogenea delle materie prime, dei fattori produttivi (K e
L), della domanda impone alle imprese e alle
attività produttive in generale di scegliere la loro localizzazione, così come
scelgono i fattori produttivi e la tecnologia; e
così come la scelta delle combinazioni di fattori e della tecnologia da adottare
influenza in modo determinante la capacità
produttiva delle imprese e la loro posizione sul mercato, anche la
localizzazione svolge un ruolo fondamentale nella
definizione della capacità di sviluppo delle singole imprese e, in termini
aggregati, dei territori nei quali le imprese sono
localizzate.
</p><p> Le prime osservazioni sull’introduzione dello spazio nell’analisi
economica sono contenute nelle teorie della localizzazione
delle attività industriali. Queste teorie hanno come obiettivo la spiegazione
delle scelte localizzative considerando entrambe
le grandi forze economiche che determinano l’organizzazione delle attività nello
spazio, i costi di trasporto e le economie di
agglomerazione.
</p><p> L’esistenza di economie di agglomerazione spiega la tendenza alla
concentrazione spaziale. Con il termine “<b>economie di
agglomerazione</b>” si fa riferimento a tutti quei vantaggi di ordine economico
che le imprese ottengono da una localizzazione
concentrata, prossima ad altre attività: riduzione di costi di produzione per
dimensioni di impianto elevate, presenza di
servizi avanzati e specialistici, di capitale fisso e sociale, oltre che
presenza di manodopera qualificata, conoscenze
manageriali e produttive molto specializzate, di un mercato dei beni intermedi
vasto e specializzato che richiedono tutti per
la loro produzione un’elevata soglia critica di domanda. I vantaggi che spingono
le imprese a una localizzazione concentrata
sono:
-le <b>economie interne all’impresa</b>,
dette <b>economie di scala</b>, cui sono associati minori costi per unità di
prodotto. Per godere dei vantaggi associati alla grande
produzione, l’impresa sceglie localizzazioni concentrate degli impianti in un
unico luogo di produzione;
- -le <b>economie esterne all’impresa ma interne al settore</b>, o <b>economie
di localizzazione</b>, che scaturiscono dalla presenza
in un’area di un’elevata densità di imprese di uno stesso settore.
--le
<b>economie esterne all’impresa ed esterne al settore</b> o <b>economie di
urbanizzazione </b> che derivano dall’elevata densità e
varietà di attività produttive e residenziali in un’area. A questa categoria
fanno riferimento i vantaggi dettati dalla presenza
di un vasto capitale fisso sociale, di un vasto e diversificato mercato dei beni
intermedi e finali che aumentano al crescere
della dimensione fisica della città. Il processo cumulativo di concentrazione
delle attività economiche nello spazio che
scaturisce dalla presenza di questi vantaggi trova ostacoli in 2 elementi che
spingono verso localizzazioni diffuse. Il primo
elemento riguarda la formazione di costi crescenti o diseconomie nell’area di
agglomerazione, sia in termini di prezzo dei
fattori meno mobili e più scarsi, sia in termini di costi di congestione. Il
secondo elemento riguarda la presenza di costi di
trasporto. In condizioni di concorrenza perfetta, di fattori produttivi
perfettamente mobili, di materie prime fisse e di
domanda perfettamente distribuite sul territorio, l’esistenza di costi di
trasporto può controbilanciare i vantaggi di
agglomerazione a tal punto da dar luogo a una diffusione delle attività sul
territorio e a una precisa divisione delle aree di
mercato tra produttori in cui ognuno risponde alle esigenze di un mercato
locale. Occorre ricordare che i costi di trasporto
sono intesi come tutti quegli elementi di frizione spaziale i quali rendono più
appetibile una localizzazione che permette una
distanza ridotta tra due punti nello spazio. Sulla base degli obiettivi che si
pongono e delle ipotesi che assumono circa la
struttura spaziale del mercato due gruppi distinti di teorie della
localizzazione delle attività industriali sono identificabili:
</p><p>-le teorie orientate alla minimizzazione dei costi;
</p><p> -le teorie orientate alla massimizzazione dei profitti.
</p><p><b>2. ECONOMIE DI LOCALIZZAZIONE E COSTI DI TRASPORTO
</b></p><p><b>2.1. IL CONTRIBUTO DI WEBER
</b></p><p>L’economista Weber formula un elegante modello localizzativo in cui i
costi di trasporto tra luoghi di produzione, mercati
delle materie prime e mercato del bene finale sono messi direttamente a
confronto con le economie di localizzazione. Il
modello di Weber si fonda su queste ipotesi:
</p><p>1. Un mercato del bene puntiforme (C);
2. Due mercati delle materie prime, anch’essi puntiformi, localizzati a una
certa distanza uno dall’altro (M1 e M2);
3. Condizioni di perfetta concorrenza sul mercato, ossia nessuna possibilità per
i produttori di derivare vantaggi
monopolistici dalla scelta localizzativa;
4. Una domanda del bene finale rigida al prezzo;
</p></div></div><div><div><p>5. Un’unica tecnica di produzione uguale in ogni
possibile localizzazione; costi di produzione sono dati e costanti.
La scelta localizzativa è il risultato di un calcolo in 2 stadi. Nel primo
stadio l’impresa cerca la localizzazione che garantisce
il costo minimo di trasporto tra il luogo di produzione e i mercati delle
materie prime e del bene finale. Nel secondo stadio,
l’impresa paragona i vantaggi di agglomerazione con i maggiori costi di
trasporto in cui incorre qualora scelga la nuova
localizzazione rispetto a quella a costo minimo. NOTA: il primo stadio evidenzia
la localizzazione che garantisce costi di
trasporto minimi. Siano x e y le tonnellate di materie prime rispettivamente
presenti nei mercati M1 e M2 necessarie per
produrre un’unità di prodotto, e z le tonnellate del bene finito da trasportare
sul mercato finale C; i costi di trasporto totali
CT sono espressi come funzione del peso della merce da trasportare e della
distanza da coprire.
CT= xa+yb+zc
dove a,b,c sono rispettivamente le distanze in km tra i mercati delle materie
prime e il luogo di produzione e tra
quest’ultimo e il mercato finale; xa, yb, zc rappresentano le forze di
attrazione che spingono l’impresa rispettivamente verso
il punto M1, M2 e C.
</p><p>La soluzione localizzativa a costo minimo può essere identificata:
- in un punto interno al triangolo che si viene a formare dall’unione di M1, M2
e C, qualora nessuna delle forze di attrazione
ecceda la somma delle altre due. Questa condizione è raggiunta quando il costo
di spostare le z tonnellate di bene prodotto
di un chilometro più lontano dal mercato di sbocco non eccede la somma dei costi
per spostare le y e x tonnellate di materie
prime di un chilometro più lontano dal loro mercato d’origine;
- in C, cioè nel mercato finale quando
la somma dei costi per spostare le y e x tonnellate di materie prime un
chilometro più lontano dal loro mercato è inferiore al
costo dello spostamento delle z tonnellate di bene finale prodotto per un
chilometro in più. Questa localizzazione viene
definita come “orientata al mercato”.
–
in un punto verso i mercati delle materie prime, qualora la
somma dei costi di trasporto per un chilometro in più delle y e x tonnellate di
materie prime ecceda il costo aggiuntivo di
trasporto delle z tonnellate di bene finito. Questa localizzazione viene
definita come “orientata alle materie prime”.
</p><p>Nel secondo stadio che accompagna la scelta localizzativa, l’impresa
mette a confronto la localizzazione a costo minimo
con una localizzazione alternativa nella quale può godere di economie di
localizzazione, quali la disponibilità di
manodopera a prezzi relativamente meno elevati e/o di qualità superiore. Se si
suppone che P in figura sia il punto di
localizzazione a costi di trasporto minimo, Weber evidenzia le cosiddette
isodapane, curve lungo le quali il costo di
trasporto addizionale che l’impresa deve affrontare per coprire una certa
distanza dalla localizzazione a costo minimo
rimane costante. Se ci sono altre imprese operanti nello stesso settore, la
scelta rilocalizzazone avverrà se e solo se le
isodapane di ogni impresa che misurano un costo aggiuntivo di trasporto pari al
vantaggio agglomerativo (v) si incrociano;
all’interno dell’area di intersezione i costi di trasporto aggiuntivi sono
inferiori ai vantaggi che la localizzazione concentrata
genera.
</p><p><b>3. DIMENSIONE DEL MERCATO E COSTI DI TRASPORTO
</b></p><p>Nel modello di Weber la domanda assume una struttura spaziale
puntiforme, priva di dimensione fisica o economica: questa
ipotesi nega l’esistenza di luoghi di agglomerazione della popolazione, nega
l’esistenza di grandi agglomerazioni urbane,
che esistono grazie ai vantaggi che la densità abitativa comporta per attività
residenziali e produttive. Qualora si ipotizzi
l’esistenza di mercati finali di diversa dimensione è facilmente dimostrabile
che le scelte localizzative delle attività
industriali cambiano rispetto a quelle effettuate sia in un’ottica di mercati
puntiformi, sia distribuiti omogeneamente sul
territorio.
</p><p><b>4.1. LE AREE DI MERCATO
</b></p><p>Un secondo gruppo di modelli di localizzazione industriale si pone
l’obiettivo di evidenziare come la coesistenza di
economie di scala e costi di trasporto identifica la divisione spaziale del
mercato tra i produttori; per raggiungere ciò, è
necessario abbandonare l’ipotesi di una struttura di mercato puntiforme, per
rifarsi a quella di una domanda distribuita
omogeneamente sul territorio.
IPOTESI:
<i>1. Esiste una domanda omogeneamente distribuita lungo un mercato lineare, ed
è una domanda completamente rigida al
prezzo;
2.
Esistono due produttori che offrono uno stesso prodotto con identiche funzioni
di costo;
3. La localizzazione dei produttori è data;
4. Il costo di trasporto per unità di distanza è costante, così che quello
totale sia proporzionale unicamente alla distanza
percorsa;
5. Il costo di trasporto è a carico del consumatore. </i>
Siano A e B i due produttori localizzati in due punti su un mercato lineare
(fig. 1.2a). Il prezzo al quale i produttori vendono
la merce sul mercato è ottenuto dalla somma del prezzo franco fabbrica, o prezzo
di produzione della merce (p*), con il
costo di trasporto:
p= p*+πd
</p></div></div><div><div><p>dove π è il costo di trasporto unitario per unità
di distanza e d la distanza percorsa dal consumatore per recarsi ad acquistare
il bene. MAN MANO CHE CI SI ALLONTANA DAL LUOGO DI PRODUZIONE, IL PREZZO DI
ACQUISTO DEL
PRODOTTO AUMENTA POICHE’ MAGGIORE E’ IL COSTO DI TRASPORTO CHE I CONSUMATORI
DEVONO
AFFRONTARE PER RECARSI AD ACQUISTARE IL PRODOTTO: LA LONTANANZA DAL LUOGO DI
PRODUZIONE IMPONE AI CONSUMATORI LOCALIZZATI IN a DI ACQUISTARE IL BENE A UN
PREZZO
SUPERIORE, PARI A p1 nella figura 1.2a. ATTRATTI DA UN PREZZO INFERIORE, I
CONSUMATORI
SEGLIERANNO DI COMPERARE IL BENE DAL PRODUTTORE LOCALIZZATO PIU’ VICINO A LORO.
Per
esempio nella fig. 1.2° la differenza di prezzo tra p1 e p2 incentiva i
consumatori localizzati in c ad acquistare il bene dal
produttore A piuttosto che dal produttore B. Questa condizione vale per tutti i
consumatori compresi tra i punti a e b.
Lo stesso ragionamento vale per i consumatori localizzati da b in poi: essi
troveranno conveniente rivolgersi al produttore B,
che offre, a prezzi inferiori, lo stesso bene di A. Il punto b rappresenta la
soglia delle 2 aree di mercato: in quel punto risulta
indifferente al consumatore servirsi dal produttore A o da B, essendo uguali i
prezzi di vendita del bene praticati dai 2
produttori.
<i></i>
Qualora uno dei due produttori
(B) goda di economie di scala e abbia cioè un costo di produzione inferiore al
produttore A, la soglia di separazione tra i
mercati dei due produttori, rappresentata dal punto b, si sposta e delimita
un’area di mercato maggiore per i produttore B
(fig 1.2b). Il produttore A riesce a resistere sul mercato grazie alla distanza
che lo separa da B.
Nella figura 1.2c B gode sia di economie di scala (pB*<pA*) sia di costi di
trasporto inferiori (πB<πA) e sottrae ad A gran
parte del mercato; A riduce ancor di più il suo controllo a una piccola area (ab) vicina al suo luogo di produzione.
</p><p>CONCLUSIONI SUL MODELLO:
</p><p>1) i consumatori localizzati più vicino al luogo di produzione ottengono
un vantaggio economico in termini di minori costi
di trasporto e dunque di minore prezzo complessivo del bene di cui si
avvantaggiano se il produttore non applica
discriminazioni di prezzo;
2) il
produttore può discriminare sul prezzo all’interno della sua area di mercato,
nella quale opera in regime di monopolio, senza
perdere quote di mercato.
3) dai punti 1 e 2
si evince che la distanza fisica svolge il ruolo di barriera all’entrata nei
mercati locali: ogni impresa non compete con tutte le
altre, ma con quelle più prossime. Il modello di competizione tra imprese in un
mercato spaziale non può pertanto essere
quello di concorrenza monopolistica.
</p><p><b>5. LA DOMANDA SPAZIALE, L’EQUILIBRIO DEL MERCATO E LA LOCALIZZAZIONE
DELL’IMPRESA
</b></p><p>Ora occorre definire le diverse quantità del bene offerto
dall’impresa che i consumatori sono disposti ad acquistare, al
variare della distanza da percorrere per acquistarlo, dati un certo costo di
produzione del bene e un certo costo di trasporto.
Questo passo presuppone la costruzione della <b>curva di domanda spaziale
individuale</b>, che evidenzia le diverse quantità
del bene x che ogni individuo è disposto ad acquistare dall’impresa i, in
funzione della sua distanza dall’impresa stessa e dal
prezzo di produzione definito dal produttore in base alle condizioni di
produzione. Una volta ottenuta la curva di domanda
spaziale individuale è possibile ottenere la curva di domanda spaziale del
mercato, come somma delle singole quantità
domandate alle diverse distanze dagli n consumatori esistenti nel mercato, che,
analizzata insieme alla tradizionale curva di
offerta dell’impresa della teoria microeconomica, definisce l’equilibrio di
mercato. La costruzione della domanda spaziale è
riportata in fig. 1.5, composta da 4 grafici.
- il grafico a rappresenta la relazione prezzo-distanza. Nel grafico b è
costruita la curva di domanda individuale della
microeconomia tradizionale, delineando una relazione negativa tra prezzo e
quantità. Il grafico c ha la semplice funzione di
trasposizione della variabile sugli assi. Il grafico d contiene la curva di
domanda spaziale individuale.
A una distanza pari a d1, l’impresa offre al consumatore il bene x al prezzo p1.
A quel prezzo il consumatore è interessato ad
acquistare la quantità x1 del bene. La quantità è facilmente trasferibile sul
grafico d grazie alla trasposizione degli assi che si
effettua nel grafico c. Unendo nel grafico d le combinazioni ottenute quantitàdistanza, si ottiene la curva di domanda
spaziale individuale. LA DOMANDA DEL BENE COMPLESSIVAMENTE RICHIESTA ALL’IMPRESA
PER OGNI
DISTANZA E’ NELL’IPOTESI CHE TUTTI I CONSUMATORI ABBIANO IDENTICHE CURVE DI
DOMANDA
SPAZIALE INDIVIDUALE, LA SOMMA DELLE SINGOLE QUANTITA’ DOMANDATE ALLE DIVERSE
DISTANZE
DAGLI n CONSUMATORI ESISTENTI NEL MERCATO. Se si ipotizza una densità di
consumatori uniforme per ogni
unità di distanza, pari a q, la quantità complessivamente domandata del bene
sarà pari all’area sottostante la curva di
domanda individuale, moltiplicata per la densità q (area ODX 1.6a). Se si fa
ruotare di 360° il triangolo formato dalla curva
di domanda individuale intorno all’asse verticale, si viene a delineare un
mercato circolare; il volume del cono che si
ottiene, moltiplicato per la densità q, determina la quantità complessiva di
bene domandata in un mercato circolare (1.6b).
Le dimensioni delle aree di mercato che si delineano dal cono di domanda di
Losch dipende dai costi di trasporto e dalle
condizioni alle quali il bene è offerto. Un aumento dei costi di trasporto
inclina la curva di domanda spaziale individuale, e
restringe l’area di mercato dell’impresa (1.7 a); un prezzo di vendita più
elevato diminuisce la quantità del bene richiesta dal
consumatore, a parità di distanza e la curva spaziale individuale subisce
pertanto uno spostamento parallelo verso il basso,
che riduce l’area di mercato del produttore (1.7b). Una volta definita la curva
di domanda, Losch evidenzia l’equilibrio
economico-spaziale del mercato e la localizzazione dell’impresa. In ogni singola
area, l’impresa si comporta da
monopolista: la distanza protegge la sua area di mercato e il produttore produce
in condizioni di massimizzazione del </p></div></div><div><div><p>profitto e
extraprofitti. Il mercato a livello spaziale, è formato da molte aree di
mercato, non sovrapposte una all’altra, con
ampi spazi nei quali esiste una domanda non servita (1.8 a). Questo è però un
equilibrio di breve periodo. Infatti l’esistenza
di extraprofitti nella produzione del bene incentiva nuove imprese ad entrare
nel mercato e a localizzarsi proprio nelle aree
non ancora coperte da un’offerta. L’entrata di nuove imprese comporta due
effetti: il mercato spaziale si satura e si erodono
i margini di profitto delle singole imprese, a causa di una riduzione della
domanda suddivisa tra più produttori. Ben presto si
arriva a una condizione in cui le imprese non hanno più interesse a entrare nel
mercato, in quanto gli extraprofitti sono
riassorbiti dai costi di produzione crescenti; l’equilibrio di mercato di lungo
periodo è cosi raggiunto.
QUINDI DI FRONTE ALLA SOVRAPPOSIZIONE DI AREE DI MERCATO, E NELL’IPOTESI DI BENE
OMOGENEO, I CONSUMATORI SCELGONO DI ACQUISTARE IL BENE AL MINOR PREZZO DI
VENDITA
OFFERTO, CHE SARA’ QUELLO DEFINITO DALLA DISTANZA INFERIORE CHE SEPARA IL
CONSUMATORE
DAL PRODUTTORE. IL RISULTATO DEL PROCESSO E’ UN EQUILIBRIO DI MERCATO DI LUNGO
PERIODO, IN
CUI SI VIENE A CONFIGURARE UN MERCATO SPAZIALE FORMATO DA ESAGONI REGOLARI,
SENZA AREE
DI SOVRAPPOSIZIONE.
6. IL MODELLO DI HOTELLING
Nei modelli precedenti, data una certa localizzazione dei produttori e data una
domanda omogeneamente distribuita sul
territorio, il mercato viene suddiviso in aree, in ognuna delle quali opera un
solo produttore. Non si è mai ipotizzato che,
una volta spartito il mercato, i produttori prendano in considerazione di
rilocalizzarsi. Occorre riflettere quindi
sull’interdipendenza nelle scelte localizzative contenuta nel modello di
duopolio di Hotelling.
IPOTESI:
1. L’esistenza di due soli produttori (duopolio);
2. Un mercato lineare sul quale è omogeneamente distribuita la domanda del bene
prodotto, anch’esso omogeneo;
3. Costi di rilocalizzazione nulli;
4. Una domanda completamente anelastica al prezzo (q.tà bene domandata
consumatore che non cambia al variare del
prezzo);
Date le localizzazioni iniziali dei produttori in A e in B, se si ipotizza la
rilocalizzazione di uno dei due produttori, ad
esempio A in A’, la spartizione del mercato cambia a favore di A che conquista
quote di mercato sottraendole al produttore
B. Anche B avrà interesse a rilocalizzarsi, in B’ poiché così facendo ottiene
quote di mercato di A. Questo processo ha
termine quando i produttori si focalizzano al centro del mercato, spartendosi a
metà il mercato spaziale (1.9b).
</p><p>Si possono fare due considerazioni alle quali si giunge grazie a questo
modello:
1. Anche in presenza di costi di trasporto, esiste una naturale tendenza delle
attività produttive a concentrarsi nello spazio;
2. La soluzione competitiva ottenuta dalle forze di mercato non coincide con
l’interesse pubblico: la distanza media che il
consumatore deve percorrere per acquistare il bene una volta che i produttori
hanno raggiunto l’equilibrio localizzativo è
nell’ipotesi di una localizzazione di partenza pari a quella descritta in 1.9
a., maggiore di quella iniziale. Le critiche al
modello di Hotelling si rifanno alla forte dipendenza dei risultati raggiunti
dalle ipotesi di base. Se fosse ammessa una
soluzione cooperativa, i due produttori potrebbero accordarsi per non cambiare
la localizzazione iniziale, evitando i costi di
delocalizzazione. In secondo luogo, qualora fosse ammessa la possibilità di
nuovi entranti sul mercato, verrebbe meno la
concentrazione spaziale; alla nuova impresa, infatti, converrebbe evitare la
localizzazione centrale e invece sfruttare
localizzazioni più periferiche. Qualora si eliminasse l’ipotesi di rigidità
della curva di domanda, il risultato di una
localizzazione centrale verrebbe di nuovo messo in discussione. Uno spostamento
di entrambi i produttori da una
localizzazione centrale verso una più periferica permetterebbe ricavi più
elevati; infatti nelle nuove localizzazioni A’ e B’
nella fig 1.10, i consumatori avrebbero un risparmio in termini di costi di
trasporto pari all’area grigio chiaro, che è
superiore al risparmio reso possibile da una localizzazione centrale, definito
dall’area grigio scuro della figura; la loro
domanda del bene quindi aumenterebbe.
</p></div></div><div><div><p>CAP. 4:
STRUTTURA PRODUTTIVA E SVILUPPO
1. DIFFERENTI INTERPRETAZIONI DI CRESCITA/SVILUPPO REGIONALE
Ci si occupa ora della teoria dello sviluppo regionale. Nonostante ci siano
diversi approcci per il suo studio, tutte le teorie
sono accomunate da un unico interesse, quello di identificare gli elementi e le
determinanti che possono dare ragione del
sentiero di sviluppo di un sistema locale e analizzarlo sia in termini di
crescita assoluta, in un’ottica di efficiente allocazione
delle risorse locali, sia in termini di crescita relativa (tra regioni) in modo
da interpretare le disparità regionali e i sentieri di
convergenza o divergenza nei livelli e nei tassi di crescita del reddito, in
un’ottica di equità distributiva.
L’oggetto principale di studio delle teorie e dei modelli che vedremo d’ora in
poi, risiede nello “sviluppo regionale”, inteso
come la capacità di una regione di trovare, e di ricreare continuamente, uno
specifico e appropriato ruolo all’interno della
divisione internazionale del lavoro, attraverso l’uso efficiente e creativo
delle risorse che il sistema economico locale
possiede. Spesso, nelle teorie e nei modelli che analizzeremo, gli elementi che
compongono lo sviluppo di un sistema
economico sono ricondotti a un unico indicatore, la crescita del prodotto o del
reddito pro capite di una regione, con
l’evidente perdita di informazioni qualitative, ma con l’innegabile pregio di
una possibile modellizzazione analitica del
sentiero di sviluppo. Quando questo è il caso, si è di fronte a <b>teorie della
crescita regionale</b>, mentre, quando le teorie si
occupano di analizzare elementi tangibili e intangibili, spesso di difficile
formalizzazione, che definiscono il benessere della
società e ne garantiscono il perdurare nel tempo, si parla di <b>teorie dello
sviluppo locale</b>.
Del concetto di crescita regionale esistono 3 grandi filosofie con le quali si è
interpretata la dinamica economica: 1. In un
gruppo di teorie l’obiettivo risiede nell’individuazione delle determinanti che,
in un sistema locale, generano occupazione e
reddito nel breve periodo, ipotizzando capacità produttiva (stock di capitale)
non utilizzata e ampie riserve di lavoro. In
queste condizioni, la crescita economica locale non dipende dalla struttura e
dalla dinamica dell’offerta ma dallo sviluppo
della domanda di beni prodotti localmente, che mette in moto processi
moltiplicativi del reddito attraverso incrementi nei
consumi e nell’occupazione.
2. In un secondo gruppo di teorie l’interesse è quello
di evidenziare i meccanismi economici che permettono alla regione di uscire
dalla povertà, di intraprendere un sentiero di
crescita, di garantire un certo livello di benessere e di reddito pro capite
agli individui.
3. Il terzo gruppo si rifà alla concezione più moderna di crescita, dove
l’obiettivo risiede nel ricercare le condizioni locali
che permettono al sistema economico di raggiungere elevati livelli di
competitività e di innovatività che garantiscono di
mantenere tali livelli di competitività nel tempo.
</p><p>Dalle diverse interpretazioni di sviluppo emerge <b>l’elemento scatenante
del processo di crescita</b>. Un aumento del reddito di
breve periodo è facilmente raggiungibile attraverso una crescita della domanda
di beni e servizi prodotti localmente, nella
forma di una domanda settoriale effettiva, anche esterna all’economia locale e
dinamica, che instaura un meccanismo
cumulativo virtuoso “domanda-offerta” attraverso effetti moltiplicativi sul
reddito di stampo keynesiano. Il motore dello
sviluppo risiede in questo caso in <b>elementi di domanda</b>.
Al
contrario, in un’ottica attenta al benessere individuale e
alla competitività di lungo periodo, il motore dello sviluppo deve spostarsi su
<b>elementi di offerta</b>, nella forma di
disponibilità di fattori produttivi, di vantaggi assoluti o comparati delle
produzioni locali che determinano la capacità
produttiva di un’area e la sua posizione sul mercato mondiale.
</p><p><b>2. LE DIVERSE CONCEZIONI DI SPAZIO
</b></p><p>Le prime teorie dello sviluppo regionale sono teorie della crescita
volte a spiegare l’andamento del reddito e
dell’occupazione, nel breve e medio-lungo periodo: per farlo, si abbandona il
concetto di spazio fisico-metrico caro alla
teoria della localizzazione per adottare una concezione di <b>spazio uniformeastratto</b>, uno spazio all’interno del quale le
condizioni di offerta e di domanda sono ovunque identiche. Uno spazio di questo
tipo permette di utilizzare modelli a
carattere macroceconomico nell’interpretazione dei fenomeni di crescita locale;
infatti nell’ipotesi di uno spazio uniformeastratto nel quale le variabili economiche assumono gli stessi valori in tutta
la regione, è possibile stilizzare il
comportamento economico della regione in teorie e modelli di matrice
macroeconomica aggregata prevedendo l’andamento
dell’economia attraverso l’interazione di alcune variabili. Queste sono le
teorie della crescita regionale.
Un secondo modo di interpretare lo spazio è contenuto nella concezione di
<b>spazio diversificato-relazionale</b> che ipotizza
l’esistenza di polarità ben precise nello spazio geografico e di specificità nei
rapporti tra individui, società e territorio sulle
quali lo sviluppo si basa. Questa concezione di spazio sposta l’analisi a un
approccio microterritoriale e
microcomportamentale e, teorie del genere sono definibili come teorie dello
sviluppo, finalizzate a ricercare tutti quegli
elementi tangibili e intangibili, esogeni o endogeni, che caratterizzano il
processo di sviluppo. Questa interpretazione di
spazio trova la sua massima espressione nelle teorie dei distretti industriali,
dei milieux, delle learning regions, che si
occupano di ricercare le determinanti endogene dello sviluppo. In queste teorie
lo spazio diviene risorsa economica a fattore
produttivo autonomo, generatore di vantaggi statici e dinamici per le imprese in
esso insediate ed elemento fondamentale
nella determinazione della competitività del sistema produttivo locale.
Nelle trattazioni teoriche più recenti, il concetto di spazio diviene quello di
<b>spazio diversificato-stilizzato</b>, uno spazio nel
</p></div></div><div><div><p>quale esistono polarità, sulle quali si innesta lo
sviluppo, ma alle quali è negata una dimensione territoriale, in quanto
stilizzate in semplici punti nello spazio.
</p><p><b>3. LA TEORIA DEGLI STADI E LE PRECONDIZIONI DELLO SVILUPPO
</b></p><p>La teoria degli stadi di sviluppo nasce come il primo tentativo, da
parte dei teorici della localizzazione, di affiancare a
un’analisi di localizzazione delle attività produttive un’interpretazione delle
implicazioni delle scelte localizzative sui
meccanismi di sviluppo. Lo sviluppo regionale è rappresentato come un
susseguirsi naturale di fasi, temporalmente una
successiva all’altra, ognuna caratterizzata da una produttività fattoriale e da
un rapporto capitale/lavoro crescenti, che
spiegano il raggiungimento di livelli di benessere e di ricchezza pro capite
sempre più elevati. Si possono individuare 5 fasi:
1. <i>Fase di autarchia</i>: il sistema economico locale è in condizioni di
autosufficienza in un’economia di sussistenza dove
tutto quanto prodotto localmente è utilizzato per il consumo locale;
2. <i>Fase
di specializzazione</i>: si mette in moto grazie alla creazione di alcune
infrastrutture di trasporto, che danno luogo alla
possibilità di scambio di beni agricoli e alla specializzazione dell’economia
locale nella produzione di alcuni beni primari;
3. <i>Fase di trasformazione</i>: da un’economia agricola si passa ad una
industriale , grazie al decollo di attività industriali
strettamente connesse alla lavorazione dei prodotti primari e alla necessità di
una popolazione in crescita;
4. <i>Fase di diversificazione</i>: dell’attività manifatturiera grazie alla
crescente richiesta di beni intermedi, alla crescita del
reddito e alla conseguente comparsa di nuovi settori;
5. <i>Fase di
terziarizzazione</i>: si ha un’espansione dell’attività terziaria, rispondente
alle esigenze di un’industria ormai avanzata.
Questa teoria sottolinea l’importanza di una crescita contemporanea di diversi
settori e di diversi investimenti
infrastrutturali, in un processo di sviluppo bilanciato. In uno sviluppo
bilanciato risiedono una serie di vantaggi ed
esternalità, come:
-esternalità derivanti da meccanismi di interdipendenza tra diversi settori;
-esternalità nei meccanismi di interdipendenza tra domanda e offerta;
-esternalità che nascono dalla presenza di investimenti in infrastrutture
differenti.
Il sottosviluppo in questa teoria non può che essere interpretato come la
permanenza forzata all’interno di una fase. Le cause
di una simile situazione trovano origine in condizioni interne ed esterne
all’area: qualora non esistesse nell’economia locale
sufficiente risparmio da incanalare verso investimenti in capitale o in
infrastrutture, o qualora non esistesse una sufficiente
dimensione del mercato, il livello di produttività del sistema economico in
analisi rimarrebbe basso e alimenterebbe il
processo vizioso di sottosviluppo ( come ridotta espansione del mercato, basso
risparmio e bassi consumi, ridotto stock di
capitale, bassa produttività e basso reddito).
Secondo i teorici dello sviluppo bilanciato, nelle prime fasi le politiche di
sviluppo devono incanalare gli investimenti
pubblici in pochi grandi e diversificati settori, presenti in modo ragguardevole
a livello locale, per minimizzare le
dispersioni verso aree avanzate e al contempo superare l’insufficiente
formazione di risparmio tipica delle economie
arretrate. In un secondo momento con l’espansione di risorse private grazie al
decollo dei settori più forti, è possibile che
una quota di investimenti pubblici sia destinata ad altri settori.
Si possono quindi evidenziare quelli
che sono gli ELEMENTI IMPORTANTI DEL PROCESSO DI SVILUPPO: il ruolo delle
infrastrutture da sviluppare con
particolare attenzione alle esigenze della domanda, il ruolo della
specializzazione dei processi produttivi, alla base di
rendimenti crescenti nella produttività fattoriale, l’importanza dei trasporti
per ampliare la dimensione del mercato e della
produzione. Ad ogni modo, risulta difficile che il processo di sviluppo possa
avvenire seguendo fasi necessariamente
identiche in tutte le regioni.
</p><p><b>4. FASI DI SVILUPPO E DISPARITA’
</b></p><p>Williamson presenta una riflessione circa l’evoluzione dei divari
regionali all’interno di un paese. Secondo lui, lo sviluppo
si presenta, nelle prime fasi, concentrato e polarizzato nelle aree centrali del
paese, e che solo successivamente si diffonde
alle aree più periferiche e ai settori più deboli. La conseguenza di questo
sviluppo a due velocità è che nelle prime fasi dello
sviluppo economico di un paese, il divario regionale cresce, per poi decrescere
quando il reddito nazionale raggiunge un
certo livello, seguendo un andamento a U rovesciata (fig. 4.2). Le ragioni
dell’aumento di divario tra regioni forti e deboli
nelle prime fasi di sviluppo sono:
- emigrazione di lavoro selettiva, cioè di forza lavoro
più qualificata, da aree deboli ad aree forti;
- flussi di capitale verso regioni più ricche;
- allocazione di una quota elevata di investimenti pubblici nelle aree forti;
- limitati scambi interregionali di risorse.
Tutti questi elementi accentuano con il passare del tempo le disparità regionali
all’interno di un paese, fino a che non
entrano in gioco meccanismi opposti, tra i quali:
- creazione di nuovi posti di lavoro anche in aree meno sviluppate, con la
conseguenza di far diminuire o arrestare il
processo migratorio;
- minore attività delle aree più avanzate, per effetto di saturazione dei
mercati e di congestione fisica, con conseguenti costi
proibitivi del suolo e inevitabili riduzioni del saggio di profitto medio;
crescita di investimenti pubblici in aree deboli;
- nascita di effetti di trascinamento dell’area forte su quella debole.
5. STRUTTURA INDUSTRIALE E CRESCITA REGIONALE: L’ANALISI “SHIFT-SHARE”
La composizione settoriale di una regione spiega il suo tasso di crescita.
Regioni a prevalente attività agricola hanno produttività fattoriale più
contenuta, un rapporto capitale/lavoro più basso, e pertanto un tasso di
crescita più limitato, a differenza di regioni industrializzate che registrano,
grazie a produttività fattoriali maggiori, tassi di sviluppo più elevati. Per
far dipendere il tasso di crescita di una regione dalla sola
composizionesettoriale, aggregata addirittura in sole 3 macrocategorie
settoriali (agricoltura, industria, servizi) come nella teoria degli stadi di
sviluppo, è necessario ipotizzare che ogni settore all’interno di una
macrocategoria abbia la stessa produttività, e che quest’ultima non vari a
seconda della regione nella quale il settore si trova a produrre. Entrambe le
ipotesi sono irrealistiche, infatti i settori all’interno di una
stessa macrocategoria hanno produttività molto differenti. Allo stesso modo un
settore localizzato in due regioni che si
differenziano per dotazione infrastrutturale, per qualità dei fattori
produttivi, per conoscenze tecnologiche, può mostrare
nelle due regioni livelli di produttività differenti.
Venne quindi sviluppata un’analisi circa la relazione che esiste tra struttura
produttiva e crescita regionale, che venne
chiamata in seguito analisi “shift-share”, cioè una metodologia statistica di
analisi del tasso di crescita relativo della regione.
Secondo questa teoria, il tasso di crescita regionale è influenzato da 3
elementi: 1) la struttura industriale, 2) la produttività
dei settori, 3) la dinamica della domanda e delle preferenze dei consumatori. Se
i settori hanno uguale produttività e la
regione ha la stessa composizione settoriale della nazione, il tasso di crescita
della regione risulta uguale al tasso di crescita
della nazione. Ma spesso, il tasso di crescita regionale si discosta dal valore
che dovrebbe avere se la regione crescesse
quanto la nazione. Questo tasso di crescita è uguale a:
Yr=Y*+s
ove y rappresenta il tasso di crescita del reddito, r la regione, s il
differenziale tra il tasso di crescita nazionale e quello
regionale, y* indica il tasso di crescita della nazione. Il differenziale tra il
tasso di crescita nazionale e quello e quello
regionale, detto shift (s) può dipendere da due effetti:
dall’effetto di composizione della struttura settoriale della regione, detto
anche effetto MIX, che nasce dalla presenza nella
regione di settori che a livello nazionale mostrano una dinamica più accentuata,
per effetto di una domanda crescente in quel
settore. L’effetto di composizione è misurabile come:
</p><p>dove E rappresenta la variabile settoriale analizzata, i definisce i
settori, n e r identificano rispettivamente la nazione e la
regione. ( termine tra parentesi= differenza tra l’incremento nel periodo di
tempo da 0 a 1 dell’occupazione nel settore i a
livello nazionale e l’incremento medio nazionale, moltiplicato per il peso
relativo di quel settore nell’economia locale;
- dall’<b>effetto di competizione della struttura settoriale regionale, o
effetto DIF, che deriva da una maggior capacità
dell’economia regionale di sviluppare in media ogni settore a tassi superiori a
quelli dei corrispondenti settori nazionali.
</p><p>Qui, il termine in parentesi misura l’incremento del settore i a livello
regionale rispetto all’incremento dello stesso settore a
livello nazionale.
L’analisi
shift-share permette di cogliere l’apporto di ciascun settore alla
determinazione del differenziale di crescita regionale. La
ricchezza di questo approccio risiede nella capacità di separare, all’interno
del differenziale nella crescita regionale, gli
effetti strutturali (MIX) da quelli congiunturali (DIF) ed evidenziare quelli
che sono concepiti come i motori dello sviluppo
regionale: elementi di domanda misurati dal MIX e gli elementi di offerta
misurati dal DIF.
Ponendo su un grafico i tassi di crescita dell’occupazione rispettivamente per
il livello nazionale, sull’asse d elle ascisse, e
per il livello regionale sull’asse delle ordinate, ogni settore è rappresentato
da un punto sul grafico, che indica la sua crescita
rispettivamente a livello nazionale e regionale. Evidenziando inoltre sul
grafico il tasso di crescita medio nazionale e
regionale, e la retta a 45° che parte dall’origine è possibile individuare
diverse aree, che rappresentano condizioni di
sviluppo differenti ( fig.4.3):
- uno sviluppo
favorevole alla regione è rappresentata da un elevato numero di settori che si
collocano nelle aree al di sopra della retta a
45° (aree A,D,E,F): essi rappresentano una capacità di crescita locale superiore
a quella nazionale, e pertanto un effetto DIF
favorevole;
- una crescita positiva è rappresentata da
un numero elevato di settori che si collocano nelle aree a destra della retta
che rappresenta l media settoriale nazionale (aree
A, B, C): sono settori che registrano una crescita superiore al tasso di
crescita medio nazionale. La specializzazione della
regione in questi settori denota una crescita locale sorretta da un effetto MIX
favorevole;
- una condizione favorevole alla crescita di una regione è rappresentato da un
numero elevato di settori nell’area A nel
grafico, che registrano sia l’effetto MIX sia l’effetto DIF favorevoli, o
nell’area B in cui la dinamica regionale è più debole,
questi sono settori al di sopra della media regionale;
un’altra condizione positiva per una regione è quella di un numero elevato di
settori che si collocano nelle aree D o E, nelle
quali la competitività dei settori locali è così elevata da compensare la
condizione di crisi in cui i settori si trovano a livello
</p></div></div><div><div><p>nazionale. Questo è il caso dei distretti
industriali italiani.
- una
situazione di crisi per un’economia locale è invece rappresentata da un numero
elevato di settori che si collocano nelle aree
F e G; questi sono settori in crisi a livello nazionale, e che a livello locale
mostrano tassi di crescita ancora più contenuti;
- allo stesso modo , una situazione di crisi emerge dalla collocazione di un
numero elevato di settori nelle aree C e H, dove
la crescita della domanda nazionale non è sufficiente a compensare la scarsa
competitività dei settori locali.
</p><p>6. L’APPROCCIO CENTRALITA’-PERIFERICITA’
</p><p>Individua nella distanza dal centro delle attività economiche la causa
del ritardato sviluppo. La semplicità di questo
approccio è anche la sua forza: ricorda semplice che la centralità geografica
rappresenta in sé un elemento a favore dello
sviluppo, mentre la perifericità ne costituisce un ostacolo. L’accessibilità a
informazioni, a conoscenze tecnologiche, a
mercati dei fattori produttivi è una condizione necessaria per la crescita di
un’economia locale , la perifericità intesa come
distanza da un centro economico implica maggiori costi di trasporto dei beni
finiti, delle materie prime, semilavorati,
maggiori costi di acquisizione delle informazioni, ritardi nell’adozione di
innovazioni, tutti elementi che giocano a sfavore
di una crescita del reddito e della definizione di una competitività.
Questa teoria richiama Weber: la migliore localizzazione risiede nel luogo che
minimizza i costi di trasporto tra mercati
dell’output e dell’input, ricordando che l’accessibilità al core dei diversi
mercati si tramuta facilmente come un elemento,
una precondizione, per lo sviluppo economico anche se rimane confinato a un
tentativo assai limitato di concepire la
localizzazione come una delle precondizioni affinché si innesti il processo di
sviluppo economico di un’area.
</p><p>CAP. 5: LA DOMANDA
<b>1: DOMANDA E CRESCITA REGIONALE
</b></p><p>Si parla ora delle <b>determinanti economiche dello sviluppo</b>, sui
meccanismi che permettono a un sistema di crescere e di
raggiungere tassi di incremento della produzione maggiori, livelli di reddito
pro capite più elevati e tassi di disoccupazione
più contenuti, livelli di ricchezza più alti. Sono modelli che individuano lo
sviluppo attraverso la crescita del prodotto o del
reddito pro capite di una regione, con la necessaria assunzione di uno <b>spazio
uniforme-astratto</b>, dove le condizioni di
offerta e di domanda ovunque identiche, sono rappresentabili in un vettore di
caratteristiche macroeconomiche aggregate a
carattere socio-economico-demografico. Queste teorie possono quindi essere
chiamate come <b>teorie della crescita
regionale</b>. In particolare si affronteranno le teorie e i modelli che
concepiscono la crescita come il risultato di un’espansione
della domanda di beni e servizi prodotti a livello locale dove lo sviluppo è
inteso come crescita della produzione, del
reddito, dell’occupazione, in un’ottica keynesiana. Infatti dall’aumento della
domanda di un bene dipende l’occupazione e
il reddito di chi lavora nel settore di produzione del bene ma anche per
meccanismi di interdipendenza nella produzione e
nei consumi. In questi modelli la domanda è dunque il motore dello sviluppo;
questa visione ben si addice alle regioni,
entità territoriali di piccole dimensioni, dove quello che si produce va oltre
la domanda locale. Si può quindi capire che in
questi modelli la domanda è spesso esterna, espressione di un interesse del
mercato mondiale alla produzione del bene
locale.
Come
insegna il modello della base d’esportazione, un’espansione nelle esportazioni
del bene provoca un aumento della
produzione locale, con effetti positivi anche sul reddito e sull’occupazione e,
per effetto di meccanismi di interdipendenza
nella produzione e nei consumi, sull’occupazione e sul reddito di attività
collegate a monte e a valle della produzione del
bene: considerando che di solito il consumo cresce all’aumentare del reddito,
ogni spesa addizionale si trasforma in reddito,
il cui aumento torna ad incrementare la spesa.
Ragionare in termini di sviluppo sorretto da una domanda, anche esterna, in
espansione, comporta una serie di implicazioni.
Innanzitutto, un approccio di questo tipo è destinato a interpretare un processo
di <b>breve periodo</b> poiché ipotizza una
competitività della produzione e della struttura attuale, che può essere
estrapolata solo per un periodo ridotto. Quindi lo
sviluppo è associato al perseguimento di più elevati livelli di occupazione e
reddito, estraendo da considerazioni riguardo al
benessere individuale e alla competitività del sistema produttivo locale.
</p><p><b>3. IL MODELLO DELLA BASE D’ESPORTAZIONE
</b></p><p><b>3.1. IL MODELLO DI HOYT
</b></p><p>Il più noto modello orientato all’identificazione del ruolo della
domanda nei meccanismi di crescita e di sviluppo è il
modello della base d’esportazione. L’intuito principale risiede nell’idea che se
i sistemi economici di grandi dimensioni
come le grandi nazioni, possono fare affidamento su forze interne al sistema
stesso per il loro sviluppo, i sistemi economici
di più piccola entità, siano essi regioni o città, spesso specializzati, non
possono affidarsi esclusivamente alle capacità
endogene di sviluppo: la crescita economica di questi sistemi resta fortemente
condizionata da elementi esterni al sistema </p></div></div><div><div><p>locale.
Vediamo l’origine di questo modello. Negli anni 30 Hoyt sviluppa a livello
urbano, il primo modello della base
d’esportazione. Egli distingue l’occupazione del settore di base (Lb)
dall’occupazione del settore dei servizi (Ls),
proponendo le seguenti relazioni:
</p><p>LT = Lb+Ls
Ls = aLT con 0<a<1
Lb =Lb
</p><p>L’occupazione totale LT è la somma dell’occupazione nei due settori;
l’occupazione nel settore di base è esogena al sistema,
mentre l’occupazione nel settore dei servizi è una quota pari ad a
dell’occupazione totale. Alla fine si ottiene:
</p><p>La 5.3 indica che all’aumentare dell’occupazione nel settore di base
l’occupazione totale aumenta di una quantità più che
proporzionale, la cui entità è definita moltiplicatore urbano 1/(1-a), che
assume valori maggiori all’unità. Ipotizzando una
semplice proporzione pari a b, tra l’occupazione totale e la popolazione
residente nell’area, è possibile scrivere:
</p><p>P= bLT con b>1
</p><p><b>3.2: IL MODELLO KEYNESIANO “EXPORT-LED”
</b></p><p>Negli anni 50 venne formulata una versione a livello regionale del
modello della base d’esportazione di natura prettamente
economica, dove si lascia il posto a variabili macroeconomiche aggregate quali
il reddito, e la domanda interna ed esterna
alla regione, con lo scopo di determinare la crescita economica delle aree,
piuttosto che il loro sviluppo fisico. Questa
versione si basa su un modello tradizionale di domanda aggregata keynesiana,
dove il reddito Y uguaglia le componenti
della domanda aggregata, consumi C, esportazioni X e importazioni M;
</p><p>Y= C+X-M
</p><p>Dove:
X= X
C= cY
M= mY
</p><p>Mentre le esportazioni sono per ipotesi esogene al modello, i consumi e
le importazioni dipendono dal livello del reddito e
dalle rispettive propensioni a consumare c, e a importare m. la 5.6 può essere
riscritta come:
</p><p>e indica che all’aumentare delle esportazioni di un’area, la produzione e
il reddito aumentano in modo più che
proporzionale, purché la propensione marginale a spendere localmente (c-m) sia
minore dell’unità. La 5.8 è uguale alla 5.5
del modello precedente dove entrambe arrivano alla conclusione che la domanda
esterna, misurata in termini di esportazioni
genera e determina l’ampiezza dello sviluppo locale, attraverso gli effetti
moltiplicativi che essa provoca sul reddito locale.
La 5.8 indica che le regioni a più rapido sviluppo sono quelle che riescono a
mantenere nel tempo un surplus di
esportazioni, a meno che l’espansione delle esportazioni iniziali non venga
annullata da un volume ancora maggiore di
importazioni indotte.
Analizzando quelli che sono gli elementi importanti di questa teoria si può dire
che: in primo luogo essa non evidenzia ne
implica un tasso di crescita di equilibrio, infatti se le regioni hanno
disponibilità di risorse e di capacità produttiva,
un’espansione dell’attività del settore di base, genera un tasso di crescita
regionale senza vincoli economici o fisici allo
sviluppo. In secondo luogo, è una teoria che non si occupa di processi di
convergenza o divergenza tra regioni, e pertanto di
crescita relativa; la possibilità che si verifichi convergenza dipende solo dal
fatto che le regioni a basso livello di reddito
sono siano caratterizzate da maggior probabilità di aumentare le esportazioni.
</p><p><b>4.1: VALUTAZIONI CRITICHE DEL MODELLO
</b></p><p>Al modello della base d’esportazione, è riconosciuto il grande pregio
di aver analizzato il problema dello sviluppo regionale
dal punto di vista di un sistema economico di piccole dimensioni: esso riesce a
evidenziare il ruolo decisivo delle relazioni
</p></div></div><div><div><p>interregionali, nella forma di scambi commerciali,
nello sviluppo di un sistema economico di piccole dimensioni. Il modello
ci ricorda l’importanza della specializzazione produttiva come determinante
della crescita economica: la definizione del
ruolo che ogni regione assume all’interno della divisione internazionale del
lavoro dipende dalla capacità della regione di
definire i suoi asset produttivi specifici, con i quali riesce a offrire beni su
un mercato molto vasto e a conquistare una
domanda che va ben oltre le barriere locali. Inoltre questa teoria mette
sull’avviso circa il rischio che un’accentuata
specializzazione economica può provocare ai sistemi economici locali, se la
domanda internazionale di prodotti specifici
mostra considerevoli fluttuazioni nel lungo periodo.
Il modello inoltre è in grado di evidenziare ma non di interpretare, le
determinanti dello sviluppo locale; è una teoria che
ben si adatta a descrivere lo sviluppo di aree storicamente specializzate in
alcuni settori industriali, o nei beni connessi con
la disponibilità di risorse naturali, nelle quali la specializzazione non
richiede di essere spiegata, ma è assunta
esogeneamente. In altri casi, il modo in cui la base d’esportazione si determina
e si concretizza in una maggiore
competitività vanno interpretati ed evidenziati necessariamente attraverso uno
studio della struttura e della dinamica
dell’offerta locale, che non trovano nel modello nessuna considerazione.
Un secondo elemento critico afferma che non esiste distinzione tra attività
produttive diverse e tra specializzazioni
industriali differenti. Il modello lascia quindi intendere che gli effetti
moltiplicativi delle esportazioni sul reddito abbiano la
stessa portata indipendentemente dal settore di origine dei beni esportati.
Inoltre il modello ipotizza che non vi sia nessun ostacolo all’ampliamento
dell’offerta: di fronte a incrementi di una
domanda esterna, il sistema ha in sé le risorse per aumentare la capacità
produttiva. Se così non fosse l’aumento di domanda
si scaricherebbe nel breve periodo in un aumento dei prezzi, piuttosto che in
una reale espansione fisica dell’attività
produttiva.
</p><p><b>4.2: LA STIMA DELLA “BASE ECONOMICA”
</b></p><p>L’interesse ad applicare il modello della base d’esportazione alla
realtà ha spinto nel tempo all’individuazione di diversi
metodi per distinguere i settori di base da quelli dei servizi di una regione.
Il metodo più comunemente suggerito è quello
del <b>quoziente di localizzazione</b>, dove si distinguono i settori in base
alla quota occupazionale del settore a livello regionale
rispetto alla quota dello stesso settore a livello nazionale:
</p><p>In cui i, r e n, indicano il settore, la regione e la nazione di analisi,
ed E rappresenta il numero di occupati: qualora il
rapporto tra le quote superi l’unità, si considera che la proporzione eccedente
sia espressiva di un surplus di produzione
rispetto alle esigenze della domanda locale, e quindi di esportazioni nette.
Stabilito in questo modo quali sono i settori che
esportano, sommandone l’occupazione si ottiene una stima del dell’occupazione
del settore di base. L’uso del quoziente di
localizzazione presenta alcuni limiti:
-innanzitutto esso assume uguali gusti e preferenze dei consumatori nello
spazio, se così non fosse, la proporzione
eccedente potrebbe essere espressiva non tanto di un di un surplus di
produzione, quanto di una struttura della domanda
locale diversa da quella nazionale. Inoltre la logica sulla quale è costruito il
ragionamento è una logica di economia chiusa,
irrealistica e quindi il metodo del quoziente di localizzazione sottostima il
settore di base.
Un altro metodo proposto per la stima del settore di base è quello della
<b>tecnica dei requisiti minimi</b>, che parte dal
presupposto che la quota di occupati più bassa esistente in un settore in tutte
le regioni sia la quota minima per soddisfare le
necessità di una regione, e che una quota di occupazione in quel settore in
altre regioni più elevata sia espressiva di una
capacità produttiva in eccesso rispetto alle esigenze di una regione. La somma
dell’occupazione dei settori che mostrano
una quota di occupazione superiore a quella minima determina l’occupazione nel
settore di base.
</p><p><b>4.3: LA STIMA DEL MOLTIPLICATORE REGIONALE
</b></p><p>L’applicazione del modello della base d’esportazione per la
previsione di sviluppo di una regione, richiede necessariamente
la stima del moltiplicatore del reddito. Ci sono due metodi che si possono
individuare e che stimano il moltiplicatore
regionale. Il primo consiste nella stima empirica dei vari parametri del
moltiplicatore, attraverso una stima diretta della
propensione a ad acquistare beni localmente. Si identificano così i beni e i
servizi che hanno un’elevata probabilità di essere
acquistati a livello locale, calcolando la quota locale rispetto a quella
nazionale e si aggrega la spesa totale per ognuno di
essi. Ripetendo l’esercizio per un certo numero di anni, si ottiene una serie
storica della spesa locale la quale, regredita sul
reddito disponibile, produce una stima della propensione marginale a consumare
il reddito a livello locale, vale a dire (cm). Una volta noto questo valore è facile ottenere il valore del moltiplicatore
regionale.
Il secondo
metodo considera invece come proxy del moltiplicatore regionale l’inverso della
quota di dispersioni, sul prodotto interno
lordo di una regione. Si individuano 4 canali di dispersione dell’effetto
moltiplicativo sul reddito: i risparmi, le importazioni
interregionali, le importazioni dall’estero e le imposte, dirette e indirette.
Calcolata la quota sul reddito, l’inverso non è
altro che il valore del moltiplicatore.
</p><p><b>5. L’ANALISI INPUT-OUTPUT</b></p></div></div><div><div><p> Esiste una
tecnica che permette di considerare l’impatto che la crescita della domanda in
un determinato settore genera
sulla produzione di ogni singolo settore dell’economia locale e sul prodotto
locale, definita analisi input-output. Può essere
interpretata come una metodologia di previsione degli effetti che la crescita
della domanda in un determinato settore genera
sul resto dell’economia locale.
L’analisi input-output si basa sulla costruzione di una matrice quadrata n x n
nella quale vengono registrati tutti i flussi di
vendite (sulle righe) e acquisti (sulle colonne) che si generano in un anno tra
gli n settori produttivi locali, che altro non
sono se non i flussi intermedi di merci tra i diversi settori. La matrice è
completata da una serie di colonne nelle quali si
registrano le vendite di ogni settore alla domanda finale, e da una serie di
righe, nelle quali si inseriscono gli acquisti dei
fattori produttivi originali, lavoro e capitale, e gli acquisti dall’estero e
dall’esterno dell’area, qualora si parli di una matrice
input-output sub nazionale. La somma di ogni riga rappresenta i ricavi di ogni
settore nella vendita dei beni ad altri settori e
alla domanda finale, mentre la somma di ogni colonna esprime i costi che ogni
settore deve affrontare per la produzione,
dati dagli acquisti dei beni intermedi, dei beni prodotti esternamente e dalle
remunerazioni dei fattori produttivi, salari e
profitti.
Definiti
Aij i valori dei flussi di merci che il settore i vende al settore j, C, G, I,
X, R rispettivamente i consumi privati, la spesa
pubblica, gli investimenti, le esportazioni e il valore della produzione, la
somma per riga è data da:
</p><p>la somma per colonna è data da:
</p><p>il prodotto interno lordo della regione Y è dato da:
</p><p>I flussi di merci tra il settore i e il settore j possono essere espressi
attraverso i cosiddetti coefficienti tecnici aij che
esprimono la relazione che esiste tra il valore della produzione del settore i e
quella del settore j.
</p><p>Sintetizzando la domanda finale in un’unica voce D, si ottiene, per ogni
settore i:
</p><p>questa relazione indica il valore della produzione, il ricavo, del
settore i, ottenuto dalla vendita del prodotto in parte alla
domanda finale D, e in parte agli altri settori.
</p><p>La relazione può essere riscritta come:
</p><p>bij è detta matrice inversa di Leontief o matrice dei moltiplicatori, che
permette di calcolare il valore della produzione di
ogni settore i attivata direttamente e indirettamente da un euro di domanda
finale che si rivolge a ciascun settore j.
</p><p><b>7. LA LEGGE DI THIRLWALL
</b></p><p>Negli anni 80 si è sottolineata l’importanza delle esportazioni
regionali per la crescita di un’area. Questa teoria, nota come
legge di Thirlwall, le esportazioni hanno un chiaro e deciso ruolo nel processo
di sviluppo perché sorreggono il saldo della
bilancia commerciale permettendo, in assenza di altri meccanismi, il
finanziamento delle importazioni necessarie a
soddisfare la domanda interna. Qualora, le esportazioni fossero scarse e
inferiori alle necessità di importazione dell’area, si
produrrebbe uno squilibrio nella bilancia commerciale regionale, che
limiterebbe, nel lungo periodo le importazioni. Così,
l’equilibrio nella bilancia commerciale diviene il modo con il quale la regione
riesce a mantenere un certo livello di crescita.
Se il tasso di crescita delle esportazioni è dipendente dal tasso di crescita
del reddito mondiale (yw), pesato per l’elasticità
della domanda di esportazioni al reddito mondiale (α), e il tasso di crescita
delle importazioni (m) , a sua volta, è
dipendente dal tassodi crescita del reddito regionale (yr), pesato per
l’elasticità della domanda di importazioni al reddito
locale (β), perché vi sia l’equilibrio nella bilancia commerciale regionale deve
valere l’uguaglianza:
</p><p>yr = α/β yw</p></div></div><div><div><p>questa relazione indica che il
tasso di crescita di una regione dipende dl tasso di crescita del reddito
mondiale e dal rapporto
tra le due elasticità della domanda al reddito. Essendo il reddito mondiale una
variabile esogena all’economia locale, alla
regione non rimane altro per incentivare lo sviluppo locale, che favorire una
struttura industriale caratterizzata da settori con
esportazioni a elevata elasticità della domanda al reddito (α) e, al tempo
stesso, settori con importazioni a bassa elasticità
della domanda al reddito (β). In questo senso dunque lo sviluppo locale altro
non è che un problema di riconversione
industriale verso settori caratterizzati da esportazioni e importazioni,
rispettivamente a maggiore e minore elasticità della
domanda al reddito. La legge di Thirlwall vale solo per il breve periodo.
CAP. 6: LA DOTAZIONE FATTORIALE
DOTAZIONE FATTORIALE E CRESCITA REGIONALE
Nel capitolo precedente si sono trattate le teorie che interpretano lo sviluppo
regionale come un processo di crescita di breve
periodo dell’occupazione e del reddito, ottenuta grazie a un aumento della
domanda. In questo capitolo e nelle parti successive si introducono le teorie
che focalizzano l’attenzione solo sugli elementi di offerta nella spiegazione
della dinamica regionale di lungo periodo. Ciò significa non solo evidenziare le
esportazioni dei beni come motore dello sviluppo, ma individuare gli elementi
che spiegano la maggiore capacità di esportazione, in cui risiedono
le fonti della competitività di un sistema economico locale. Per esportare, un
sistema economico deve necessariamente godere di qualche forma di vantaggio:
deve essere in grado di produrre beni a prezzi relativamente più bassi, offrire
prodotti di qualità più elevata, disporre di nuovi beni da introdurre nel
mercato, tutti obiettivi raggiungibili grazie all’esistenza di processi
produttivi più efficienti, di un’avanzata struttura produttiva locale ecc… Le
fonti della competitività territoriale sono pertanto molte e non a caso
costituiscono l’oggetto di studio di approcci assai diversi fra
loro. Si presentano qui le teorie che si concentrano sulla dotazione fattoriale
come fonte della competitività territoriale.
Esse rappresentano un corpus molto ampio di modelli di pura matrice neoclassica
che concepiscono la crescita in un’ottica resource based.
Nello scambio di beni o di fattori trovano una spiegazione, in queste teorie,
l’aggiustamento dei prezzi relativi dei beni e dei fattori stessi, l’aumento
della capacità produttiva e il raggiungimento del pieno impiego; nella logica
delle teorie che concepiscono la perfetta mobilità dei fattori produttivi tra
regioni, le differenti remunerazioni dei fattori determinano una riallocazione
delle risorse nello spazio, e un tasso più elevato di crescita, tipicamente
neoclassico. Nelle teorie che concepiscono i beni come mobili (commercio
interregionale), il diverso livello di produttività dei fattori determina un
vantaggio comparato per la regione nella produzione di un determinato bene, che
esporta sul mercato grazie al differenziale di prezzo.
Qui, la crescita non è più intesa come aumento dell’occupazione e del reddito
nel breve periodo; essa viene qui concepita come benessere individuale raggiunto
o grazie a incrementi nella produttività fattoriale o grazie a processi di
specializzazione che permettono commercio interregionale.
Per quanto riguarda il primo gruppo di teorie classiche e neoclassiche, quelle
della mobilità fattoriale, la peculiarità risiede nel fare riferimento a un
concetto di crescita relativa, con l’obiettivo di individuare sentieri di
convergenza e divergenza nei livelli e nei tassi di crescita del prodotto.
Per quanto riguarda il secondo gruppo di teorie, classiche e neoclassiche,
quelle del commercio interregionale, la peculiarità principale è di fare ricorso
al concetto di vantaggio comparato sulla base del quale si identifica la
specializzazione della regione: tra tutti i beni che possono essere offerti sul
mercato esterno, la regione riesce a esportare quelli che produce a costi di
produzione relativamente più bassi. Quindi anche se una regione produce tutti i
beni a costi e prezzi più elevati, dimostrandosi più inefficiente in assoluto
nella produzione di tutti i beni rispetto al resto del paese, essa può in realtà
essere relativamente meno inefficiente nella produzione di un bene rispetto agli
altri beni e ottenere così un ruolo all’interno della divisione internazionale
del lavoro, specializzandosi nella produzione del bene nel quale è relativamente
più efficiente. I modelli che ora si presentano richiamano le teorie classiche e
neoclassiche della crescita e del commercio internazionale, dalle quali
assorbono l’impianto teorico, quindi ci si confronta nuovamente con approcci
alla crescita regionale, attenti a
concepire uno spazio uniforme-astratto, che garantisce la trattabilità delle
condizioni economiche in indicatori economici
aggregati.
2. CRESCITA REGIONALE E MOBILITA’ FATTORIALE
2.1. IL MODELLO A UN SETTORE PRODUTTIVO
Il modello presenta le tradizionali ipotesi di un modello di crescita
neoclassico:
<i>- perfetta concorrenza nel mercato dei beni;
- perfetta concorrenza nel mercato dei fattori produttivi e quindi i fattori
sono remunerati alla loro produttività marginale;
- piena occupazione raggiunta grazie alla flessibilità nelle remunerazioni dei
fattori;
- perfetta mobilità dei fattori produttivi tra regioni;
- totale immobilità dei beni prodotti;
- variabilità del rapporto capitale/lavoro in dipendenza delle diverse dinamiche
dei fattori produttivi;
La sintesi di questi elementi è rappresentata dalla funzione di produzione
aggregata a livello regionale, espressa da una Cobb-Douglas a rendimenti
costanti:
con 0<α<1, ove Y rappresenta il reddito, A il progresso tecnico, K il
capitale, L il lavoro e α e 1-α l’efficienza rispettivamente del capitale e del
lavoro. Una volta passati ai logaritmi, la variazione del reddito Y nel tempo
diviene:
ove y, a, k , l rappresentano i tassi di crescita nel tempo rispettivamente del
reddito, del progresso tecnico, del capitale e del
lavoro. Questa formula indica che la possibilità per il reddito di crescere nel
tempo dipende dalla crescita del progresso tecnico e dalla crescita del capitale
e del lavoro. La formula può essere anche riscritta come:
che afferma la crescita della produttività del lavoro e/o del reddito pro capite
è uguale alla crescita del progresso tecnico e alla crescita del rapporto K/L.
In assenza di progresso tecnico, la produttività del lavoro può solo aumentare
se la crescita del capitale eccede quella del lavoro.
Secondo i neoclassici, la crescita è una questione di ottima allocazione delle
risorse inter e intra-regionali. Una migliore
allocazione interregionale delle risorse in un’economia aperta con perfetta
mobilità dei fattori prevede che i fattori produttivi
si spostino dove più elevata è la loro produttività, attratti da maggiori
remunerazioni. Questo significa che in una regione il tasso di crescita del
capitale (k) dipende dalla massa del risparmio interno (sY) che può finanziare
l’investimento e dal differenziale di remunerazione del capitale nell’area (ir)
rispetto alla remunerazione dello stesso fattore nel resto del mondo (im). In
simboli si ha:
Nell’ipotesi di esistenza di due regioni, un sud povero, maggiormente dotato di
lavoro e di capitale, e un nord, caratterizzato da un’elevata incidenza di
capitale rispetto al lavoro, si assisterebbe a una migrazione di capitale
dall’area ricca a quella povera, e viceversa di lavoro dal sud al nord, come
conseguenza delle più elevate remunerazioni nelle aree dove minore è la presenza
del fattore, che nascono da livelli di produttività fattoriale differenti. Il
deflusso di lavoratori dal sud permette all’area debole di aumentare la
produttività; lo stesso effetto positivo accompagna il deflusso di capitali dal
nord, e il processo di riallocazione delle risorse si arresta quando le regioni
raggiungono la stessa produttività dei fattori, stesse remunerazioni, dotazione
fattoriale e quindi stesso livello di reddito in piena occupazione. Nella fig.
6.2, la riallocazione delle risorse, generata dai differenziali di remunerazione
fattoriale, comporta pertanto per il nord vantaggi netti in termini di aumento
di produzione pari all’area grigia della fig. 6.2 a e per il sud pari all’area
grigia della fig. 6.2b.Il modello raggiunge un equilibrio stazionario quando
capitale e lavoro crescono esattamente nella stessa proporzione.
2.2 IL MODELLO A 2 SETTORI PRODUTTIVI
Il modello a due settori introduce ipotesi più realistiche che permettono di
enfatizzare il ruolo di un’efficiente allocazione
delle risorse all’interno della stessa regione, come determinante dei flussi di
fattori produttivi intra e interregionali.
IPOTESI:
- esistenza di due regioni, dove sono presenti due settori che producono due
beni, uno per l’esportazione e uno a uso
domestico. I settori sono spesso identificati come il settore manifatturiero, ad
alta produttività, e il settore agricolo a bassa
produttività.
– presenza di squilibri nella bilancia commerciale;
- esistenza di concorrenza perfetta nel mercato dei beni;
- uso del fattore capitale solo nel settore industriale;
- rendimenti costanti nella produzione dei beni;
- remunerazione dei fattori produttivi alla loro produttività marginale;
- uguaglianza tra costo dei fattori produttivi e valore del prodotto marginale
dei fattori;
-lo stock di capitale nel settore che produce per l’esportazione aumenta;
- la domanda di lavoro da parte delle imprese locali aumenta per effetto
dell’aumento del valore del prodotto marginale del
lavoro;
- l’aumento della domanda di lavoro attrae lavoratori sia dal settore agricolo
locale sia dall’altra regione;
- l’espansione della produzione e dell’occupazione nel settore che produce per
l’esportazione si ripercuote sul settore
agricolo che registra un aumento della domanda del bene e della produzione e
dell’occupazione. La crescita dell’occupazione in questo modello è il risultato
di un’allocazione delle risorse più efficiente verso il settore manifatturiero,
a maggior produttività: partendo da uno stimolo iniziale generato dall’aumento
della domanda del bene esportato, nel settore manifatturiero aumenta la
dotazione di risorse produttive a seguito di investimenti provenienti
dall’esterno e di migrazioni di lavoratori da altre regioni e dal settore
agricolo.
CONCLUSIONI: la prima risiede nel fatto che la mobilità di entrambi i fattori
produttivi avviene ora verso la stessa regione, caratterizzata da elevati
salari; la seconda conclusione afferma che il modello prevede una tendenza alla
divergenza nei tassi di crescita del reddito tra regioni. Il ruolo del settore
agricolo in questo modello è duplice: da un lato fornisce lavoro al settore
esportatore, riducendo gli effetti divergenti dei tassi di crescita, dall’altro
diviene, nel processo di crescita, un settore a domanda di lavoro crescente,
catalizzatore di forza lavoro esterna.
CAP. 7: COMPETITIVITA’ TERRITORIALE E SVILUPPO ESOGENO
1. GLI ELEMENTI DELLA COMPETITIVITA’ TERRITORIALE
Uno degli elementi di discontinuità con le teorie fin ora presentate riguarda la
concezione di spazio: se in precedenza
con il termine spazio si identificavano entità territoriali considerate omogenee
e uniformi al loro interno, con lo stesso termine si intende ora uno spazio
diversificato, che permette di concepire una distribuzione spaziale disomogenea
delle attività e dei fattori produttivi, della domanda, della struttura
settoriale e di evidenziare nuove relazionalità territoriali. Questa concezione
di spazio consente di recuperare uno dei principi ispiratori delle teorie della
localizzazione, le economie di agglomerazione, e di considerarle la fonte del
processo di sviluppo locale. Si assume una concezione più complessa dello
spazio, basata sulle relazioni economiche e sociali che si instaurano in un
territorio; da qui la definizione di spazio diversificato-relazionale. Inoltre
si passa da un approccio macroeconomico e macroterritoriale a uno
microterritoriale e microcomportamentale.
Nelle teorie che si andranno ad analizzare si incontra una nuova concezione di
sviluppo, abbandonando la concezione di breve periodo, di semplice aumento del
reddito e dell’occupazione così come quella del benessere individuale, per
assumere una concezione di più lungo periodo, identificando tutti quegli
elementi tangibili e intangibili del contesto locale che ne definiscono la
competitività nel lungo periodo e che permettono al sistema di conservare tale
competitività nel tempo. Le teorie che qui si analizzano sono alla ricerca degli
elementi che garantiscono processi produttivi a costi e a prezzi relativamente
meno elevati; questi elementi sono identificati a volte in elementi esogeni al
contesto locale, che nascono al di fuori dell’area e che sono trasferiti in loco
casualmente o deliberatamente attraverso precise politiche a supporto dello
sviluppo locale, e a volte in elementi endogeni, che si sviluppano nell’area
stessa.
Fanno parte degli elementi esogeni, la presenza in loco, casuale, di un’impresa
dominante o di una multinazionale o la realizzazione di nuove infrastrutture
decise da autorità esterne; fanno parte degli elementi endogeni la capacità
imprenditoriale, le risorse produttive locali ecc.Parlando di sviluppo, mentre
nelle teorie del modello neoclassico di crescita interregionale si prevede che
il tasso di crescita nazionale sia determinato esogenamente, e il problema della
teoria dello sviluppo regionale era quello di determinare come questo incremento
andasse distribuito tra le regioni. Con le teorie che invece si trattano ora, si
entra nell’ottica di uno sviluppo generativo, nel quale il tasso di crescita
nazionale è il risultato della somma dei tassi di crescita realizzati dalle
singole regioni: lo sviluppo economico nazionale può aumentare grazie a una
crescita più elevata registrata in un particolare contesto territoriale, e
questa crescita può anche avvenire in presenza di rendimenti crescenti, a parità
di risorse.
2. LA TEORIA DEI POLI DI SVILUPPO
2.1. L’APPROCCIO ECONOMICO: IL CONTRIBUTO DI PERROUX
La prima teoria che abbandona l’ottica di spazio uniforme-astratto per concepire
uno spazio diversificato-relazionale è la teoria dei poli di sviluppo,
presentata nel 1955 da Perroux. Egli disse che lo sviluppo non si verifica
ovunque e simultaneamente, ma si manifesta in alcuni punti o poli di sviluppo
con intensità variabile, e si diffonde per vari canali e con effetti finali
variabili per il complesso dell’economia. Perroux elabora una teoria dello
sviluppo locale che concepisce una crescita selettiva in alcuni punti dello
spazio, nei quali è presente un elemento propulsivo che mette in moto il
processo di sviluppo. Questo elemento è identificato nella presenza casuale
nell’area di un’impresa dominante, detta industria motrice, chiamata così per la
sua capacità di influenzare con le sue scelte di investimento, il livello di
investimenti delle imprese a esse collegate. Di fronte a un’innovazione
tecnologica dell’impresa motrice, che abbassa i prezzi del bene o ne aumenta la
quantità, la domanda esterna del bene prodotto aumenta, stimolando un aumento
della sua produzione, che a sua volta genera un polo di sviluppo, attraverso una
serie di effetti positivi, quali:
- un effetto moltiplicativo keynesiano sul reddito, dove l’aumento di produzione
dell’impresa dominante genera un aumento
dell’occupazione nella stessa e in altre imprese e un conseguente aumento del
reddito e consumi;
-un effetto moltiplicativo leontieviano, legato agli effetti input-output
intersettoriali, dove le imprese e i settori a monte dell’impresa dominante
vedono espandere la loro produzione e i loro mercati di sbocco;
- un effetto di accelerazione sugli investimenti delle imprese;
- un effetto di polarizzazione che genera il polo di sviluppo, dove l’aumento
della domanda di beni intermedi e di servizi </p></div></div><div><div><p>che si
genera dall’impresa motrice attrae impresa verso localizzazioni prossime
all’impresa chiave con l’obiettivo di minimizzare i costi di trasporto ,
sfruttare infrastrutture e capitale fisso sociale attivati dal polo, migliorare
la professionalità e capacità manageriali o imprenditoriali locali, sfruttare la
maggior domanda degli occupati. Questa teoria ha quindi in sé degli elementi
importanti per l’interpretazione dello sviluppo, come l’importanza nel processo
di sviluppo, delle infrastrutture, dei servizi e delle relazioni input-output
tra imprese e tra settori, gli effetti positivi di una crescita della domanda
sul livello di investimenti e i meccanismi moltiplicativi keynesiani del
reddito. Ciò che cambia è l’ottica con la quale questi elementi sono concepiti,
passando a un’ottica microeconomica e microcomportamentale: lo sviluppo è
generato dal dinamismo di un’impresa e dai suoi legami con altre imprese, e il
processo cumulativo di crescita è il risultato di reazioni comportamentali
razionali dei diversi soggetti coinvolti nell’attività dell’impresa dominante.
2.2. L’APPROCCIO TERRITORIALE: IL CONTRIBUTO DI BOUDEVILLE
La teoria del polo di sviluppo manca di una dimensione territoriale. Nel 1968
Boudeville si pone l’obiettivo di enfatizzare
all’interno della teoria dei poli di sviluppo, proprio l’elemento spaziale,
territoriale, definendo chiari confini geografici agli effetti positivi generati
dall’attività dell’industria motrice, alla base dello sviluppo. Egli identifica
3 modi di definizione dei confini geografici degli effetti di polarizzazione,
attraverso differenti ipotesi sulla localizzazione geografica dei soggetti
coinvolti nel processo di sviluppo o sulla geografia degli effetti positivi di
trascinamento:
- la prima ipotesi riguarda una localizzazione geograficamente clusterizzata
dell’impresa motrice e delle imprese a essa
collegate;
- la seconda ipotesi suppone una localizzazione urbana dell’impresa motrice,
dove le relazione input-output che generano
sviluppo si attivano nell’area urbana stessa;
- la terza ipotesi riguarda la ricaduta locale degli effetti positivi che si
generano dal comportamento dell’impresa dominante, cioè il polo di sviluppo si
genera quando gli effetti positivi della presenza di un’impresa dominante
rimangono all’interno dell’area stessa.
Le 3 interpretazioni hanno una caratteristica in comune: l’elemento fondamentale
del processo di sviluppo non è più come in Perroux la sola interdipendenza
settoriale, infatti perché vi sia sviluppo economico locale, a questa si deve
aggiungere una concentrazione spaziale delle attività produttive sul territorio
che determina l’effetto finale positivo della presenza dell’impresa dominante
sullo sviluppo locale.
2.3. VALUTAZIONI CRITICHE
Un primo limite riguarda la mancanza di una chiara interpretazione delle ragioni
della presenza iniziale dell’impresa motrice nell’area, assunta esogenamente. La
teoria del polo non è quindi in grado di distinguere tra gli effetti di un polo
naturale e quelli di un polo pianificato. Perché si parli di polo è necessario
che la grande impresa, o il complesso industriale, siano in realtà inseriti in
una filiera produttiva molto ampia, con un forte indotto locale, tale per cui un
investimento dell’impresa dominante sia in grado di generare effetti
moltiplicativi molto consistenti, e in questo effetto addizionale è contenuta la
definizione di polo.
Un secondo limite della teoria dei poli di sviluppo è quello di aver volutamente
ignorato gli aspetti negativi che accompagnano la realizzazione di un polo, e di
aver posto l’accento solo sugli aspetti positivi, accentuando le aspettative di
successo nella creazione di un polo. La localizzazione di una grande impresa in
un’area causa prima un effetto di spiazzamento di attività produttive locali,
spesso artigianali, con un sensibile effetto negativo sul livello di occupazione
locale come risultato di uno shock della creazione della grande impresa sulla
struttura dei prezzi e dei salari. Là dove avviene questo effetto di
spiazzamento, la realizzazione della grande impresa è ben lungi dal creare
reddito e occupazione, almeno nel breve-medio periodo.
Osservando la fig.7.1 si può notare come gli effetti positivi tendono a
generarsi nel lungo periodo, una volta superate le resistenze iniziali e
instaurarsi i legami tra l’impresa dominante e le attività locali, mentre gli
effetti negativi, che si presentano molto accentuati nel primo periodo, si
attenuano successivamente, allorquando l’economia locale si riorganizza intorno
alla grande impresa; il risultato si configura in un andamento degli effetti
netti (i net spillover effects) dapprima molto negativo, per divenire positivo
successivamente, quando il decollo degli effetti favorevoli allo sviluppo è in
grado di assorbire gli elementi negativi.
4. LA DIFFUSIONE SPAZIALE DELL’INNOVAZIONE
4.1. IL MODELLO DI HAGERSTRAND: LA DISTANZA GEOGRAFICA
L’innovazione si manifesta in tempi e modi del tutto diversi nelle diverse aree,
divenendo un’importante fonte di spiegazione della diversa capacità di crescita
di una regione, una fonte che riesce a spiegare il processo di crescita
dell’output che non può essere direttamente attribuito a un aumento dei fattori
della produzione, in presenza di equilibrio e rendimenti di scala costanti.
L’innovazione ha un ruolo importante nella spiegazione della crescita. In un
primo approccio si concepisce l’innovazione come fattore esogeno di sviluppo che
attraverso canali e percorsi territoriali specifici, arriva in un
territorio e in esso genera gli effetti positivi. L’interesse dell’analisi si
concentra quindi sui modelli di diffusione spaziale dell’innovazione. Il più
noto è quello di Hagerstrand , il quale contiene l’idea di fondo che lo sviluppo
temporale di un’innovazione segua un andamento sigmoide, ad S, ben rappresentato
da una funzione logistica e che le fasi del ciclo temporale debbano essere unite
a quelle spaziali, dando vita a una diffusione spazio-temporale dell’innovazione
in 3 stadi:
- lo stadio primario di adozione, dove l’innovazione si diffonde lungo la
gerarchia urbana;
- il secondo stadio della diffusione, dove agiscono contemporaneamente con pesi
diversi, a seconda del momento temporale,
l’effetto gerarchico e l’effetto a macchia d’olio;
- lo stadio di saturazione, dove la diffusione spaziale dell’innovazione è
casuale.
Nel modello i meccanismi che guidano la diffusione sono a carattere epidemico:
la pura probabilità di contatto tra i soggetti
che hanno già adottato l’innovazione e i potenziali adottatori spiega la
diffusione dell’innovazione, assumendo che ogni
potenziale adottatore abbia la stessa opportunità di adozione. L’uso di una
funzione logistica è accettabile solo nell’ipotesi di
uguale probabilità che i potenziali adottanti adottino effettivamente
l’innovazione. L’elemento che rende inaccettabile
quest’assunzione è l’elemento spaziale: esso infatti non trova in questo modello
un ruolo significativo se non quello della
pura distanza geografica tra adottatori reali e potenziali.
4.2. GRILICHES E MANSFIELD: LA DISTANZA ECONOMICA
Griliches e Mansfield pongono l’attenzione sulle caratteristiche spaziali che
determinano il processo di adozione,
introducendo all’interno del modello di Hagerstrand l’idea che la diffusione
spaziale dell’innovazione sia influenzata non
tanto dalla distanza geografica tra gli adottatori quanto dalla distanza
economica: livello di attività produttive presenti
nell’area, livello di reddito, di consumi, di investimento possono spiegare
facilmente la maggiore ricettività di un’area di
adozione. Essi formulano una metodologia di analisi empirica della diffusione
dell’innovazione in 2 stadi.
Il primo stadio prevede la stima della funzione logistica:
dove D rappresenta la densità di adozione, a il momento temporale in cui avviene
la prima adozione, b la velocità di
adozione, e K l’asintoto al quale la curva tende, cioè il numero potenziale di
adottatori che l’innovazione può raggiungere.
Il secondo stadio prevede attraverso un’analisi cross section interregionali, la
stima dell’incidenza delle principali
caratteristiche strutturali dell’economia locale sul momento storico di
adozione, sulla velocità di penetrazione e sul livello di
saturazione dell’innovazione, restituendo una chiara fotografia dei differenti
sentieri spaziali di adozione dell’innovazione.
CAP. 8: COMPETITIVITA’ TERRITORIALE ESVILUPPO ENDOGENO: LE ECONOMIE
DI AGGLOMERAZIONE
1. LE ECONOMIE DI AGGLOMERAZIONE
Fino ad ora lo spazio ha assunto due ruoli distinti all’interno dei modelli e
delle teorie: da un lato un ruolo di barriera fisica e dall’altro lato un ruolo
di contenitore fisico dello sviluppo, di semplice area geografica, spesso
associata alla regione amministrativa. In entrambi i casi lo spazio risulta del
tutto passivo nella determinazione del sentiero di crescita dell’economia
locale.
In questo capitolo la concezione dello spazio cambia radicalmente, infatti non è
più semplice contenitore geografico dello sviluppo, ma risorsa economica e
fattore produttivo autonomo, generatore di vantaggi statici e dinamici per le
imprese ed elemento fondamentale nella determinazione della competitività del
sistema produttivo locale. Lo spazio diviene fonte di rendimenti crescenti, di
esternalità positive, nella forma di economie di agglomerazione e di
localizzazione. Questa nuova concezione di spazio porta delle implicazioni: in
primo luogo lo spazio non può che essere uno <b>spazio diversificato</b>, nel
quale sia facile distinguere l distribuzione disomogenea delle attività. Al
contempo è uno spazio relazionale, in quanto le
relazioni economiche e sociali che si instaurano in un territorio assumono un
ruolo strategico a supporto di un funzionamento più efficace dei meccanismi di
mercato, di produzione più efficienti e meno costosi, di sedimentazione di
conoscenze nel mercato locale. Inoltre con la nuova concezione di spazio risulta
impossibile restare ancorati a una visione di sviluppo esogeno, infatti lo
sviluppo è per definizione endogeno, dipendente da un’organizzazione concentrata
sul territorio, sulla quale si sviluppa un sistema socio-economico e culturale a
supporto del successo dell’economia locale, come capacità imprenditoriale,
risorse produttive locali, capacità relazionali degli attori locali che danno
luogo a processi cumulativi di conoscenze locali ecc.
2.1 IL DISTRETTO INDUSTRIALE MARSHALLIANO
Negli anni 70 si impone il miracolo della Terza Italia, in cui le regioni nordorientali e centrali italiane inaspettatamente presentarono tassi di crescita
elevati in un periodo caratterizzato da una crisi economica generalizzata.
Numerose indagini di studio, conducono a una teorizzazione degli elementi sui
quali si innesta il successo economico di queste aree, tutte accomunate da
un’elevata concentrazione di imprese di piccole dimensioni, da imprenditorialità
locale, e sistema agricolo.
Studi sui fattori di successo sono stati affiancati da indagini sulla
flessibilità dei mercati del lavoro locale, che consentono
una rapida e facile mobilità del lavoro tra imprese. Quest’importante teoria è
quella del distretto industriale marshalliano: a esso ci si riferisce quando in
una determinata località è presente una concentrazione di piccole e medie
imprese, ciascuna delle quali è specializzata sia in una o poche fasi del
processo produttivo di uno stesso settore, sia in attività a queste
sussidiarie, ovvero rivolte alla produzione di beni e servizi che soddisfano le
necessità del settore principale che opera nell’area. L’organizzazione
economico-produttiva del distretto basa le sue radici in un sistema sociale e
culturale di valori comuni che penetra e struttura il funzionamento del mercato.
Le condizioni genetiche affinché un territorio possa essere definito un
distretto industriale si identificano in:
- prossimità spaziale, cioè vicinanza geografica tra imprese;
-prossimità sociale, cioè la presenza di un sistema di istituzioni, codici e
regole condivisi dall’intera comunità che
intervengono e agiscono sul modo di funzionamento del mercato;
- concentrazioni di piccole imprese, caratterizzate da flessibilità produttiva;
- marcata specializzazione industriale dell’intera area, nella quale sono
presenti le fasi della filiera produttiva.
2.2. LE ECONOMIE DI DISTRETTO
Dalla compresenza delle condizioni economico-territoriali che sono state
descritte si generano rendimenti nella forma di economie di agglomerazione,
dette anche economie di localizzazione o economie di distretto, definite come
quei vantaggi che le imprese ottengono dalla prossimità con altre attività
appartenenti allo stesso settore in termini di riduzione dei costi o
aumento di efficienza produttiva. Le economie di distretto si manifestano e si
concretizzano attraverso:
- la
riduzione dei costi di produzione: nelle aree industriali, l’esistenza di
numerosi fornitori, altamente specializzati, riduce i
costi di trasporto per l’acquisto di beni intermedi; un mercato del lavoro
locale con elevati livelli di elasticità, cioè rapidi e
agevoli aggiustamenti della forza lavoro che agisce anch’esso sui costi di
produzione, riducendoli. Inoltre anche il ricorso
al mercato, permette di attingere a manodopera esterna all’impresa e soprattutto
assicura l’esternalizzazione delle fasi di
produzione più complesse e costose, riducendo così i costi.
- la riduzione dei costi di transazione, cioè quelli che accompagnano le
transazioni economiche. La prossimità geografica
che caratterizza il mercato distrettuale facilita l’incontro tra domanda e
offerta di lavoro ma ancor più agisce la prossimità
sociale, ossia il sistema di regole di comportamento comune. La prossimità
sociale riduce in modo sensibile il costo delle
transazioni e del ricorso al mercato. Dal senso di appartenenza a una comunità
specifica e dall’identità sociale che pervadono la società nel distretto
scaturiscono rapporti di fiducia e di stima, che alimentano la cooperazione
interindustriale nella forma di contratti informali. Infine, la forte
specializzazione delle imprese garantisce a queste ultime il know-how
tecnico-scientifico per un efficiente ed efficace valutazione delle prestazioni
della vasta gamma di fornitori presenti
nell’area;
- l’aumento dell’efficienza dei fattori produttivi, cioè, a parità di risorse
produttive, il sistema di valori sociali comuni, la concentrazione spaziale di
imprese specializzate e la ridotta dimensione agiscono sulla capacità di
produzione delle imprese, facendo registrare, a parità di risorse, un aumento
dell’efficienza dei fattori produttivi. La prossimità sociale è fonte di
quella che è stata definita da Marshall “l’atmosfera industriale”, una cultura
industriale diffusa, costituita dall’insieme di quegli elementi intangibili
indivisibili, appartenenti al sistema produttivo nel suo complesso, come lo
spirito imprenditoriale, di cooperazione, conoscenze tecniche locali sul ciclo
produttivo, che rendono le imprese a parità di altre
condizioni, maggiormente produttive, conducendole ad un aumento di efficienza
complessiva, che si manifesta in un
aumento dei ricavi e dei profitti.
– l’aumento dell’efficienza dinamica, intesa nel senso della capacità innovativa
delle imprese del distretto, dove si sottolinea
l’importanza della conoscenza cumulata a livello locale come elemento
determinante il livello di capacità innovativa delle
imprese.
2.3. OLTRE LE ECONOMIE DI DISTRETTO
Le economie di distretto sono generate e rafforzate da elementi di contesto,
economico e sociale.
1) il primo è il legame tra aspetti economici, territoriali e sociali. Infatti
un semplice cluster di piccole imprese non
costituisce di per se un distretto industriale ed inoltre, la prossimità
sociale, si presenta come elemento tipico del distretto;
essa penetra e struttura il mercato intorno a regole ben precise favorendone il
buon funzionamento e garantendone
l’efficienza.
2) il secondo elemento si riferisce al reciproco integrarsi di forme di
cooperazione e di concorrenza, infatti nonostante la
cooperazione, forme di accesa concorrenza sono presenti tra le imprese del
distretto; essa infatti è la forza vitale delle
imprese distrettuali, obbligate a mantenere elevati livelli qualitativi dei
beni, a innovare le tecniche produttive e a rinnovare
la quantità dei prodotti nel tempo. Al contempo forme di cooperazione esplicita
caratterizzano il mercato, regolate da norme sanzioni sociali che bandiscono
comportamenti opportunistici: nelle transazioni che avvengono tra soggetti
economici, la
reputazione diviene un capitale personale, a tutela della sopravvivenza
dell’attività sul mercato. Infine, la presenza di una
struttura di governance, ossia di agenti locali e di istituzioni, a supporto del
sistema di regolazione delle transazioni agisce a
salvaguardia del buon funzionamento del mercato comunitario, esercitando un
sostegno esplicito alle forme di cooperazione
e concorrenza.
2.4. ALCUNE CONSIDERAZIONI CRITICHE
Il grande pregio della teoria del distretto industriale risiede nell’aver
concettualizzato un ruolo attivo dello spazio all’interno
dello sviluppo economico a di aver arricchito il puro concetto di economie di
agglomerazione attraverso elementi a carattere sociale, psicologico e culturale.
Occorre però richiamare alcuni elementi di debolezza presenti nell’impianto
logico-concettuale della teoria distrettuale. In primo luogo, questo approccio è
caratterizzato da un’evidente tendenza a far prevalere gli elementi di novità e
discontinuità e sottovalutare quanto già evidenziato in precedenti teorie. Si
allude qui alla forte enfasi posta sugli aspetti endogeni della teoria dei
distretti industriali e alla tendenza a trascurare del tutto gli elementi
esogeni e oggettivi che accompagnano il sentiero di sviluppo, come le condizioni
macroeconomiche e macroterritoriali in cui l’economia delle singole aree si
trova inserita.
Un secondo limite della teoria dei distretti è riferito al quadro statico e alla
tendenza al descrittivismo ex post dei fenomeni
spaziali di cui è permeata. Se infatti essa è riuscita in modo soddisfacente ad
individuare il vantaggio relativo della Terza
Italia non altrettanto è riuscita a fare per le determinanti della crescita e
della dinamica di queste aree, della loro capacità di
affrontare la crescente concorrenza mondiale, i rapidi cambiamenti tecnologici,
i feedback negativi, nella forma di scarsità di manodopera, di crescita del
costo del lavoro e dei fattori produttivi, di congestione fisica e
infrastrutturale che il successo economico genera. Un ulteriore elemento di
debolezza è l’eccessiva enfasi posta sul concetto di specializzazione e di
flessibilità, la flessibilità, caratteristica della piccola impresa e di un
modello di organizzazione della produzione postfordista, si presenta oggi come
elemento caratterizzante anche della grande impresa; inoltre, allo stesso modo
le economie esterne che si addicono all’interpretazione dei rendimenti crescenti
delle imprese distrettuali, nascono e si sviluppano anche in contesti
metropolitani, sedi delle grandi imprese.
3. LA STRUTTURA URBANA E LO SVILUPPO REGIONALE
Negli anni 90 si pose enfasi sull’idea che un’efficiente, moderna e avanzata
struttura urbana, capace di crescere in modo
equilibrato rispettando obiettivi di equità, competitività e sostenibilità,
determini il successo economico di un territorio.
Secondo questa visione, lo sviluppo regionale scaturisce in modo sostanziale da
un’equilibrata crescita delle singole città, fonti di rendimenti crescenti per
chi vi opera e vi risiede, e del sistema di città nel quale ogni singola città è
inserita. Ogni città deve trovare un sentiero di crescita che rafforzi gli
elementi dai quali scaturisce la sua efficienza statica e dinamica;
questa crescita deve innestarsi in un sistema di città, a sua volta in grado di
svilupparsi in modo armonioso e bilanciato, con un’equa distribuzione di centri
urbani ben collegati.
La città è un cluster spaziale di attività produttive e residenziali: la
concentrazione delle attività, la densità di contatti che in essa si sviluppano,
il facile accesso a informazione e conoscenza avanzata, si pongono come elementi
di vantaggio che scaturiscono da una localizzazione urbana, e che si
contrappongono alle economie di localizzazione, o di distretto, in quanto
si rivolgono ad un mix di settori.
Un’altra interpretazione è stata di recente data alle città come un luogo che
svolge la cruciale funzione di riduzione di
incertezza dinamica e di creazione di processi di apprendimento collettivo, a
vantaggio degli attori locali.
Tuttavia non è solo nell’efficienza della singola città che si coglie l’effetto
del sistema urbano sullo sviluppo economico regionale; così come ci insegnano i
padri dell’equilibrio spaziale generale e della struttura dei sistemi di città,
un sistema urbano ben bilanciato, con un’equilibrata presenza di città grandi,
medie e piccole, armoniosamente dotate di reti di trasporto efficienti, diviene
un sistema territoriale ideale in termini di efficienza e benessere. Sempre
restando nella logica dei sistemi di città, un importante contributo teorico
all’efficienza dinamica che da esso scaturisce è facilmente
individuabile nella teoria delle reti di città. Un’organizzazione a rete dei
centri, ordinati gerarchicamente o di simile dimensione, è fonte di evidenti
vantaggi dinamici associati, tra l’altro, alla cooperazione innovativa,
necessaria alla
realizzazione dei progetti innovativi.
4. ECONOMIE DI AGGLOMERAZIONE: DIMENSIONE, PRODUTTIVITA’ E CRESCITA URBANA
4.1. LA DIMENSIONE OTTIMA DELLA CITTA’
Le città sono per definizione fonti di economie di agglomerazione per imprese e
famiglie, nella forma di economie di urbanizzazione. In città le attività
produttive godono di vantaggi dettati dalla presenza di capitale fisso sociale,
di servizi avanzati per le imprese, di un vasto e diversificato mercato dei beni
intermedi e finali, che aumentano al crescere della dimensione fisica della
città. I vantaggi aumentano con l’aumentare della dimensione della città; come
effetto della presenza di questi vantaggi, i fattori produttivi capitale e
lavoro registrano livelli di produttività più elevati, a parità di rapporto
capitale/lavoro, in città grandi rispetto alle piccole. La presenza di città in
grado di ottimizzare l’efficienza statica, di sfruttare le economie di
agglomerazione che generano e di crescere lungo percorsi virtuosi cumulativi
risulta di grande importanza per la dinamica della regione stessa.
La teoria della dimensione ottima della città (Alonso) studia l’andamento dei
vantaggi e dei costi di localizzazione per diverse dimensioni della città: essa
sottolinea che le economie di agglomerazione esistono fino a una certa soglia
dimensionale della città, oltre la quale si mettono in moto meccanismi opposti
che tramutano gli elementi da positivi a negativi, da economie a diseconomie. A
questi si aggiungono, da una certa soglia dimensionale in poi, costi di
localizzazione crescenti che diminuiscono così ulteriormente il vantaggio netto
della grande dimensione. Secondo questa teoria le curve dei benefici e costi
medi di localizzazione urbana, hanno un andamento ad U: le curve di beneficio
prima crescono per poi decrescere, le curve di costo diminuiscono per poi
aumentare. È possibile identificare molte dimensioni
critiche della città, tra le quali le più significative riguardano:
- una dimensione minima per l’esistenza della città (A), allorquando i costi
medi di localizzazione uguagliano i benefici
medi di localizzazione;
- una dimensione ottima per chi già abita in città (B), in corrispondenza della
massima distanza tra benefici e costi medi;
- una dimensione ottima per l’intera collettività (C), quando i benefici
marginali e dunque il vantaggio di un’ulteriore
espansione è esattamente bilanciato dai nuovi costi;
- una dimensione massima della città (D), dove i benefici medi sono inferiori ai
costi medi.
Ricordiamo in breve i tre metodi con i quali si verifica l’esistenza di economie
di agglomerazione:
a) la stima di una funzione di produzione urbana aggregata, sulla quale
verificare l’esistenza di economie di scala, attraverso
un’analisi econometrica che stimi l’esistenza di una costante moltiplicativa
legata alla dimensione urbana;
b) la stima di una funzione di produzione urbana per singolo settore, con
l’obiettivo di verificare l’esistenza di una maggiore
produttività fattoriale in settori localizzati in città a più alta
concentrazione industriale;
c) l’analisi diretta dei differenziali di reddito e di salario, corretti per le
differenze nel costo della vita, fra grandi e piccole
città. La grande città dovrebbe mostrare più alti salari reali, per effetto di
più elevate produttività.
CRITICHE ALLA DIMENSIONE OTTIMA DELLA CITTA’:
- Le città sono diverse tra loro, svolgono produzioni differenti, a diverso
livello di complessità e specializzazione. Esistono
quindi diversi livelli di ottimo a seconda delle caratteristiche delle città;
- le città producono in un contesto interurbano che ne influenza l’efficienza;
- le città generano esternalità legate in larga misura alle caratteristiche
qualitative del tessuto produttivo urbano più che alla
mera dimensione, e quindi, il maggior potenziale di crescita delle città
scaturisce da una struttura maggiormente
concorrenziale e diversificata, adatta a generare esternalità alle piccole
imprese, rispetto a una struttura oligopolizzata e
specializzata nella quale i processi di internalizzazione delle funzioni di
servizio operate dalle grandi imprese
impoveriscono l’ambiente urbano.
4.3. ECONOMIE DI AGGLOMERAZIONE E CONTESTO SPAZIALE: L’APPROCCIO GEOGRAFICO
Qualora si ipotizzi che a dimensioni urbane maggiori siano associati livelli di
produttività e di efficienza più elevati, non si spiega come le città di piccole
dimensioni possano registrare tassi di crescita più elevati di quelli delle
città grandi. Quando il fenomeno della maggior crescita delle città mediopiccole rispetto alle grandi è interpretato attraverso l’esistenza di
diseconomie di agglomerazione associate alle città grandi, come vuole la teoria
della dimensione ottima della città, nuove perplessità emergono circa la
mancanza di una spiegazione teorica forte del perché in un preciso momento
temporale le città grandi entrino in fase di rendimenti decrescenti. Nella metà
degli anni 2000 un approccio a carattere geografico suggerisce
nella prossimità spaziale tra città la spiegazione dell’incremento di
produttività delle città piccole; esse si avvantaggiano di economie di
agglomerazione delle grandi città a loro prossime, o della massa critica di
tante città piccole a loro prossime, raggiungendo anche con dimensioni ridotte,
livelli di produttività associati a dimensioni urbane maggiori. Anche nel caso
opposto, grazie alla vicinanza geografica con grandi città, le città di
dimensione ridotta si trovano limitate nelle possibilità di creare nuove
funzioni e pertanto di crescere, perdendo vantaggi agglomerativi piuttosto che
acquisirli. Definiti effetti ombra, gli svantaggi di vicinanza ad altre
agglomerazioni, sono interpretati come gli elementi regolatori della formazione
dei sistemi di città; per evitare il rischio di elevata competizione, le nuove
aree urbane vengono a formarsi a una distanza tale da evitare competizione con
città già esistenti, di simile o più grande dimensione, riprendendo la logica
del modello di Christaller. L’approccio geografico ipotizza l’assenza di una
soglia oltre la quale le economie di agglomerazione si traducono in diseconomie;
qualsiasi dimensione la città raggiunga, essa gode di rendimenti crescenti.
Eppure, la città è soggetta a rendimenti decrescenti, una situazione che trova
una spiegazione teorica quando il vero motore dello sviluppo
urbano è identificato non tanto nei benefici lordi di localizzazione, ottenuti
una volta scontati i costi di localizzazione, che gli individui e le imprese
basano le loro scelte localizzative, e un pianificatore benevolente le sue
scelte di pianificazione.
4.4. ECONOMIE DI AGGLOMERAZIONE DINAMICHE E CRESCITA URBANA: L’APPROCCIO
MACROTERRITORIALE
Un recente approccio a carattere aggregato (macroterritoriale) riconduce
l’analisi teorica della dinamica urbana alla ricerca
delle determinanti che possono spiegare le economie di agglomerazione dinamiche,
intese come la crescita nel tempo della produttività legata alla dimensione
urbana. La crescita urbana avviene quando si presentano incrementi nei vantaggi
di localizzazione, ossia quando la produttività urbana aumenta nel tempo,
rendendo la città realmente più attrattiva.
L’interpretazione della dinamica urbana si sposta quindi sull’interpretazione
della dinamica della produttività che, nella logica dell’approccio, non dipende
dalla sola dimensione urbana. Ragionando sulla base di una gerarchia urbana
semplificata per 3,4 classi dimensionali, si può ritenere che le città,
indipendentemente dalla loro classe dimensionale, possano sperimentare una
battuta d’arresto nel loro processo di crescita e persino un calo, in assenza di
fattori condizionanti l’incremento di efficienza urbana. Ogni città può avere un
processo regolare di crescita, e gli elementi che permettono alla
città di evitare di entrare in un regime di diseconomie di scala devono essere
ricercati nella capacità della città di saltare su nuove e più avanzate attività
e funzioni, di collaborare con altre città e sfruttare il loro sistema urbano,
se dinamico ed efficiente.
Analisi empiriche dimostrano come la pura dimensione fisica della città non sia
capace di spiegare la dinamica della produttività e pertanto la crescita urbana.
Ciò dimostra come non sono le grandi o piccole città a crescere di più ma le
città in grado di innovare nelle loro funzioni e rinnovare la loro cooperazione
con il sistema urbano nel quale sono inserite.
4.5. ECONOMIE DI URBANIZZAZIONE VS ECONOMIE DI LOCALIZZAZIONE
Le città sono per definizione fonti di economie dettate dalla varietà e dalla
ricchezza di vasti mercati di beni e servizi, di
numerose opportunità di lavoro, di diversi stili di vita, di servizi avanzati
per imprese e famiglie, tutti vantaggi definiti come
economie di urbanizzazione. Tuttavia a partire dagli anni 70, si è sviluppato un
dibattito circa la comprensione
dell’importanza relativa della diversificazione rispetto alla specializzazione
settoriale come fonti di maggiori rendimenti per
una città. I vantaggi che scaturiscono da economie fortemente specializzate, in
cui il settore di base, così chiamato da Hoyt,
è facilmente identificabile e fonte di economie di localizzazione di tipica
tradizione marshalliana vengono misurati e
paragonati con i vantaggi che nascono in città diversificate, nelle quali le
imprese possono godere della presenza di un mix
di settori, di un ampio mercato dei beni finali e di fattori produttivi, di
servizi avanzati, di quelle pertanto note come
economie di diversificazione o di urbanizzazione. Secondo la tradizione
marshalliana, le imprese localizzate in città
specializzate possono avvantaggiarsi di riduzione dei costi di produzione grazie
all’aumentare della dimensione del settore
presente nell’area: le fonti di vantaggio, che aumenta all’aumentare del
settore, risiedono in un mercato degli input
specializzato
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