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L'età post eroica Sheehan

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L’ETA’ POST EROICA, GUERRA E PACE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
SENZA LA GUERRA NON ESISTE STATO: Heinrich von Treitschke, storico e politico tedesco,
prendendo come base il proprio paese (Germania), a fine ottocento dichiarò che l’origine e l’esistenza di
ogni Stato dipendessero dalla guerra. Egli sosteneva che tutti gli Stati fossero sorti dalla guerra e che il
primo compito dello Stato rimane sempre la difesa armata dei propri cittadini, dunque. Ciò era dimostrato
dalla statua equestre dedicata al re soldato Federico il Grande, le cui vittorie avevano assicurato alla
Prussia lo status di grande potenza: uno Stato nato e reso grandioso proprio dalla guerra. Come dimostrato
dalle celebrazioni militari, i soldati in parata rappresentavano in modo scenografico quello che lo Stato
esigeva e si aspettava dai propri sudditi, ossia i cittadini; l’esercito era manifestazione e scuola di
patriottismo per i civili.
Nonostante le varie differenze tra gli Stati europei, un fattore in comune nella maggior parte di essi era la
cultura militare insita nelle istituzioni dello Stato. La dimensione militare era grandiosa e connessa a
grandi eventi e figure di uomini potenti, entrando a far parte della vita quotidiana. Gli uomini in uniforme
impersonavano le virtù dalle quali dipendeva l’esistenza stessa dello Stato, quelle stesse virtù derivanti
dalle gloriose vittorie di guerre e battaglie e dalla storia del proprio paese. Senza la capacità di fare la
guerra, lo Stato del primo Novecento non sarebbe potuto esistere: ecco perché ogni paese europeo (eccetto
la Svizzera) disponeva di un proprio esercito.
- ESERCITI: La guerra era inscritta nel codice genetico dello Stato europeo: “Gli Stati fanno la guerra, e
viceversa” diceva il sociologo Chiarles Tilly. Agli inizi del Novecento la democratizzazione trasformò
completamente il carattere della guerra. Emergevano infatti gli eserciti di leva di massa, che coinvolgevano
una grande porzione di popolazione. Su gli eserciti, inoltre, aveva inciso l’industrializzazione, ovvero
l’applicazione della tecnologia sempre più avanzata all’attività bellica: ciò consentiva di creare eserciti più
grandi, più pericolosi, più temibili. Curioso è il caso dell’esercito prussiano, molto debole inizialmente, ma
che in poco tempo, guidato da Bismarck, riuscì a sconfiggere in breve tempo Danimarca, Austria e Francia:
il segreto era una migliore organizzazione, un miglior grado di preparazione, pianificazione e velocità
(vanno ricordate le ferrovie utilizzate dall’esercito per muoversi in poco tempo), che permise di mobilitare
un maggior numero di uomini equipaggiati in modo più efficiente rispetto agli altri eserciti.
Non a caso, il futuro maresciallo di Francia, Ferdinand Foch, nel 1903 dichiarò che nella guerra moderna
le basi essenziali della vittoria erano la massa e la preparazione. Ma la massa era il popolo, o meglio i ceti
inferiori: i più ricchi poteva esentarsi dalla leva, oppure pagarsi un sostituto. Ma nel 1905 la legge cambiò,
e quasi tutti i cittadini francesi di sesso maschile divennero soggetti a servire per due anni nell’esercito
regolare (la durata della ferma fu aumentata poi a tre anni). Non mancavano le proteste, basate
essenzialmente sull’impennata della spesa militare (a spese dei cittadini, tramite una maggiore tassazione);
ma anche da parte delle famiglie benestanti, che dovevano assumersi l’obbligo di servire nell’esercito. La
maggior parte dei soldati semplici continuò inoltre ad essere malnutrita, equipaggiata in modo inadeguato e
in pessime condizioni di vita. Non mancavano i dissensi: l’emigrazione verso altre regioni o altri paesi
diventò uno dei mezzi preferiti per evitare il servizio militare. La legge italiana del 1888, ad esempio, che
proibiva agli uomini di età inferiore ai 32 anni di lasciare il paese, si rivelò inefficace. In altri casi
decidevano semplicemente di non rispondere alla convocazione.
- ORGANIZZAZIONE: Ogni esercito era costituito da quadri professionali: ufficiali, sottufficiali e
uomini arruolati a lungo termine. I militari di professione garantivano l’assolvimento dei compiti di
pianificazione strategica e di direzione, e addestravano i soldati di leva. Lo scopo di questa complessa
macchina militare era trasformare i civili in soldati: nel settecento era più facile, perché si sfruttava la
coercizione anche fisica, una disciplina brutale e costrittiva. Le cose cambiarono grazie agli articoli
indignati sulla stampa e a politici imbarazzati. Ovviamente, nessun esercito funziona senza un certo grado
di coercizione: dopotutto il soldato doveva dimenticare la propria mentalità ed abituarsi al rispetto delle
regole per far funzionare la macchina bellica. In un battaglione non può esistere la decisione soggettiva di
un singolo, ma un piano d’azione studiato e a conoscenza di tutti gli elementi.
Dai cittadini soldati ci si attendeva che combattessero non per paura, ma per devozione al loro paese e
dedizione nei confronti dei loro commilitoni. La sicurezza dello Stato dipendeva dalla disponibilità di ogni
singolo soldato ad adempiere ai propri obblighi militari, a rispondere alle chiamate alle armi, a obbedire
agli ordini di uccidere, e se necessario morire. Insomma, il soldato doveva agire per convinzione e non per
obbligo: ma tale convinzione doveva essere demandata direttamente dal proprio Stato, che istruiva il
popolo alla cultura, ad un’identità collettiva, a dei simboli sacri, il Nazionalismo. L’esercito era
esclusivamente e aggressivamente solo maschile. La cultura militare era dominata da un tipo di mascolinità
che esaltava la forza fisica e il coraggio così come le forti bevute, le avventure sessuali e la violenza
gratuita. Ma se il soldato era il cittadino ideale, era ovvio che solo gli uomini potevano essere membri
qualificati della comunità nazionale. Fare del cittadino un soldato è dargli il senso del dovere e
dell'obbedienza nei confronti del paese: ciò trasforma la popolazione in una nazione.
PACIFISMO E MILITARISMO: Nel 1898 lo Zar Nicola II esordì con una frase diretta alle nazioni
europee: in generale, egli affermò che l’Europa, così come la Russia e il mondo intero, doveva impegnarsi
a ridurre i costi degli armamenti e spendere di più nella pace e nella giustizia. È giunto il tempo di creare
una durevole armonia fra le nazioni, sosteneva. Quelle parole furono accolte calorosamente, almeno
all’apparenza: era chiaro agli occhi di tutti che la Russia aveva una situazione economica disastrata, a cui
si aggiungevano le precarie condizioni dei suoi cittadini. Tutti sapevano che i proclami sulla pace e sul
disarmo non avrebbero avuto effetti pratici. Tuttavia si tenne un accordo proprio in riscontro alle parole
dello Zar, e i paesi che inviarono i propri rappresentanti furono 26, compresi gli Usa, il Giappone, diversi
paesi dell’America latina e gli imperi cinese, persiano e ottimano.
Durante la conferenza internazionale dell’Aia (che si tenne nel 1899) furono tre i punti trattati: il divieto di
certi tipi di armi, l’elaborazione delle norme belliche fissate alla Conferenza di Ginevra (1864 e 1868), e la
risoluzione delle controversie internazionali con gli strumenti della mediazione e dell’arbitrato. Certo era
che immaginare una guerra dal volto umano era impossibile. Erano tutti d’accordo però sul fatto che la
produzione di alcuni tipi di armi dovevano essere messi fuorilegge. Si trattò anche il tema dell’Arbitrato
che, nell’applicazione di convenzioni internazionali, rimaneva il mezzo più efficace e più giusto per la
risoluzione di quelle controversie che la diplomazia non sarebbe riuscita a risolvere. Ma ad oggi sappiamo
che tale accordo era solo un incontro di disonesti teatranti, nel quale venne messo in scena un preludio alle
imminenti tragedie del secolo a venire.
La pace se possibile, la vittoria militare se necessario: tra filosofi e politici, erano in molti a condividere
l’idea che la guerra era stata un’opportunità per compiere imprese eroiche e acquisire potenza e vantaggi
materiali, ma erano altrettanti a sostenere invece che essa avrebbe dovuto essere bandita dalla società
civile, che rappresentava una patologia da sconfiggere, e che alla fine non era poi così necessaria.
Nel diciannovesimo secolo, la più feconda e influente fonte che alimentò la tendenza pacifista fu la
straordinaria crescita economica e la nascita di un libero commercio (tesi di Cobden —> il commercio
avrebbe reso la guerra obsoleta), di cui la Gran Bretagna era madrepatria. Tali cambiamenti, infatti,
rendevano la guerra sempre più impraticabile e non necessaria. Il movimento a favore della pace, inoltre,
trasse sostegno da diverse fonti: i cristiani che rifiutavano ogni forma di violenza per motivi religiosi, molti
socialisti che consideravano la guerra internazionale un’altra forma di sfruttamento e del conflitto di classe,
e una varietà di persona di orientamento umanitario che la condannavano per le sofferenze che infliggeva.
- IVAN BLOCH: Uno dei più importanti volumi che dimostravano la nocività della guerra era
sicuramente “Il futuro della guerra” di Bloch: era suddiviso in più tomi e in totale era costituito da 4.000
pagine, in cui venivano descritti i disastri che portava la guerra in ambito economico, sociale e politico.
Quasi tutto ciò che in quell’opera fu scritto si avverò pochi anni dopo (disordini sociali, consumo eccessivo
di risorse, produzione di armi che grava sull’economia nazionale, soldati massacrati, imposizioni fiscali e
scarsità di cibo, sofferenze e morti). Alla fine, sosteneva Bloch nel suo libro, l’edificio sociale ne sarebbe
uscito disintegrato, e il sistema politico sarebbe crollato. Il futuro della guerra, insomma, sarebbe stata la
carestia, non il combattimento; il crollo dell’intera organizzazione sociale.
I principali esponenti del movimento pacifista ritenevano che la Conferenza dell’Aia fosse il segno che la
storia stava dalla loro parte.
Nel primo novecento, spronati da quella che interpretavano come una sempre maggiore consapevolezza
dell’impatto potenzialmente catastrofico della guerra moderna, i membri del movimento pacifista europeo
intensificarono i propri sforzi. In ogni paese fondarono organizzazioni dedicate alla promozione della pace,
tennero convegni e raduni, pubblicarono periodici e promossero conferenze sui mali della guerra.
- NORMAN ANGELL: Il movimento Pacifista sposò completamente le teorie descritte nel libro di Bloch,
così come quelle pubblicate dal giornalista britannico Norman Angell nel suo testo intitolato “La grande
illusione” (anche questo uno dei più grandi volumi dell’epoca). Lo scopo di Angell era quello di
persuadere gli europei che la guerra non poteva portare altro che disastri. L’espansione del commercio
su scala globale, secondo Angell, aveva modificato la natura e le fonti della ricchezza, che non
dipendevano più dal controllo del territorio o delle risorse. Le azioni, che rappresentavano la ricchezza in
epoca contemporanea, erano intangibili, in quanto il loro valore dipendeva da un fragilissimo sistema di
istituzioni la cui crisi avrebbe danneggiato sia i vincitori che i vinti. Una potenza vittoriosa non sarebbe
stata in grado di recuperare i costi della guerra mediante le annessioni territoriali, poiché il controllo
diretto di un territorio non produceva benefici economici. La Germania, ad esempio, traeva molti più
vantaggi dai sui commerci con l’America Latina, dove non possedeva territori, che non dall’AlsaziaLorena, conquistate a seguito di una dispendiosa guerra contro la Francia. Ecco perché Angell sosteneva
che la potenza militare non fosse la base necessaria della ricchezza di una nazione, come dimostrava
l’esempio di uno Stato economicamente prospero ma militarmente debole come la Svizzera. Tra l’altro,
vincere una guerra non significava acquisire un maggiore potere: era solo un’idea morale e d’orgoglio.
Tuttavia, così come Bloch, Angell non era un pacifista nel senso stretto del termine: egli sosteneva che
all’aggressione si potesse e si dovesse resistere, anche con la forza, e che la conquista avente come
fine la creazione di una società ordinata era giusta e fonte di progresso. Insomma, riteneva che gli
eserciti erano efficaci quando creavano condizioni in cui il commercio potesse prosperare. Incutendo
nella gente il timore della capacità distruttiva della guerra, essi speravano di convincerla che fosse inutile.
Poche persone dubitavano che una guerra di grandi dimensioni fra gli eserciti di massa delle potenze
europee si sarebbe rivelata rischiosa e piena di sorpresa spiacevoli, ma molte alte credevano che la guerra
avrebbe potuto essere necessaria. Due dei più aspri critici del pacifismo furono Delbruck, professore di
storia militare all’Università di Berlino, e Mahan. Questi ritenevano che vi fossero ancora motivi per fare
la guerra: per sconfiggere la schiavitù, per creare nazioni, per liberarsi dalla tirannia e per proteggere i
propri diritti naturali.
- LE BON e WELLS: Gustave Le Bon pubblicò nel 1895 il libro “Psicologia delle folle”, in cui affermava
che la folla è una formazione sociale moderna. Per molti aspetti, essa richiama quella che fugge da
Londra nella “Guerra dei mondi” di Wells (in cui si narra di un attacco alieno alla Terra, e il relativo panico
che si viene a creare nella città di Londra). La massa viene descritta, sia da Le Bon che da Wells,
frammentata, irascibile, manipolabile e incline al panico. La disciplina militare, per entrambi, era il
modo migliore per sconfiggere le forze disgregatrici che producevano le folle e ristabilire l’ordine e la
coesione sociale. In aggiunta, il comandante dell’armata e capo della sezione storica dello Stato Maggiore,
Bernhardi, riteneva che il servizio militare, non solo educa la capacità guerresca delle nazioni, ma sviluppa
le qualità intellettuali e morali più generalmente utili per le occupazioni in tempo di pace.
In definitiva, le diagnosi della società moderna che compaiono negli scritti di pacifisti e militaristi
mostrano una sorprendente somiglianza: in entrambe le filosofie, speranze e timori coesistevano in modo
problematico. I militaristi speravano che la guerra avrebbe restaurato la volontà collettiva della
nazione; i pacifisti speravano che la società avesse superato il bisogno di un conflitto, e temevano che
se la guerra fosse arrivata, avrebbe compromesso le fragili strutture della civiltà. La guerra, come la
malattia e la morte, rappresenta una disgrazia, e dunque una componente inevitabile della vita: pacifismo e
militarismo coesistevano in un’Europa che viveva in pace ma si preparava alla guerra.
GLI EUROPEI IN UN MONDO VIOLENTO: Nel 1913, il barone Forstner, un ventenne tenente, fu
assegnato alla città alsaziana di Zabern. Nonostante fosse stato nominato da poco, Forstner si era già
guadagnato la fama di persona dedita all’alcol e brutale: era lui stesso causa, a volte, di tensioni nella città
tra cittadini e esercito. Quando il giornale locale, infatti, decise di pubblicare le parole dette dal
comandante a due reclute, “se volete battervi potreste andare in città e se uno di voi ucciderà un alsaziano
potrà ricevere dieci marchi come ricompensa”, l’ostilità fra abitanti della città e la guarnigione, fra tedeschi
e alsaziani, fra autorità civili e militari, arrivò al culmine. Nelle settimane seguenti Zabern fu teatro di varie
proteste e nel corso di una serata il comandante, insofferente per l’incapacità di mantenere l’ordine, mandò
i suoi uomini ad arrestare un certo numero di cittadini, rilasciati il mattino seguente. Qualche giorno dopo
Forstner, indignato e stanco, inseguì ed afferrò un operaio al quale provocò una ferita di cinque centimetri
colpendolo alla testa. Il Parlamento tedesco discusse i fatti di Zabern e oltre a condannare la condotta
dell’esercito, sfiduciò il governo. Non furono però presi particolari provvedimenti per disciplinare Forstner
e i suoi incompetenti superiori.
L’esito della vicenda ha portato un certo numero di storici a prenderla come esempio dell’eccessiva forza
militare dell’esercito e della deplorevole debolezza del Parlamento. Inoltre, la diffusa indignazione che
fece seguito agli eventi evidenziò il livello assai basso della tolleranza nei confronti della violenza pubblica
presente in Europa ai primi del 900. Dopo tutto, a Zabern non c’erano stati morti né feriti gravi. Eppure,
quel che era avvenuto fu sufficiente a provocare una crisi politica.
Via via che la società diventava meno violenta, gli uomini e le donne comuni si sentirono più sicuri.
Hegel , ad esempio, osserva come un uomo consideri normale tornare a casa in sicurezza a notte fatta.
Tuttavia proprio la naturalezza con cui vive nell’ordine sociale è forse la base più importante che lo Stato
possa fornire perché la vita sia migliore. Proprio questo adeguamento a una vita ordinata portò alcuni a
pensare che gli europei avrebbero perso il gusto per la violenza e le loro virtù eroiche.
- I MOTIVI DEGLI SCONTRI: All’inizio del ventesimo secolo, un’Europa pacifica si trovava a
vivere in un mondo pericolosamente violento. Gran parte di questa violenza derivava dai tentativi degli
europei di espandere o mantenere il controllo sui propri possedimenti imperiali. La globalizzazione, se da
un lato appariva come fonte di pace e di cooperazione internazionale, era dall’altro fonte di violenze. La
colonizzazione e la guerra apparivano dunque inscindibili: questo perché se la guerra non era di
conquista, era una risposta violenta dei colonizzatori ai tentativi delle popolazioni conquistate di liberarsi
dal governo straniero. Nei rapporti coloniali la violenza era sempre pronta a emergere, poiché altre forme
di persuasione politica venivano raramente tentate ed erano rapidamente accantonate poiché fallimentari.
Come sosteneva Hannah Arendt (filosofa tedesca naturalizzata statunitense), il dominio per mezzo della
pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere. La violenza si arrestava solo quando non
rimaneva più nulla da calpestare. Non vi erano eserciti da sconfiggere o capitali da conquistare ma solo
impossessarsi di tutto ciò che la società riteneva di grande valore come il bestiame, i campi, i villaggi, le
donne e i bambini.
- COLONIE: Nel diciannovesimo secolo, la potenza europea di gran lunga e più costantemente bellicosa
era la Gran Bretagna. È sbagliato pensare all’Inghilterra come una potenza pacifica e in contrasto solo
con la Germania militarista. Di fatto, l’esercito britannico fu sempre in guerra in qualche parte del
mondo: si pensi per esempio alla campagna di Kitchener nel Sudan, di altri battaglioni fra l’Afghannistan
e l’India, in Cina e contro i boeri in Sudafrica. Il motivo di così tanto impegno in guerra era appunto il
mantenimento dell’impero.
Ma nella crudele storia del governo imperiale, la vicenda del Congo Belga fu eccezionale per le
incessanti brutalità che la caratterizzarono: il re Leopoldo del Belgio intorno al 1880 comprò un immenso
territorio nel bacino del Congo, e lo gestì come un’impresa privata. Il mantenimento dell’ordine fu
affidato alla Force Publique, composta da mercenari africani e ufficiali europei, i quali fecero ricorso a
ogni mezzo per trasformare la popolazione locale in una forza lavoro da utilizzare nelle piantagioni di
gomma del sovrano. Le uccisioni e l’imposizione di una schiavitù di massa provocarono un crollo di
dieci milioni di unità della popolazione africana. Joseph Conrad definì la vicenda del Congo Belga,
utilizzata come scenario per il suo Cuore di Tenebra, come la più vile corsa alla ricchezza nella storia
della coscienza umana, corsa che costò milioni di morti alla popolazione africana. Le proteste furono
molte, ma le violenze nel mondo coloniale erano ormai talmente tante che zittivano ogni movimento
contrario; motivo di tanta foga violenta era, come al solito, l’economia.
La situazione delle periferie dell’Europa era spesso simile a quella del mondo coloniali: istituzioni statali
relativamente deboli, talvolta in mano a quello che localmente veniva considerato un potere straniero,
territori inospitali e spesso impenetrabili, sottosviluppo economico, forti legami di fedeltà a livello
comunitario o parentale e modesto attaccamento ai valori nazionali.
L’Irlanda di fine Ottocento rappresenta un buon esempio di come la violenza si manifestasse in un contesto
semicoloniale. Una minoranza sempre più aggressiva della popolazione irlandese era arrivata a considerate
l’Inghilterra una potenza d’occupazione. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta, a un clima già segnato da
diffuse minacce andarono ad aggiungersi varie forme di violenza politica: dalla mutilazione del bestiame e
dall’omicidio esemplare dei proprietari terrieri.
Come gli irlandesi, anche gli spagnoli avevano una ben meritata reputazione di essere un popolo difficile
da governare in quanto si assisteva a una potente miscela di contrapposizioni regionali, sociali e religiose,
aggravate dalla tradizione di instabilità politica e di guerre civili della penisola. In particolare modo molti
baschi e catalani vedevano nel governo di Madrid un’autorità estranea e illegittima, contro la quale erano
pronti a prendere le armi.
Tra il 1859 e il 1870 gli italiani riuscirono, invece, a ottenere quello che i nazionali irlandesi, baschi e
catalani agognavano: un proprio stato nazionale. Ma questa “Italia” era debole e posava su fragili basi di
consenso soprattutto al Sud. Qui la debolezza delle istituzioni creava uno spazio nel quale agivano
intermediari illegali che garantivano protezione, risolvevano dispute e imponevano il proprio tipo di
ordine: la mafia siciliana era il più noto di questi.
- BALCANI: All’inizio del ventesimo secolo, la zona più violenta d’Europa era quella dei Balcani, dove
un gruppo di nuovi Stati era riuscito a strappare l’indipendenza dall’impero ottomano. Si trattava di Stati
poveri, governati da una dinastia di importazione recente e divisi da antagonismi locali, etnici e religiosi.
Nonostante le aspirazioni di stabilire – o ristabilire – il controllo, nessuno di questi stati era capace di
realizzare un governo stabile e ordinato. Diversamente dai conflitti politici dell’Irlanda, della Spagna o
dell’Italia meridionale, l’instabilità dei Balcani ebbe un impatto diretto sull’ordine internazionale, in
quanto la violenza in quelle zone aggravò il declino dell’impero ottomano e stimolò la competizione fra le
grandi potenze, in particolare fra l’Impero asburgico e quello russo: l’effetto fu la fine della lunga pace
europea.
Nel 1912, mentre i turchi stavano ancora combattendo contro gli italiani nell'Africa del Nord e nel
Mediterraneo orientale, la Bulgaria, la Serbia, la Grecia e il Montenegro si accordarono per scatenare una
guerra di aggressione che puntava a cacciare gli ottomani fuori dall'Europa, per sempre. Dopo una serie di
conquiste (come il Kosovo e l'Albania), le malattie e il maltempo rallentarono la loro avanzata, dando agli
ottomani il tempo di recuperare: nel 1913 a Londra fu firmata la pace. Ma dopo un mese, le rivalità si
riaccesero tra le precedenti e temporanee alleate: la Bulgaria, scontenta del bottino che si era assicurata,
attaccò le posizioni serbe e greche in Macedonia, con esito disastroso a causa di un’alleanza fra serbi,
ottomani e romeni; la Bulgaria fu costretta a cessare le ostilità, perdendo gran parte di quanto aveva
guadagnato. La questione balcanica fu forse uno dei motivi per cui gli uomini cominciarono a perdere
fiducia nella pace: non a caso, la violenza ora riappariva come l'unica forma affidabile di difesa dei propri
interessi nazionali. Ogni Stato ricominciò la corsa agli armamenti, destinando una sempre maggiore
quantità di uomini, soldi e materiali. L'Europa si preparava a una guerra inevitabile.
- PRIMA GUERRA MONDIALE: Il 28 giugno 1914, l'erede al trono dei domini asburgici, l'arciduca
Francesco Ferdinando, fu vittima di un attentato mentre era in visita a Sarajevo (capitale della Bosnia). Il
suo uccisore era Princip, un terrorista inviato in Bosnia dalla Mano Nera, una società segreta collegata a
membri delle forze di sicurezza serbe. Inizialmente non accadde niente circa i rapporti diplomatici tra le
potenze europee: ma dietro le quinte un piccolo gruppo di uomini stava prendendo delle decisioni che
avrebbero causato una delle più grandi catastrofi della storia contemporanea.
L'Austria decise di approfittare dell'omicidio di Francesco Ferdinando per rimuovere la minaccia serba
contro gli interessi dell'impero nei Balcani. La Serbia però era sostenuta dalla Russia, e per questo l'Austria
aveva bisogno della sua unica alleata, la Germania. Dopo un ultimatum da parte dell'Austria alla Serbia, a
cui però quest'ultima non aveva dato seguito, gli austriaci le dichiararono guerra (28 luglio 1914),
bombardando Belgrado un giorno dopo. I francesi dichiararono il proprio appoggio alla Russia, la quale
mobilitò le sue truppe poiché non avrebbe consentito che la Serbia venisse schiacciata. La Germania
replicò con una dichiarazione di guerra contro la Russia stessa. Dopo che i tedeschi violarono la neutralità
del Belgio, l'Inghilterra dichiarò guerra alla Germania. Gli aspetti più orribili della guerra erano legati al
fatto che essa era combattuta non solo dagli eserciti, ma dalle nazioni stesse; ecco perché queste guerre
sono così sanguinarie.
- PERCHE' SCOPPIA LA GUERRA: Ma perché l'uccisione di Francesco Ferdinando mise fine al
periodo di pace europea?
1) Innanzitutto bisogna considerare il peso delle responsabilità della Germania: nel trattato di Versailles del
1919, infatti, si afferma che la Germania e i suoi alleati sono responsabili di aver causato tutte le perdite e i
danni ai quali i governi alleati sono andati soggetti, in conseguenza della guerra loro imposta
dall'aggressione della Germania e dei suoi alleati.
2) Un secondo tipo di spiegazione è l'opposto della prima: la guerra non fu colpa di nessuno, o forse di
tutti, ma derivò da tragici sbagli di valutazione e sfortunati incidenti. (Lloyd George: “Le nazioni
scivolarono dentro il calderone ribollente della guerra senza alcuna traccia di apprensione o di sgomento)
3) Vi è poi un'ultima spiegazione, secondo cui la guerra è stata il risultato inevitabile di alcune tensioni
profondamente radicate nel mondo pre-bellico. Per i marxisti, il conflitto scaturì dalle contraddizioni di
fondo dell'economia capitalista; per altri dalle tensioni del sistema internazionale. Insomma, le tensioni
prima o poi sarebbero esplose, se non nel 1914, subito dopo.
Si può affermare che nessuna di queste spiegazioni sia pienamente convincente, ma ognuna contiene un
elemento di verità. Fra le spiegazioni dello scoppio della guerra nel 1914, però, una può certamente essere
scartata: la guerra non fu una risposta diretta a crisi politiche interne. Gli statisti, infatti, non entrano in
guerra per deviare l’attenzione delle proprie popolazioni dai problemi interni, evitare riforme politiche o
scongiurare una rivoluzione sociale.
- CONSENSO POPOLARE: Inoltre, sappiamo che una guerra, per essere combattuta senza ostacoli
interni, deve essere sostenuta tramite il consenso del popolo. Per ottenere ciò, i governi dovevano
convincere la popolazione che era in atto una guerra difensiva per la sopravvivenza della nazione.
Così, il popolo sapeva che gli Austriaci stavano soltanto rispondendo all'aggressione serba, i tedeschi
stavano difendendo un alleato fedele da un attacco, i russi che non potevano vedere distruggere la Serbia,
i francesi che non potevano permettere l'invasione della Russia da parte dei tedeschi, i britannici che il
Belgio doveva essere difeso in quanto neutrale. Per questo, molti giovani considerarono la guerra come
una grande avventura, una prova di virilità, una possibilità di gloria e di fama. Oltre ai giovani e agli
scontenti, i più vistosi ed entusiasti sostenitore della guerra furono gli intellettuali come Freud che plaudì
alla decisione dell’Austria di colpire la Serbia o come Weber che accolse la guerra con altrettanto
entusiasmo. L'evidente sostegno del pubblico alla guerra, descritto anche dalla stampa, frustrò qualsiasi
speranza di dar vita a un'opposizione organizzata. Più sorprendente e significativo dell’insuccesso del
movimento per la pace fu il crollo politico del socialismo europeo, i cui sostenitori erano impegnati a
opporsi al nazionalismo aggressivo e a promuovere la cooperazione internazionale. Nessuno di loro
aveva un piano su come agire, tutti denunciavano la guerra di aggressione ma pochi erano pronti a
rifiutare una guerra di difesa della propria patria. Nonostante il conflitto cominciasse senza un efficace
opposizione, non tutte le folle erano festose e in alcuni luoghi prevaleva uno stato d’animo di
apprensione, malinconia e rassegnazione.
GUERRA E RIVOLUZIONE: Che aspetto avrebbe dovuto avere la ricompensa della vittoria per
giustificare così tanto sangue? Quando le morti divennero sempre più numerose, ogni Stato si sentì
obbligato a promettere un futuro che giustificasse tanti sacrifici, o quantomeno si sentiva giustificato a
portare avanti la guerra per una vittoria. Qualsiasi cosa inferiore alla vittoria, come una pace, avrebbe
avuto conseguenze disastrose per coloro che l’avessero sottoscritta. I politici, così, chiedevano ai loro
popoli di affrontare sacrifici sempre maggiori piuttosto di ammettere che le atrocità che avevano
sopportato erano state vane. Si era creato un circolo vizioso in cui tutti i belligeranti erano intrappolati:
nessuno voleva firmare una pace e tanto meno perdere la guerra; il perseguimento della vittoria costava
sacrifici e sforzi sempre maggiori per la popolazione e per la nazione stessa.
Nel 1914 esisteva un vasto consenso tra i militari di professione sul fatto che le operazioni offensive
fossero un elemento essenziale per vincere. (Repington “La guerra è una questione di attività,
d’iniziativa, di movimento”).
- FRANCIA: Una prima strategia francese per sconfiggere il nemico era il Plan XVII (1913), che
prevedeva una concentrazione delle truppe francesi alla frontiera orientale: le forze francesi dovevano
avanzare unite contro l’esercito tedesco. I fanti francesi entrarono nel territorio nemico il 15 agosto,
incontrando una forte resistenza e cominciando a subire perdite spaventose, che in poco tempo sarebbero
state circa l’80%. Nella sola giornata del 22 agosto furono uccisi 27.000 soldati francesi, e in totale dal 20
al 23 agosto furono più di 40.000. Insomma, il Plan XVII era fallito.
- GERMANIA: Anche i tedeschi misero in atto la propria offensiva che prendeva il nome dall’ideatore,
von Schlieffen. Egli non aveva elaborato un piano dettagliato, ma aveva chiarito che la vittoria si sarebbe
potuta ottenere solo attraverso una rapida concentrazione di forze a occidente, che avrebbero dovuto
invadere il Belgio e la Francia settentrionale per poi impegnarsi in una serie di scontri decisivi con il
nemico. La spedizione dei soldati tedeschi verso il fronte occidentale fu inizialmente senza problemi. Ma
più i tedeschi si spingevano fino alle stazioni terminali delle loro ferrovie, più diventava difficile portare
avanti l’offensiva. Vi erano molti problemi, tra cui le grandi dimensioni dell’esercito, la cattiva
comunicazione con le proprie forze, l’impossibilità di controllare un così vasto contingente, poche
informazioni sullo schieramento del nemico, problemi con i rifornimenti e quindi uomini esausti. Quando
l’attacco tedesco cominciò a perdere la propria direzione, i francesi riuscirono a recuperare. Con una
sanguinosa battaglia sulla Marna, i tedeschi vennero fermati, ma si giunse presto a una situazione di
stallo: entrambi gli eserciti non riuscivano a predominare.
Nel frattempo, la Germania combatteva la sua guerra anche sul fronte orientale contro la Russia. La
differenza sostanziale riguardava gli spazi: a ovest il conflitto si concentrava in un’area compatta (guerra
immobile), mentre a est il fronte si estendeva per oltre 1.500 chilometri (guerra di movimento). Anche qui
però gli eserciti rimasero intrappolati in una guerra di logoramento, che si sarebbe decisa solo al momento
del crollo dell’esercito russo.
Winston Churchill: “Questa non è una guerra normale, ma una lotta fra nazioni per la vita e la morte”.
La prolungata agonia sul fronte occidentale riecheggia nei nomi di quei campi di morte che ancora
evocano il costo devastante e la terribile nullità della guerra. Per i britannici, la battaglia che assurse a
tragico simbolo della guerra venne combattuta lungo la Somme nell’estate del 1916 (da 100 mila uomini a
20mila e 40mila feriti). Quello che la Somme fu per la Gran Bretagna, Verdun lo fu per la Francia e la
Germania (379mila morti francesi e 330mila morti tedeschi). Secondo il comandante tedesco, una volta
colpita a morte la Francia, la Gran Bretagna sarebbe stata costretta a far la pace.
La maggior parte delle uccisioni erano senza volto: i soldati non vedevano gli uomini che uccidevano, né
da chi venivano uccisi. Il ritmo della morte non aveva tregua a causa del continuo funzionamento
dell’artiglieria.
- CONDIZIONI PSICOLOGICHE: Fusilier dice che per l’uomo delle trincee la prova rivelatrice erano
gli ordigni che gli esplodevano intorno.
Ogni esercito, ormai provato dalla guerra stremante ininterrotta, aveva uomini che non potevano e non
volevano continuare a combattere perché la loro scorta di coraggio si era esaurita. A volte soffrivano di
quello che era chiamato “shock da granata”, una condizione che si manifestava con una varietà di sintomi,
fra i quali un’estrema agitazione, insonnia, delirio e perdita della parola e dell’udito: se erano fortunati tali
soldati venivano trattati con umanità, ma il più delle volte venivano costretti a tornare al fronte il prima
possibile. Nel 1917 emersero segni che la sopportazione dei soldati stava per toccare il limite. Su ogni
fronte si manifestarono disordini, segnale che la disciplina militare stava cominciando a disfarsi. Ma
l’efficienza militare venne ripristinata presto in tutti gli eserciti, anche grazie alla polizia responsabile
dell’imposizione della disciplina degli eserciti: dure punizioni, che arrivavano fino alla pena di morte,
potevano essere assegnate per essersi addormentati durante un turno di guardia, per non essere avanzati per
attaccare il nemico, o per essere scappati. L’unica possibilità di sottrarsi alla disciplina militare era la
diserzione, che significava o passare al nemico o nascondersi lontano dal campo di battaglia: alcuni ci
riuscirono, altri furono catturati e severamente puniti.
Sul campo di battaglia quel che più contava erano gli uomini assieme ai quali un soldato combatteva, da
cui dipendevate per i quale, se necessario, soffriva e moriva. Questa lealtà di gruppo, però, non garantiva
l’efficienza e la combattività di un esercito. Per funzionare, infatti, vi era bisogno di una società civile
funzionante, di un sistema di approvvigionamenti relativamente efficiente che garantisse direzione,
disciplina e legittimità.
- ECONOMIA: Nel 1914, nessuna economia nazionale era preparata ad affrontare la guerra che avrebbe
dovuto combattere; tutte dovettero riadattarsi rapidamente e radicalmente per poter rispondere a una così
elevata domanda di beni e servizi. La mobilitazione di massa di giovani uomini per l’esercito sottrasse
braccia alle fabbriche e ai campi, lo sconvolgimento dei mercati interni e del commercio internazionale
soffocò il rifornimento di materie prime, e i danni provocati dall’occupazione straniera restrinsero le basi
della produzione. Su tutti i fronti, i combattenti distrussero interi villaggi, rovinarono miniere e
contaminarono i campi coltivati.
Gli Stati limitavano i viaggi, razionavano il cibo e imponevano giorni senza consumo di carne. Per
risparmiare energia, introdussero l’ora legale. Ridussero le ore nelle quali i locali pubblici potevano servire
birra. Intromettendosi in così tante attività della vita di ogni giorno, lo Stato gettò le basi di quei regimi che
sarebbero nati poco dopo la fine della prima guerra mondiale.
- CENSURA: Quello che poteva essere scritto e riferito a proposito della guerra era attentamente
controllato da censori civili o militari: i quotidiani che uscivano dai limiti consentiti potevano essere
chiusi, gli articoli e i libri che criticavano la politica governativa erano messi al bando. Al fine di
prevenire il diffondersi di notizie scoraggianti dal fronte venne introdotto un sistema di censura militare.
Gli uffici per l’informazione di guerra stampavano centinaia di manifesti, organizzavano raduni e parate,
curavano apparizioni pubbliche degli eroi di guerra e mostre delle armi sequestrate. Ogni campagna
propagandistica cercava di diffamare il nemico.
Quali furono gli effetti della propaganda? Dopo che l’aspettativa di un rapida vittoria fu smentita, quanto
durò l’entusiasmo della popolazione per la guerra? In alcuni luoghi e in certi gruppi l’entusiasmo non
scemò mai. In ogni paese vi erano patrioti che si aggrappavano ai sogni di vittoria e celebravano le
eroiche gesta dei loro guerrieri.
Fra le molte illusioni che andarono distrutte nel 1914 fu la distinzione fra militari e popolazione civile.
Quasi fin dai primi momenti del conflitto, i belligeranti abbandonarono l’idea che gli obiettivi civili
fossero fuori dai limiti consentiti. Molte bombe vennero sganciate nei centri delle città provocando
migliaia di vittime civili. In tutti i luoghi, dunque, la popolazione civile si trovò alla mercé di un esercito
straniero: incendi, stupri e omicidi accompagnavano il cammino degli invasori. Le più gravi atrocità,
però, non furono commesse dagli eserciti stranieri ma da agenti dello Stato contro i propri cittadini.
Nell’aprile del 1915, ad esempio, il governo ottomano di Costantinopoli cominciò una sistematica
campagna di annientamento contro la minoranza armena. Contro questo genere di violenze e politiche
devastanti, le potenze europee rimasero mute e impotenti. Simile situazione venne affrontata da circa 6
milioni di cittadini dell’Impero russo perché di origine tedesca, zingari, musulmani del Caucaso, abitanti
delle province baltiche o ebrei. I governi si accorsero ben presto di poter sfruttare le tensioni etniche
esistenti negli Stati loro rivali. Gli ottomani, ad esempio, dichiararono una guerra santa contro i nemici,
sperando di mobilitare la componente musulmana russa e quella presente nelle colonie francesi e
britanniche. Nel 1917, invece, la Gran Bretagna propose la creazione di un “focolare nazionale per il
popolo ebraico” in Palestina. Come i loro nemici, anche i tedeschi sfruttarono questa tecnica suscitando
una rivolta irlandese.
- RUSSIA E IL RITORNO DI LENIN: Hoffmann fu coinvolto nel più significativa episodio di
interferenza nemica nella politica interna di un altro Stato: la decisione, nel marzo del 1917, di riportare
Lenin in Russia. All’inizio del 1917 la Russia si trovò a dover fronteggiare un complesso intreccio di
drammatici eventi militari, sociali e politici che si trasformò in rivolta generale a Pietrogrado. Quando le
guarnigioni di stanza in città si rifiutarono di intervenire per riportare l’ordine, il plurisecolare regno dei
Romanov crollò, e si insediò al potere un governo provvisorio guidato da riformatori moderati. Quando
Lenin giunse a Pietrogrado, il suo intento era quello di trasformare la guerra in corso in una sollevazione
rivoluzionaria nella quale le classi diseredate del mondo potessero essere mobilitate contro i loro padroni
imperialisti. Per conquistare la fiducia, Lenin sostenne e aspirazioni del popolo, il quale chiedeva che il
potere fosse consegnato ai soviet (consigli di operai, cittadini, soldati e marinai che si erano formati
spontaneamente a Febbraio), l’immediata conclusione della guerra e la distribuzione di terre ai
contadini. Lenin, successivamente, usufruì della sua cerchia per spazzare via il debole governo
provvisorio e prendere il potere, in attesa che scoppiasse la rivoluzione mondiale. Nell’autunno del 1918
la rivoluzione leninista sembrò propagarsi a occidente, ponendo a fianco del fragile governo bolscevico
le masse radicalizzare dell’Europa centrale.
- FINE DELLA GUERRA: Alla fine di settembre, il comando supremo tedesco si rese conto che la
guerra era perduta: le forze britanniche e francesi erano sopravvissute all’ultima offensiva tedesca ed
erano ora sostenute dall’arrivo di una grande quantità di truppe americane. La disciplina all’interno
dell’esercito tedesco cominciò a sfasciarsi, e con essa la capacità del governo tedesco di mantenere
l’ordine. L’Imperatore di Germania Guglielmo II si rifugiò in Olanda. La capacità dello Stato di imporre
l’ordine, e in molti luoghi perfino il suo controllo del monopolio della violenza, venne compromessa:
sommosse, omicidi politici e minacce rivoluzionarie tormentarono l’immaginazione degli europei. La
guerra distrusse tutto: per milioni di europei, il conflitto aveva dimostrato la triste verità contenuta nella
previsione di Norman Angell, secondo cui la guerra non avrebbe pagato. Essi credevano che un altro
conflitto europeo dovesse essere evitato a ogni costo.
LA TREGUA DEI VENT’ANNI: L’11 novembre del 1918, gli eserciti contrapposti lungo il fronte
occidentale continuarono a far fuoco fino alle 10:59. Alle 11 in punto, si fece silenzio, in quanto entrò in
vigore l’armistizio. Alcuni soldati scavalcarono le trincee e attraversarono la terra di nessuno per
abbracciare i loro ex nemici; altri se ne andarono; la maggior parte rimase dov’era, dubitando ancora che la
guerra fosse veramente finita. Nel 1919 si tenne la Conferenza di pace di Parigi, in cui gli Stati vincitori
(Francia - Clemenceau, Inghilterra - Lloyd George e Usa - Wilson) imponevano a quelli sconfitti alcuni
trattati da rispettare.
Al posto dell’Impero asburgico si istituì un gruppo di Stati basati in linea generale sul principio
dell’autodeterminazione. Il punto debole però, più che dagli specifici aspetti delle sistemazioni prospettate,
dalla mancanza di una volontà concertata di attuarle. Gli Usa non fornirono sostegni alla pace e non
aderirono alla Società delle Nazioni. I britannici vi aderirono ma cominciarono subito ad avere dubbi sugli
accordi di pace. Londra, ad esempio, era pronta a garantire la sicurezza della Francia, ma non quella degli
stati di nuova formazione nell’Europa orientale. La Russia, essendo governata ora dai bolscevichi, era fuori
dal consenso degli Stati. L’Italia e il Giappone, nonostante fossero fra le potenze vincitrici, erano
profondamente insoddisfatti dello Status quo. In definitiva, l’unica potenza che sosteneva l’ordine postbellico senza riserve era la Francia, fiaccata dai costi umani e finanziari della guerra. A pagare
maggiormente le conseguenze della guerra fu la Germania, la cui popolazione era fortemente convinta di
aver vinto dati i territori occupati dal loro esercito: obbligata a ridimensionare drasticamente le forze
armate (100.000) e cedere alcuni territori, l’economia gravata dalle enormi riparazioni di guerra, governo
sotto attacco, società percossa da conflitti. I tedeschi si sentirono, inoltre, particolarmente offesi dagli
articoli 228-231 del trattato, con i quali si stabiliva che chi aveva girato il paese in tempo di guerra doveva
essere consegnato e sottoposto a processo come criminale e si dichiarava che la guerra era stata provocata
“dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati”. Ma nonostante tutto, la Germania rimaneva lo Stato
più importante d’Europa.
Oltre a definire e a sostenere la pace europea, le grandi potenze dovettero occuparsi di una serie di rivolte
scatenate dai popoli a esse soggetti in tutto il mondo: nell’India britannica, in Egitto, in Iraq, il Libia, in
Marocco e in Irlanda. In tutti i casi, gli europei reagirono alle resistenze che vennero loro opposte con
estrema violenza. Per contrastare i nazionalisti irlandesi, ad esempio, i britannici formarono un gruppo
paramilitare, i Black and Tans, che rispose agli attacchi con violente e indiscriminate rappresaglie contro la
popolazione. In molte parti del mondo, le potenze coloniali fecero uso della nuova tecnologia militare per
imporre la loro volontà: aerei, gas venefici e agenti chimici.
Nel Medio Oriente, il periodo successivo alla guerra fu caratterizzato da una serie di lotte armate per
decidere il futuro dell’Impero ottomano. Quando nel 1918 i turchi accettarono l’armistizio, le loro province
arabe erano in rivolta, e truppe straniere stavano penetrando nell’entro terra, tra cui quelle britanniche,
greche e italiane. L’impero si stava rapidamente disintegrando, e il sultano Mohammed VI rimase
confinato a Costantinopoli. Gli succedette Kemal, il quale istituì una repubblica al posto del sultanato. Nel
1923 aveva sconfitto i greci, negoziato la fine delle ostilità con le potenze dell’Intesa e firmato un nuovo
trattato di pace a Losanna.
- RUSSIA: Lenin, nel 1918, aveva convinto i suoi compagni ad accettare le dure condizioni di pace
imposte dalla Germania vittoriosa a Brest-Litovsk, in conseguenza delle quali il paese perse un terzo dei
territorio della Russia europea, assieme a quasi metà della sua capacità industriale. Lenin, infatti,
sosteneva che la pace era necessaria per consentire all’esperimento bolscevico di sopravvivere
abbastanza a lungo. Nello stesso anno, si formarono degli eserciti controrivoluzionari appoggiati da Usa,
Giappone, Gran Bretagna e Francia, che minacciarono il regime russo su diversi fronti. I Bolscevichi ne
uscirono vittoriosi, usando istituzioni militari e politiche efficienti e basandosi su convinzioni
ideologiche, appelli patriottici, rivalità sociali e ambizioni personali. Ma la vittoria, scaturì soprattutto
dall’utilizzo della forza contro tutti i nemici. Nel 1921 i bolscevichi avevano vinto la guerra civile, ma
l’economia russa era paralizzata, la fame una realtà, e il malcontento cresceva tra tutti. Lenin fu costretto
ad adottare provvedimenti per sopravvivere noti come “Nuova politica economica”.
- ITALIA: Nel 1919, mentre Lenin istituiva la Terza Internazionale (la seconda era crollata nel 1915) per
diffondere la rivoluzione mondiale, Benito Mussolini fondò a Milano un Fascio di combattimento: la sua
rapida ascesa al potere sarebbe stata inconcepibile senza la guerra. Nel 1914 Mussolini dirigeva l’Avanti, il
quotidiano ufficiale del Partito socialista italiano; poco dopo l’inizio della guerra, però, ruppe con i
compagni socialisti sulla questione dell’intervento, da lui sostenuto. Se inizialmente il futuro duce
possedeva un programma che mescolava a un radicale nazionalismo elementi anticapitalistici e
anticlericali, ben presto si spostò a destra, omaggiando la monarchia e la Chiesa e promettendo di
difendere la proprietà e l’ordine.
Con lo Stato ridotto quasi alla paralisi, l’economia del paese a terra e il sistema politico collassato, molti
italiani guardavano alle squadre fasciste (reclutate fra ex militari, studenti e giovani predisposti alla
violenza) come a un fondamentale alleato contro la minaccia di una rivoluzione comunista. Ma fascismo e
comunismo nascevano dalla stessa guerra, e possedevano entrambi un ideale di base: era necessario un
nuovo sistema, ricorrendo anche a misure dure e perfino brutali per realizzarlo.
- I CADUTI: Sulle vite di chi era sopravvissuto alla guerra si proiettava la lunga ombra di milioni di
persone che invece non ce l’aveva fatta. La guerra lasciò circa 3 milioni di vedove, 10 milioni di orfani e
milioni di genitori, fratelli, sorelle, innamorati e amici in lutto. I sopravvissuti, invece, non si sarebbero
mai dimenticati i terribili momenti in cui avevano ricevuto la fatale notizia o i momenti in cui si erano
trovati in un campo di battaglia. I governi, successivamente, si resero conto che avrebbero dovuto
commemorare la morte di ognuno dei loro cittadini soldati. Vennero dunque costruiti nuovi cimiteri
militari, ampliati quelli civili e costruiti migliaia di monumenti per commemorare i caduti. Se la natura
democratica della guerra moderna conferiva importanza alla commemorazione del sacrificio di ogni
soldato, la tecnologia dei combattimenti la rendeva però spesso impossibile poiché, dopo ogni scontro, il
campo di battaglia era cosparso di corpi maciullati. A partire dall’11 novembre 1920, a Londra e Parigi,
con una prassi che poi si estere a quasi tutte le nazioni che avevano combattuto, venne riservato un posto
d’onore al milite ignoto, le cui ossa vennero scelte a caso per rappresentare tutti colori che erano morti in
battaglia. Negli anni Venti e Trenta, inoltre, gli europei ricordavano la guerra con le cerimonie che
mettevano in risalto il sacrificio, il dolore e il lutto.
- TRATTATI: Alla fine del 1923, il ministro degli Esteri tedesco Stresemann inaugurò una politica tesa a
ottenere concessioni dagli Alleati in un’ottica di conciliazione piuttosto che di scontro. Stresemann trovò
un alleato disponibile nel primo ministro francese Briand, il quale credeva che la sicurezza della Francia
potesse essere meglio perseguita mediante una stretta cooperazione con la Gran Bretagna e una politica
più accomodante e flessibile nei confronti della Germania. Gli sforzi congiunti tra i due produssero una
serie di accordi, firmati a Locarno nel 1925, con i quai si garantivano le frontiere orientali della Francia.
Nel 1926 la Germania entrò nella Società delle Nazioni e prese parte ai avori di una commissione
incaricata di preparare una conferenza generale sul disarmo. Ci fu anche una soluzione riguardo le
riparazioni, che furono fissate a una quota che i tedeschi avrebbero potuto pagare.
Nell’agosto del 1928 a Parigi, invece, fu firmato un accordo con il quale le nazioni condannavano il
ricorso alla guerra per regolare le controversie internazionali e rinunciavano all’uso di questo strumento
nelle relazioni reciproche.
- VERSO LA GUERRA: Gli anni 30 erano un periodo basso e disonesto, oltre che violento. Si ricorda ad
esempio la conquista dell'Etiopia da parte dell'Italia di Mussolini, le brutalità commesse dal regime
sovietico contro i contadini, i Gulag, la carestia che afflisse l'Ucraina. I governi delle democrazie liberali
assisterono a questa marea di sofferenze e di morte con ansia e sgomento . I sostenitori del comunismo e
del fascismo tentarono di spiegare e giustificare le politiche omicide di Stalin e l'imperialismo di
Mussolini. Fra gli europei, l'orientamento dominante fu quello di non farsi coinvolgere, di lasciare che gli
eventi facessero il loro corso. Nessuno di questi eventi, infatti, sembrava toccare gli interessi degli altri
Stati europei: per nessuno di essi valeva la pena di rischiare un'altra catastrofe come la scorsa guerra.
- GERMANIA: Nel 1922 e 1923, in Germania né l'estrema destra e né l'estrema sinistra erano abbastanza
forti da prendere il potere illegalmente o da conquistarlo con libere elezioni. Quando nel 1929 l'economia
mondiale precipitò nella crisi, questa situazione cambiò: i conservatori crearono un'alternativa
antidemocratica. Così, nel 1933 il governo fu consegnato ad Adolf Hitler. Questi si sbarazzò ben presto dei
suoi alleati, sottomise col terrore i propri oppositori e smantellò la Costituzione. In poche parole, in poco
più di un anno affermò il proprio controllo sullo Stato e sulla società tedesca.
Il nazismo trovò consensi "grazie" alle divisioni politiche, a un grave dissesto economico e a un senso di
frustrazione nazionale, il tutto causato dalla guerra. In secondo luogo, la guerra abituò i tedeschi alla
violenza. Le attrattive del nazismo consistevano in una serie di paure e odi, oltre che interessi particolari: la
questione ebraica assumeva un'importanza centrale, così come l'anticomunismo. Nel 1918, queste forze
estranee avevano tradito la patria e continuato ad essere la fonte del malcontento tedesco. L'interesse
principale era quello di far tornare la Germania una potenza mondiale di tutto rispetto, in risposta
all'umiliazione subita col trattato di Versailles.
Hitler credeva di poter sovvertire la pace di Versailles con mezzi diplomatici, sfruttando le debolezze e le
divisioni esistenti fra gli altri Stati europei, ma gli obiettivi finali del suo imperialismo razziale non
potevano essere conseguiti senza la guerra, necessaria per conquistare i vasti spazi rivendicati dalla
Germania a Est. Nel 1936 Hitler annunciò che la Germania non si sarebbe più attenuta alle restrizioni che
il Trattato di Versailles imponeva alle sue forze armate. Gran Bretagna e Francia non passarono all'azione,
mantenendo comunque lo stato di allarme.
Nel 1938 Hitler si mosse per la prima volta oltre i confini del Reich, costringendo il governo austriaco ad
accettare un'incursione di truppe tedesche e la fusione dei due paesi (Anschluss). Sempre nello stesso anno,
Hitler iniziò ad avvicinare il suo esercito in Cecoslovacchia, dove viveva una consistente minoranza
tedesca; ma la Cecoslovacchia mobilitò il suo esercito, assicurandosi anche l'appoggio di Gran Bretagna e
Francia. Hitler dunque fece marcia indietro, ma non abbandono il suo obiettivo: in un futuro non troppo
lontano, avrebbe distrutto la Cecoslovacchia, e non era di certo un segreto.
Per evitare la catastrofe, il primo ministro britannico Chamberlain compì tre viaggi per incontrare Hitler,
riassumibili tutti nel terzo, in cui di fatto venne concesso a Hitler tutto quello che voleva; l'alternativa era
attaccarlo. La politica di appeasement praticata da Chamberlain è divenuta sinonimo di debolezza,
nonostante la stragrande maggioranza degli europei fu contenta quando quella politica sembrò funzionare .
Non fu sbagliato perseguire una soluzione pacifica della crisi cecoslovacca, ma fu irresponsabile e
criminale non prendere in considerazione cosa si sarebbe dovuto fare se ciò non avesse placato la brama di
conquista hitleriana. Così, prive di vincoli, nel 1939 le truppe tedesche entrarono a Praga, completando la
distruzione dello Stato cecoslovacco. Hitler preparò subito anche l'invasione della Polonia: stavolta, però,
Chamberlain dichiarò che in caso di attacco, l'Inghilterra (così come la Francia) sarebbe accorsa in aiuto
alla Polonia. Hitler non aveva ragioni per pensare che ora le potenze occidentali facessero sul serio, anche
perché la Germania aveva stretto un patto di non aggressione con la Russia, condannando la Polonia a
combattere su entrambi i fronti.
La guerra era ormai inevitabile: l'Europa si trovava a dover affrontare di nuovo un dramma atroce, ma
questa volta senza nemmeno l'entusiasmo di vincere. Nessun canto, nessuna banda e nessuna felicità vi era
ad accogliere i soldati e i cittadini europei. Chamberlain era ormai rassegnato, dopo aver provato in ogni
modo ad evitare la guerra. Perfino a Berlino l'atmosfera non era entusiasta. L'auto di Hitler, al momento
dell'annuncio dell'inizio della guerra, attraversò strade vuote: non c'erano folle esultanti, né espressioni di
gioia o di solidarietà. L'Europa aveva iniziato la guerra, un'altra volta.
L'ULTIMA GUERRA EUROPEA:
L'ultima guerra europea iniziò il 1° settembre del 1939, quando i tedeschi bombardarono la Polonia presso
il golfo di Danzica. L'obiettivo strategico di Hitler era l'eliminazione delle forze vive, ossia la distruzione
della società e della cultura polacca. La guerra, sosteneva Hitler, doveva essere combattuta con la più
grande brutalità e senza pietà. E così fu: ammazzarono prigionieri, incendiarono paesi, catturarono ostaggi,
uccisero civili e capi politici. Gran parte di questa violenza fu opera delle SS e della Gestapo. Come
promesso la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra alla Germania per difendere i loro alleati
polacchi, ma di fatto non fecero niente per aiutarli militarmente.
Una volta sconfitta la Polonia, Hitler fu ansioso di procedere con il suo più vasto progetto imperialistico su
base razziale, il che significava invadere l'Unione Sovietica, rompendo il patto di non aggressione. Prima
di questo, però, doveva assicurarsi il controllo del fronte occidentale, sconfiggendo la Francia e
allontanando i britannici dal continente. Gli alleati occidentali aspettarono al riparo della linea Maginot, un
sistema di fortificazioni che si estendeva per 140 chilometri lungo la frontiera franco-germanica. Quando i
militari tedeschi cominciarono a spostarsi verso Ovest, i francesi sbagliarono a valutare quale sarebbe stato
il punto di massima concentrazione dell'offensiva tedesca, e inviarono le loro truppe migliori a Nord verso
il Beglio, consentendo così al nemico di avanzare attraverso la foresta delle Ardenne, che la linea Maginot
lasciava scoperta. Nell’arco di due settimane, l’esercito francese cominciò a disintegrarsi e il 22 giugno fu
firmato l’armistizio senza condizioni. Com’era potuto accadere? La spiegazione più ovvia è
l’incompetenza militare soprattutto del Comando supremo.
Quanto alle modalità di combattimento, tre furono gli aspetti decisivi per il futuro dell’Europa. In primo
luogo, nella seconda guerra mondiale, ancor più che nella Grande guerra, la natura dello scontro fu
determinata da uno dei partecipanti, la Germania. Senza di essa, nel 1939 non ci sarebbe stata la guerra
europea. In secondo luogo, la guerra venne combattuta in modo assai diverso in Oriente e in Occidente.
Fin dall’inizio, la Germania fu determinata non solo a conquistare i propri nemici orientali, ma anche a
distruggere le loro istituzioni politiche e sociali in modo da poter imporre una forma di dominazione. In
terzo luogo, la seconda guerra mondiale fu una guerra totale, nella quale la linea divisoria fra combattenti e
non venne cancellata, non solo durante le operazioni a Est, ma anche con il bombardamento strategico di
obiettivi civili.
- INGHILTERRA: Dopo la caduta della Francia, Hitler sperava che la Gran Bretagna sarebbe rimasta
neutrale e avrebbe lasciato avanzare ad Est la Germania. Ma Churchill, diventato primo ministro, era
determinato a restare in guerra. La Royal Air Force riuscì a sconfiggere la Luftwaffe, costringendo Hitler a
rinviare ulteriori operazioni militari.
- RUSSIA: Hitler, convinto che che la vittoria ad Est sarebbe stata rapida e facile, cominciò a progettare
l’attacco all’Unione Sovietica, convito che na volta messa fuori gioco quest’ultima, i britannici avrebbero
capito quanto fosse folle continuare la resistenza. Stalin, nonostante il crescente numero di rapporti dei
servizi segreti sui preparativi militari tedeschi, era restio a crescere che Hitler stesse progettando di
infrangere il loro accordo. Nel 1941 i tedeschi sfondarono in territorio russo: lo shock fu tremendo, e la
loro avanzata provocò un disastro terribile. I sovietici in sei mesi persero 4 milioni di uomini e migliaia
di aerei e carri armati. Leningrado fu accerchiata, e Mosca posta sotto assedio, consentendo così ai
tedeschi di impossessarsi di alcune zone industriali. Hitler aveva deciso che Mosca dovesse scomparire
dalla storia, sommersa da un enorme lago artificiale. Ma quando cominciò l’inverno, fu evidente che i
tedeschi non erano riusciti a superare due grossi problemi: quello logistico di una linea di rifornimenti
che si estendeva continuamente, lasciando spesso le truppe senza carburanti e munizioni; e il
coordinamento fra unità corazzate e fanteria, che consentì ad alcuni reparti russi di mettersi in salvo.
Approfittando dei rallentamenti delle truppe tedesche, i sovietici riuscirono a liberare Mosca: l’Armata
Rossa stava recuperando.
A maggio, Stalin aveva ordinato un’offensiva presto rivelatasi fallimentare: i tedeschi reagirono con una
propria offensiva, destinata però a bloccarsi quando non riuscirono a conquistare Stalingrado. Era un
secondo campanello d’allarme per Hitler, che aveva già sentito suonare il primo poco prima con la
liberazione di Mosca. Infatti, nel 1943, gli esausti resti dell’armata tedesca furono costretti alla resa: la
campagna tedesca subì così una grave sconfitta, di grande portata simbolica, in quanto la Germania prima
d’allora non aveva mai perso una battaglia. Il regime dittatoriale tedesco riuscì a prevalere sulle
democrazie occidentali, ma a Est si trovò di fronte un regime simile, forse organizzato ancora meglio, e il
nazismo non poté superare la prova del fuoco.
- USA: Nel frattempo i cacciabombardieri giapponesi stavano attaccando la base navale americana di Pearl
Harbor. Hitler decise di affiancarsi ai giapponesi, dichiarando guerra agli Stati Uniti. Questi ultimi
sembravano l’unica via d’uscita per un’Europa sottomessa dalla Germania. Iniziò così la battaglia
dell’Atlantico, in cui i tedeschi potevano mostrare la propria abilità per mezzo degli U-Boot (sottomarini).
Solo nel 1943, finalmente, il numero di navi fabbricate superava quello delle navi perse, e nello stesso
anno gli alleati riuscirono ad affondare un numero maggiore di U-Boot, costringendo i tedeschi a limitarne
l’attività.
Contemporaneamente, i britannici e gli americani cacciarono gli italiani e i tedeschi dal Nord-Africa,
sbarcando in Sicilia. Mussolini venne estromesso dal potere. Ora la Germania era costretta a condurre un
nuovo tipo di guerra, fronteggiando una schiera di nemici che disponevano di popolazioni molto più
numerose, di risorse più consistenti e di una capacità produttiva nettamente maggiore. Nel 1944 gli alleati
sbarcarono in Normandia, uccidendo più di un milione di soldati tedeschi. Roma fu occupata dagli angloamericani.
Ma i tedeschi non mollavano così facilmente e continuavano a infliggere gravi perdite ai loro nemici: essi
continuavano a combattere a lungo, anche se ogni possibilità di vittoria era visibilmente svanita,
probabilmente per convinzioni ideologiche, per salvarsi la pelle a vicenda, per la coesione all’interno
dell’esercito, o forse solo perché avevano paura a non farlo, considerando che i disertori venivano
letteralmente appesi ai lampioni.
- FINE DELLA GUERRA: La seconda guerra mondiale, come la prima, fu una guerra di logoramento. La
differenza cruciale fra le due guerre non risiede nel loro carattere ma nella loro dimensione. Più vite
umane, più risorse, più macchine, più morti (circa 50 milioni di persone). Inoltre, molto più della prima
guerra mondiale, la seconda trascinò con sé sia soldati che civili, poiché i combattimenti non ebbero
confini.
Nelle guerre di logoramento nessuna singola battaglia è decisiva, ciò che conta è l’eliminazione di
qualcuno dei vantaggi del nomi e l’indebolimento della sua capacità di combattere. I bombardamenti aerei,
ad esempio, rappresentarono lo strumento più efficace per distruggere il nemico. L’unica difesa da questo
genere di attacco consisteva nel colpire prima e più duramente del proprio contendente, il che significava
semplicemente “che si doveva uccidere per primi più civili, più donne e bambini, se si vuole salvare i
propri dal nemico”. La forza aerea però non diede soddisfazioni ai suoi più accessi sostenitori a causa della
sua imprecisione: la bomba, infatti, poteva cadere da 8 a 120 km di distanza rispetto al proprio obiettivo.
Ciò nonostante, pur tenendo in considerazione il costo della guerra aerea e i suoi limiti strategici, non vi è
dubbio che essa apportò un contributo essenziale alla vittoria alleata sulla Germania e, in modo ancor più
deciso, sul Giappone.
- GUERRE PARALLELE: La vittoria militare, nel regime hitleriano, non avrebbe avuto senso se a essa
non si fosse riusciti ad affiancare una rivoluzione razziale. Così, fra il 1933 e il 1939 Hitler creò i
fondamenti ideologici di una campagna di dominazione razziale: i dettagli di simili progetti erano vaghi,
ma l’obiettivo era chiaro; sterminare i nemici razziali della Germania e conquistare le razze inferiori,
riducendole in schiavitù. Fra i primi obiettivi figurarono i tedeschi affetti da malattie incurabili e quelli
socialmente indesiderabili. Nell’ottobre del 1939, Hitler firmò un ordine che conferiva a certi medici il
diritto di garantire una “morte pietosa” a determinati pazienti e solo verso la fine del 1939 e l’inizio del
1940 si fece ricorso al gas. Il nucleo della guerra razziale tedesca restava la questione ebraica: gli ebrei non
potevano essere semplicemente sottomessi, in quanto si riteneva che fossero troppo pericolosi, e che il loro
potere fosse troppo forte. L’unico rimedio era sbarazzarsene (rimaneva solo decidere come). Inizialmente
furono estromessi dalla società e privati dei diritti civili ed economici, ma già dal 1938 il ritmo delle
persecuzioni si intensificò: gli squadristi nazisti dettero alle fiamme sinagoghe, uccisero alcuni uomini
ebrei, ne arrestarono molti e distrussero le vetrine dei negozi condotti da ebrei (notte dei cristalli).
- QUESTIONE EBRAICA: In una prima fase, i tedeschi strapparono dalle loro case, concentrarono e
segregarono gli ebrei che abitavano nei territori conquistati, rinchiudendoli nei ghetti o nei campi di
concentramento. Poi, nel 1941, Hitler e i suoi più stretti collaboratori elaborarono la "soluzione finale"
della questione ebraica, ossia l’uccisione di ogni ebreo sul quale potessero mettere le mani. La scena del
massacro si spostò nei campi di concentramento verso i quali vennero trasportati milioni di ebrei
provenienti da tutta Europa. Ma per riuscire nel loro intento, i tedeschi avevano bisogno di aiuto, e in
qualsiasi luogo giungessero trovavano persone disposte a collaborare. È possibile quindi affermare che lo
sterminio degli ebrei fu un fenomeno europeo, in cui francesi, ucraini, lettoni e fascisti italiani svolsero
ciascuno un proprio ruolo.
Nel 1945 non vi fu un momento preciso, paragonabile alle 11 dell’11 novembre 1918, in cui la guerra
potesse dirsi conclusa. I rappresentati tedeschi si arresero in tre momenti differenti: il 4 maggio ai
britannici, il 7 maggio agli americani e il 9 maggio ai russi. Solo alcune unità come le SS continuarono,
invano, a combattere per poi arrendersi alla fine di maggio. Quando gli eserciti tedeschi vennero sconfitti, i
regimi che avevano collaborato con essi furono spazzati via. Furono uccise molte persone che avevano
collaborato con il regime nazista. Molti collaborazionisti furono sottoposti a processo e condannati a pene
pesanti. Nel 1945 milioni di soldati tedeschi furono fatti prigionieri, cosi come diversi capi del regime
furono sottoposti a processo davanti al Tribunale internazionale di Norimberga. Forse l’aspetto più
sorprendete della fine del Terzo Reich fu il numero di persone che preferirono uccidersi, come Hitler,
Goebbels e Himmler, piuttosto che affrontare le conseguenze della sconfitta. Alcuni tedeschi, ad esempio,
si tolsero la vita per sottrarsi alla furia dell’esercito invasore sovietico. Dal momento in cui quest’ultimo
penetrò nel territorio straniero furono inflitte gravi sofferenze a milioni di civili attraverso stupri e omicidi.
Il paese che più profondamente e più a lungo venne segnato dalla guerra fu l’Unione Sovietica che subì
perdite umane e materiali indescrivibili e indecifrabili. Il regime, subito dopo la fine della guerra, iniziò a
colpire tutto quelli che considerava colpevoli di tradimento o di collaborazione con il nemico. Milioni di
civili tra cui prigionieri di guerra, uomini e donne costretti a lavorare per il nemico e persone fuggite a
ovest per evitare la tirannia staliniana, furono imprigionati o giustiziati. Quelli che furono abbastanza
furgonati riuscirono a ritornare alla vita civile dal 1995, quando un decreto del presidente della
Federazione russa restituì agli ex prigionieri di guerra il pieno godimento dei diritti civili. I sovietici
inflissero le punizioni più dure, ma celebrarono anche con maggior rilievo degli altri le eroiche gesta dei
propri cittadini costruendo monumenti.
La Gran Bretagna sentì l’urgendo di guardare avanti, come dimostrarono nell’estate del 1945, non
rieleggendo Churchill. Anche in Inghilterra si svolsero numerose parate e si eressero numero monumenti
celebrativi della vittoria, ma in misura minore rispetto a due che era avvenuto per la prima guerra
mondiale, ancora definita Grande Guerra.
I tedeschi, invece, si riferivano all’anno 1945 come “all’anno zero”, un tempo sospeso tra passato e
presente, nel quale la storia aveva raggiunto un punto terminale. Nella Germania post bellica non si
eressero memoriali dedicati all’eroe caduto, non vi furono omaggi e non si celebrarono cerimonie
commemorative o consolatorie.
Il secondo conflitto, ancor più del primo, si rivelò difficile da commemorare. Le dimensioni e la varietà
delle sofferenze che esso provocò sembravano non poter trovare adeguata espressione nei consueti
strumenti dei discorsi, dei monumenti o delle cerimonie pubbliche.
LE BASI DEL MONDO POSTBELLICO
Nell’estate del 1945, i capi dell’Alleanza si riunirono per l’ultima volta a Potsdam, un sobborgo di Berlino.
Alla riunione parteciparono il nuovo presidente degli Usa Truman, Churchill e successivamente Attlee
(vincitore delle elezioni britanniche) e Stalin. Emerse il peggioramento dei rapporti fra russi e americani. Il
conflitto tra Est e Ovest era ancora mascherato dai tentativi di cooperazione messi in atto da entrambe le
parti, ma la difficoltà di raggiungere un accordo su questioni specifiche fu inequivocabile. Il fatto che il
responso positivo del test di un ordigno nucleare effettuato nel Nuovo Messico giungesse il giorno prima
dell’inizio della conferenza (a Truman ala notizia venne data appena tornato da Berlino) lasciava presagire
quale sarebbe stata la posta in gioco nella futura Guerra Fredda. La Conferenza fu dominata da Truman e
Stalin: le basi dell’Europa e del dopoguerra sarebbero state gettate e difese dalle due superpotenze, la cui
rivalità avrebbe diviso il continente. Postdam, quindi, si colloca al termine di un lungo capitolo della storia
europea e all’inizio di un altro.
- USA: Gli Stati Uniti, essendo materialmente a distanza dal conflitto a causa dell’oceano, poterono
permettersi il lusso di scegliere quanti soldati addestrare e quante risorse dedicare alla guerra. Gli Stati
Uniti avrebbero comunque combattuto una guerra in cui il ruolo determinante sarebbe stato svolto dai
macchinari, il che avrebbe ridotto al minimo le perdite fra i loro soldati. Le capacità produttive americane,
inoltre, non furono mai pienamente mobilitate in funzione dello sforzo bellico. Il livello di vita medio dei
cittadini americani addirittura aumentò.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra i sovietici, che avevano alle spalle sei mesi di lotta contro i
nazisti, diventarono per gli americani un indispensabile alleato. Entrambe le parti misero da parte le
vecchie animosità. Nonostante ciò ambedue speravano in futuro differente: da un lato, Stalin, era
fermamente convinto di voler un’Europa comunista; dall’altro lato gli Stati Uniti perseguivano obiettivi
ben precisi quali un ordine internazionale stabile e pacifico basato su in sistema di mercato liberoscambista.
La divisione postbellica dell’Europa, però, emerse gradualmente da una complessa dinamica di conflitti e
di adattamenti con cui ogni parte, sempre più consapevole degli interessi contrapposti, accettava i limiti del
proprio potere.
Quando nel 1945 Roosevelt morì, il suo successore Truman continuò a tentare di cooperare con Stalin. La
situazione si modificò nel 1947, anno in cui iniziò apertamente la Guerra fredda con le seguenti parole di
Truman: "La politica degli Usa consiste nel sostenere i popoli liberi che stanno resistendo ai tentativi di
soggiogarli da parte di minoranze armate o di pressioni esterne". Era ovviamente un riferimento all’Unione
Sovietica che si impossessava delle zone limitrofe dell’Europa orientale.
Tre mesi dopo il segretario di Stato statunitense Marshall colse l’occasione ad Harvard per annunciare un
piano per la ripresa economica, il Piano Marshall. Questo rappresentava una potente espressione
dell’impegno americano nei confronti del continente europeo, basato sulla consapevolezza che l’instabilità
sociale e il bisogno di beni materiali avrebbero creato un terreno favorevole per i comunisti.
- RUSSIA: Anche Stalin definì la sua politica dell’Europa, basata al consolidamento del diretto controllo
sovietico sulla metà orientale del continente. Venne, infatti, annunciata la formazione di una nuova
versione dell’Internazionale comunista, che Stalin aveva sciolto durante la guerra, con la quale Mosca si
apprestava a imporre disciplina e uniformità a tutti i partiti comunisti. La fase critica del processo di
divisione dell’Europa si concluse nel 1948, quando i sovietici e i loro alleati locali instaurarono un
regime comunista in Cecoslovacchia, violando le istituzioni democratiche. Come era già successo
precedentemente, anche nel 1948 le potenze occidentali fecero ben poco per salvare la democrazia
cecoslovacca da Stalin, e il cosiddetto colpo di Praga ebbe l’effetto di cristallizzare le loro paure di
un’espansione sovietica nel resto d’Europa. A marzo dello stesso anno, Gran Bretagna, Francia, Belgio,
Paesi Bassi e Lussemburgo firmarono a Bruxelles un patto militare; l’estate seguente anche Canada e Usa
avviarono colloqui con i membri del Patto di Bruxelles, facendo nascere il Patto Atlantico (1948-49), in
cui si afferma che ogni attacco a una nazione membra sarà considerato come un attacco alla coalizione
stessa fra i paesi firmatari.
Dopo la seconda guerra mondiale, così come dopo la prima, l’elemento decisivo per la sicurezza europea
era rappresentato dalla Germania. Anche in questo caso le due superpotenze divergevano in quanto la
politica di Stalin aspirava, sul lungo periodo, al comunismo tedesco. La soluzione preliminare della
questione tedesca, che venne confermata a Postdam nell’estesa del 1945, era gradita a Stalin in quanto la
Germania, così anche Berlino, rimaneva un’entità che sarebbe stata governata da una Commissione di
controllo composta da quattro potenze con amministrazioni separate corrispondente a quattro zone di
occupazione, ognuna sotto il proprio comando militare. L’evoluzione del problema tedesco registrò
esattamente il progressivo allontanamento fra l’Est e l’Ovest. Nel 1946 i britannici e gli americani
unificarono le rispettive zone di occupazione e rifiutarono le concessioni di ulteriori riparazioni ai
sovietici. Alla fine del 1947, la divisione dei due territori era divenuta inevitabile. Nelle zone occidentali,
la divisone era strettamente connessa alla ripresa economica e all’autonomia politica e, per questo
motivo, introdussero una nuova moneta. I sovietici replicarono attraverso il “blocco di Berlino” che fu
raggirato organizzando un ponte aereo, con il quale gli aerei americani e britannici riuscirono a rifornire
la città. Nel 1949, nella parte occidentale, venne istituita la Repubblica federale di Germania, a cui ben
presto fece riscontro a Est la Repubblica democratica tedesca. Una volta formatisi i due Stati tedeschi, le
basi dell’ordine postbellico erano state gettate: le democrazie parlamentari a Ovest, le “democrazie
popolari” a Est; ognuna delle due parti era legata a una delle due superpotenze da una serie di accordi
politici, economici e questioni aperte.
Dalle catastrofi degli anni Trenta le potenze occidentali avevano imparato che la sicurezza internazionale
e la stabilità interna erano inseparabili, e che non era possibile realizzare e mantenere l’una senza l’altra.
- VERSO UN’EUROPA UNITA: In un discorso pronunciato il 9 maggio 1950, il ministro degli Esteri
francese Schuman offrì a tale proposito una soluzione che avrebbe avuto un’importanza duratura per il
futuro dell’Europa. L’ipotesi era che Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Italia
creassero un organismo congiunto per il controllo della produzione del carbone e dell’acciaio.
La creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) fu un evento rivoluzionario,
da cui poi sarebbe nata l’Unione Europea. Ma un’Europa unita doveva possedere un sistema di difesa, e
questo era impensabile senza il riarmo della Germania. Il sistema di difesa doveva essere pensato inoltre
con una certa fretta, poiché la Corea del Nord aveva appena minacciato l’esercito statunitense di
occupazione, Stalin aveva appena sperimentato la bomba atomica e in Cina le forze comuniste aveva
ottenuto la meglio. Se Stalin era disposto a incoraggiare lupo della forza per controllare l’intera penisola
coreana, non avrebbe potuto essere tentato da un obiettivo molto già ricco al centro dell’Europa?
Di conseguenza Washington promise, attraverso il comando della NATO, non solo di difendere l’Europa
da un attacco sovietico, ma anche di garantire che una Germania riarmata non sarebbe diventata una
minaccia per i suoi vicini. Essendo ormai il riarmo tedesco una certezza la Francia, per limitare il potere
militare tedesco, propose la creazione di una Comunità europea di difesa (CED) composta da divisioni
militari fornite da Francia, Italia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Queste unità nazionali
avrebbe costituito un esercito europeo, a sua volta facente parte della NATO. Il potere della CED era
però limitato in quando non poteva né dichiarare guerra per conto dei propri membri né determinare una
strategia da seguire. In questo modo si sarebbe limitato il diritto di uno Stato di difendersi da solo,
indebolendo le basi e lo strumento stesso della sovranità. Schuman aveva proclamato con fierezza che ci
sarebbero stati “soldati tedeschi, ma non un esercito tedesco”, ma la stessa cosa si sarebbe potuta dire
della Francia. Proprio per questo motivo nel 1954, con una netta maggioranza, l’Assemblea Nazionale
francese affossò il progetto.
Gli allegati accolsero la Germania all’interno della Nato in cambio di promesse riguardo la fabbricazione
di armi atomiche, biologiche o chimiche e che avrebbero posto le proprie forze armato sotto il comando
della NATO (“tenere i russi fuori, gli americani dentro e i tedeschi giù” - Ismay).
Come ricompensa per aver accettato in ruolo importante nella Comunità europea per la sicurezza, nel 1955
i tre alleati occidentali posero fine alla loro occupazione della Repubblica federale di Germania, e
conferirono al regime di Bonn il pieno potere di Stato sovrano sulla sua politica interna ed estera (pur con
delle restrizioni militari). Lo stesso anno i sei paesi membri della CECA si riunirono a Messina per dare
avvio alla formazione di una nuova organizzazione economica in quanto questa struttura istituzionale era
insufficiente a contenere il dinamismo economico degli ultimi anni.
Fu così che il 25 marzo del 1957 i sei paesi (Belgio, Francia, Italia, Paesi Bassi, Lussemburgo e Germania
Ovest) firmarono il Trattato di Roma, con il quale veniva istituita la Comunità Economica Europea, con
sede a Bruxelles.
- GUERRA ATOMICA: il pericolo della guerra nucleare era qualcosa di strettamente connesso alle basi
dell’ordine europeo post-bellico.
In un momento non meglio precisato, infatti, fra il 1952 e il 1956, i sovietici avrebbero disposto di un
numero di bombe sufficiente a produrre il crollo di mezza Europa. Ma la Russia anticipò la previsione e
nel 1949 fu in grado di sperimentare un ordigno nucleare. Nel 1957, quando l’Unione Sovietica riuscì a
mandare in orbita un satellite, era chiaro che disponeva di missili intercontinentali in grado di colpire
obiettivi situati negli Usa. Insomma, gli Stati Uniti non detenevano più il monopolio delle armi avanzate.
Quando il potenziale atomico sovietico si rafforzò, un certo numero di esperti cominciarono a mettere in
discussione la saggezza e la plausibilità di quella prospettiva che Dulles definiva “massiccia
rappresaglia”. Per riuscire a gestire una serie di reazioni sempre più intense, era necessario mantenere il
rigoroso monopolio americano nel campo delle forze nucleari, e ciò naturalmente accentuava negli
europei la sensazione di dipendere da altri. I tre più importanti alleati degli Stati Uniti reagirono alla sfida
della strategia nucleare con modalità che riflettevano le loro rispettive posizioni geopolitiche es
esperienze storiche: i britannici accettarono il ruolo di membro subalterno; la Francia, bisognosa di un a
propria forza nucleare, decise di uscire dalla NATO; la Germania, invece, vulnerabile rispetto all’attacco
sovietico, richiedeva la disponibilità di ordigni nucleari senza ottenere risultati positivi. Alla fine degli
anni Sessanta, l’Europa aveva acquisito una certa stabilità nel campo della sicurezza. Il cuore del
conflitto si era sposta nel Medio Oriente, dove la vittoria di Israele nella guerra dei sei giorni del 1967
generò una nuova serie di pericoli, e nel Sud-Est asiatico, dove gli USA erano impegnati in una lunga e
dispendiosa guerra.
Per alcuni anni, dunque, il rapporto tra Usa e Unione Sovietica rimase ostile e competitivo, ma ognuna
delle due parti si impegnò ad evitare uno scontro militare, che avrebbe avuto conseguenze catastrofiche.
La dimensione delle possibili distruzioni, rendeva l’uso degli armamenti atomici sempre più impensabile.
- LA FINE DEL COLONIALISMO: Il colonialismo finì perché si modificarono le valutazioni morali
degli europei e la loro percezione di ciò che veramente contava. Quando i popoli assoggettati
cominciarono con sempre maggiore insistenza a chiedere l’indipendenza, i colonizzatori si chiesero se il
mantenimento delle colonie valesse tutto quel sangue e quelle risorse che occorrevano a tale scopo.
L’imperialismo aveva di fatto smesso di apportare benefici apprezzabili ai paesi avanzati. Se il
colonialismo non apportava alcun vantaggio né alla madrepatria e né alle colonie, non vi era ragione per
mantenerlo. Una dimostrazione era stata data dalle lotte per l’indipendenza da parte dell’Algeria, da
sempre colonia francese e considerata parte interante del territorio: quest’ultima intendeva mantenere la
colonia con la forza, ma dopo tre anni di guerra decise di mollare e concedere l’indipendenza all’Algeria
(“l’Algeria ci costa più di quanto valga” dichiarò de Gaulle nel 1961).
L’ASCESA DELLO STATO CIVILE: Nell’autunno del 1937 Laswell pubblicò un saggio in cui
sosteneva che in ogni parte del mondo gli Stati civili, guidati da uomini d’affari e altri specialisti in
negoziati e compromessi, stavano aprendo la strada all’affermazione degli Stati di guarnigione, “nei quali
gli specialisti della violenza rappresentano il gruppo più potente della società”. In questi stati, ogni aspetto
della vita sociale, produzione, amministrazione e cultura, si indirizzava verso la guerra, e ogni
cambiamento sociale si traduceva in potenziale bellico.
George Orwell, giornalista e scrittore britannico, descrisse nel suo libro intitolato “1984”, pubblicato nel
1949) un’utopia negativa di come sarebbe stata l’Europa, dando all’idea di Laswell di uno Stato
organizzato in funziona esecutiva della guerra la sua espressione letteraria canonica. La Terra, nel
romanzo, è divisa in tre grandi potenze totalitarie perennemente in guerra tra
loro: Oceania, Eurasia ed Estasia che sfruttano la guerra perenne per mantenere il controllo totale sulla
società. Come abbiamo visto, però, il futuro dell’Europa non assomigliò né alle agonie totalitarie del libro
di Orwell e né al mondo militarizzato dello Stato guarnigione di Lasswell, politologo americano, in cui il
mondo è dominato dalla violenza. Anzi, fra le rovine lasciate dalla guerra, gli europei costruirono degli
Stati a forte connotazione civile, organizzati in funzione della pace e a vantaggio della produzione
economica (e non di quella bellica).
Sia dal punto di vista istituzionale che territoriale, i confini degli Stati europei diventarono più aperti e
permeabili di quanto non fossero mai stati prima. La crescita economica dopo la guerra consentì ad ogni
Stato dell’Europa occidentale di recuperare rapidamente dai disastri della guerra e di ricostruire le città
distrutte. Alla fine del 1950, stava cominciando a emergere un nuovo tipo di società. La prosperità di cui
gli europei godettero era data anche dai ricordi che le persone conservavano delle sofferenze sopportate
durante e subito dopo il conflitto. Ma gran parte di questo relativo benessere dipendeva in particolare dai
rapporti commerciali fra gli Stati europei: nel 1960 un terzo delle importazioni dei paesi della Comunità
Europea proveniva da atri paesi membri.
Oltre all’istruzione, ora i governi si assumevano la responsabilità dell’assistenza sanitaria, dei sussidi di
disoccupazione, delle pensioni di vecchiaia e di invalidità e della concessione di alloggi a basso prezzo.
Mentre la crescita economica metteva a disposizione degli Stati entrate sempre più consistenti, nessuno di
essi spese queste risorse addizionali nel settore militare, pur mantenendo o reintroducendo la leva.
- IL 1968: Nel 1968, la Central Intelligence Agency (CIA) informò il presidente americano Johnson che il
dissenso era diventato un fenomeno di dimensioni mondiali. I contestatori attingevano a tre comuni fonti di
malcontento:
1) La guerra del Vietnam: questa fece emergere atteggiamenti di antiamericanismo, antimilitarismo e
simpatia nei confronti dei popoli del Terzo Mondo.
2) Sentimenti di malcontento: questi univano chi rifiutava il materialismo del boom economico del
dopoguerra e chi credeva di non poter ricevere una giusta porzione dei benefici che esso apportava.
3) Una nuova società: la generazione del ’68 era la prima del dopoguerra che, non avendo una diretta
esperienza della depressione e della guerra, poteva concentrare la propria attenzione sulle manchevolezze
della società contemporanea piuttosto che sul suo progresso nel corso del tempo. Ovunque emersero leader
carismatici che formularono richieste politiche e infiammarono folle entusiaste, che spesso si scontravano
con le forze dell’ordine. Ma le proteste erano comunque di natura pacifica, e forse fu proprio questo
elemento a distinguerle da quelle passate.
- TERRORISMO IN POLITICA: Il terrorismo politico ebbe esiti particolarmente cruenti in Italia, in
parte per l’incompetenza e la corruzione governativa, in parte perché i gruppi terroristici emersero sia
all’estrema destra sia all’estrema sinistra, contribuendo a generare un senso di crisi politica. Dal 1969 al
1980 la violenza a sfondo politico provocò in Italia circa 400 morti e 1000 feriti. Nel 1978 il rapimento e
l’uccisione da parte delle Brigate Rosse dell’ex presidente del Consiglio Aldo Moro costrinse il governo ad
assumere l’iniziativa: in pochi anni i capi brigatisti vennero catturati, e la capacità offensiva della
formazione di estrema sinistra venne ridimensionata.
In Irlanda del Nord, invece, i terroristi furono capaci di conquistarsi una base sociale molto più ampia,
mobilitando antagonismi interni profondamente radicati. A partire dal 1967, la minoranza cattolica del
paese cominciò a far propaganda per rivendicare l’uguaglianza dei diritti e delle opportunità. L’Irish
Republican Army (IRA) ritornò in campo, determinato a cacciare i britannici dal paese una volta per tutte.
Nel 1969 le truppe britanniche inviate sull’isola per restaurare l’ordine vennero trascinate nel conflitto.
Negli anni Settanta i più significativi mutamenti politica avvenuti in Europa non furono prodotti della
violenza pseudo-rivoluzionaria ma dai processi di natura pacifica cube trasformarono regimi autoritari di
Grecia, Spagna e Portogallo in stabili democrazie liberarli.
Nel 1949 la Grecia emerse dalla sua aspra guerra civile economicamente debole, politicamente divisa e
spiritualmente esausta. Solo dopo circa 25 anni di colpi di Stato e governi squallidi e impopolari, un
gruppo di ufficiali moderati guidarti da Eanes prese il potere e indisse nuove elezioni.
Nell’accidentato Portogallo, invece, in soli due anni i riformatori riuscirono a porre fine a un regime
autoritario che era rimasto al potere per più di 50 anni, a liquidare una serie di sanguinose guerre coloniali
e a sopravvivere ad un tentativo di colpo di stato da parte dei difensori di destra del vecchio ordine. Allo
stesso tempo, inseriranno un governo eletto dal popolo e mantennero i legami con i paesi della NATO,
sviluppando un solido e sempre più vantaggioso sviluppo con la Comunità Europea.
La Spagna era invece un esempio di transizione pacifica alla democrazia. Il dittatore Francisco Franco
stava ormai vivendo i suoi ultimi anni al potere. Ne approfittarono i separatisti Baschi: con l’acronimo di
ETA, un’organizzazione terroristica, il loro scopo era la separazione del popolo Basco dalla Spagna e la
propria indipendenza. I riformatori però ebbero la fortuna di poter contare sul sostegno del successore di
Franco, re Juan Carlos, il quale si rese conto che una Spagna pacifica avrebbe dovuto basarsi su salde
istituzioni democratiche. Quando Franco morì nel 1975, la sua dittatura fu trasformata in una democrazia
parlamentare.
- EUROPA ORIENTALE: L’Europa orientale non sembra far parte della stessa storia pacifica che
abbiamo appena visto. Nei regimi comunisti il conflitto armato rimaneva sempre vicino alla superficie
della vita pubblica. Inoltre, i regimi dell’Europa orientale non intrapresero un processo di
demilitarizzazione come quello dei paesi occidentali, ma continuarono a tenere in piedi vasti eserciti. Ci fu
comunque uno sviluppo, seppur lento e irregolare, dei valori e delle consuetudini civili, che contribuì a
gettare le basi delle grandi rivoluzioni pacifiche del 1989.
- UNIONE SOVIETICA: All’improvvisa morte di Stalin per un attacco cardiaco, nel 1953 il sistema
sovietico subì un deciso cambiamento, e salì al potere Nikita Chruščëv. Il terrore si attenuò ed ebbe effetti
meno letali, in quanto il regime adottò una politica di “repressione senza annientamento”. Vennero
rilasciati moltissimi prigionieri politici. Berija, che aveva guidato l’apparato del terrore staliniano, fu
arrestato e giustiziato. Rimaneva comunque una società soggetta a limitazioni: i campi di lavoro forzato, ad
esempio, rimasero in attività, il dissenso veniva punito, e la società doveva obbedire. Sotto Chruščëv,
l’economia sovietica crebbe a un ritmo intenso, aumentando la disponibilità di beni di consumo. I cittadini
sovietici cominciarono ad acquistare televisori e frigoriferi, prospettando anche un miglioramento del
livello di vita.
Le pretese di superiorità da parte dei russi si fecero ancora più convinte quando, nell’ottobre del 1957, essi
lanciarono il primo satellite orbitante intorno alla Terra. Chruščëv ambiva ad annientare i suoi avversari
capitalisti non con la guerra, ma con una cara economica nella quale un tempo l’occidente era apparso
imbattibile. Ma nonostante ciò, il sistema sovietico non superò l’Occidente. Anzi, la crescita economica
rallentò e il divario fra i livelli di vita tra Est e Ovest divenne più ampio.
Prevalse Gorbacev, che non era stato coinvolto attivamente nella seconda guerra mondiale. Egli, date le
circostanze e il periodo di stagnamento dell’economia, sapeva che era inevitabile introdurre riforme
sostanziali. Formulò proposte di disarmo innovative, cominciò a cessare la guerra che le forze sovietiche
stavano combattendo a sostegno del regime comunista in Afghanistan, e ipotizzò che l’Unione Sovietica
potesse smettere di imporre ai suoi alleati dell’Europa dell’Est la conformità alla propria politica. In
Unione sovietica, la dissoluzione dell’impero era parte di una crisi terminale, che si concluse con il
collasso totale del sistema. Le forze della democrazia e dell’autodeterminazione a cui Gorbacev aveva dato
spazio in Europa orientale filtrarono anche all’interno delle frontiere sovietiche. Intorno al 1990 quattordici
repubbliche sovietiche dichiararono la propria indipendenza e si costituirono come Stati sovrani separati. Il
25 dicembre del 1991 l’Unione Sovietica si dissolse pacificamente.
PERCHE’ L’EUROPA NON DIVENTERA’ UNA SUPERPOTENZA:
All’inizio del 1990 la Repubblica socialista federale di Iugoslavia stava per sfasciarsi. In Serbia e Croazia
le recenti elezioni avevano confermato al potere Milosevic e Tudman, i quali puntavano a distruggere la
struttura federale creata da Tito dopo la seconda guerra mondiale. Le guerre degli anni 90 nei Balcani
ebbero terribili conseguenze per gli abitanti della regione. Inoltre, gli europei intervenivano raramente e
senza efficacia per riportare la pace fra i popoli che vivevano lungo le frontiere sud-orientali. Nel 1990 la
frontiera fra le due Germanie, che aveva rappresentato per 40 anni una delle cause delle ostilità fra Est e
Ovest, scomparve dalla carta politica: la nuova Germania, legata all’Occidente, era adesso libera da limiti
esterni alla propria sovranità.
Il rapporto dell’Europa con gli Stati Uniti rimaneva sempre ineguale e controverso. Fin dalla sua
formazione (1949), l’Alleanza atlantica aveva fronteggiato una crisi dopo l’altra. Europa e Usa si erano
trovati in disaccordo ad esempio sul riarmo tedesco, sull’invasione di Suez, sulla guerra del Vietnam, sulla
crisi dei missili ecc. Ma anche se qualcuno avesse desiderato dire addio all’alleato americano, finché la
minaccia sovietica permaneva, pochi disponevano di una vera alternativa.
Nel 1986 i paesi membri della Comunità Economica Europea firmarono l’Atto unico europeo, il cui
obiettivo era la realizzazione di un’economia europea senza barriere, nella quale beni, capitali e lavoro
circolassero senza limiti. Pochi anni dopo, nel 1991, con il Trattato di Maastricht si diede vita all’Unione
Europea. Il trattato affermava la volontà di attuare una politica estera e di sicurezza comune, imponendosi
sulla scena internazionale. Insomma, vi era una volontà comune a molti di voler creare un sistema di difesa
europeo più autonomo e indipendente dalla NATO: gli americani però facevano sapere che si sarebbero
opposti a qualsiasi organismo di difesa indipendente che potesse competere con la NATO.
SADDAM HUSSEIN: Una prima crisi internazionale fu innescata dall’invasione del Kuwait da parte
dell’Iraq nel 1990. Il capo del regime repressivo iracheno, Saddam Hussein, sperava di impossessarsi delle
risorse necessarie (il Kuwait è ricco di petrolio) per riprendersi dalla costosa guerra che aveva combattuto
contro l’Iran negli anni 80. In questo modo, Saddam poteva controllare il 20% delle riserve petrolifere
mondiali e minacciarne un altro 30% nella vicina Arabia Saudita. L’Europa si fece da parte e lasciò
l’iniziativa agli Usa, i quali misero in piedi una vasta coalizione internazionale per sostenere l’azione
militare contro l’Iraq. Né la NATO e né le istituzioni dell’Unione Europea vennero coinvolte. La rapida e
decisiva vittoria della coalizione nel 1991 mise in rilievo la forza americana e la dipendenza dell’Europa.
IUGOSLAVIA: Non appena gli Stati Uniti affermarono che la Iugoslavia era un loro problema, gli
europei accettarono la sfida. In realtà, gli interventi nei Balcani furono molto incerti e frammentati.
L’azione più decisiva, intrapresa su insistenza della Germania, consisté nel riconoscimento della secessione
della Slovenia e della Croazia dalla Iugoslavia (1991). Ma ciò intensificò la guerra combattuta dai serbi e
dai croati contro la Bosnia. All’Unione europea mancava la volontà e l’immaginazione per tentare di
ripristinare un’eventuale pace nei Balcani.
Nel 1994, dopo anni di massacri, gli Usa cominciarono a dedicare attenzione alla disperata situazione dei
musulmani di Bosnia. Le forze della NATO minacciarono i serbi di bombardare le loro posizioni se non
avessero interrotto l’attacco a Sarajevo. La svolta si ebbe nel 1995, quando la città bosniaca di Srebrenica,
indicata dalle Nazioni Unite come rifugio sicuro, venne conquistata dai soldati serbi, che cacciarono le
truppe olandesi inviate sul posto per mantenere la pace, e poi massacrarono migliaia musulmani indifesi.
Questi fatti convinsero gli americani che se non fossero intervenuti sarebbe accaduto lo sfacelo. Le forze
Serbo-bosniache ignorarono le richieste di cessate il fuoco, e dunque la NATO procedette a incursioni
aeree; solo così accettarono di interrompere le ostilità. Le forze in conflitto firmarono un trattato con cui si
stabiliva l’indipendenza della Bosnia, secondo una divisione territoriale su base etnica. Il rispetto della
pace fu garantita dalla NATO che inviò 60.000 soldati sul posto.
Ma negli anni 90 c’era una nuova crisi dei Balcani, stavolta riguardante il Kosovo, provincia della
Federazione iugoslava dominata dai serbi. Durante le guerre di secessione iugoslave, i rapporti tra la
minoranza serba e la maggioranza albanese del Kosovo si deteriorarono. Dopo il 1995 si innescò una
spirale di proteste violente e repressioni. In Europa e negli Usa aumentò la pressione dell’opinione
pubblica per un intervento. La Nato cominciò a bombardare obiettivi situati in Serbia: cominciò una guerra
aerea durata 78 giorni, alla fine della quale Milosevic accettò di ritirare le forze serbe dal Kosovo. Le forze
della NATO non subirono nemmeno una perdita in combattimento. La guerra del Kosovo dimostrò
nuovamente l’incapacità degli europei di agire da soli, e consolidò la loro convinzione dell’esigenza di
dotarsi di un autonomo sistema di sicurezza.
11 SETTEMBRE 2001: L’11 settembre del 2001 è una data che tutti ricordano principalmente per gli
attacchi terroristici al World Trade Center a New York e al Pentagono a Washington. L’Europa espresse
immediatamente solidarietà. In due riunioni, i rappresentanti della NATO si trovarono d’accordo, per la
prima volta nella storia dell’alleanza, nel fare appello alla clausola di difesa reciproca contenuta nel
trattato: così, gli aerei della NATO vennero inviati a pattugliare lo spazio aereo statunitense. Gli americani
tendevano a ritenere il terrorismo un movimento di portata globale che minacciava direttamente la loro
sicurezza nazionale. Gli europei, invece, abituati a combattere le loro forme locali di terrorismo per vari
decenni, lo consideravano una costante sfida al loro ordine interno.
Per difendersi, il rimedio consisteva in politiche di sicurezza più efficaci, in leggi più restrittive e in
un’intensificazione della sorveglianza. L’obiettivo era estradare i terroristi e processarli come criminali,
non scatenare una guerra contro gli Stati sospetti. Inizialmente solo gli inglesi svolsero un ruolo rilevante
nella prima operazione militare contro il terrorismo globale: va ricordata ad esempio la campagna per
rovesciare il regime islamico dei talebani in Afghanistan, paese in cui si rifugiava Osama bin Laden,
l’ideatore degli attentati dell’11 settembre. Ma gli americani non avevano bisogno dell’aiuto degli alleati in
Afghanistan.
All’Europa parvero eccessivi i ricorsi da parte degli Usa a soluzioni militari, le minacce di interventi
preventivi e l’evidente disinteresse per una linea di consultazione e di cooperazione. A ciò si aggiungevano
il ricorso alla pena di morte, l’assenza di controlli sulle armi, e il disinteresse per l’inquinamento globale.
Solo la Gran Bretagna sembrava sostenere attivamente la politica militare americana, che di fatto vedeva
nella guerra l’unica risoluzione per la questione irachena. Chirac e Schroder, rispettivamente presidente
della repubblica francese e cancelliere tedesco, denunciarono la politica americana e si opposero alla
guerra. Tutti gli altri stati risposero con un sostegno più o meno credibile.
GUERRA D’IRAQ: All’inizio sembrò che la guerra irachena, iniziata nel 2003 per catturare Saddam
Hussein, si sarebbe conclusa con un’altra rapida e poco costosa vittoria della tecnologia militare
americana. L’Iraq sprofondò in una situazione insurrezionale, nella quale i difensori del regime di Saddam
combatterono contro le forze di occupazione. La maggior parte delle azioni militari venne condotta dai
soldati americani, e in grado minore da quelli britannici; gli altri membri della coalizione decisero di
ridurre o ritirare i propri modesti contingenti.
Ma il conflitto si prolungò più di quanto si pensasse, e ciò accentuò in Europa e altrove l’ostilità nei
confronti degli Stati Uniti. La guerra d’Iraq termina il 15 dicembre 2011 col passaggio definitivo di tutti i
poteri alle autorità irachene da parte dell'esercito americano. A fine marzo 2008 il costo complessivo dei 5
anni di guerra in Iraq, per il contribuente statunitense, supera i 500 miliardi dollari, con un incremento
mensile di oltre 340 milioni di dollari.
CAUSE:
1) La probabile ricostituzione dell'arsenale iracheno di armi di distruzione di massa; Baghdad possiede
armi chimiche e biologiche ed anche missili di gittata superiore a quella permessa dalle restrizioni imposte
dall'ONU;
2) I contatti fra l'Iraq e vari gruppi terroristici, indice di una possibile collaborazione (l'Iraq avrebbe potuto
fornire armi atomiche da impiegare in un attentato). Possibili legami tra l’Iraq e Al-Qaeda;
3) Il prestigio internazionale degli Stati Uniti sarebbe uscito rafforzato, spingendo molti paesi ad allinearsi
con Washington e migliorando la situazione politica internazionale;
4) L'abbattimento e la sostituzione del regime iracheno con un governo democratico avrebbe migliorato
l'immagine degli USA in Vicino Oriente, fornendo un esempio da imitare alle popolazioni della regione;
5) Una volta conquistato, si sarebbe potuto usare l'Iraq come base per attaccare e rovesciare i regimi
di Siria e Iran.
6) Israele (stretto alleato degli USA con cui l'Iraq era formalmente in guerra da decenni) avrebbe
beneficiato dell'eliminazione di uno dei suoi più acerrimi avversari.
NUOVA EUROPA: La cittadinanza europea è una questione di diritti e privilegi, non di obblighi e di
impegni. All’inizio del ventesimo secolo, l’identità politica delle persone era determinata da consuetudini,
rituali e istituzioni concepiti per rafforzare la fedeltà e l’impegno nei confronti di un particolare Stato. Dal
1945, in ogni Stato europeo, quelle istituzioni e quei simboli sono diventati progressivamente più deboli;
nella stessa Unione Europea non sono mai esistiti. L’unione non fa alcuno sforzo per plasmare un’identità
per i propri cittadini. Non richiede che essi siano europei e non qualcosa d’altro. Piuttosto, l’identità
europea è un diffuso crogiolo di appartenenze nazionali, locali e culturali, nel quale nessun elemento è
preponderante. L’idea di Europa non suscitava un’adesione emotiva, non ispirava i cuori come avevano
fatto le nazioni, non rappresentava qualcosa per cui molti sarebbero stati disposti a dare la vita.
Tuttavia, l’Europa era piena di un diffuso impegno a sottrarsi ai distruttivi antagonismi del passato. Come
abbiamo visto, nella prima metà del secolo gli Stati europei venivano fatti dalla guerra e in funzione della
guerra; nella seconda metà, gli Stati europei furono fatti dalla pace e in funzione di essa. L’Unione Europea
potrà diventare un superstato civile, non una superpotenza.
IL FUTURO DELLO STATO CIVILE: Sappiamo che esiste un’incongruenza tra la forza economica
dell’Europa e la sua debolezza militare. Ciò, secondo il pensiero di Boniface (esperto di questioni
strategiche) rende l’Unione in qualche modo incompleta. In realtà, non vi è niente di illogico e di
incongruo nel fatto che nell’Europa contemporanea la forza economica e la debolezza militare coesistano.
Quell’intreccio di dedizione e coercizione che una volta motivava le persone a combattere e a morire per la
propria nazione è scomparso per sempre.
Al momento sembra difficile immaginare che i paesi dell’Unione Europea possano combattersi l’un l’altro.
Se la violenza incomberà nuovamente in Europa, non proverrà dal suo interno, ma da fuori, dall’instabile e
pericoloso mondo in cui gli europei si trovano a condurre le loro vite civili. Bisogna ricordare inoltre che
l’allargamento dell’Unione Europea, che è giunta a includere la maggior parte degli Stati ex comunisti
dell’Europa orientale, ha avuto l’effetto di consolidare sia le istituzioni democratiche e sia i valori civili.
Forse la questione di confine più urgente e complessa che l’Europa odierna si trova a dover affrontare è
rappresentata dalla Turchia, che aspira fortemente a entrare nell’Ue. La Turchia è un caso difficile non
perché è uno stato musulmano, ma perché non è evidentemente uno Stato civile. La Turchia moderna,
infatti, è stata creata dagli eserciti. Diversamente dai paesi membri dell’Unione (con eccezione della
Grecia), la Turchia ha mantenuto l’obbligo quasi universale del servizio militare e dispone di un esercito di
leva di massa. Al momento non esistono minacce militari dirette all’Europa che provengano dalle sue
periferie. Ma gli europei sono vulnerabili rispetto ad altri tipi di attacchi: inquinamento, malattie e
criminalità possono penetrare facilmente attraverso i fragili confini dell’Unione.
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