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euronomade.info-Operai e capitale 50 anni

Operai e capitale: 50 anni
euronomade.info/
By Redazione
June 15,
2016
di TONI NEGRI e MARIO TRONTI.
Pubblichiamo qui due contributi ad una giornata di studio
su Operai e capitale nel cinquantenario della sua
pubblicazione. Il seminario si è tenuto all’Università Paris X
Nanterre l’11 giugno 2016. Nella discussione, oltre ad
Andrea Cavazzini, Fabrizio Carlino, Yaan Moulier Boutang,
Etienne Balibar, Morgane Mertueil, sono intervenuti Toni
Negri e con una lettera Mario Tronti. Qui pubblichiamo il
testo di Toni Negri e la lettera di Mario Tronti. Indicano due
vie di lettura nel corso di un cinquantennio – due vie per
interpretare il presente (EN).
Che cosa è successo dentro la classe operaia dopo
Marx
di Toni Negri.
Nel 1966, nella sua prima edizione, Operai e capitale termina con l’impegno a studiare “che
cosa è successo dentro la classe operaia dopo Marx” (Operai e capitale, Einaudi, Torino; 1966,
p.263). Il postscriptum del 1970 alla seconda edizione di Operai e capitale, analizza la classe
operaia nel New Deal e ne descrive le trasformazioni della composizione tecnica (fordismo) e
della composizione politica (il sindacalismo ed il riformismo dal New Deal allo Stato del
welfare, appunto). Tronti non riconosce tuttavia, per la classe operaia, una differenza
strutturale di composizione tecnica e politica fra fordismo e anni ‘70. Non vi è modificazione
dei processi lavorativi, taylorismo e keynesismo restano egemoni ed i rapporti politici di
classe tuttora dominati dallo Stato-piano. Tra la prima edizione e la seconda di Operai e
capitale c’è stato tuttavia il ‘68: a Tronti non sembrava però che fosse avvenuta gran cosa. La
classe operaia nel ‘68 e seguenti (in particolare “l’autunno caldo” italiano) è ancora tutta
dentro fordismo e New Deal. Affermandolo, Tronti aveva, a mio parere, insieme ragione e
torto.
In superficie la situazione sembrava eguale, il “processo lavorativo” non era mutato. Ma,
guardando più a fondo, c’era una cosa che invece stava mutando e della quale anche il ‘68
era un “sintomo”. Mutava il “rapporto di capitale”, la forma dei processi produttivi, il “modo
di produzione”. Il ‘68 aveva dato inizio a questa trasformazione. Ed aveva ancora ragione
Tronti quando, con molta circospezione, sospettava, nel postscriptum del 1970 che qui
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stesse comunque rivelandosi una nuova fase, al termine della lunga epoca del fordismo.
Mentre in quella fordista, operai e capitale si erano scontrati dentro il capitale, ora invece si
dava una nuova condizione: classe operaia e capitale si scontravano dentro la classe operaia.
Tronti proponeva di studiare questo passaggio. Era una corretta intuizione. Se si metteva da
parte l’illusione, da taluni coltivata, che quel “dentro la classe operaia” significasse “dentro il
Partito”, bisognava riconoscere che, nel nuovo rapporto antagonista seguito al ‘68, il capitale
pagava il superamento del fordismo e la difficile vittoria riportata sulla classe operaia
fordista, con l’obbligo a stabilire l’asse del suo comando “dentro la classe operaia” e a
ristrutturare il proprio progetto di accumulazione proprio lì dentro – subendo con ciò un
radicale mutamento di struttura. “Dentro la classe operaia”, e cioè riconoscendo – il capitale
stesso – che “il principio è la lotta di classe operaia” e che “a livello di capitale socialmente
sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad
esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione” (Operai e
capitale, op.cit., p. 89) – e cioè, infine, il capitale doveva comprendere che la sua stessa
composizione tecnica (il concetto è quello marxiano di “composizione organica” del capitale)
andava modificata per poter funzionare (id est, produrre e comandare) su una nuova
composizione politica della classe operaia. C’era stato di mezzo un bel trambusto: la
Trilaterale, per esempio, lo chiamava ’68, altri non lo chiamavano così. Di fatto una
mutazione radicale era imposta al capitale. Essa riguardava lo spazio produttivo (cambiava il
luogo della produzione) e la dimensione della temporalità (si trasformava radicalmente la
“giornata lavorativa”).
Si trattava davvero di un “mutamento di paradigma” del modello di sfruttamento: esso era
stato prodotto dalla vittoria operaia dentro/contro il fordismo. Che il paradigma cui quella
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vittoria aveva introdotto, fosse nuovo, lo mostrava il fatto che l’antagonismo nel “rapporto
di capitale” si presentava – meglio, si riapriva – in forme nuove, da sperimentare e dentro
una nuova prospettiva di lotta per l’organizzazione, sia da parte capitalista sia da parte
operaia.
Ci chiediamo ora se Operai e capitale offrisse strumenti per descrivere questo nuovo
paradigma strutturale. A noi sembra di sì, a noi sembra che il saggio “Marx – forza lavoro –
classe operaia” sia, da questo punto di vista, fondatore. A partire di lì, ci è stato permesso di
sviluppare un’analisi dello sviluppo capitalistico dopo il ‘68, fortemente dinamica perché
insistente sui processi di soggettivazione della classe lavoratrice.
Si sa che il capitale è una relazione, un rapporto, un antagonismo di forze. Tronti ha insistito
con grande forza sulla distinzione fra lavoro e forza lavoro. “Nel concetto di forza lavoro c’è la
figura dell’operaio, in quello di lavoro, no.” (p. 129) E questo concetto politico della forza
lavoro come non-capitale, egli lo trova in germe e in sviluppo in tutto il pensiero giovanile di
Marx, che già nei Manoscritti del ‘44 conclude questo approccio, proponendo soluzioni
immediatamente sovversive. In un periodo – gli anni ‘60 – nel quale era di moda, da destra e
da sinistra, sganciare l’utopismo giovanile marxiano dal pensiero de Il Capitale, Tronti spinge
al contrario per un’unificazione stretta. C’è qui, in questa continuità del pensiero marxiano
tra giovinezza e maturità, nell’intreccio fra gli scritti filosofici e quelli storici, e fra tutti questi
e Il Capitale, un concetto politico di forza lavoro che funziona come grimaldello per ogni
soluzione teorica.
In secondo luogo, quest’andamento della ricerca diventa ancor più chiaro nell’analisi dei
Grundrisse, assunti come testo genetico de Il Capitale. Qui il “doppio carattere” della forza
lavoro, quello di essere ad un tempo merce e soggetto, risulta con estrema forza. “L’unica
antitesi al lavoro oggettivato è il lavoro non oggettivo, cioè l’unica antitesi al lavoro oggettivato
è il lavoro soggettivo” – cita Tronti dai Grundrisse (p. 166): e questa soggettivazione si
rappresenta come la condizione stessa dell’esistenza del capitale. Nei Grundrisse (“monologo
interiore che Marx istituisce con il proprio tempo e con sé stesso”) (p. 210) il lavoro come
soggettività diviene centrale: “nella misura in cui deve esistere temporalmente, come lavoro
vivo, la forza lavoro può esistere soltanto come soggetto vivo, come capacità, come
possibilità: perciò come operaio” (p. 211). Il doppio carattere della merce lavoro si
soggettivizza divenendo da un lato “miseria assoluta”, e cioè mercificazione totale della
potenza produttiva, e dall’altro “soggettività”, soggettivazione continua, possibilità generale
della ricchezza come soggetto. Il doppio carattere della merce forza lavoro è spinto ad
interiorizzarsi al massimo nel capitale. Tronti: “questo è il cammino nuovo che Marx stesso
propone. Punto di partenza: il lavoro come non-capitale, e cioè il lavoro come soggetto vivo
dell’operaio di contro alla morta oggettività di tutte le altre condizioni di produzione; il
lavoro come fermento vitale del capitale – un’altra determinazione attiva che si aggiunge
all’attività del lavoro produttivo. Punto d’arrivo: il capitale che diventa esso stesso
produttivo, rapporto essenziale allo sviluppo del lavoro come forza produttiva sociale, e
dunque rapporto essenziale allo sviluppo della classe operaia… In mezzo a questo cammino,
tra l’uno e l’altro di questi due punti: il lavoro come non-valore e, proprio per questo,
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sorgente viva del valore; miseria assoluta e, proprio per questo, possibilità generale della
ricchezza; di nuovo pluslavoro e, proprio per questo, plusvalore – la figura moderna
dell’operaio collettivo che arriva ormai a produrre capitale proprio in quanto classe
antagonista che lo combatte” (p. 215). “Si tratta, su questa base, di partire alla scoperta delle
leggi politiche di movimento della classe operaia, che subordinano materialmente a sé lo
sviluppo del capitale: si ritroverà così il compito teorico definitivo dal punto di vista operaio”
(p. 219).
In terzo luogo si dà qui, secondo Tronti, il superamento marxiano della legge del valore. O
meglio una sua ridefinizione: “Marx rifiuta l’idea del lavoro come fonte della ricchezza ed
assume il concetto di lavoro come misura del valore”. “Valore-lavoro vuol dire allora prima la
forza-lavoro, poi il capitale; vuol dire il capitale condizionato dalla forza-lavoro, mosso dalla
forza-lavoro, in questo senso valore misurato dal lavoro. Il lavoro è misura del valore perché
la classe operaia è condizione del capitale” (pp. 224-225). Inutile aggiungere che con ciò la
legge del valore viene riconosciuta per quello che essa è: “essa non può essere estrapolata
dal rapporto capitalistico di produzione e dal rapporto di classe che lo fonda” (p. 225). Il
valore, come pura misura del valore, volendo diventare legge, trasforma la sua azione in
mistificazione: la legge del valore, assolutizzandosi, chiude la Trennung fra classe e capitale,
conduce perversamente il rapporto di capitale ad identità. Qui – non è una subordinata
trascurabile – l’ideologia socialista (non solo quella staliniana) è definitivamente
smascherata. E di essa, “del funzionamento economico oggettivo della legge del valore-lavoro,
se ne può (paradossalmente o scandalosamente – questa è una mia aggiunta) parlare
proprio soltanto nella società che dice appunto di avere realizzato il socialismo” …
“dobbiamo trovare il coraggio di convincerci che questa assurdità è un fatto storico reale: il
potere politico del capitale può assumere la forma di Stato operaio” (p. 226).
Fin qui abbiamo visto in che misura e con che profondità la forza lavoro sia stata
interiorizzata nel capitale. Ma se il concetto di capitale è un rapporto di forza fra lavoro
morto, accumulato in capitale, e lavoro vivo, forza lavoro, soggettivazione di questa – tale
rapporto è un campo aperto. Il doppio carattere della forza lavoro, che abbiamo visto agire
nella sottomissione al capitale, può riemergere contro la subordinazione al capitale. È di qui
che comincia una sorta di “via in su”, ricostruttiva, sorretta dall’istanza comunista della lotta
di classe.
Come può accadere questa riapertura rivoluzionaria del rapporto di capitale? La prima
condizione consiste nella socializzazione della forza produttiva e questo passaggio di
socializzazione della forza lavoro avviene completamente all’interno del capitale: dunque, “la
forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale”
(p. 147). Quando “un numero considerevole di operai, cioè l’operaio socialmente combinato,
entro un medesimo processo di produzione, sotto il comando dello stesso capitalista,
diventa forza produttiva del capitale”, allora diviene possibile la rottura. Ma solo possibile.
Occorre qui inseguire “il passaggio storico che vede, da parte operaia, prima il venditore
della forza lavoro, poi la forza lavoro produttiva singola, poi la forza produttiva sociale” (p.
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150). Ma che cos’è la forza lavoro costituita dentro il capitale? Che cosa significa stabilire la
sua possibilità di essere contro il capitale? Significa riqualificare senza interruzione la
specifica dinamica antagonista nel “rapporto” di capitale, i suoi diversi equilibri – se volete
dirlo nei termini di un altro autore a me caro, la “guerra civile” che percorre il rapporto di
potere. Questa possibilità si dà ovviamente alla condizione di non “fissare il concetto di
classe operaia in una forma unica e definitiva, senza sviluppo, senza storia” (p. 149).
All’interno del movimento marxista sta nascendo con molte difficoltà una storia interna del
capitale, aggiunge Tronti: “ma è ancora lontana dall’essere assunta come programma di
lavoro, oltre che come principio di metodo nella ricerca, l’idea di una storia interna della
classe operaia, che ricostruisca i momenti della sua formazione, i cambiamenti della sua
composizione, la crescita della sua organizzazione, secondo le varie successive
determinazioni che la forza lavoro assume in quanto forza produttiva del capitale, secondo
le diverse, ricorrenti e sempre nuove esperienze di lotta che la massa operaia sceglie in
quanto unica antagonista della società capitalista” (p. 149).
È dunque dentro la storia interna della classe operaia che il dentro/contro trontiano va
analizzato (pp.150, 153). Vi è qui un momento fondatore dell’operaismo. Per esso, tre
condizioni vengono stabilite alla base di ogni possibilità di rovesciamento strategico del
rapporto produttivo. Le prime due condizioni sono quelle sulle quali ci siamo fin qui
ampiamente soffermati: la soggettivazione della forza lavoro quand’essa è maturata al
punto da poter “contare veramente due volte dentro al sistema del capitale: una volta come
forza che produce capitale, un’altra volta come forza che si rifiuta di produrlo; una volta
dentro il capitale, un’altra volta contro il capitale”. Quando le due volte vengono
soggettivamente unificate da parte operaia, si apre la via alla dissoluzione del sistema
capitalistico, comincia il processo pratico della rivoluzione” (p. 180): ecco la terza condizione.
È questo il punto cruciale del metodo operaista – laddove esso diventa una genealogia
oppositiva nella storia interna sia della classe che del capitale. L’esempio marxiano della lotta
per la riduzione della giornata lavorativa da parte degli operai inglesi, lotta vittoriosa e che
introduce ad una nuova forma di valorizzazione (dal plus valore assoluto a quello relativo, è
qui centrale. La trasformazione del capitale è imposta nel momento stesso nel quale la
composizione della classe operaia in lotta si modifica. Analizzando questo periodo di lotte
Tronti sottolinea che qui si è realizzato “un vero e proprio salto politico”. E di “causa” o
“effetto” politici si può parlare anche quando non esiste movimento organizzato ma solo
resistenza, quando si diano elementi destituenti e non ancora espressamente politici e
costituenti. Infatti il rapporto fra forza lavoro e capitale non si presenta più semplicemente –
come alle origini del capitalismo – allo scambio sul mercato del lavoro, si presenta dentro la
produzione di capitale, espone con grande potenza come dal rapporto di classe sia
determinata la figura del capitale. Ed è attraverso questo riconoscimento che l’iniziativa
operaia diviene politica. L’esempio trontiano è ancora quello antico dell’insurrezione operaia
nel ‘48 francese e ripete la narrazione marxiana insistendo sul fatto che il passaggio
dall’azione per il rovesciamento della società borghese diviene lotta per il rovesciamento
della forma dello Stato. È dentro queste lotte che la trasformazione del “proletario” in
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“operaio”, del venditore della forza lavoro in produttore di plusvalore si organizza ed è qui
che una classe in armi contro l’intera società trasforma il rapporto produttivo in resistenza,
lotta e insurrezione contro di esso.
Osserva Tronti: “non è solo ne Il Capitale di Marx ma nella storia stessa dello sviluppo
capitalistico che la lotta per la “giornata lavorativa” normale precede, impone, provoca un
mutamento nella forma del plusvalore, una rivoluzione nel modo di produzione” (p. 207). È
qui tuttavia che si può anche notare come una vittoria nella lotta di classe, nella fattispecie
l’imposizione al capitale di un interesse specifico da parte della classe operaia, prefiguri e
sovradetermini un interesse (ed una potenza) del capitale: “è un fatto non eccezionale nella
storia dello sviluppo capitalistico” (pp. 207-208). “È un modello questa volta non tanto di
lotta, quanto di conclusione della lotta, che in forme varie si ripeterà a vari livelli di quello
sviluppo”. E tutto ciò continuerà: “quando gli operai vincono una battaglia parziale si
accorgono, dopo, di averla vinta per conto del capitale”. Talvolta la classe subisce sconfitte
terribili “che piegano per un momento il movimento ma lo fanno rialzare in seguito più
forte” (p. 208). Dentro queste sconfitte matura tuttavia (e si manifesta), la trasformazione
del modo di produzione e la modificazione delle forme del plusvalore. E muta perciò anche
la composizione della classe operaia – come abbiamo già visto. Anche il nome “classe
operaia” può venir meno: non perché la struttura antagonista della classe operaia si sia
dissolta ma perché le forme in cui essa produce e lotta si sono trasformate. Proletariato,
classe operaia, moltitudine: non rappresentano figure oppositive, rappresentano facce
variabili ma omogenee di una composizione di resistenze e di lotta in movimento.
Oggi noi assistiamo ad una trasformazione radicale dei processi lavorativi e del modo di
produzione del capitale. Un nuovo terreno di lotta, nel “nuovo modo di produzione”, è
proposto da una forza lavoro socializzata, precarizzata, globale. Il lavoro è diventato
cognitivo, affettivo, cooperativo. Il nuovo modo di produzione è stato imposto dalle lotte
operaie del secolo scorso – esse lo hanno prodotto, attraverso il rifiuto del lavoro salariato, e
la distruzione della centralità della fabbrica. E, soprattutto, attraverso due processi che
accompagnano lo sviluppo del capitale cognitivo: l’appropriazione, da parte dei lavoratori, di
un’autonoma gestione dei saperi e dei processi di cooperazione produttiva. Davvero qui la
lotta di classe comincia a crescere “dentro la classe operaia” e la soggettivazione della
“forza-lavoro” comincia a trasformarsi (per dirlo con Tronti) in potenza dell’“operaio” – vale a
dire che la soggettivazione si determina attraverso incorporazione di quote di “capitale
fisso” (saperi e organizzazione del lavoro) altre volte strumento di comando del capitale sulla
forza lavoro. È nella risposta a quelle lotte che il capitale ha costruito la sua organizzazione
basata sullo sfruttamento della potenza sociale del lavoro e sull’estrazione del “comune”. In
questa situazione, si impongono oggi nuove strategie dei movimenti nella lotta per il
comunismo e si cercano nuove tattiche di organizzazione. Ma, per quanto riguarda il
metodo e l’assiomatica della ricerca, noi restiamo sul solido terreno proposto da Tronti in
Operai e Capitale. Se vi è differenza, fra operaismo e post-operaismo; se ve ne è una, essa sta
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nel sapere di classe e cioè nel riconoscimento della trasformazione storica del rapporto di
produzione e del soggetto che, lì dentro, è sfruttato. Ma nel medesimo tempo, esso
costringe il capitale a subire un nuovo impatto di resistenza e di lotta, di odio e di speranza.
Per concludere, un esempio di metodo, operando in presenza di una nuova composizione
del lavoro – il lavoratore cognitivo – e delle terribili condizioni di precarizzazione e di
disoccupazione cui esso è sottoposto. Il capitale continuerebbe ben volentieri a lasciar
morire queste nuove generazioni di lavoratori se non fosse che esso rischia il
deterioramento di queste preziose capacità produttive e il blocco delle nuove forme di
accumulazione sociale attraverso “estrazione del comune”. Che cosa farà di conseguenza?
La prima ipotesi, quella del “far morire”, la sperimentiamo ogni giorno sulle frontiere
dell’Europa, degli USA e nel basso Pacifico – ma anche, aleatoriamente, nella nostra vita
quotidiana. Ma la “razionalità” capitalista – sempre funzionale all’accumulazione – imporrà
un’altra scelta. Il capitale sarà piuttosto obbligato a sviluppare forme di salarizzazione
sociale e a riplasmare gli istituti del Welfare in funzione di controllo delle dinamiche di
resistenza e di esercizio di dominio. Misure salariali (“reddito di cittadinanza” per es.) e
manovre sul Welfare possono mescolarsi e confondersi nella gestione capitalista del
mutamento: l’importante è che pongano in equilibrio, al minor costo possibile, produttività
e vita dei lavoratori.
Ma le cose qui si complicano sia da parte capitalista che da parte dei lavoratori. Per i primi,
incombe su di loro la necessità di riorganizzare gli assetti interni per assorbire e regolare,
nonché per imporre un’ordinata accumulazione dei nuovi flussi sociali di valore – poiché la
trasformazione del modo di produrre determina nuove forme del plusvalore (“sociale” dopo
quello “assoluto” e quello “relativo”) e impone al comando capitalista nuove gerarchie – nella
fattispecie, finanziarie. Anche per i lavoratori molte cose cambiano: sia la “giornata
lavorativa” che è ormai senza una misura temporale, sia il “luogo di lavoro” che è divenuto
mobile e trasferibile, sia la forma del salario che s’è socializzata e viene fissata nel più basso
rapporto fra reddito primario e servizi del Welfare – bene, tutto ciò distrugge
definitivamente forme e tradizioni di lotta, configurando tuttavia un nuovo terreno sociale di
organizzazione e di proposta anti capitalista. Chiediamoci: sarebbe una vittoria, per la classe
dei lavoratori, ottenere un reddito di cittadinanza, articolato ai bisogni forniti dal Welfare?
Oppure si configura così semplicemente una nuova organizzazione della forza lavoro come
“capitale variabile”? L’una e l’altra cosa, evidentemente. Ma su questa base potrebbero darsi
(e questa è la cosa che ci interessa) un nuovo terreno di lotta e quindi la possibilità di
organizzazione per i lavoratori cognitivi. I quali, per la qualità ricca della loro composizione,
non possono limitare la loro iniziativa sul terreno della pura resistenza. “La figura
schumpeteriana dell’imprenditore, con la sua iniziativa innovatrice, ci piace vederla
rovesciata nella permanente iniziativa di lotta delle grandi masse operaie”(p.210): d’accordo
– ma ora abbiamo nuove composizioni, tecniche e politiche, ben più produttive di allora e
moltitudini ben più estese, di conseguenza una più grande possibilità di costruire passaggi
costituenti un nuovo ordine sociale. È quanto, dal 2011, continuiamo a vedere e a studiare.
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C’è troppo ottimismo in questa fondazione e in questo rilancio del metodo operaista? Quasi
che la sconfitta degli anni ’70 (di coloro che avevano rifiutato l’irenico ritorno nelle braccia
del Partito Comunista Italiano) non sia assunta nella gravità che ebbe? E non c’è ancora qui
l’illusione che la moltitudine al lavoro, come insieme plurale di singolarità, possa
miracolosamente ricompattarsi? Per dirlo in termini filosofici: non c’è una povera ipostasi
ontologica non tanto nella ripresa del metodo operaista, quanto nella ridefinizione di un
soggetto in lotta? Queste obiezioni che sono frequentemente opposte agli operaisti, non mi
sembra possano essere accolte. In primo luogo perché la metodologia di Operai e Capitale,
all’incontro dell’ipotesi politica di Tronti, era (ed è stata) praticata in maniera del tutto
indipendente da ogni riduzione ad unità e a trascendenza di Partito, e quindi salvaguardata
da ogni avanguardistica macchinazione insurrezionale, così caratteristica dell’escatologia
socialista. Tanto è vero che nell’ipotesi operaista hanno potuto ritrovarsi le esperienze
teoriche, storiografiche e politiche che hanno fatto dei movimenti autonomi “dal basso” la
chiave di ogni più recente pratica rivoluzionaria, da quelli “altermondialisti” attorno al
cambio di secolo fino a quelli che dal 2011 si sono diffusi ovunque. In secondo luogo perché
dall’impianto diagnostico della teoria (che taluni chiamano) “postoperaista” (se tale è quella
che soggettivizza le singolarità moltitudinarie e considera la forza lavoro cognitiva
impiantata nel comune) – da quell’impianto, dunque, è esclusa ogni ipotesi finalistica ed ogni
telos unitario. L’intenzionalità soggettiva non può essere confusa con il determinismo
teleologico. Se vi è un “campo progressivo” prodotto dalle lotte, è quello costruito dalla forza
dei movimenti. Non c’è destino se non quello discontinuo che costruiamo e la nostra libertà
ha sempre il segno di quella necessità.
L’operaismo di Operai e Capitale ci ha
insegnato anche questo.
Cari compagni
di Mario Tronti
Cari compagni, grazie per questa memoria di
un ormai antico evento. Cinquanta anni, mezzo secolo, questa è la distanza da allora. È tanto
tempo. Actualités, dite voi, di Operai e capitale. Al plurale. Ce n’è dunque, ce ne potrebbero
essere, più d’una? Diverse, comunque, accanto ad altrettante inattualità? D’altronde, tra
l’attuale e l’inattuale c’è, dopo Nietzsche, molta ambiguità. Che cosa è meglio essere? Allora,
nei trenta anni, mi sentivo e volevo essere più attuale di quanto non mi senta e abbia voglia
di essere inattuale oggi in mezzo agli ottanta.
Fu una bella intensa esperienza quella dell’operaismo. Un romanzo di formazione per
giovani menti antagoniste, che ha depositato un sapere di presenza e di lotta, tramandato
fino ad oggi a successive generazioni, con una forse unica creativa continuità. Segno che il
seme era buono e il terreno su cui cadeva, e dove ancora oggi, dopo tante immani
trasformazioni, riesce malgrado tutto a germogliare, è ancora quello. Ho un vivo bel ricordo
di quella età eroica, di quella pratica di conflitto, di quel modo di pensare, di quella scelta
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dell’azione, di quella forma di scrittura non più ritrovata, perché del tutto dettata
dall’immediata esigenza del fare, e di un fare in contrasto diretto col mondo,, senza
mediazioni e concessioni. Soprattutto ho grande nostalgia di quelle persone, uomini e
donne, calate in un agire e in un sentire collettivo, dove l’autenticità dell’essere, e dell’essere
lì, per quello, senza residui per se stessi, determinava un plusvalore umano che, confesso,
nei lunghi anni e decenni seguenti non mi è più capitato sconsolatamente di riconoscere
intorno a me.
Gli anni Sessanta e Settanta sono i nostri “vent’anni gloriosi”. Lì le rivoluzioni del XX secolo si
esaurirono. Si aprì una età della restaurazione, che dura tuttora. E venne il deserto. Delle
due “terre desolate” che mi è stato dato di frequentare, quella dell’accademia universitaria e
quella della politica politicante, c’era spazio solo per una cella da monaco eremita. Cominciò,
nel pensare e nell’agire, un percorso accidentato: avanzamenti, svolte, soste, ritorni indietro.
Bisognava prima di tutto tenere la direzione del cammino, farsi una bussola di parte,
nell’assenza di cardinali punti di riferimento: in pratica un realismo politico antagonista. La
misteriosa curva della retta di Lenin mi sembrò quella che faceva al mio caso. Il percorso
lineare era interrotto. L’intero progresso dell’umanità verso il meglio era andato a sbattere
contro un muro, non facile a crollare come i muri ideologici. Non c’era altra strada che
prendere la curva, attenti a non sbandare. Ci collochiamo ancora al punto di massima
espansione di questa linea curva. Al di là delle scaramucce presenti ai confini dell’impero, o
degli imperi, siamo dentro una nuova pace dei cento anni. Ci si lamenta del degrado dei ceti
politici, della corruzione delle istituzioni, del silenzio delle classi nella scomparsa della lotta di
classe, della deriva antropologica nel disagio di civiltà. Non si vivono settanta anni di pace
senza che tutto questo fatalmente avvenga. Sto dicendo che non si tratta di abbassare il
livello di contrapposizione a una realtà nemica, ma di cercare con la stessa passione di un
tempo le forme più adatte del pensiero e dell’azione, appunto, attuali. La filosofia della
prassi è caduta e si è spezzata in due. E in due modi diversi vanno gestiti i piani della critica
e dell’intervento. La formula sintetica riassuntiva del “pensare estremo e dell’agire accorto”
mi ha guidato e mi guida nella navigazione quotidiana attraverso la grande bonaccia degli
oceani contemporanei.
Oggi, per quanto mi riguarda, è questo percorso che va definito, e soprattutto compreso. È
l’intero tempo che è seguito allo scontro diretto tra operai e capitale che va messo sotto
critica. Che cosa resta del primo operaismo, di cui Operai e capitale è solo un’espressione.
Alcune cose le dite nell’impostazione dell’incontro di Nanterre: resta il punto di vista parziale
da cui guardare il tutto, resta la concezione conflittuale del rapporto sociale, resta la
soggettività delle lotte che impone all’avversario il terreno dell’iniziativa. Ma resta per me
soprattutto la lettura politica della lotta di classe, l’antieconomicismo, l’antisociologismo,
l’antideologismo. È quanto mi porta oggi a sostenere questa idea da pensiero estremo: che
per abbattere la minaccia della centralità operaia il capitalismo ha dovuto abbattere la
centralità dell’industria, con la conseguenza di questa nuova forma di ordine capitalistico
basato sul disordine finanziario, dove non è più la crisi periodica che interrompe lo sviluppo
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permanente ma, al contrario, lo sviluppo periodico che interrompe la crisi permanente.
Quando dico questo, vedo gli occhi sgranati degli economisti, neoliberisti, postkeynesiani o
pseudomarxisti, che siano. È vera questa tesi? Non è vera? Non mi interessa. Non cerco la
verità storica, oggettiva, buona per tutti gli intellettuali disorganici. Cerco un’idea-forza,
politica, che mi serva per costruire un fronte di conflitto che vada alla radice delle divisioni
sociali attuali. Questo è pensiero operaista, vivo. Messa così, se ne poteva ricavare un
contenuto per quella bella formula, che altrimenti rischia di essere ideologicamente vuota,
dell’1% e del 99%. Messa così, una sinistra, che si fosse dichiarata erede della grande storia
del movimento operaio, poteva avere una ragione di esistenza e un’opportunità di
riconoscimento presso tutti gli esclusi dalla ricchezza e dal potere. Il nocciolo “irrazionale”
dell’operaismo non era un punto di vista minoritario. All’opposto, era potenzialmente forma
e materia per una “nuova ragione del mondo” antagonistica rispetto a quella dominante,
pronta a devastare il XXI secolo.
Carissimi amici, queste ultime espressioni sono facilmente riconoscibili. Apprezzo molto e
nello stesso tempo poco mi convince come Dardot-Laval tornano a parlare del concetto di
rivoluzione. Non se ne può parlare tra Arendt e Castoriadis. Non se ne può ragionare tra
rivoluzione 1776 e rivoluzione 1789, assente la rivoluzione 1917, di cui celebreremo il
prossimo anno il centenario. Non si può dire comune senza dire comunismo. Continuo ad
essere convinto che i comunisti sono gli unici che hanno veramente messo paura ai
capitalisti. Non sono stati i socialdemocratici, i liberalsocialisti, gli anarchici, i sessantottini i
terroristi, non siamo stati noi operasti. Queste cose gli hanno fatto il solletico. Solo il
tentativo, tragico, della costruzione comunista del socialismo, gli ha dato un pugno nello
stomaco, che li ha messi per decenni sulla difesa preoccupata del loro ordine, tra grande
crisi e grande guerra. È da quando è caduto quel tentativo che non hanno avuto più
problemi, se non quelli stessi che si creano da soli, tra loro. Mi fa piacere che Toni rilegga la
sua vicenda, che seguo sempre con passione militante, come la storia di un comunista. È
una presa di possesso impegnativa. Va assunta in tutta la sua ricchezza storica. Mi capita in
questo tempo povero che stiamo vivendo di richiamare spesso, soprattutto per chi verrà, la
necessità, di una coltivazione gelosa della memoria. Mi pare di vedere più chance
rivoluzionaria in un nostro passato, che nessuno ci può togliere, rispetto a un futuro, che ci
è già stato tolto, tutto ormai nelle mani di chi comanda. Stiamo dentro questa terribile
stretta: mai come oggi un altro mondo è necessario e mai come oggi un altro mondo non è
possibile. Diciamo: non lo è per il momento. Quanto sarà lungo questo momento, non
sappiamo. Qui torna il concetto, teorico-storico, di rivoluzione. Mi sono fatto un’idea, che
vorrei avere il tempo di elaborare. La rivoluzione non è l’atto con cui si prende il potere, ma
il processo con cui si gestisce il potere. Riformisti prima, rivoluzionari solo dopo. Vi lascio
con questo lampo senza tuono.
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