Il filosofo torinese Norberto Bobbio, nella primavera del 1969, dedicò un acuto articolo, nella rivista di matrice “azionista” «Resistenza», alla trasformazione del movimento studentesco in una sorta di forza politica indipendente, fortemente differenziata dalle sinistre storiche. L’elemento centrale di quel fenomeno era indicato da Bobbio in un particolare sistema di valori oppositivi alla società capitalistica; i giovani del movimento – scriveva il professore – non combattevano il capitalismo perché gli imputassero un ritardo dello sviluppo economico e sociale, ma perché rifiutavano le modalità di quello sviluppo. Non si battevano più (e qui stava la novità rispetto alla tradizione della sinistra italiana) per lo sviluppo e la modernizzazione, ma contro le caratteristiche autoritarie e di classe dello sviluppo e della modernizzazione. La loro era dunque la prima critica della modernità, fatta non in nome delle nostalgie passatiste della destra, ma in nome di una modernità più libera e giusta; anche se, precisava, «si può discutere se in un paese semi-contadino, come l’Italia, la battaglia non sia intempestiva e quindi destinata alla sconfitta prima di essere data, oppure a trasformarsi strada facendo in una battaglia di retroguardia; se l’insofferenza per l’efficientismo non sia prematura in un paese travagliato, salvo poche isole industriali, d’inefficienza cronica». «La rivolta giovanile – diceva comunque Bobbio – è, per la prima volta, in Italia, portatrice e trasmettitrice dell’ideale o dell’utopia (utopia di oggi ma realtà di domani) di una società post-industriale». Può essere utile partire da questa citazione per tentare di tracciare un profilo, per quanto sommario, della cultura politica dei movimenti che furono attivi nel corso degli anni sessanta e settanta in tutti i paesi capitalistici avanzati del Nord America e dell’Europa (e talora anche in alcuni paesi socialisti, come la Cecoslovacchia e la Polonia). Movimenti differenziati e certo non omologabili, che operarono in contesti sociali e politici molto diversi, e che tuttavia una vivace corrente di studi, negli ultimi anni, ha preso a considerare come un fenomeno in qualche modo unitario, caratterizzato cioè da alcuni tratti comuni: la scarsa (o nulla) formalizzazione organizzativa, la tendenza alla radicalizzazione estrema delle forme di lotta, la natura extra-istituzionale, più in generale l’insofferenza per le mediazioni istituzionali e per la politica tradizionalmente intesa. Caratteristiche che, assieme ad altre, inducono ad accomunare un arco di esperienze che va dai movimenti pacifisti e antimilitaristi, ai fenomeni studenteschi del Sessantotto (nati in realtà alcuni anni prima nei campus universitari statunitensi), ai gruppi politici di orientamento radicale, sino ai gruppi di base nelle fabbriche e nei servizi, ai movimenti di protesta urbana sulla casa e i servizi sociali, a quelli dei detenuti e dei militari di leva. Si tratta, in altre parole, di quell’insieme di fenomeni che in genere viene definito come “nuova sinistra”: termine nato, in realtà, alla fine degli anni cinquanta nell’area anglosassone (di “new left” si parlava negli Stati Uniti a proposito dei gruppi radicali legati al movimento per i diritti civili, e in Gran Bretagna, nel 1960, nasceva la «New Left Review»), ma diventata poi sinonimo di tutta una corrente politica, attiva nel mondo capitalistico per oltre un ventennio. Sotto il profilo politico-ideologico, fu una corrente collocabile senza dubbio nell’ambito della sinistra, ma con caratteristiche di spiccata originalità, che la differenziavano tanto dal comunismo di matrice terzinternazionalista, quanto dal socialismo democratico e riformista; una sinistra estrema, la cui cultura non è riconducibile solo al marxismo tradizionale, ma a tante influenze diverse, dallo strutturalismo alla psicanalisi, e che coltivò forse la velleità di portare Marx oltre Marx, di sottrarlo alle interpretazioni della vulgata comunista ufficiale (quella del movimento operaio di osservanza sovietica) per restituirlo alla critica radicale della società borghese. Una critica – come giustamente coglieva Bobbio – non ai ritardi e alle aporie del capitalismo e della democrazia borghese, ma ai loro caratteri costitutivi. Non a caso, il fatto che la nuova sinistra partisse in genere dalla critica al capitalismo, inteso come massimo sviluppo delle forze produttive sociali, e alla democrazia, come mistificazione della partecipazione di tutti alla cosa pubblica, era al centro di critiche severe da parte della sinistra storica, per la quale si trattava di una critica sostanzialmente di élite, che assolutizzava una tendenza del capitalismo moderno ancora di là da venire; con il risultato di svilire e indebolire le battaglie della sinistra per uno sviluppo e una modernizzazione adeguati alle esigenze delle classi popolari. Accusa alla quale sovente si accoppiavano quelle di utopismo e di velleitarismo, caratteristiche tipiche – secondo una certa cultura della sinistra, soprattutto comunista – dei movimenti piccolo-borghesi, e non autenticamente proletari. Era evidente, in questo tipo di critiche, il persistere di quelle concezioni del capitalismo in termini di sfruttamento assoluto, di miseria crescente, di strutturale incapacità di avviare processi di modernizzazione sociale, che a lungo fecero parte del bagaglio ideologico delle sinistre, soprattutto in Europa, a volte ammantate di un marxismo asfitticamente dogmatico (quello che portava i comunisti italiani e francesi, ad esempio, a negare la crescita dei salari reali e dei consumi delle classi proletarie). Concezioni di tipo democraticistico, per le quali il socialismo finiva – in ultima analisi – per coincidere con lo sviluppo economico, più la democrazia parlamentare, e che non potevano che mostrare insofferenza per tutto quanto suonasse come implicito riconoscimento della capacità del capitale di produrre (seppure in forme contraddittorie) ricchezza e benessere. Si spiega così, a mio avviso, l’atteggiamento ambiguo che l’intellettualità progressista e i partiti democratici, socialisti e comunisti ebbero nei confronti di molti movimenti di protesta, al loro nascere, diviso tra l’appoggio alle istanze di rinnovamento e di riforma che in essi comunque si esprimevano, e la diffidenza per l’eccesso di radicalismo che vi si manifestava: mettere in discussione la scuola non solo per i suoi limiti di classe, ma come meccanismo in sé di controllo sociale, negare a priori la neutralità della scienza e della tecnica (e quindi la possibilità di un loro uso non capitalistico), irridere al valore del lavoro quale fondamento della società (di ogni società), rifiutare la democrazia politica come fosse, in ogni modo, una truffa, non potevano che apparire – agli occhi delle sinistre – come manifestazioni di un pericoloso infantilismo estremistico. Non a caso, buona parte dei movimenti sociali visse nel corso degli anni sessanta un processo di progressivo allontanamento dai partiti di sinistra (da cui, in molti casi, erano addirittura nati: si pensi alle organizzazioni giovanili studentesche). Il rifiuto aprioristico della delega alle organizzazioni maggiori, l’esaltazione della lotta come unico fattore dinamico della società, la ricerca – sovente – dello scontro a ogni costo, l’insofferenza verso ogni mediazione istituzionale, un certo tipo di linguaggio irrituale e non di rado volutamente provocatorio, erano tutti elementi di una cultura che dalla sinistra, anche di matrice comunista, era giudicata quanto meno ambigua. A ben vedere, la famosa poesia di Pier Paolo Pasolini sugli studenti romani che, a Valle Giulia, si erano scontrati con la polizia, nasceva anche da questo tipo di giudizi. E non è affatto strano che esistessero simili diffidenze verso gli studenti e – più in generale – verso certe forme di attivismo politico giovanile, perché agli occhi di chi aveva visto nascere e trionfare il fascismo tutto ciò poteva rievocare il ricordo dell’interventismo, dell’avanguardismo giovanile, addirittura dello squadrismo. Né si può dire che, negli anni sessanta, fossero problemi morti e sepolti: a più riprese, anche in anni recenti, alcune manifestazioni di protesta politica (come quelle contro i trattati sulla definizione del confine italo-jugoslavo) avevano avuto un carattere nettamente di destra e avevano visto di nuovo gli studenti in piazza a sventolare tricolori e ad aggredire gli antifascisti. È pienamente comprensibile, dunque, che una parte della generazione che aveva vissuto il fascismo e la guerra considerasse gli studenti un gruppo sociale ambiguo e potenzialmente pericoloso. E non era così scandaloso e assurdo, ad esempio, che in Germania il filosofo Jürghen Habermas nel 1967 definisse certe manifestazioni radicali del movimento studentesco come “fascismo di sinistra”; tesi che, più o meno sottovoce, circolava nel dibattito politico e culturale della sinistra europea. Alla radice di tutto ciò stava il fatto che un certo tipo di movimenti erano il risultato di processi di crescita della società contemporanea che la cultura progressista (compreso il marxismo volgarizzato delle sinistre parlamentari) faticava a comprendere. Il ciclo di mobilitazione giovanile internazionale, che culminò nel 1968 (e a questo proposito sarebbe giusto non ricordare sempre e solo il maggio francese, ma anche quanto avvenne negli Stati Uniti, che non fu meno clamoroso e dirompente), era il frutto dello sviluppo “neocapitalistico” del dopoguerra, con tutto il corollario della scolarizzazione di massa, dei nuovi modelli di consumo e della diffusione dei grandi mezzi di comunicazione di massa; un fenomeno di gigantesca trasformazione delle classi, che le culture politiche tradizionali assolutamente non avevano previsto e che proprio per questo diede l’impressione di un generale disordine, di un moto improvviso (quindi pericoloso!) che veniva a turbare equilibri ritenuti invece solidi e duraturi. Quando invece, a ben vedere, si trattava di nient’altro che di mobilità sociale, del coinvolgimento di settori sempre più ampi della piccola e media borghesia nel circuito produttivo capitalistico, e delle forme di resistenza (opposizione, rifiuto) che ciò inevitabilmente provocava, anche sul piano culturale; e qualcosa di analogo stava accadendo a nuovi gruppi di lavoratori, immessi a viva forza nelle fabbriche della produzione di massa, provenienti dalle campagne interne o dall’estero, che non a caso furono i protagonisti (sul finire degli anni sessanta) del più grande ciclo internazionale di lotte operaie nella storia del capitalismo e della definitiva affermazione del sindacalismo industriale di massa come modello organizzativo di classe. Lo spazio politico e culturale che i movimenti della nuova sinistra riuscirono a occupare, a fronte di quei fenomeni sociali, fu inversamente proporzionale alla capacità delle sinistre storiche di capire cosa stesse accadendo e di offrire a quelle masse in mobilità una teoria, adeguata alle loro esigenze di lotta. Prigioniero di schemi ereditati da vecchie fasi dello sviluppo capitalistico, il pensiero di sinistra (compreso certo marxismo “ufficiale”) rifiutò nel complesso la sfida che veniva dai movimenti, interpretandoli perlopiù come “estremismo”, “infantilismo”, “soggettivismo piccolo-borghese”, e tentando (a volte con successo) di ricondurli disciplinatamente all’ovile. Indicativo di questo atteggiamento è la sufficienza (che è cosa ben diversa dalla critica, anche la più radicale) con cui furono trattate in genere le culture dei movimenti. Culture che intrecciavano disinvoltamente individualismo e comunitarismo, elementi politici e suggestioni della civiltà dei consumi di massa, un certo bagaglio ideologico di matrice rivoluzionaria (comunista, anarchica, sindacalista) e l’influenza delle avanguardie artistiche del Novecento. Un intreccio fortemente contraddittorio, nel quale il pacifismo e le pratiche libertarie di gruppo potevano convivere con la prassi rivoluzionaria delle organizzazioni politiche, la lettura vorace e disordinata di testi marxiani con la fruizione dei prodotti intellettuali di massa (cinema, fumetti, televisione), i poster di Che Guevara – volendo banalizzare un po’ – con quelli di Jimi Hendrix. Una contaminazione che era anche di linguaggi, come dimostra (per esempio) il fatto che un’organizzazione politica di estrema sinistra italiana, quale Lotta Continua, potesse scegliere come “inno” una canzone di successo del mercato nordamericano (Eve of Destruction, di Barry McGuire), modificandone il testo e facendola diventare L’ora del fucile. E non c’è dubbio che fosse proprio la contraddittorietà di questi intrecci a consentire alla “nuova sinistra” di costituirsi come uno spazio comunicativo aperto, più ancora che come uno spazio politico in senso stretto, nel quale potevano riconoscersi soggetti tra loro anche molto diversi, dai giovani arrabbiati del movimento beat agli studenti in lotta, dalle donne del primo femminismo a settori minoritari del movimento operaio. Può essere utile, per comprendere alcuni caratteri ideologici dei movimenti, considerare quali fossero i testi più letti e discussi verso la fine degli anni sessanta. Se prendiamo in esame L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, La società dello spettacolo di Guy Debord e la Autobiografia di Malcolm X, che furono senza dubbio tra i volumi che all’epoca circolarono maggiormente, possiamo renderci conto della eterogeneità delle influenze politiche e culturali, che agirono sulla formazione di una generazione di attivisti, soprattutto studenteschi. Abbiamo infatti, nel primo caso, la versione forse più radicale (e per certi versi politicamente ambigua) della critica francofortese della modernità; nel secondo caso lo sviluppo estremo delle avanguardie artistiche novecentesche, con la teorizzazione delle “situazioni creative” quale unica risposta efficace all’alienazione dei meccanismi di produzione e di consumo; e nel terzo l’espressione del rivoluzionarismo afroamericano più spinto, frutto di un intreccio fra nazionalismo nero panafricanista e culture religiose legate a una versione particolare dell’Islam. Teoria critica, situazionismo, nazionalismo nero, dunque. Certo, ciò non significa che queste opere siano rappresentative – sic et simpliciter – della cultura politica dei movimenti; sarebbe assurdo, ad esempio, dimenticare l’enorme diffusione dei testi marxiani e leninisti (che fece, tra l’altro, la fortuna di alcune case editrici di sinistra), e la sterminata produzione teorica di orientamento comunista che trasse origine dalle lotte sociali di quegli anni e dall’ambito stesso dei movimenti. Si deve quindi parlare, quanto meno, di un forte intreccio fra il marxismo (nelle sue diverse versioni) e un insieme spurio di influenze di altra natura (come dimenticare, ad esempio, il ruolo che ebbe in Italia un libro come Lettera a una professoressa, di don Milani, profondamente intriso di populismo cattolico?). Anche a considerare un’opera, che pure si presentava con un solido impianto marxiano, come Operai e capitale di Mario Tronti (considerato una sorta di “manifesto” del cosiddetto operaismo italiano), l’impressione è quella di una cultura politica difficilmente assimilabile al comunismo storico. L’assolutizzazione degli interessi materiali operai («gli operai moderni, e non da oggi, vogliono soprattutto due cose: lavorare poco e guadagnare molto»), le negazione quasi sprezzante di alcuni valori forti del movimento dei lavoratori («l’etica del lavoro è un’etica cristiano-borghese, quanto di più lontano e nemico per la coscienza operaia»), lo schema interpretativo dello sviluppo capitalistico («prima la classe, poi il capitale»), l’immagine del comunismo come di un processo che costituisce dentro alla società borghese il potere degli operai: tutto, in Tronti, era agli antipodi del comunismo di derivazione terzinternazionalista, e sembrava rimandare piuttosto a una rilettura, originale, del sorelismo, applicato alle condizione della grande fabbrica moderna (da qui anche l’esaltazione della classe operaia come «rude razza pagana»). Un impianto concettuale che, a ben vedere, andava molto al di là delle posizioni di Panzieri, con il quale pure (sino alla prematura morte del dirigente socialista, una delle figure più alte del marxismo italiano, messo ai margini del movimento operaio ufficiale) Tronti e altri intellettuali di sinistra avevano collaborato nell’esperienze dei «Quaderni rossi». Panzieri per certi versi si muoveva ancora, teoricamente, nell’ambito del socialismo tradizionale (né si può dire, ovviamente, quali sarebbero state le sue scelte personali alla fine degli anni sessanta), Tronti sicuramente no, anche se continuò a militare nel partito comunista. Il che costituisce forse un paradosso solo apparente, che sarebbe molto utile approfondire e chiarire; ma a tutt’oggi (nonostante il gran parlare dell’operaismo teorico e delle sue influenze sul movimento di classe, non solo in Italia) non abbiamo purtroppo una storia critica di quelle correnti eterodosse del pensiero comunista, che ci aiuti a capirne di più; possiamo solo limitarci a osservare che, curiosamente, la storiografia più legata alla tradizione socialista e comunista ne ha tenuto davvero poco conto (è un po’ clamoroso, ad esempio, che nella recente Enciclopedia della sinistra europea nel XX Panzieri figuri solo di sfuggita, e non gli sia dedicata neppure una scheda biografica). Peraltro va sottolineato che nella storia dei movimenti degli anni sessanta e settanta il biennio 1968-69 rappresentò uno spartiacque decisivo, da un lato perché le lotte sociali assunsero allora un carattere più marcato di radicalità, e dall’altro per il ruolo della conflittualità operaia, che riportò al centro del dibattito internazionale temi e problemi che in precedenza non erano affatto così decisivi per le esperienze della nuova sinistra (si pensi alle tesi sulla definitiva integrazione nel sistema della classe operaia, e al fascino che su molti attivisti studenteschi aveva esercitato in questo senso Marcuse). Non c’è dubbio che a partire da quel biennio tutti i movimenti di protesta, sia in Europa sia nel Nord America, furono portati a intrecciare maggiormente le proprie culture (sostanzialmente di matrice radicale) con quelle del movimento operaio organizzato e, in qualche misura, delle sinistre storiche. Un fenomeno che è stato sottolineato persino a proposito degli Stati Uniti, dove alcuni movimenti – quello afroamericano e in parte anche quello studentesco – finirono per amalgamare in qualche modo i propri linguaggi e le proprie forme di organizzazione con elementi di tipo politico tradizionale, in qualche caso addirittura vetero-comunista: si pensi a certa retorica politica del Black Panther Party, nella sua ultima fase, o al paradossale programma politico da socialismo reale dei Weathermen Underground, un’organizzazione clandestina nata dalle ceneri del movimento studentesco. Ciò non vuol dire che, a partire dal secondo “biennio rosso” del Novecento (come, con una certa forzatura storica, è stato definito il 196869), i movimenti mutassero alla radice la propria cultura politica di fondo; significa però che dall’esplodere della conflittualità operaia in forme e dimensioni di quella portata tutte quelle esperienze furono inevitabilmente condizionate, nel senso di una maggiore politicizzazione e di un’assimilazione di linguaggi, modi di agire e di organizzarsi che in precedenza avevano un’influenza assai minore. Non si può, a mio avviso, parlare dei movimenti sociali di nuova sinistra, dopo il 1968-69, senza mettere al centro della riflessione quella sorta di egemonia che la classe operaia industriale arrivò a esercitare in tutti i campi delle relazioni sociali (non escluse quelle culturali). È una storia in larga parte ancora da scrivere, ma che non può prescindere dal ruolo del conflitto di fabbrica, in quegli anni, nel dettare i tempi della politica e della società. La nuova sinistra, in quella nuova temperie, tentò in un primo momento di presentarsi come il referente dei settori operai meno integrati e qualificati (immigrati in Europa, neri di urbanizzazione più recente negli Stati Uniti), in aperta e violenta polemica con le centrali sindacali ufficiali. Non ebbe successo, tant’è vero che quasi tutte le organizzazioni minoritarie di base, attive nelle fabbriche attorno al 196869, ebbero vita abbastanza breve e i loro militanti finirono per essere assorbiti dalle strutture sindacali; e tuttavia non c’è dubbio che esercitò un ruolo decisivo nell’orientare atteggiamenti e scelte di forti gruppi di lavoratori, lungo tutti gli anni settanta (oltre a costituire una forza di tutto rispetto tra i lavoratori dei servizi, in primo luogo nella scuola). E si può forse avanzare l’ipotesi che in quegli anni, in presenza di una fortissima e pervasiva politicizzazione della vita pubblica, i movimenti di nuova sinistra siano stati (fatte le dovute distinzioni) quel che all’inizio del Novecento era stato il sindacalismo rivoluzionario, con la stessa violenta agitazione contro i compromessi delle organizzazioni “riformiste” e la stessa ricorrente tendenza all’entrismo in esse, lo stesso massimalismo delle parole d’ordine e la stessa fragilità di prospettive politiche complessive. Ma anche questa è una riflessione che andrebbe approfondita e sorretta con un’analisi storica rigorosa. I movimenti degli anni sessanta e settanta, in ultima analisi, possono essere indicati come l’espressione di una realtà sociale sempre più complessa, in forte evoluzione e con tratti profondi di novità, e al contempo di una cultura politica eterogenea, che ambiva (senza peraltro riuscirvi appieno) a essere alternativa a quella delle sinistre storiche. Tra la loro natura sociale e le ideologie che sovente utilizzarono, soprattutto sul versante più direttamente politico, c’era una contraddizione latente, che derivava dalla difficoltà di chiarire che cosa potesse sostituire l’idea della rivoluzione politica, di derivazione terzinternazionalista, e al tempo stesso del riformismo democratico. I movimenti sapevano cogliere spesso elementi fondamentali delle trasformazioni, in atto nel capitalismo, con grande capacità di anticipazione storica (si pensi al discorso sulla “nuova classe operaia”, da Serge Mallet sino alle teorie sul lavoro intellettuale di massa), ma quando dovettero confrontarsi con la politica – e in particolare con il problema dello Stato – non riuscirono a elaborare una vera rottura storica con gli apparati concettuali della tradizione di sinistra. L’idea stessa di rivoluzione, che stava al centro del loro discorso politico, finiva per risolversi o nella velleità di riprodurre le esperienze rivoluzionarie classiche (la Russia bolscevica o la Cina maoista) in modo nuovo e più libertario, senza rendersi conto della loro non riproducibilità storica nella condizioni del capitalismo maturo, o in una teorizzazione del movimento perenne, della “lotta continua”, di una sorta di “azionismo” di massa insofferente di ogni mediazione istituzionale, ma anche incapace di indicare tappe e obiettivi concreti della prassi rivoluzionaria. Movimenti sociali in larga parte non tradizionali, non seppero mettere capo (almeno sotto il profilo politico, ché diverso è il discorso sul piano dei linguaggi e delle forme di comunicazione) a una cultura davvero nuova. E si può forse dire che la loro importanza storica derivi proprio dall’essere stati (al tempo stesso) una delle ultime grandi esperienze all’insegna delle ideologie radicali del Novecento, e l’anticipazione di tendenze e sviluppi nuovi, irriducibili a quelle ideologie. Dall’essere stati dentro e fuori il comunismo. Contraddizione che ne fu la forza, ma anche il limite più vistoso. Quei movimenti forse hanno contribuito a cambiare il mondo, come in molti sostengono (e qualcuno si è spinto a fare un ardito parallelo con i movimenti della metà dell’Ottocento: «ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. Una nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo»). Ma di certo lo hanno fatto in un modo che non era quello progettato e sognato in quegli anni di forti mobilitazioni collettive. La rivoluzione che si pensava sarebbe venuta (spontaneamente, forse) dalle lotte non c’è stata, né poteva esserci: almeno, non nei termini confusi in cui era prospettata. È probabile, però, che per le centinaia di migliaia di attivisti che in tutto il mondo, senza essere collegati tra loro da nessuna “internazionale”, inseguirono il sogno di una rivoluzione comunista ma antiautoritaria, egualitaria ma ricca delle mille diversità del presente, contavano più il movimento in sé, la lotta continua, che il risultato finale. E si può quindi dire di loro quello che Hannah Arendt scriveva dei giacobini francesi (e che Peppino Ortoleva ha ripreso nel suo saggio sul ’68 in Europa e in America), a proposito di una «domanda tormentosa, allarmata e allarmante, che avrebbe perseguitato ogni rivoluzionario degno di questo nome da Robespierre in poi: se la fine della rivoluzione significava la fine della libertà pubblica, era desiderabile farla finire»?. 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