«Camino de Santiago»: tra realtà fisica e suggestioni simboliche

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Camino de Santiago:
tra realtà fisica e suggestioni simboliche
Erika Montedoro
Camino de Santiago: luogo geografico o luogo dell’anima? Paesaggio reale o
metafora? Non è facile suggerire con poche parole che cosa significhi o abbia significato per il mondo cristiano il percorso che conduceva a Santiago de Compostela
e quale ruolo cruciale abbia svolto nei secoli per la cultura europea, che affonda le
proprie radici nell’esperienza del pellegrinaggio medioevale. Sono in molti, infatti,
a ritenere che l’Europa si sia formata «attraverso il pellegrinaggio compostellano»1
e come questa nuova identità continentale abbia preso vita proprio sulle strade per
Santiago.
Il camino, come lo chiamano più familiarmente gli spagnoli, è con certezza una
delle principali vie di pellegrinaggio cristiano ancora presenti nel Vecchio Continente, quella strada che, dal Medioevo sino a oggi, moltitudini di fedeli hanno
continuato a percorrere per raggiungere la tomba dell’apostolo Giacomo, custodita
all’interno della cattedrale di Santiago de Compostela. È la via che segue «un sole eternamente al tramonto»2 , avanzando sempre verso Occidente, dalle cime dei
Pirenei fino alle coste atlantiche della Galizia. Tale definizione, purtroppo, per
quanto esaustiva, non è comunque sufficiente a trasmettere l’essenza di un itinerario che gode ormai di un’eredità millenaria e la cui fama ha saputo attraversare con
apparente facilità il tempo e lo spazio.
Il Camino de Santiago, infatti, non è soltanto la via materialmente costruita
nel Medioevo per raggiungere la città dell’Apostolo in Galizia. Esso è, al tempo
1
P. Caucci von Saucken (a cura di), La Guida del pellegrino di Santiago. Libro quinto del Codex
Calixtinus, secolo XII, Jaca Book, Milano 1989, pp. 7-8.
2 P. Barret e J.N. Gungard, Alla conquista di Compostella, Piemme, Alessandria 2000, p. 23.
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stesso, un «percorso dell’anima»3 , poiché, attraversando uno spazio fisico reale,
tangibile, il camino ha creato intorno a sé uno spazio simbolico, fatto di echi e di
rimandi più profondi. La costruzione del Cammino di Santiago avvenne, in sostanza, su due piani differenti e comunque complementari: a un’organizzazione fisica
del Cammino si sovrappose una definizione mentale di esso, che faceva riferimento
alla visione cristiana del mondo e, proprio in base a questo duplice livello, andava
strutturandosi di conseguenza anche l’ambiente circostante. Lo spazio diviene così
territorio: da ambito fisico si muta in paesaggio umano e in questa trasformazione
è determinante l’interazione uomo-ambiente, sia per quanto riguarda la strutturazione materiale dello spazio sia per quel che concerne la sovrapposizione di nuovi
significati simbolici. Che cosa s’intende allora per paesaggio e in che modo esso
si carica di valenze simboliche?
Paesaggio e percezione, spazio fisico e spazio simbolico
Occorre innanzitutto sfatare un modo errato di intendere il paesaggio. Quando si
parla di paesaggio, in realtà, non si fa riferimento a un mondo esterno, materiale,
che sta al di fuori di noi, che è altro da noi, ma, al contrario, il paesaggio, per
essere tale, necessita sempre della presenza umana, necessita, cioè, di un soggetto
che ne faccia l’oggetto della sua contemplazione: in poche parole, «il paesaggio
presuppone un soggetto che lo percepisca»4 . Esso non è per nulla pura oggettività
che si offre ai nostri sensi, ma è frutto di un’interazione tra soggetto e oggetto, tra
pensiero e materia. Ciò che vediamo e percepiamo è già il risultato di una mediazione soggettiva, di un modo di concepire il mondo che ciascuno, come individuo,
porta con sé per cultura, sensibilità e formazione personale5 .
Per queste ragioni, oggi allo studio della Geografia Fisica si è affiancata, in
modo sempre più pressante, l’interpretazione della Geografia della Percezione6 ,
che offre la possibilità di cogliere una visione geografica del mondo non più solo
“dall’esterno” ma anche “dall’interno”, con un nuovo approccio che consenta di
svelare le mappe mentali che gli individui si creano in relazione all’ambito in cui
vivono7 . In questo modo la geografia si apre a nuovi orizzonti, imparando «a riconoscere i sottili legami che si intrecciano tra paesaggi esterni e paesaggi “interni”
ad ognuno di noi»8 .
Il paesaggio, dunque, è una costruzione che nasce dall’incontro tra l’oggettività
3 R. Stopani, “Le croci stradali: un elemento di sacralizzazione dello spazio, comune ai percorsi delle tre peregrinaciones majores”, in P. Caucci von Saucken (a cura di), Santiago, Roma,
Jerusalén. Actas del III Congreso Internacional de Estudios Jacobeos, Xunta de Galicia, Santiago
de Compostela 1999, pp. 331-340.
4 M.C. Zerbi, Paesaggi della geografia, Giappichelli, Torino 1993, p. 41.
5 Cfr. D. Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico, tr. it. di C. Copeta, Unicopli,
Milano 1990, pp. 246 sgg.
6 Su questi temi, cfr. M.C. Zerbi, Paesaggi della geografia, cit., pp. 85-119.
7 Cfr. G. Corna-Pellegrini, Esplorando Polis, Unicopli, Milano 1995, pp. 23-27.
8 Ibid., p. 27.
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della natura e la soggettività umana9 . È proprio lo sguardo dell’uomo che offre una
visione d’insieme, che crea il paesaggio e gli dà un senso. I luoghi acquistano allora
significato in quanto teatro delle vicende umane e l’uomo assume nei confronti
dello spazio che lo circonda un duplice ruolo di attore e di spettatore10 : un ruolo
attivo, attraverso il quale modellare il paesaggio secondo il proprio pensiero e agire
su di esso, e un ruolo passivo, nel quale il soggetto percepisce lo spazio come
insieme, lo contempla fruendone la bellezza intrinseca.
Il soggetto investe così il paesaggio di significati nuovi che esulano dalla pura
fisicità dell’ambiente: un insieme di sentimenti, di echi, di rimandi che trasfigurano lo spazio agli occhi dell’osservatore e che sono poi alla base dell’azione di
quest’ultimo; che determinano, in definitiva, il suo comportamento nell’ambiente
stesso. L’organizzazione dello spazio è il frutto di questa riflessione soggettiva, è
il risultato che consegue alla “lettura” dell’ambiente fisico da parte dell’uomo, è
l’effetto di un’osservazione che non è mai diretta, ma sempre filtrata attraverso le
“lenti” offerte dalla cultura di cui ciascun individuo è portatore11 .
Ed è proprio questa cultura che si rende manifesta nell’organizzazione dello
spazio, nel disegno originale e unico che il paesaggio assume per volere dei soggetti
che lo contemplano e che agiscono su di esso. Emerge così il valore simbolico di
ogni paesaggio: «tutti i paesaggi prodotti dall’uomo nei processi di appropriazione
o di trasformazione dell’ambiente sono dei paesaggi simbolici. Il simbolismo sarà
tanto più evidente quanto più intenso è stato l’esercizio dell’azione umana su di
essi»12 .
Per cogliere con maggior pienezza questo simbolismo ci viene in soccorso,
allora, non solo la letteratura scientifica ma anche le innumerevoli descrizioni soggettive contenute nei diari di viaggio, o ancora l’arte, nelle sue svariate forme ed
espressioni, e soprattutto la poesia, che spesso offre una visione del paesaggio più
profonda, emozionale. Possiamo, infatti, affermare che «non vi è alcuna contrapposizione tra lettura scientifica e lettura poetica del paesaggio»13 , ma piuttosto una
preziosa complementarietà che consente di raccogliere una maggiore ricchezza di
informazioni riguardo all’ambiente che osserviamo. Talora è proprio la lettura
poetica che svela la segreta essenza dei luoghi e ne coglie l’intimo legame con
le vicende umane14 . Descrivere la bellezza del mondo è un’esperienza del limite, poiché si tratta di esprimere con mezzi verbali o visivi qualcosa che per sua
natura ha dell’ineffabile15 : contemplando il paesaggio l’uomo passa dal visibile
all’invisibile, «perché tutti i paesaggi vivono in un’estasi visionaria e perché noi
9
Cfr. D. Cosgrove, op. cit., p. 33.
Cfr. E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato,
Marsilio, Venezia 1998, pp. 26-28.
11 Cfr. G. Corna-Pellegrini, La terra degli uomini, Carocci, Roma 2002, p. 129.
12 M.C. Zerbi, “Il paesaggio tra ricerca e progetto: un’introduzione”, in M.C. Zerbi (a cura di),
Il paesaggio tra ricerca e progetto, Giappichelli, Torino 1994, pp. 18-19.
13 G. Corna-Pellegrini, Esplorando polis, cit., p. 27.
14 Cfr. ibid., pp. 25-27.
15 Cfr. R. Milani, L’arte del paesaggio, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 12 sgg.
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contemplatori [. . . ] miriamo a perderci in esso»16 .
Il Camino de Santiago come spazio simbolico
Per quanto concerne le vicende del Camino de Santiago, esse valgono quale esemplificazione concreta di quanto detto. Se è prevalso in un primo momento il ruolo
costruttivo con cui i pellegrini hanno fondato il camino e organizzato lo spazio
intorno a esso, in un secondo tempo si è affiancato un aspetto contemplativo, che
emerge con forza dai numerosi diari di viaggio redatti dai pellegrini lungo i secoli,
risultato della fruizione estetica del paesaggio durante il viaggio a Occidente. Il
pellegrinaggio costituiva in passato un’opportunità privilegiata per «osservare paesi e genti, ambienti e abitudini sconosciute»17 . Molto prima che il turismo si affermasse quale fenomeno di massa, il pellegrinaggio fu per lungo tempo «il modo più
consueto e praticato per conoscere un po’ il mondo al di fuori del proprio luogo
d’origine»18 e «un pellegrinaggio a Santiago, che attraversava così tante regioni,
era un’occasione per confrontare la propria idea del mondo con la realtà»19 .
In verità, più che di una consequenzialità lineare tra azione e contemplazione si
è trattato di un rapporto circolare tra i due aspetti, per cui alla costruzione del camino già sottostava una particolare visione del mondo, quella cristiana, che induceva
a interpretare lo spazio secondo una prospettiva ben precisa. Come si è accennato,
è la cultura, in generale, propria d’ogni popolo, nonché d’ogni individuo, a offrire,
durante l’osservazione, una sorta di filtro interpretativo o, se si vuole, una “lente”
attraverso cui il mondo oggettivo può essere letto, inteso e valutato, diventando
paesaggio e caricandosi di significati nuovi, soggettivi20 . L’osservazione diventa così interpretazione e l’interpretazione è fondamento dell’azione. Allo stesso
modo agisce, in particolare, anche il pensiero religioso, sovrapponendo alla percezione dello spazio fisico significati simbolici che dal mondo materiale rimandano
alla sfera dell’immateriale. Nella visione profetica lo spazio non è ritenuto sacro
in sé e non è perciò considerato oggetto di venerazione, acquistando, invece, significato in riferimento ad altro21 : per il cristiano il cosmo ha valore solo in quanto
creato e le sue manifestazioni di bellezza, di forza e di armonia sono intese quali
espressioni della potenza di Dio, creatore del mondo. È l’immanente che richiama
l’attenzione dell’uomo verso ciò che è trascendente.
La stessa terra, seppur ammirevole nella sua perfezione, non è pertanto una
dimora definitiva, ma provvisoria, e il soggiorno su di essa diviene una sorta di
viaggio. Sin dalla Prima Lettera di San Pietro Apostolo, l’esistenza umana è stata
16
Ibid., p. 15.
Ibid., p. 82.
18 P. Pierotti, “La città nella storia”, in B. Cori, G. Corna-Pellegrini, G. De Matteis e P. Pienotti,
Geografia Urbana, UTET, Torino 1993, p. 26.
19 P. Barret e J.N. Gungard, op. cit., p. 212.
20 Cfr. G. Corna-Pellegrini, La terra degli uomini, cit., p. 129.
21 Cfr. E. Dardel, L’uomo e la Terra. Natura della realtà geografica, tr. it. di C. Copeta, Unicopli,
Milano 1996, pp. 62 sgg.
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considerata alla stregua di un «pellegrinaggio»22 , come un percorso temporaneo
che il cristiano deve compiere prima di fare ritorno a Dio. La vita terrena non è
qualcosa di definitivo, ma un passaggio, e gli uomini sono descritti come «forestieri e viandanti sulla terra»23 , in attesa di raggiungere la meta ultraterrena dopo
la morte, la dimora celeste. Per queste ragioni la vita, in quanto soggiorno temporaneo sulla terra, diveniva paragonabile a un cammino o, meglio ancora, a un
pellegrinaggio e, come ogni viaggio, lungo o breve che fosse, esigeva una meta cui
tendere, pena un eterno peregrinare senza scopo24 . L’esistenza umana, intesa come
pellegrinaggio, necessitava di una destinazione ultima cui anelare e il fine per il
quale intraprendere questo viaggio avventuroso era la dimora celeste del Paradiso.
La metafora della vita come cammino ebbe particolare successo soprattutto nel
Medioevo, quando l’usanza del pellegrinaggio divenne una delle forme più consuete di pratica cristiana con l’affermazione delle cosiddette peregrinationes majores25 , tra cui appunto il camino fino a Santiago, e una serie di mete minori disseminate in tutta Europa. La metafora era speculare: se la vita era un cammino, il
pellegrinaggio poteva essere a sua volta inteso quale traslato dell’esistenza umana.
La pratica del pellegrinaggio, con le fatiche quotidiane annesse, diveniva esemplificazione concreta della vita sulla terra con le varie prove da sostenere, in attesa
di fare ritorno a Dio, e, tra tutti i percorsi, quello a Santiago lo fu per eccellenza,
tanto che coloro che vi si recavano erano chiamati peregrini per antonomasia. Così
poteva, infatti, asserire Dante nel Duecento:
[. . . ] peregrini si possono intender in due modi, in uno largo e in uno stretto:
in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria; in modo
stretto non s’intende peregrino se non chi va verso la casa di sa’ Iacopo o
riede. E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti
che vanno al servigio de l’Altissimo: chiamansi palmieri in quanto vanno
oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto
vanno a la casa di Galizia, però che la sepoltura di sa’ Iacopo fue più lontana
de la sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno
a Roma [. . . ].26
Perché il pellegrinaggio verso la Galizia crebbe così tanto d’importanza da
essere ritenuto il pellegrinaggio medioevale per eccellenza? Perché i devoti di
San Giacomo, e non quelli diretti a Roma o a Gerusalemme, erano definiti più
propriamente pellegrini? L’attrattiva e il fascino esercitati dalla città di Santiago
nel Medioevo traevano in buona parte alimento dalla lontananza del sito e dalla
sua posizione geografica: poiché la tomba dell’apostolo Giacomo non si collocava
22
I Pietro 1, 17.
Ibid., 2, 11.
24 Cfr. E.J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, tr. it. di E.J. Manucci,
Il Mulino, Bologna 1992, pp. 3 sgg.
25 Erano tre le grandi mete di pellegrinaggio cristiano durante il Medioevo: Roma, dove si venerava la tomba di San Pietro, Gerusalemme, in cui si visitavano i luoghi della vita e della morte di Gesù,
e Santiago de Compostela, dov’era custodito il sepolcro di San Giacomo il Maggiore.
26 D. Alighieri, Vita nova, XL, 7.
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in un luogo qualsiasi dell’Europa cristiana medioevale, ma alla “fine del mondo”,
il viaggio a Occidente era anche il viaggio verso l’estremo lembo di terra allora
conosciuto, verso il finis terrae27 , oltre il quale si apriva una distesa sconfinata
d’acqua che fissava il limite umano nella conoscenza del mondo.
Anticamente e per tutto il Medioevo si continuò, infatti, a pensare che il mondo finisse, a Ovest, con l’Europa che si affacciava sull’Oceano Atlantico e che
oltre iniziasse il regno dei morti28 : l’Oceano si popolava, così, nell’immaginario
medioevale, di figure misteriose e diveniva «l’altrove fantastico per eccellenza»29 .
Dunque, il viaggio verso Santiago si concludeva alla “fine del mondo”, proprio
come la vita termina con la morte. Se metaforicamente la strada rappresentava la
vita con le sue innumerevoli prove, l’arrivo simboleggiava il passaggio estremo,
la morte, poiché favoriva l’incontro con il divino, un contatto fugace con l’Aldilà,
come se, toccando materialmente il sepolcro dell’apostolo Giacomo, i pellegrini
potessero sfiorare per un attimo il mondo incorporeo della divinità. Non a caso
l’ingresso alla cattedrale di Santiago era sormontato da una grandiosa costruzione,
denominata Portico della Gloria, a indicare al pellegrino che era ormai giunto al
traguardo a lungo agognato, richiamando alla sua mente la gloria ben più grande
di cui avrebbe goduto alla fine della vita terrena.
Le grandi mete di pellegrinaggio cristiano offrivano ai fedeli la speranza di un
Aldilà, di una dimensione sovrannaturale da cui l’uomo si sentiva continuamente
sovrastato e della quale, al termine della sua esperienza terrena, sarebbe divenuto
finalmente partecipe. A maggior ragione in Galizia, dove si collocava la “fine della
terra”, che, nel meraviglioso medioevale30 , era considerata luogo privilegiato di
contatto con il mondo ultraterreno, come se le due dimensioni, terrena e celeste,
fossero sì realtà distinte ma contigue tra loro31 . Del resto, la geografia medioevale
offriva una conoscenza ancora parziale della terra e, quanto più ci si allontanava
dal centro, corrispondente grossomodo all’Europa continentale, tanto più le conoscenze di ciò che stava ai margini del noto si facevano nebulose. Procedendo dal
centro alla periferia «l’informazione lasciava spesso il posto alla fantasia» e ciò
che stava oltre i confini del conosciuto era oggetto di curiosità e di timore nello
stesso momento32 .
Ecco che allora, dalle lontane terre di Galizia, giungeva eco di fatti prodigiosi, di cui mercanti e pellegrini riportavano i racconti, poiché i grandi miracoli non
27 Il finis terrae, il punto più occidentale del continente europeo, era ritenuto l’attuale Cabo Fisterra, in Galizia. In realtà, oggi è stato dimostrato che questo primato spetta a Cabo de Roca, in
Portogallo.
28 Ne è un chiaro esempio il Purgatorio dantesco: Dante immagina che la montagna del Purgatorio
si collochi proprio tra i flutti dell’Oceano Atlantico, in un luogo sconosciuto agli uomini, oltre le
colonne d’Ercole.
29 J. Caucci, “Il mito di Finisterrae nella letteratura odeporica”, Compostella. Rivista del Centro
Italiano Studi Compostellani, n. 28, 2001-2002, p. 3.
30 Su questi temi, cfr. J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medioevale, tr. it.
di F. Maiello, Laterza, Roma 1993, pp. 3-23.
31 Cfr. J. Caucci, art. cit., p. 3.
32 Cfr. G. Corna-Pellegrini, Esplorando polis, cit., pp. 31-32.
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avvenivano gli occhi di tutti, ma ai confini del mondo conosciuto33 , verso la “fine
della terra”. Il pellegrinaggio a Santiago diveniva così una vera e propria avventura,
non tanto per i pericoli e le difficoltà del percorso e non solo per il fascino esercitato da terre straniere lontane, ma anche perché sul camino potevano apparire segnali
divini miracolosi che lasciavano presagire l’esistenza di un mondo ultraterreno che
all’uomo in vita non era ancora dato conoscere nella sua pienezza, ma solo pregustare fugacemente. Queste manifestazioni divine davano ai fedeli la speranza che
il percorso di un uomo non si esaurisse con la morte del corpo e che l’esistenza
terrena fosse solo una fase transitoria.
Se il soggiorno sulla terra non era qualcosa di definitivo per l’uomo, la vita assumeva allora tutt’altro significato: era una prova, una condizione provvisoria, un
periodo di preparazione all’altra vita, quella vera, celeste. Come ricordare, però, ai
fedeli che al di là della contingenza si nascondevano altri significati più profondi?
Come richiamare alle loro menti che il pellegrinaggio a Santiago non era un’esperienza fine a se stessa, ma immagine del vero pellegrinaggio, quello dell’uomo
sulla terra? Fu così che i territori attraversati dal camino furono letteralmente disseminati di segni religiosi che servivano a sacralizzare lo spazio fisico34 e ricordare
costantemente al pellegrino il vero scopo del viaggio, la meta. Questa funzione di
richiamo e di demarcazione cristiana del territorio fu assegnata non solo alle numerose chiese e cappelle diffuse lungo il camino ma anche e soprattutto ai moltissimi
esempi di croci viarie, o cruceros, lasciate nei secoli ai bordi della strada. Tali
croci avevano, infatti, una duplice funzione segnaletica: a livello puramente materiale indicavano ai viaggiatori la giusta direzione per raggiungere Santiago, la meta
terrena, mentre sul piano simbolico ricordavano al pellegrino cristiano il termine
ultimo della sua esistenza e il modo per conseguirlo attraverso la fede.
Le croci di via, dunque, ben al di là della loro funzione pratica, avevano soprattutto «lo scopo di creare un percorso dell’anima, svolgentesi parallelamente a
quello fisico che conduceva alla meta»35 . Queste croci, mentre avevano il compito
di indicazioni stradali, segnalando al pellegrino la giusta direzione, assumevano,
d’altro canto, un valore simbolico più profondo, di sostegno e conforto a chi era
in viaggio e di incoraggiamento a proseguire il cammino anche nei momenti più
faticosi o di incertezza, lungo la via proprio come nella vita. Per questo esse venivano collocate spesso nei punti più difficoltosi del percorso, come incroci, passi di
montagna, ponti e guadi, con chiara funzione apotropaica36 : le croci viarie servivano, cioè, a confortare i pellegrini, proteggendoli durante i momenti del viaggio
di maggiore pericolo sia in senso materiale sia spirituale, allontanando le forze del
male e invitando i fedeli a non abbandonare la via. Questi elementi significativi
hanno così connotato, una volta per tutte, lo spazio adiacente al Cammino in modo
inequivocabilmente cristiano.
La religione, pertanto, non ha agito solo come filtro interpretativo, ma è stata a
33
Cfr. J. Caucci, art. cit., pp. 3-4.
Cfr. R. Stopani, art. cit., pp. 331 sgg.
35 Ibid., p. 331.
36 Cfr. ibid., p. 332.
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tutti gli effetti «un fattore di trasformazione del paesaggio geografico»37 . Sì, perché le forme di devozione, come ogni altro aspetto della cultura, intrattengono da
sempre un rapporto stretto con il territorio38 , avendo l’esigenza di unire alla sfera
incorporea e spirituale della fede un lato pratico, forme materiali, concretamente
visibili ed esperibili, che rendano in qualche modo palpabile la religione per i suoi
fedeli. L’attività umana ha lasciato da sempre segni più o meno manifesti della
presenza dell’uomo sulla terra e ogni segno esprime una funzione precisa39 . Così anche i segni religiosi: la religione cristiana, nelle sue svariate manifestazioni,
stabili o itineranti, ha lasciato indubbiamente segni evidenti nel paesaggio, con cui
ha inciso l’ambiente ordinario, lo ha plasmato, nel tentativo dell’uomo di rendere
tangibile almeno in parte ciò che è trascendente40 .
Lungo il camino nessun viaggiatore poteva escludere dal proprio orizzonte visivo le croci viarie o i campanili svettanti delle chiese, che fungevano al tempo stesso
da indicatori e richiami alla sfera più sublime della preghiera, parte integrante del
viaggio stesso. Questi segni appartengono ormai in modo inequivocabile a quel
paesaggio e un godimento estetico di esso non può tuttora prescindere dalla loro
presenza. Essi sono elementi chiave che caratterizzano i territori attraversati dal
camino e che li distinguono. Molti poeti galleghi hanno colto ed espresso nei loro
componimenti la magia intrinseca di quei luoghi proprio a partire dalla presenza
di questi segni religiosi. Il linguaggio poetico è in grado, infatti, di esprimere il
senso di un luogo più di mille descrizioni scientifiche appropriate, attraverso quel
richiamo a sensazioni più profonde (e personalissime) che solo la poesia e l’arte in
genere possono in qualche modo evocare41 .
Quella del camino e del paesaggio a esso circostante fu, dunque, una costruzione non solo materiale, ma anche, e soprattutto, mentale42 . Ecco perché nel
caso specifico del Cammino di Santiago possiamo parlare non solo di paesaggio
geografico, quanto piuttosto di paesaggio culturale, ossia un paesaggio in cui non
prevalgano le componenti fisiche del rapporto uomo-ambiente, ma «i segni culturali che il paesaggio esprime»: il paesaggio culturale tende cioè a mettere in risalto
non tanto i condizionamenti fisici dell’ambiente nei confronti dell’uomo, quanto
«le impronte storico-culturali» della presenza di quest’ultimo43 .
I paesaggi disegnati dall’uomo sulla terra non si possono, infatti, ridurre al ri37
R. Almagià, “Prefazione”, in P. Deffontaines, Geografia e Religioni, tr. it. di V. Rocco Marpurgo
e F. Frapisselli, Sansoni, Firenze 1957, p. XI.
38 Cfr. P. Deffontaines, op. cit., pp. 5-7.
39 Cfr. E. Turri, “La lettura del paesaggio”, in M.C. Zerbi (a cura di), Il paesaggio tra ricerca e
progetto, cit., pp. 35-60.
40 Cfr. R. Stopani, art. cit., p. 331.
41 Cfr. F. Lando “Premessa”, in F. Lando (a cura di) Fatto e finzione. Geografia e letteratura,
Etaslibri, s.l. 1993, pp. 4-8.
42 Cfr. A. Sorya y Puig, El Camino de Santiago.
Vías, Estaciones y Señales, M.O.P.T.,
Madrid 1993, p. 122.
43 Cfr. G. Andreotti, “La geografia culturale e il tema del paesaggio”, in M.C. Zerbi (a cura di),
Il paesaggio tra ricerca e progetto, cit., pp. 77-81.
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sultato di un mero adattamento del genere umano all’ambiente naturale44 , che resta
comunque un’esigenza reale, poiché la natura è talvolta nemica e si mostra come
«una forma smisurata di donna [. . . ] di volto mezzo tra bello e terribile»45 ; i paesaggi sono anche il frutto di un pensiero, di una specifica visione del mondo, sono
il punto d’incontro tra l’oggettività della natura e la soggettività dell’uomo che vede il cosmo intorno a sé e lo interpreta46 . Così, da un lato, re, signori, vescovi e
fedeli costruirono il camino per raggiungere più agevolmente la tomba dell’apostolo Giacomo e consentire il superamento degli innumerevoli ostacoli naturali che
si frapponevano tra i pellegrini e la loro meta, e, dall’altro, interpretarono e modellarono il paesaggio a esso adiacente per attribuirgli una specifica connotazione
cristiana.
La “lettura” del paesaggio, però, non faceva riferimento soltanto a un comune
sostrato cristiano, ma attingeva agli innumerevoli “filtri” che gli individui avevano
con sé, per via delle differenti formazioni culturali legate alle più svariate provenienze dei pellegrini in Europa. Attraversando per giorni e per mesi la Spagna
settentrionale, i pellegrini non agivano solo come fedeli in cammino verso Santiago, ma anche come insostituibili mediatori culturali47 , osservando il paesaggio, i
luoghi e le loro genti con acume e curiosità e spesso registrando un’enorme quantità di informazioni preziose che riportavano con sé al loro ritorno, così da intessere
«tra città e città, tra paese e paese un fittissimo ordito di informazioni»48 .
Il fascino dell’esperienza di andare al finis terrae, anche al di là delle credenze
religiose, faceva presa sul desiderio recondito dell’uomo di scoprire e di conoscere
il mondo e stimolava la curiosità e la voglia di raggiungere terre lontane. Per questo
i pellegrini erano anche attenti osservatori e, del pellegrinaggio a Santiago, riuscivano a cogliere non solo la magia di un’avventura spirituale intensa, ma anche la
bellezza di un’avventura materiale di viaggio49 , che offriva a uno sguardo accorto un godimento estetico appagante del mondo e delle sue meraviglie, fossero gli
incanti della natura o l’opera dell’arte e dell’ingegno umani. Da questa attenzione
ai luoghi, da questa apertura verso tutto ciò che il pellegrinaggio offriva ai sensi e
all’anima nacquero innumerevoli racconti di viaggio, che avevano il duplice effetto
di trasmettere informazioni da un capo all’altro del continente e di stimolare a loro
volta nuove partenze.
È avvenuto così che la città di Santiago ha continuato ad attrarre lungo i secoli
innumerevoli visitatori, quale meta di pellegrinaggio tra le più importanti al mondo, tanto che neppure in epoca moderna questa tradizione si è spenta, anzi oggi è
44
Cfr. P. Deffontaines, op. cit., p. 3.
G. Leopardi, “Dialogo della Natura e di un Islandese”, in Tutte le poesie e tutte le prose di
Leopardi, 2 voll., a cura di L. Felici e E. Trevi, Newton Compton, Roma 1997, vol. I, pp. 533-536.
46 Cfr. D. Cosgrove, op. cit., pp. 33-34.
47 P. Caucci von Saucken, “Vita e senso religioso del pellegrino di Santiago”, in Id. (a cura di),
Santiago. L’Europa del pellegrinaggio, Jaca Book, Milano 1993, pp. 91-113.
48 Ibid., p. 108.
49 Cfr. J.M. Rubio Recio, “Los paisajes naturales del camino”, in L. De Torres, M.P. Alberti Pérez
e A. Lois Gonzáles (a cura di), Los Caminos de Santiago y el territorio. Congreso Internacional de
Geografía, Xunta de Galicia, Santiago de Compostela 1993, p. 59.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
rifiorita con nuovo vigore. Molti sono ancora i pellegrini che intraprendono il Cammino verso la città dell’Apostolo e che recano testimonianza della loro esperienza
di viaggio attraverso la stesura di diari o racconti. In essi appare con evidenza non
solo la profondità e la forza spirituale dell’esperienza di pellegrinaggio ma anche la
capacità di molti viaggiatori di cogliere ancora le bellezze del paesaggio attraverso
una costante contemplazione di esso.
L’oggetto della contemplazione può essere talvolta uno scenario naturale, come il panorama inondato dalla luce del tramonto quando dai Montes de León ci
si volta a guardare la pianura di Astorga: da qui «è frequente assistere a tramonti
spettacolari quando nel cielo si allungano raggi di un colore rosso cupo o porpora
contro uno sfondo di azzurri e verdi tenerissimi, subito spenti dal sopraggiungere della fitta oscurità delle notti»50 . Altre volte si tratta, invece, delle meraviglie
architettoniche di un cattedrale gotica, come quella di León, che, agli occhi dell’osservatore, «possiede un’impareggiabile grazia nel modo in cui la pietra incornicia
appena l’ampio svolgimento delle vetrate dai colori accesi»51 attraverso cui filtrano
i raggi del sole mattutino.
La contemplazione del paesaggio e delle sue meraviglie può così risolversi su
piani differenti: può trattarsi del puro godimento estetico di una bellezza naturale
o architettonica, può essere l’ammirazione e l’apprezzamento per il valore di un’opera d’arte, può divenire infine, per i fedeli, la contemplazione di un creato ancora
in grado di stupire e di emozionare, che rimanda, attraverso la propria bellezza,
alla perfezione del suo creatore. La contemplazione diviene, in quest’ultimo caso,
quasi un’estasi che offre al pellegrino spunti di preghiera e di lode a Dio.
50
B. & M. Tate, La via del pellegrinaggio a Santiago de Compostela, tr. it. di B. Besi Ellena,
Garzanti, Milano 1987, p. 121.
51 Ibid., p. 118.
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