International RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVI NUOVA SERIE - N. 83 –MAGGIO-AGOSTO 2014 1 This Review is submitted to international peer review ISSN:1121-6530 Segni e comprensione International Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma, diretto da Angela Ales Bello. General Editor/Direttore responsabile Giovanni Invitto ([email protected]) Steering Comittee/Comitato direttivo Giovanni Invitto, Università del Salento (Editor/Direttore responsabile), Angela Ales Bello, Università Lateranense; Angelo Bruno, Università del Salento; Daniela De Leo, Università del Salento; Antonio Delogu, Università di Sassari; Aniello Montano, Università di Salerno; Paola Ricci Sindoni, Università di Messina. Editorial board/Comitato editoriale Jean-Robert Armogathe, École Normale Supérieure de Paris (F); Renaud Barbaras, Paris I – Sorbonne (F); Francesca Brezzi, Università di Roma 3 (I); ϯBruno Callieri, Università di Roma 1 (I); Mauro Carbone, Université Jean Moulin Lyon 3 (F); Giovanni Cera, Università di Bari (I); Claudio Ciancio, Università del Piemonte Orientale (I);ϯFrançoise Collin, fondatrice di «Les Cahiers du Grif» (F); Umberto Curi, Università di Padova (I); Roger Dadoun, Université de Paris VII-Jussieu (F); Franco Ferrarotti, Università di Roma 1 (I); Renate Holub, University of California – Berkeley (Usa); Roberto Maragliano, Università Roma Tre (I); William McBride, Purdue University, West Lafayette, Indiana (Usa); Augusto Ponzio, Università di Bari (I); Pierre Taminiaux, Georgetown 2 University (Usa); Christiane Veauvy, Cnrs (F); Sergio Vuskovic Royo, Universidad de Valparaiso (RCH); Chiara Zamboni, Università di Verona (I) Team/staff di redazione Siegrid Agostini; Daniela De Leo (responsabile); Lucia De Pascalis; Maria Teresa Giampaolo; Alessandra Peluso; Rosetta Spedicato. Sede Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Università del Salento – Via M. Stampacchia – 73100 Lecce – tel.0832.294627; fax 0832.294626. E-mail: [email protected]. Periodico iscritto al n. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce. 3 Questa rivista è sui siti: http: //www.segniecomprensione.it; ha dei rimandi al Dipartimento di Studi Umanistici e al Siba con i link: dipfil.unile.it e siba-ese.unisalento.it I numeri fino al 68 sono consultabili anche al seguente sito http://www.mannieditori.it/rivista/segni-e-comprensione. NOTE PER GLI AUTORI I contributi scientifici devono riportare, prima del testo, il titolo, Autore e il relativo istituto di appartenenza, indirizzo per la corrispondenza e un abstract (di max 900 battute, scritto in italiano/inglese/francese) con parole-chiave (fino a 5) ed essere redatto secondo le norme redazionali riportate sul sito. Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle di 30.000 battute, spazi inclusi e comprese le note bibliografiche. Per le “Note” non si dovranno superare le 10.000 battute, spazi e note inclusi, con le medesime caratteristiche dei Saggi. I testi vanno inviati alla Direzione, indirizzati alla seguente e-mail: segniecomprensione@ libero.it. I testi, in forma anonima, verranno esaminati da due referees, esterni al Comitato Direttivo, e competenti nelle diverse tematiche trattate dai contributi. Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per valutare la correttezza e l’utilità, segnalando la necessità di modifiche o integrazioni per migliorarne le caratteristiche o evidenziando gli aspetti che, se non correttamente modificati, ne potrebbero impedire la pubblicazione. 4 INDICE Saggi 6 Moira De Iaco IL COLORE COME NARRAZIONE ESISTENZE IN COLORI 21 Cristina Manzo LA RICERCA DELLA FELICITA/VIRTU DEGLI ANTICHI E LA PRATICA FILOSOFICA NEGLI EPISTOLARI DI EPICURO, SENECA E DESCARTES Note 58 Elsa Martinelli ILLUSORIETÀ DELL’IDEALE WAGNERIANO IN NIETZSCHE 81 Andrea Mincigrucci LE PAROLE SONO RIVOLTELLE CARICHE PRATICA LETTERARIA, SITUAZIONE ED ENGAGEMENT IN JEAN-PAUL SARTRE Recensione 101 Antonio Stanca L’ALTRO DELLA VITA 5 ESISTENZE IN COLORI di Moira De Iaco Se ciascuno di noi chiudesse gli occhi o improvvisamente diventasse cieco il mondo continuerebbe a serbare i propri colori, proprietà insite negli oggetti che lo costituiscono. Per quanto tuttavia siano proprietà oggettive ed è perciò possibile accordarsi su di essi nella forma, potremmo dire, universale del linguaggio, nonostante le diversità linguistiche, mentre non è affatto possibile rivendicare una proprietà privata che sia legata alla natura di rappresentazione mentale, 1 interna, privata del colore , i colori sono comunque legati in quanto fenomeni, per giunta esemplari per la nostra riflessione e vedremo perché, alla singolarità dei vissuti di ciascuno. E ciò li rende particolari, molteplici, indefiniti, irriducibili. I colori sono molto più che proprietà fisiche del mondo. Mostrano la capacità di svelare i contenuti di una cultura, di un tempo, di un modo di vivere e di pensare, nonché quella di narrare frammenti della nostra esistenza. If we closed our eyes or suddenly became blind, the world would continue to preserve his own colours, properties in the objects that constitute it. The colours are objective properties and therefore it is possible to agree on them in the form of language, in a certain sense universal in despite of the different languages, but it is not possible to consider them private properties connected with a supposed mental, private, internal nature of the colour, however they are, as phenomena moreover exemplars for our reflection, related to the singularity of the experience of each. And this makes them particular, multiple, undefined, irreducible. The colours are much more than physical properties of the world. They are able to reveal the contents of a culture, a time, a way of living and thinking and to narrate fragments of our existence. SAGGI Abstract 6 Wenn jeder von uns die Augen schließen würde oder er plötzlich blind wäre, würde die Welt ihre Farben, Eigenschaften in den Objekte, bewahren. Die Farben sind objektive Eigenschaften und es ist daher möglich in der Form der Sprache, der trotz der sprachlichen Vielfalt in einem bestimmten Sinn universell ist, einverstanden und ist es stattdessen nicht möglich die Farbe als a Privateigentum für ihre vermutliche geistige und interne Natur betrachten, jedoch sind sie als Phänomene mit der Singularität unseres Erlebnis verbunden. Deshalb sind sie besonders, undefiniert und irreduzibel. Die Farben sind viel mehr als physikalische Eigenschaften der Welt. Sie können den Inhalt einer Kultur, einer Zeit, einer Art zu leben und zu denken, zeigen, und die Fragmente unserer Existenz erzählen. Si chacun d’entre nous fermait les yeux on tout d’un coup devanait aveugle, le monde continuerait à garder ses couleurs, propriétés entrinsèques des objects qui le constituent. Pur autant qu’elles soient des propriétés objectives et c’est donc possible de s’accorder autour d’elles pour ce qui concerne la forme, on peut dire, universelle du langage, nonobstant les différences langagières (alors que ce n’est pas du tout possible de revendiquer une propriété privée qui soit liée à la nature de représentation mentale, intérieure, privée de la couleur), les couleurs restant quand même liées en tant que phénomènes, en plus de phénomènes exemplaires pour notre réflexion et on verra dans quel sens, à la singularité des vécus de chacun. C’est ça qui les rende particulières, multiples, indéfinies, irréductibles. Les couleurs sont bien plus que propriétés physiques du monde. Elles montrent la capacité de dévoiler les contenus d’une culture, d’un temps, d’une façon de vivre et penser, ainsi que la capacité de narration de fragments de notre existence. 1. Empirico e grammaticale 7 Si rende necessario ai fini di questa ricerca distinguere diversi piani di riflessione. Un’importante distinzione in tal senso, per la quale seguiamo Wittgenstein, è quella tra un piano empirico, quello dell’esperienza che ci fornisce le singole percezioni vissute dei colori e sul quale si giocano importanti irriducibili differenze tra le diverse culture, legate a particolari immagini del mondo, e tra le singolarità di ciascuno di noi; e un piano grammaticale, quello dell’espressione linguistica dei colori, della loro grammatica, sul quale si gioca la comunanza che ci permette la comprensione reciproca e la condivisione anche di ciò che resta refrattario alla sintesi, per esempio, le singole percezioni dei vissuti dei colori che sono per ciascuno uniche e irripetibili. Il piano delle regole grammaticali, come dice Gargani, è quello in cui si costituisce e si disciplina, secondo dei paradigmi ideali e aprioristici, non nel senso di trascendentali, ma nel senso di già dati per l’animale sociale umano che si trova sin dal grembo materno immerso nel linguaggio, il linguaggio dei colori2, che ci accomuna, ci pone in relazione l’uno con l’altro senza tuttavia poterci ridurre l’uno all’altro. Il piano delle regole grammaticali costituisce il nostro a priori sociale: quello nel quale prende forma tanto il colore in sé quanto il colore per ciascuno, tanto l’universale quanto il particolare. Quest’ultimo però non sarà mai del tutto sussunto sotto la logica dell’universale: resterà sempre estraneo all’ordinario. Rientra infatti nella possibilità che ciascun parlante ha di decidere l’applicazione delle regole: non credere sempre, scrive a tal proposito Wittgenstein, «di ricavare le tue parole dalla lettura dei fatti; di raffigurare i fatti in parole, secondo certe regole! Perché l’applicazione della regola al caso particolare dovrai farla tu, senza alcuna guida»3. Infatti, ciò che distingue la proposizione empirica da quella grammaticale, ovvero l’esperienza dalla norma, è l’impiego4. E c’è anche il caso di proposizioni che oscillano tra logica ed empiria esprimendo ora una norma ora un’esperienza. Dobbiamo 8 perciò, ed è questo l’invito di Wittgenstein, guardare l’uso del linguaggio dei colori evitando di costruire teorie5, come ha fatto per esempio Goethe, in maniera del tutto insoddisfacente a giudizio di Wittgenstein. Il massimo che si può fare quando si parla di un colore è pensare, «sempre e soltanto, a un determinato modo del suo impiego»6. Sulla scia della distinzione tra empirico e grammaticale, Wittgenstein può dire che non importa «la quantità dei colori visti, ma la sintassi»7 e ciò vuol dire che se anche un uomo avesse visto per tutta la vita un unico colore, per mezzo di una lingua potrebbe comunque avere conoscenza anche di tutte le differenze cromatiche di cui la sintassi della lingua a lui nota gli permetterebbe di parlare. L’esempio che Wittgenstein adduce è quello dello spazio: Se qualcuno non esce mai dalla sua camera, sa tuttavia che lo spazio continua, che esiste cioè la possibilità di uscire dalla camera (avesse pure le pareti di diamante). Non è quindi un’esperienza; è insito alla sintassi dello spazio, a priori. Ora, ha senso domandare quanti colori occorra aver incontrato nella propria vita per conoscere il sistema dei colori? No! [...] Non importa la quantità dei colori visti, ma la sintassi (Così come non importa la “quantità di spazio”)8. Pensiamo a questo proposito alla possibilità che un cieco scriva o parli dei colori di contro a quanto sosteneva Goethe, il quale scrisse che «con il cieco non vi è modo di parlare di colore»9. Può capitare di leggere addirittura delle poesie scritte da una persona cieca dalla nascita attraversate costantemente da riferimenti ai colori e il primo inevitabile pensiero è quello di chiedersi come possa quel poeta parlare così tanto dei colori pur non avendoli mai visti. La memoria ci riporta qui a Diderot e agli esempi che egli descrive a tal proposito nella sua Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono: è come se la persona cieca 9 avesse formalmente introiettato il mondo per mezzo del linguaggio senza passare per l’assimilazione e astrazione di esso per mezzo della vista. Il tatto è il senso che il cieco sostituisce alla vista: ma il tatto, per quanto quello del cieco sia finemente perfezionato al punto che Diderot giunge a dire che «Saunderson vedeva con la pelle»10, non gli permette di vedere ciò che è distante, che sta dentro oppure oltre la forma. Se il vedente combina punti visibili e colorati, il non vedente combina punti palpabili: la vista per lui è una specie di tatto. Il sapere linguistico del cieco non trova scambio diretto con il sapere del mondo e questo lo vediamo dal fatto che «la vita del cieco è diversa dalla vita di chi vede»11. La sintassi del linguaggio dei colori permette alla persona cieca di conoscere i colori: è questo il motivo per cui, come racconta Diderot, Saunderson in qualità di professore di matematica a Cambridge riuscì «a dare lezioni di ottica, pronunciò discorsi sulla natura della luce e dei colori, spiegò la teoria della visione»12. Gli mancava l’esperienza diretta, ma poteva, grazie al linguaggio, prenderla in prestito dall’altro: il cieco, scrive Diderot, «prende le supposizioni come gli vengono offerte»13 e quando «dice “questo è bello”, non formula un giudizio, riporta semplicemente il giudizio di quelli che ci vedono»14. Diderot dice: «la bellezza per un cieco non è che una parola»15. E ciò, aggiungiamo noi, non vuol certo dire che il cieco non possa trarne dei significati: infatti, nella misura in cui è in grado di usare la parola bellezza ne conosce anche quello che chiamiamo significato. Vuol dire piuttosto che non è in grado di scambiarla con il mondo, di nutrirla del sapere del mondo attraverso uno scambio diretto con esso. Una persona cieca può parlare o scrivere dei colori perché conosce un sistema linguistico entro il quale questi sono disciplinati. Chiede Wittgenstein: «Sarebbe corretto il dire, che nei nostri concetti si rispecchia la nostra vita?». E risponde: «Stanno nel bel mezzo»16. È vero dunque che «la regolarità del 10 nostro linguaggio pervade tutta la nostra vita»17. I sistemi linguistici sono connessi con forme di vita e dunque con tradizioni, culture, giudizi, modi di vivere. Tant’è che i colori anche nelle poesie di una persona cieca possono trovare empatie figlie della cultura di un tempo e di un luogo, di una data pratica interpretativa. Possiamo sostenere che un non vedente, per quanto sembra che abbia il mondo tutto dentro di sé, meno ancora di un vedente può vivere il mondo solipsisticamente: egli mostra la necessità dell’altro, della parola che viene dall’altro. La persona cieca può interiorizzare il mondo solo in quanto qualcun altro gliene parla. La sintassi del linguaggio dei colori ci permette di verificare l’esistenza reale o immaginaria di un dato colore, di verificare la nostra esperienza: essa prevale, commenta Gargani, per una sorta di diritto di priorità logica, sulle stesse percezioni dei colori. In questo senso, una superficie bianca può apparire grigia in certi tratti per effetto della diversa distribuzione dell’intensità luminosa; ma noi non diciamo che è grigia, troveremmo addirittura assurdo dire ciò, anche se l’evidenza sensoriale potrebbe indurci a dirlo18. Dice Wittgenstein: «qui decidono i giochi linguistici»19. Se il significato dei colori è fissato nella grammatica dei colori, ovvero nel linguaggio, allora perde senso qualsiasi riferimento a esperienze private di essi. Senza che venga tuttavia mai annullata l’irriducibile singolarità del vissuto dei colori. I colori non sono coleotteri custoditi nelle nostre scatole craniche, ma trovano tuttavia importanti connessioni con i nostri particolari vissuti o con quelli di un particolare vivere comune. Connotano il vivere di ciascuno. Le nostre esistenze possono esprimersi in colori. 11 2. Comunicazione ed espressione In che senso si può dire che «l’azzurro è il colore della lontananza»20? Il cielo e il mare sono azzurri ed entrambi sono spazi infiniti. Kandinsky dice che «più il blu è profondo e più richiama l’idea di infinito, suscitando la nostalgia della purezza e del soprannaturale. È il colore del cielo»21. In che senso il colore può narrare un vissuto? Può addirittura narrare la morale: il giallo, per esempio, colore dal lato del Più insieme al giallo-rosso e al rosso-giallo, come indicato da Goethe, «si mostra estremamente sensibile, producendo un’impressione sgradevole, quando è sporco o quando è in qualche misura condotto verso il lato del Meno»22, quello dei colori azzurro, azzurro-rosso e rosso-azzurro. È sufficiente, scrive Goethe, «un leggero e impercettibile movimento per tramutare la bella impressione del fuoco e dell’oro nella sensazione del sudiciume, invertendo il colore della dignità e del diletto nel colore dell’infamia, della ripulsa e del disagio»23. I colori caldi, quelli dal lato del Più, avvicinano l’osservatore, mentre quelli freddi, quelli dal lato del Meno, lo allontanano. Come dice Kandinsky, i colori rispondono al principio di necessità interiore24. Toccano l’interiorità, laddove per interiorità, distaccandoci da Kandinsky, non intendiamo qui uno spazio metafisico, quanto piuttosto ciò che caratterizza l’essere singolare di ciascuno, ciò che non appartiene allo spazio di mondo oggettivo né trova immediato riconoscimento nello spazio linguistico condiviso. Anima e interiorità sono per noi metafore della singolarità: modi di esprimere l’esistenza unica e singolare di ciascuno. La seconda distinzione che si pone come necessaria, all’interno della quale lavoreremo per sviluppare il tema del vissuto del colore, è quella tra piano comunicativo e piano espressivo. Questa distinzione nasce in continuità con quella precedente. Sul piano comunicativo il colore può essere conosciuto, il che vuol dire parlato e capito anche da chi non 12 l’abbia mai visto e singolarmente vissuto in uno scambio diretto con il mondo. Su quello espressivo il colore può solo essere mostrato e può mostrare (intendiamo dire che mostra anche attraverso le parole) senza tuttavia poter mai essere compiutamente detto. Dice in tal senso Kandinsky che le tonalità cromatiche, come quelle musicali, danno emozioni più sottili di quelle dei sentimenti fisici, emozioni inesprimibili a parole. Forse, egli scrive, «ogni tono troverà col tempo un’espressione materiale, verbale. Eppure ci sarà sempre qualcosa che la parola non potrà rendere compiutamente, e che non è il superfluo, ma l’essenziale. Per questo le parole sono e restano accenni, segni abbastanza esteriori dei colori»25. Ciò ha a che fare con l’inesprimibile, che fa da sfondo al linguaggio segnandone i limiti, e con il fatto che il colore può essere considerato, come lo stesso Wittgenstein ci ha lasciato chiaramente intendere, un paradigma dell’indeterminatezza concettuale. In tal senso ha infatti scritto che «non esiste il concetto puro di colore»26: «i differenti concetti di colore sono certo strettamente affini l’uno all’altro, le differenti “parole di colore” hanno un uso affine; ma c’è ogni sorta di differenze»27. E ha aggiunto: «l’indeterminatezza del concetto del colore risiede, prima di tutto, nell’indeterminatezza del concetto di eguaglianza tra colori, e dunque nell’indeterminatezza del metodo del confronto tra colori»28. Se si possiede una lingua, si possiedono anche i colori disciplinati entro quel sistema. Tuttavia i colori non sono mai del tutto disciplinabili, sfuggono a qualsiasi determinazione ultima, e per questo esprimono anche al di là del detto: esprimono, e il che vuol dire che oltrepassano il detto, il piano comunicativo, quello con uno scopo. Esprimono emozioni, stati d’animo: li producono senza limitarsi ad adattarsi a essi29. I colori che indossiamo possono narrare il nostro carattere o l’umore odierno di qualcuno. Per fare un esempio tra i più immediati: se siamo tristi difficilmente riusciamo a indossare 13 colori vivaci. Goethe arriva addirittura a ipotizzare che i colori scelti per vestirsi possano narrare il grado culturale della persona che li indossa: «le persone colte mostrano una certa avversione al colore. Ciò può risultare in parte da un’incertezza del gusto che tende a mettersi al riparo del nulla. Le donne vestono quindi quasi sempre di bianco, gli uomini quasi sempre di nero»30. Vera o no questa ipotesi, resta il fatto che i colori stimolano la riflessione e ci inducono a interpretare, a narrare, a scrivere storie che possono essere reali o immaginarie. Indossare un colore può in tal senso significare, a volte in accordo con una sorta di schema concettuale, mostrare parte della propria anima, ovvero parte di sé. 3. Il colore come trama dell’esistenza I colori parlano con l’interiorità e dell’interiorità, con l’esistente e dell’esistente. Kandinsky scrive che «in generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima»31. L’esperienza, seppur spesso pregiudicata dalle immagini culturali, ci insegna, dice Goethe, che «ogni singolo colore dona un particolare stato d’animo»32. E ciò vuol dire anche che nessuna teoria concettuale potrà mai chiudere, definire, questi insegnamenti, nella misura in cui non potremo mai prevedere una volta per tutte quali saranno le possibilità narrative di un colore, ovvero come questo potrà connettersi con le nostre esistenze arrivando a coltivare e custodire l’anima dei vissuti. Una teoria come quella esposta da Goethe, come dice Wittgenstein, non può far altro che fornirci dei vaghi schemi concettuali33, ma non può dire a un’artista come ricercare quella spiritualità di cui parla Kandinsky. Nell’espressione «l’albero rosso», presa come esempio proprio da Kandinsky, il 14 colore rosso ci narra una temporalità, quella dell’autunno34. Ma in questa veste potrebbe anche risvegliare un ricordo della nostra infanzia legato al periodo dell’anno che sta esprimendo o una nostra particolare esperienza con le foglie rosse tipiche del periodo autunnale. Suonerebbe così le corde della nostra interiorità e narrerebbe qualcosa di unico, frutto di una particolare esperienza, non teorizzabile né prevedibile o ripetibile. Una stessa parola, in tal caso la parola rosso, attingendo alla tavolozza dell’immaginario comune, quella che ci viene donata da una lingua, può esprimere tanto ciò che è per sé quanto ciò che è per il sé di ciascuno. I colori esprimono una necessità interiore nella misura in cui nella loro infinita capacità espressiva sono forme che ben si adattano per accogliere la singolarità dei vissuti: forme elusive e allusive. S’imprimono nell’anima connettendosi alle nostre vite per poi risvegliare i vissuti che colorano nel momento in cui quei dati colori si rifanno incontro alla vista. Ciò che acquisiamo a livello comunicativo ci permette di esprimere. Ciò che esprimiamo, a sua volta, ci permette di incrementare tanto la comunicazione quanto l’essere del colore nel quale si iscrivono sempre nuove narrazioni e l’essere di ciascuno che a quello di un colore associa un proprio particolare vissuto. Per mezzo del comune si crea il particolare, che a sua volta, con la sua particolarità, accresce, ricrea e rinnova il comune senza esaurirsi mai in esso: serba sempre una sua irriducibilità. Il sapere linguistico del colore ci permette di acquisire il sapere dei colori del mondo, il quale a sua volta ci permette di arricchire quello linguistico attraverso le nostre particolari esperienze. I colori di un paesaggio della nostra infanzia narrano sì le proprietà di quel dato paesaggio, proprietà visibili a chiunque lo veda, ma narrano anche un vissuto singolare in quel paesaggio. Quei colori qualificano un dato vissuto, ne sono la trama. Possono per esempio narrare un ritorno impossibile, 15 una nostalgia incurabile. Un’infanzia rubata. O un’infanzia immensamente gioiosa. I colori attribuiscono spesso nuovi sensi: creano sensi. Avvicinano una lontananza. Rispondono a differenze di pathos. Ogni narrazione è, come scrive Invitto, «espressione di vissuti, quindi di esistenza»35 e il colore, con la sua spiccata capacità di suonare i tasti dell’interiorità, è da questo punto di vista un narratore esemplare. Dove non c’è differenziazione cromatica, dove c’è monocromia, omologazione cromatica, spesso inter-posta, imposta, non vi è qualità, vi è de-qualificazione. Il nero indiscriminato, il nero che è assenza, che segna la mancanza. Il fumo nero del camino di una fonderia. Quel fumo che copre una città più che mai moderna, che ne copre i colori, le qualità. Narra di un’aria insalubre, di un territorio inquinato, di uno stato di malattia umana, ambientale, animale. Narra la morte. La si chiama area da ri-qualificare, affinché tornino a splendere il verde dei prati e delle folte chiome degli alberi, l’azzurro del cielo infinito, il colore dei mille petali profumati, il calore della pietra dei palazzi. Affinché venga restituito l’anelito di vita: l’anima. Riqualificare può quindi significare restituire colore. Permettere ai colori della natura di ricominciare a narrare. A dimostrazione di quanto la narrazione di un’industria possa inscriversi in questo schema che vede i suoi grigi colori come espressione di inquinamento, vi è il caso di un’industria, visibile percorrendo l’autostrada che collega Roma con Napoli, che ha scelto di colorare i propri camini e le pareti dell’intera struttura con colori come fucsia, rosa, verde: le tonalità di colore scelte sono poco assimilabili a quelle visibili nella natura circostante, ma tuttavia avvicinabili a quelle dei giochi in un parco o delle pareti di un asilo, assimilabili insomma a quelle di uno spazio innocuo nel quale faresti giocare tuo figlio, uno spazio ludico, divertente. I colori di quest’industria ci dovrebbero perciò allontanare dall’idea che essa possa seminare morte. Per provare a significare diversamente, al di là del giudizio imperante e della 16 narrazione quotidiana che concerne tal sorta di spazi, un’industria non a caso sceglie di colorarsi e non a caso sceglie quei dati colori piuttosto che altri, i quali non richiamano tonalità naturali, bensì artificiali. In un’immagine in bianco e nero è difficile cogliere stati d’animo che non siano legati a un senso di privazione, di mancanza, di nostalgia. Un’immagine in bianco e nero può raccontare vissuti di cui si è persa l’anima per troppa lontananza o esistenze a cui è stata sottratta l’anima. Il bianco, il nero e il grigio, punto di equilibrio tra il bianco e il nero, sono colori del silenzio. Kandinsky scrive che «il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto» facendosi «quasi simbolo di un mondo in cui tutti i colori, come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi»36. Non è però un silenzio morto, bensì un silenzio iniziante dal grande potenziale espressivo: «un nulla prima dell’origine, prima della nascita». Il nero, invece, continua Kandinsky, è «un nulla senza possibilità»: risuona dentro di noi come un eterno silenzio senza futuro e senza speranza. «Dal punto di vista musicale si può paragonare a una pausa finale». Il nero è infatti come «il silenzio del corpo dopo la morte, dopo il congedo dalla vita»37. Il grigio non può che essere silenzioso e immobile: «è l’immobilità senza speranza. Più diventa scuro, più si accentua la sua desolazione e cresce il suo senso di soffocamento»38. Poniamoci ad esempio la domanda: quali colori avrebbe mai potuto scegliere un pittore dopo Auschwitz? L’olocausto ha, nell’immaginario comune, i grigi colori di una foto in bianco e nero. I colori del silenzio dei vinti. L’unico colore vitale che si potrebbe forse immaginare è quello del cappotto rosso della bambina del film Schindler’s List. Una macchia rossa da sottrarre al dolore di mille macchie grigie. Un rosso forte e deciso: trae la sua forza dal grigio sfondo di morte entro il quale prende posto. Diviene così, con tutto il suo vigore, simbolo di una grave sottrazione d’amore. Questo contrasto tra 17 il rosso e il grigio simboleggia la più atroce sottrazione delle qualità umane: una disumanizzazione. È simbolo di tante narrazioni private dei loro colori. Esistenze rese incolori. Narrazioni a cui è stato negato narrarsi. Gli orrori di una guerra, di un genocidio, di eventi così indicibili nella loro brutalità, possono forse narrarsi solo in un’irrazionale scomposta composizione in scala di grigi come in Guernica di Picasso: una sorta d’istantanea che seppur nata da un preciso evento storico, data la mancanza di riferimenti diretti a luoghi e date, è diventata manifesto universale contro la guerra e la violenza in generale. Bibliografia AA. VV., Figure e forme del narrare, a cura di A. Ponzio, Milella, Lecce 2013. DENIS DIDEROT, Lettre sur les aveugles, à l’usage de ceux qui voient, 1749 (Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono, trad. di M. B. Savorelli, La Nuova Italia, Firenze 1999). ALDO GARGANI, Introduzione in LUDWIG WITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino 2000. JOHANN W OLFGANG VON GOETHE, Zur Farbenlehre, 1810 (La teoria dei colori, trad. di G. C. Argan, Il Saggiatore, Milano 2008) GIOVANNI INVITTO, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione, Mimesis, Milano 2012. WASILIJ KANDINSKY, Über das Geistige in der Kunst. Insbesondere in der Malerei, 1912 (Lo spirituale nell’arte, trad. di E. Pontiggia, SE, Milano 2005) ANTONIO PRETE, Trattato della lontananza, Bollati Boringheri, Torino 2009. FRIEDRICH W AISMANN, Wittgenstein und der Wiener Kreis, aus dem Nachlass, herausgegeben von B. F. McGuinness, Basil Blackwell, Oxford 1967 (Ludwig Wittgenstein e il Circolo di 18 Vienna, trad. di di Sabina de Waal, La Nuova Italia, Firenze 1975. LUDWIG W ITTGENSTEIN, Bemerkungen über die Farben, Blackwell, Oxford 1977 (Osservazioni sui colori trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2000). LUDWIG W ITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953 (Ricerche filosofiche trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999). 1 Con questo non si vuole negare la legittimità e scientificità degli studi fisiologici sulla percezione del colore, quanto limitare piuttosto l’esclusiva concentrazione su questi, che darebbe una visione di certo parziale del fenomeno del colore trascuradone la dimensione esistenziale. 2 ALDO GARGANI, “Introduzione” in LUDWIG WITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, Einaudi, Torino 2000, p. XI. 3 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953 (Ricerche filosofiche trad. di Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1999), § 292, p. 132. 4 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Bemerkungen über die Farben, Blackwell, Oxford 1977 (Osservazioni sui colori, trad. di Mario Trinchero, Einaudi, Torino 2000), pp. 11, 33. 5 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, op. cit., § 340, p. 145. 6 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, op. cit., § 73, p. 20. 7 ALDO GARGANI, Introduzione in op. cit, p. XIII. 8 FRIEDRICH W AISMANN, Wittgenstein und der Wiener Kreis, aus dem Nachlass, herausgegeben von B. F. McGuinness, Basil Blackwell, Oxford 1967 (Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna trad. di a cura di Sabina de Waal, La Nuova Italia, Firenze 1975). 9 JOHANN W OLFGANG VON GOETHE, Zur Farbenlehre, 1810 (La teoria dei colori trad. di G. C. Argan, Il Saggiatore, Milano 2008), p. 15. 10 DENIS DIDEROT, Lettre sur les aveugles, à l’usage de ceux qui voient, 1749 (Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono trad. di M. B. Savorelli, La Nuova Italia, Firenze 1999), p. 49. 19 11 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, op. cit., p. 104. DENIS DIDEROT, Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono, op. cit., p. 41. 13 Ivi, p. 43. 14 Ivi, p. 7. 15 Ibidem. 16 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, op. cit., p. 100. 17 Ibidem. 18 ALDO GARGANI, Introduzione a op. cit., p. XVI. 19 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, op. cit., p. 4. 20 ANTONIO PRETE, Trattato della lontananza, Bollati Boringheri, Torino 2009, p. 91. 21 W ASILIJ KANDISKY , Über das Geistige in der Kunst. Insbesondere in der Malerei, 1912 (Lo spirituale nell’arte trad. di E. Pontiggia, SE, Milano 2005), p. 63. 22 JOHANN W OLFGANG VON GOETHE, La teoria dei colori, op. cit., p. 191. 23 Ibidem. 24 W ASILIJ KANDISKY, Lo spirituale nell’arte, op. cit., p. 46. 25 Ivi, p. 72. 26 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, op. cit., § 73, p. 46. 27 Ivi, § 75, p. 47. 28 Ivi, § 78, p. 47. 29 Cfr. JOHANN W OLFGANG VON GOETHE, La teoria dei colori, op. cit., p. 202. 30 Ivi, p. 203. 31 W ASILIJ KANDISKY, Lo spirituale nell’arte, op. cit., p. 46. 32 JOHANN W OLFGANG VON GOETHE, La teoria dei colori, op. cit., p. 190. 33 LUDWIG W ITTGENSTEIN, Osservazioni sui colori, op. cit., § 70, p. 19. 34 JOHANN W OLFGANG VON GOETHE, La teoria dei colori, op. cit., p. 80. 35 GIOVANNI INVITTO, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione, Mimesis, Milano 2012, p. 66. 36 W ASILIJ KANDISKY, Lo spirituale nell’arte, op. cit., p. 66. 37 Ivi, p. 67. 38 Ibidem. 12 20 LA RICERCA DELLA FELICITA/VIRTU DEGLI ANTICHI E LA PRATICA FILOSOFICA NEGLI EPISTOLARI DI EPICURO, SENECA E DESCARTES di Cristina Manzo Non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili. Epicuro Ricordati di spogliare gli avvenimenti dal tumulto che li accompagna e di considerarli nella loro essenza: capirai che in essi non c'è niente di terribile se non la nostra paura. Se la felicità consistesse nella sensualità, le bestie sarebbero più felici dell'uomo; l'umana felicità invece ha sede nell'anima, non nel corpo. Lucio Anneo Seneca La filosofia non è un tempio, ma un cantiere. René Descartes Abstract Con la pratica filosofica, oggi, la figura del counselor cerca, mediante il dialogo, di dare sollievo all’uomo che vive una crisi esistenziale, di risolvere l’enigma della vita, di arrivare a soluzioni sul perché delle cose, di riassegnare senso e significato a tutto quello che apparentemente sembra esserne privo. Esattamente come nella maieutica socratica, l’arte della retorica è utile per tirare fuori, tutto quello che grava sulla nostra anima e appesantisce il nostro essere con un macigno angosciante di 21 paure e destabilizzazioni, che offuscano la via della verità intrapresa, in questo viaggio che è la vita, e ci fanno credere di esserci smarriti in una “selva oscura.” Parlare o scrivere del senso della vita, dell’essere, dell’esistenza tangibile e intangibile di ostacoli e problemi, aiuta a individuare insieme una soluzione, che dispone di più punti di vista, e dà chiarezza. Ma, quello che oggi si opera con la pratica filosofica, veniva già realizzato dai filosofi antichi o moderni in vari modi, uno di questi era proprio il carteggio. Lunghe lettere scritte con l’intento di curare le ferite dell’anima, e apportare sollievo e conforto a dilemmi esistenziali, lettere sulla felicità, la virtù, la malattia, la metafisica. With the philosophical practice, today, the figure of the counselor tries, through dialogue, to give relief to the man who lives a life crisis, to solve the riddle of life, reaching solutions on the why of things, to reassign meaning and meaning to everything what appears to be without one. Exactly as in the Socratic midwifery, the art of rhetoric is useful to pull out, all that weighs on our souls, and makes our being with a ton of distressing fears and destabilization, which obscure the path of truth undertaken in this trip that is life, and make us believe I lost in a "dark forest." Talk or write about the meaning of life, being, existence of tangible and intangible obstacles and problems, it helps to find a solution together, that has multiple points of view, and it gives clarity. But what is now working with the practice of philosophy, was already built by the ancient philosophers and modern in many ways, one of those ways was just the chart. Long letters written with the intent to heal the wounds of the soul, and bring relief and comfort to the existential dilemmas, letters on happiness, virtue, disease, metaphysics. Avec la pratique philosophique, aujourd'hui, la figure du conseiller tente, par le dialogue, pour donner du relief à l'homme qui vit une crise de la vie, de résoudre l'énigme de la vie, de trouver des solutions sur le pourquoi des choses, de réaffecter des sens et sens à tout ce qui semble être sans. Exactement comme dans la pratique sage-femme socratique, l'art de la rhétorique est utile de se retirer, tout ce qui pèse sur nos âmes, et fait de notre être avec une tonne de craintes angoissantes et la déstabilisation, qui obscurcissent le chemin de la vérité entrepris dans ce voyage qui 22 c'est la vie, et nous faire croire que j'ai perdu dans une «forêt noire». Parler ou d'écrire sur le sens de la vie, l'être, l'existence d'obstacles et de problèmes matériels et immatériels, il est utile de trouver une solution ensemble, qui dispose de plusieurs points de vue, et il donne la clarté . Mais ce qui est maintenant de travailler avec la pratique de la philosophie, a déjà été construit par les philosophes antiques et modernes, à bien des égards, l'un d'entre eux vient de la carte. Longues lettres écrites avec l'intention de guérir les blessures de l'âme, et apporter un soulagement et réconfort aux dilemmes existentiels, des lettres sur le bonheur, la vertu, la maladie, la métaphysique. Premessa Il linguaggio filosofico ha portato una ventata di aria nuova nel campo della ricerca e della cura della sofferenza esistenziale, educando il soggetto a una differente modalità di ascolto e di interpretazione dei disagi psiche-anima, e la figura del counselor filosofico, riacquista così, quelle competenze che già erano proprie sin dall’antichità, dai tempi della maieutica socratica, quando, proprio alla parola, era affidato il compito di dare sollievo e di guarire dai continui patimenti, ragionando e meditando sul senso dell’esistenza, ovvero filosofando su qualsiasi aspetto della vita. Originariamente la filosofia pratica si configura come un dialogo filosofico che viene avviato dalla narrazione del soggetto sulle sue difficoltà e, non certo, come una professione di aiuto; essa non ha la capacità di proporre soluzioni, tuttavia si propone come modo alternativo di pensare il mondo, secondo una linea che ricorda la funzione dell'antico dialogo socratico. Si è discusso a lungo, negli anni, sul fatto che la consulenza filosofica possa considerarsi o meno una forma di quella filosofia pratica che pretendeva di soddisfare il bisogno e che il pensiero 23 potesse rendere l'agire umano razionale, sia nel campo della morale che in quello della politica. Ci sono autori che ritengono, che la consulenza filosofica come pratica filosofica, in una accezione dilatata rispetto alle sue origini, sia l'erede della filosofia pratica1. La terapia noetica, porta a chiedersi se le emozioni non possano essere influenzate dalle cosiddette cure dialogiche (talking cures), che sono il cuore della psicoterapia, ed, oggi, anche della consulenza filosofica. È luogo comune pensare che le emozioni, che ognuno di noi prova, sono basate sulle nostre credenze, sulla gente o sulle cose, e quindi che esse siano sotto il nostro controllo conscio. Questo pensiero non è affatto nuovo. Nella Repubblica, Platone suggeriva che, per avere emozioni come la paura o il lutto, si devono prima avere credenze di un certo tipo, credere che possa avvenire qualcosa di terribile e inevitabile2. Nel suo manuale, Epitteto dice di credere che “gli uomini sono agitati e turbati, non dalle cose, ma dalle opinioni ch’essi hanno delle cose”3. Sia nell’Etica Nicomachea che nella Retorica, Aristotele afferma che le emozioni non sono sempre corrette, non più di quanto lo siano sempre le credenze e le azioni. Egli sostiene che se devono essere in armonia con una visione della vita buona, esse possono e devono essere educate4. Anche Epicuro propone l’idea che solo con l’arte dell’argomentazione e del ragionamento le false credenze, causa di preoccupanti passioni e “malattie dell’anima,” possano essere scacciate5. Tommaso D’Aquino6 e Thomas Hobbes7 concordano con Aristotele sul fatto che la ragione umana possa controllare le emozioni. Questi antichi filosofi posseggono una concezione delle emozioni simile a quella di molti praticanti filosofici moderni, e in forte contrasto con le influenti teorie della psicanalisi classica, che bandisce le emozioni nel selvaggio “id” dell’ inconscio. Idealmente, il dialogo in consulenza filosofica vuol essere “autentico, aperto e non conflittuale”7. Nella consulenza filosofica, è il 24 tentativo empatico di interpretare e comprendere il “testo” del cliente come questi l’ha vissuto e lo vive. L’uso della parola “testo,” per denotare quello che il cliente può rivelare al consulente della sua vita, nel corso di un dialogo, segue l’allargamento della concezione di questo termine (opera di Ricoeur) a includere ogni azione o situazione umana8. Aristotele fu il primo filosofo a definire la filosofia pratica: È giusto anche chiamare la filosofia (philosophian) scienza della verità, poiché di quella teoretica è fine la verità, mentre di quella pratica è fine l'opera (ergon); se anche infatti i (filosofi) pratici indagano come stanno le cose, essi non considerano la causa per sé, ma in relazione a qualcosa ed ora.9 Di sicuro il tema della cura di sé appare con chiarezza fin dal V secolo a.C. Nel periodo ellenistico e in quello imperiale, divenne tema filosofico comune o universale, il concetto socratico del «prendersi cura di sé». Sulla «cura di sé» fu d’accordo Epicuro e furono d’accordo i cinici, gli stoici come Seneca, e anche Galeno. La tradizione filosofica, a partire da Platone, ha associato il principio dell'esortazione «conosci te stesso» (Γνῶθι σεαυτόν, gnôthi seautón), scritta sul tempio di Delfi, a Socrate, ma, ad essa, sarebbe giusto accompagnare anche il principio “curati di te stesso” (epimelei heautou). In alcuni testi, addirittura, gnōti seauton appare subordinato a epimelei heautou, concetto che, secondo il punto di vista di Fuocault, tornerà ad essere modificato nel periodo cartesiano. Nella stessa Apologia di Socrate compaiono tre brani in cui Socrate sollecita gli altri a occuparsi di se stessi. La cura di sé non costituiva una raccomandazione astratta, ma una attività ampiamente diffusa, una rete di obblighi e servigi resi alla propria anima10. 25 Ma la cosiddetta anima ha ancora la capacità di conoscere se stessa e il proprio soggetto?11 Il conoscere se stessi può sembrare in opposizione al conoscere il mondo, ma le due conoscenze possono considerarsi due facce di una sola medaglia: la filosofia è slancio dell'uomo verso il conoscere e una conoscenza viva e attuale non può prescindere dalla mente che conosce e dai suoi condizionamenti12. L'anima, che conosce le relazioni logico-matematiche, non è uno strumento privato (òrganon ìdion)13, ma qualcosa che è, in quanto ente conoscente, intrinsecamente pubblico e interpersonale, perfino quando ha a che fare col pensiero di un pensatore solitario: «come un ignorante io cerco di spiegarti la cosa; ma insomma l'anima, quando pensa, io non la vedo sotto altro aspetto che di persona la quale conversi (dialégesthai) con se medesima, interrogando e rispondendo, affermando e negando»14. Quindi, ai suoi inizi, la filosofia aveva assunto i caratteri della conduzione del "modo di vita", per esempio applicando i principi dedotti attraverso la riflessione, o la meditazione, secondo la concezione cartesiana che, in età contemporanea, verrà definita, dal pensiero di Pierre Hadot, “esercizio spirituale”. «Io penso, in effetti, che quando Cartesio sceglie di intitolare una delle sue opere Meditazioni, sa molto bene che quella parola nella tradizione della spiritualità antica e cristiana sta ad indicare un esercizio dell’anima. Ogni “meditazione” è effettivamente un esercizio spirituale, vale a dire precisamente un lavoro di se stessi su se stessi, che bisogna avere portato a termine per passare alla tappa successiva».15 In effetti Hadot è convinto che «Agostino, nella misura in cui nei suoi dialoghi di gioventù scritti a Cassiciacum si trovano reminescenze degli esercizi spirituali della filosofia antica, ha probabilmente influenzato Cartesio, che, soprattutto nelle Meditazioni […] pratica e fa praticare al suo lettore la meditazione filosofica»16. 26 Tornando alla filosofia come modus vivendi, tale esigenza di concretezza era poi andata dileguandosi, sino a quando, con l'avvento dei sofisti, la filosofia pretese di divenire l'insegnamento di un sapere tecnico indirizzato alla pratica. Se Socrate con il suo dialogare tendeva a dimostrava come fosse impossibile per la filosofia arrivare a risposte definitive che servissero a risolvere questioni pratiche e che essa si risolveva nel praticare quel confronto dialogico, quella "scienza del bene e del male", il dialeghestai, definito come to meghiston agathòn, il sommo bene,17 più avanti l'epicureismo presentava il filosofo come "medico dell'anima", con il compito di curarla dalle paure degli dei, della morte, del dolore, restituendo così all'uomo la pace interiore.18 Perché il filosofo possa diventare il “medico dell’anima” però, è necessario che egli stesso faccia della sua vita una continua ricerca volta alla conoscenza del bene, affinché possa servire a individuare qual è la giusta via da seguire, prima per se stesso e poi per gli altri. Solo dalla conoscenza perfetta può scaturire, infatti, la giusta scelta dell’uomo, nell’atto pratico della vita. Quindi, la filosofia è «l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo»19. Pierre Hadot con i suoi studi, ha dimostrato che “il modo migliore di intendere la filosofia antica, in generale, è quello di considerarla come un esercizio spirituale e come una medicina dell'anima”20. Possiamo parlare di Hadot come dello studioso che più di tutti si è battuto per restituire un’immagine adeguata dello spirito della filosofia antica. Ricercatore e, poi direttore, dell’ École pratique des hautes études, fu amico di Michel Foucault. Confrontando il pensiero filosofico dei due, però, emergono alcune divergenze sull’interpretazione della filosofia antica. Secondo Hadot, il fine dei filosofi antichi era quello della felicità, e non della conoscenza fine a se stessa come stratificazione del sapere. A questo scopo essi si preoccupavano di ripensare la loro vita secondo lo stile e la 27 pratica della via filosofica scelta, affinché il loro percorso potesse risultasse coerente. Gli scritti dei filosofi antichi, non erano destinati a diventare dei monumenti architettonici del sapere, ma si identificavano piuttosto con componimenti musicali che procedono liberamente con frequenti mutamenti di tema. Lo scritto era, infatti, pensato al modo di una lezione orale, destinato alla trasmissione ai discepoli, e alla loro formazione, poiché avevano il compito di portare all’acquisizione dell’arte del ben vivere. Secondo il filosofo, ci sono due importanti dimensioni che fanno parte dell’esistenza di un saggio, che sono invece assenti nella vita di un uomo comune e sono la coscienza cosmica, che è la coscienza dell’universo e della natura in cui viviamo, e la libertà interiore, a cui appartiene la capacità di giudicare senza pregiudizi, liberi dall’influenza esteriore, rispettando la propria interiorità che ancora una vota deriva da quel socratico “prenditi cura di te stesso”. Nei modelli di felicità proposti dai filosofi antichi, sono sostanzialmente proposte due tendenze e sono la tradizione socratica e l’atteggiamento epicureo. Nel primo caso l’uomo può trovare la felicità attraverso la via dello spirito, la più alta che si conviene. Nel secondo, per raggiungerla è opportuno liberarsi dalle false paure, quindi bisogna conoscere bene ciò che deve essere temuto e ciò che può essere desiderato. La conoscenza, quindi, resta sempre il soggetto centrale, ma si tratta di una conoscenza che non è fine a se stessa in quanto deve risultare vissuta e praticata, in modo che possa trasformare l’anima e indicare un percorso di vita felice: L’esercizio della filosofia non era dunque unicamente intellettuale, ma poteva essere “anche” spirituale. Il filosofo non insegna soltanto a saper parlare, a saper discutere, ma anche a saper vivere nel senso più nobile e più forte del termine. É a un’arte di vivere, a tutto un modo di vivere, che egli incita i propri discepoli. Ne consegue che il discorso del 28 filosofo può assumere la forma di un esercizio destinato non soltanto a sviluppare l’intelligenza del discepolo, ma anche a trasformare la sua vita.[…] Talvolta come nei discorsi di Platone, l’esercizio intellettuale è al tempo stesso spirituale.21 Michel Foucault esplicita un particolare che sembra essere sfuggito all’amico Hadot, relativamnewte a quest’interpretazione e cioè che, se nelle pratiche cristiane che ruotano attorno all’ermeneutica del soggetto, l’uomo è tenuto a confessare la verità sulla propria identità, nell’antica Grecia, l’esame di coscienza in atto, invece, non induce il soggetto a confessare una verità su se stesso, ma piuttosto a verificare le proprie capacità di adattarsi e adeguarsi conformemente alla vita che egli stesso ha scelto per sé. Non si tratta, quindi, di un esporsi in prima linea, come se si trattasse di un atto giuridico, ma di un atto privato nel quale l’uomo da solo sceglie di verificare le sue possibilità, in itinere con le direttive che si è dato: da quando l’essere del soggetto non è più rimesso in questione dalla necessità di avere accesso alla verità, siamo entrati in un’altra età della storia dei rapporti tra la soggettività e la verità. La conseguenza di tutto ciò, o se volete l’altra faccia, è rappresentata dal fatto che l’accesso alla verità, che ormai non comporta come condizione nient’altro che la conoscenza, a titolo di ricompensa e di compimento finale, non troverà in questa nient’altro che il processo indefinito della conoscenza stessa. […] Per come essa appare, la verità non è più capace di salvare il soggetto.22 Quando nel 1981-82 Foucault tenne il corso al Collège de France, nella prima lezione dedicata a L’ermeneutica del soggetto, sostenne che il tema centrale nel pensiero antico, dell’epimeleia heautou, si era eclissato a favore del principio 29 dello gnothi seauton, attribuendone la causa principale alla trasformazione impressa da Descartes al discorso filosofico della modernità. La vera rottura, per lui, si sarebbe introdotta con il “momento cartesiano”: “dal momento in cui il filosofo (o lo scienziato, o anche solo chi cerca la verità) è diventato capace di riconoscere la verità, e ha potuto avere accesso ad essa, in se stesso, e in virtù dei suoi soli atti di conoscenza, senza che da lui si esiga più nient’altro, ovvero senza che il suo essere di soggetto debba essere modificato o alterato in alcun modo”23. Il filosofo aggiunge, in un’intervista rilasciata nell’ultimo anno della sua vita, che, se pur si volesse riconoscere la stessa preoccupazione spirituale della filosofia antica nelle Meditazioni di Descartes, di poter accedere a un modo d’essere in cui il dubbio non trova più posto e si può conoscere, ci si dovrebbe accorgere necessariamente del fatto che è la conoscenza che definisce interamente il modo di essere a cui si accede con la filosofia. La soggettività, per Foucault, si costituisce storicamente in relazione ai processi di soggettivazione. I processi di auto soggettivazione: le “tecnologie del sé” comprendono pratiche che gli individui compiono su di sé al fine di trasformare sé stessi e la propria esperienza del mondo, assumendo se stessi come campo d’azione al fine di autoformarsi. Esaminandone i tratti fondamentali, Foucault ne descrive il cambiamento di accento e sottolinea il “disancoraggio” che l’epimeleia heautou mostra sia rispetto alla pedagogia sia rispetto alla politica, assumendo il carattere di un’arte di vivere che si esercita durante tutto il corso della vita, che è finalizzata a se stessa ed oltrepassa il campo conoscitivo: diventa dunque una pratica autonoma, autofinalizzata e generale, raccomandata a tutti39. Accanto al compito educativo, viene ad assumere una funzione correttiva e critica, aiutando gli uomini a liberarsi dalle cattive abitudini. Per questo il suo campo semantico si intreccia con quello 30 dell’arte medica, dove il therapeuein indica la stessa finalità curativa, mia chora40 sia verso i mali del corpo sia verso quelli dell’anima. È questo il quadro teorico entro cui Foucault conduce la sua indagine sulla nozione di cura di sé nell’età tardo antica. L’aiuto e la mediazione dell’altro sono importanti, come nell’età classica, ma con accenti diversi: al maestro che secondo il modello socratico pungola l’ignoranza dei discenti (e dei concittadini) in funzione politica e in direzione eidetica, si sostituisce la pratica della direzione di coscienza e dell’aiuto spirituale per conseguire il buon governo di se stessi. Diventa così centrale l’esercizio della parresia, che assume un accento personale, e non più politico, dal momento che l’altro aiuta ad acquisire consapevolezza dei propri difetti per poter progredire sulla via di una vita buona(41)25. L’orizzonte è quindi quello della cura di sé, dove il sé funge da centro di risignificazione di valori tradizionali del mondo classico e si presenta come un valore universale, sostenuto da riflessioni teoriche, ma soprattutto centro verso cui converge tutta una serie di comportamenti, di esperienze e di pratiche destinate a trasformare il modo d’essere e di agire degli individui. Al campo teorico della cura di sé è correlata la nozione di “salvezza”, che viene impiegata con un’accezione diversa e in riferimento a un ambito di applicazione enormemente più vasto rispetto all’età classica. La nozione di salvezza nei testi dell’età tardo-antica non rinvia a qualcosa d’altro rispetto alla vita stessa, dal momento che il suo fine è immanente all’esistenza terrena: è la ricompensa per l’esercizio della cura di sé, e permette all’individuo di trovare protezione dai turbamenti e dalle sventure della vita. Il suo campo semantico è dunque prossimo ai precetti dell’atarassia e dell’autarchia, in quanto riguarda quelle attività che il soggetto è tenuto a esercitare in modo permanente su se stesso, se intende conseguire come ricompensa un certo rapporto con sé. Foucault osserva che 31 in questa prospettiva non è prevista alcuna rinuncia a sé (come avviene invece per la nozione religiosa di salvezza), ma al contrario il suo significato è interamente immanente, dal momento che il sé è l’agente, lo strumento, ma anche l’oggetto e il fine ultimo delle pratiche di salvezza. In accezione analoga viene impiegato il termine di ‘conversione’ (epistrophè) che si trova declinato in riferimento al sé: epistrophè eis heautòn. Vero e proprio obiettivo di tutte le tecniche del sé, la conversione viene intesa capacità di fare ritorno a se stessi, trovando in sé rifugio dagli affanni e dalle incertezze della realtà esterna. Offre il privilegio di riuscire a sottrarsi all’asservimento del mondo per poter fare ritorno al proprio animo, come oasi e riparo dalle vicissitudini quotidiane. Il modello giuridico del possesso (potestas sui, suis juris) evidenzia il significato di un’etica della padronanza intesa come modalità che permette di godere stabilmente di sé, imparando a conseguire quel piacere che si trae da sé quando si può stare serenamente con se stessi. «Disce gaudére» («Impara a gioire»), secondo il noto passo della XXIII Lettera di Seneca a Lucilio, in cui alla voluptas che dipende da un oggetto esterno vengono contrapposti il gaudium e la laetitia, che nascono in noi e grazie a noi(42). La conversione a sé non si consegue con un sapere di conoscenza, che non implica alcuna trasformazione del soggetto, ma richiede una serie di atti che comportano un vero e proprio lavoro su se stessi in tempi della giornata espressamente dedicati a questo. La ricerca di Foucault individua nell’àskesis la forma degli esercizi spirituali che nell’epoca tardo-antica garantivano al soggetto la costituzione di sé e il conseguimento di un rapporto pieno e autosufficiente con se stessi. Le pratiche di discorso fanno dunque parte di un sapere spirituale che mira a costituire il soggetto di veridizione, ossia capace di dire il vero in funzione di tradurre il logos in ethos, in 32 comportamenti di vita. La soggettivazione del discorso vero comporta tecniche di incorporazione del discorso vero finalizzate a saperlo mettere in atto nell’agire quotidiano. La questione della verità, dunque, non è solo teoretica, dal momento che coinvolge in primis il modo in cui si vive. La pietra di paragone del ‘dir vero’ è la corrispondenza tra il soggetto dell’enunciazione e il soggetto del comportamento: l’adaequatio da conseguire non è quella tra il pensiero e l’oggetto, in vista del dominio di un reale reso altro dal soggetto; è invece quella tra un soggetto che dice il vero e lo stesso soggetto che lo mostra nel suo modo d’essere, nel suo agire quotidiano: «Quella verità che ti dico, tu puoi vederla in me»26. Comunque, nella cura, il discorso filosofico non risulterà mai un semplice “parler pour parler”, poiché, come sostiene Epicuro, “Vana è la parola di quel filosofo da cui non è guarita nessuna passione dell’anima.”27. Nel dizionario filosofico Centro Studi di Gallarate28, che pur come tutti i dizionari non può essere assunto come testo scientificamente critico, ma solo come sintesi credibile di teorie e pensieri, alla voce Philosophie de l’esprit, troviamo proposto un interessante significato, che intende ricondurre la filosofia a quello che è il suo compito di sempre, cioè restituire all’uomo il senso della sua esistenza, nonché la facoltà di poter autonomamente elevare anima e pensiero verso l’assoluto43. Pertanto, il discorso filosofico, procede dall’interiorità all’esteriorità, all’inizio puramente teorico, si fa più vicino all’anima nel momento in cui il maestro lo adatta ai discepoli, esercitando la sua direzione spirituale, e infine si interiorizza attraverso il dialogo con se stessi o con gli altri, o anche attraverso la scrittura.[…] Tutto questo, che è vero in sommo grado per la filosofia stoica, può valere come abbiamo accennato, per la filosofia epicurea, che definiva se stessa 33 come un’attività che realizza la vita felice con l’aiuto del discorso e delle discussioni.29 Tuttavia “Per conseguire la guarigione dell’anima e una vita conforme alla scelta fondamentale, non è sufficiente avere preso conoscenza con il discorso filosofico epicureo. Occorre continuamente esercitarsi. Innanzitutto bisogna meditare, vale a dire raccogliersi intimamente, prendere intensamente coscienza dei dogmi fondamentali”30. Sappiamo che, già dall’antichità, il dialogo veniva usato come terapia filosofica. Socrate, per come ci è noto attraverso Senofonte e Platone, assisteva i giovani e gli anziani nella riflessione sul loro modo di vivere. L’esame del passato, del presente e del futuro creava nell’interlocutore di Socrate una consapevolezza di sé. Invece di lasciarsi trascinare da un sé sconosciuto, le persone diventavano individui autoconsapevoli e autodeterminati. Il tentativo di capire se stessi rendeva sopportabile una vita difficile, Socrate come levatrice filosofica e come consulente filosofico è uno dei temi che ricorrono costantemente nella letteratura della pratica filosofica31. La dialettica, e quindi la possibilità stessa della filosofia, per Socrate, ha allora come propria condizione la vita nella comunità degli uomini. E d'ora in poi, e per secoli, sarà la comunità il luogo della filosofia, non il tavolo da studio dell'intellettuale che legge e scrive. Certo, tanti intellettuali per secoli leggeranno e scriveranno, ma sempre in rapporto ad una comunità. La tesi non è che la dialettica sia l'unico metodo di ricerca possibile. È soltanto che nella versione socratica essa è coerente con la sua filosofia. Permette, allo stesso tempo, la ricerca filosofica e la vita filosofica. Sia che si parli di ricerca o di vita filosofica, il metodo in filosofia, non è infatti indipendente dalla risposta al problema della sua identità e della identità del filosofo: è il correlato di questa risposta. Il 34 discorso filosofico è una delle forme stesse di esercizio del modo di vita filosofico, sotto forma di dialogo con un altro o con se stessi32. I filosofi possono per varie ragioni, e lo hanno fatto, costruire mondi di sogni o universi paralleli o possibili. Ma vivono in un mondo reale e di questo ricercano la verità. Ora, che fare se la ricerca della verità entra in contraddizione con il mondo? Il filosofo non può dire: io sono nella verità, il mondo è malvagio; non può limitarsi a dire così perché questa malvagità e la sua ansia di ricerca della verità appartengono alla stessa realtà, ed è questa, non un'altra, la realtà di cui cercare la verità. Dunque, qual è la natura del mondo, se in esso convivono malvagità e ansia della verità? E come si iscrive l'identità del filosofo in questa ricerca: egli è uomo del mondo o uomo della verità? Perché le due figure in una sola persona possono non riuscire a convivere. Socrate quindi, imprendibile nella sua piena libertà di ricerca, incarna un preciso e, per conseguenza, ben prendibile modello: la figura del filosofo è in lui chiara: filosofo è colui che, senza rinunciare al mondo, ai suoi doveri e ai suoi piaceri, sa bere senza ubriacarsi, il filosofo, sa amare senza divenire schiavo, ha imparato l'arte di vivere in piena libertà di spirito, fedele alla ricerca della verità, seguendo uno stile di vita che non gli viene imposto dall'esterno, ma che egli liberamente sceglie coniugando la fedeltà alla ricerca e la fedeltà al mondo.33 In un certo senso, egli ci appare persino doppio, al contempo strano ed estraneo al mondo umano. Nelle varie scuole che rappresenteranno la scelta fondamentale della vita interiore, sia che essa sia legata alla conoscenza o alla saggezza, varie saranno le tecniche prescelte, dialettica/retorica, tensione/distensione, e soprattutto esercizi che giovano allo spirito, esercizi della ragione che hanno per l’anima la stessa valenza della cura medica, esercizi della ragione che sono “meditazione”. La ricerca della felicità 35 A partire dall’antichità, si è sempre cercato di definire il concetto di felicità e si è sempre pensato ad essa come a un elemento essenziale, e per alcuni, addirittura, rappresenta il fine ultimo della vita umana, quello per cui bisogna vivere, desiderare, lottare, e a volte anche morire: “È allora che ci si può avvedere che l’uomo desidera tutto ciò che vuole, per l’influsso del Bene ultimo”34. La soluzione attraverso cui giungervi l’uomo deve cercarla non all’esterno, ma dentro se stesso, ovvero conoscendosi. Gli stoici dividevano la filosofia in tre discipline: la logica, che si occupa del procedimento del conoscere; la fisica, che si occupa dell'oggetto del conoscere; l'etica, che si occupa della condotta conforme alla natura razionale dell'oggetto. Essi portavano un esempio: la logica è il recinto che delimita il terreno, la fisica l'albero e l'etica è il frutto35. L'anima del saggio nella sua ricerca è ispirata da un messaggio divino che è il logos. La verità che il logos annuncia è che il conflitto fra gli opposti è solo apparente, in quanto gli opposti sono una sola e medesima cosa, in quanto al di là di essi vi è una legge immutabile che li sovrasta: gli opposti sono frammenti di un'unica realtà che permane immutabile e racchiude dentro di sé il cambiamento. Ovvero, se non ci fosse il bene non esisterebbe il male, così come non esisterebbe la bugia se non ci fosse la verità, due metà che formano l’intero, il buio e la luce, il freddo e il caldo, il giorno e la notte, la cattiveria e la bontà, il vizio e la virtù. Tutto si gioca sulla capacità di discernimento dell’uomo, sulla sua ragione e sul libero arbitrio. Parrebbe quasi, perciò, che l’essere distratti nello spirito, rappresenti l’unico ostacolo al raggiungimento della vera sapienza, che a sua volta può permettere il raggiungimento della beatitudine e della felicità. Ma essendo lo spirito e la materia uniti indissolubilmente, la saggezza dagli stoici non è concepita come un'attività puramente intellettuale, essa diventa propedeutica all'agire. Fra i doveri degli uomini che sono esseri razionali, quindi vi è 36 innanzitutto la politica, per dedicarsi all’esercizio del bene pubblico. L’uomo che fa parte della natura, è coinvolto a tutto tondo con i vari aspetti della vita, nell’universo. Nel definire il concetto di felicità, Platone introduce per la prima volta il concetto di giustizia, che si riferisce, come tutti i valori morali, alla più intima natura dell’uomo, quindi alla sua anima (psyche): “l’uomo giusto è più felice dell’ingiusto?”36 A questo punto diviene necessario per il filosofo porsi una domanda: quali condizioni si rendono necessarie affinché l'uomo possa trovarsi in pace con se stesso, visto che proprio nell'anima si svolge una continua lotta di elementi in contrasto fra di loro? Secondo il suo pensiero, non vi sono grandi alternative, infatti può ritenersi uomo giusto e sano, solo colui che non si lascia sopraffare dalle passioni, un uomo nel quale a governare sarà la parte razionale dell'anima, che avrà il compito di guidare le altre due componenti, quella concupiscibile e quella irascibile, in modo che l’anima tenda verso i valori spirituali più puri, unico mezzo per raggiungere la felicità. Secondo Seneca, quando un uomo è schiavo del piacere, egli lo diventa inevitabilmente anche del dolore. Se si vive ancorati alle bellezze terrene e materiali, e ci si affida alla fortuna, allora si perde il controllo di se stessi, e si diventa estremamente vulnerabili, tanto da essere perennemente infelici, quando il fato avverso non esaudisce le nostre richieste. Il piacere in genere, e poi anche il piacere delle cose, dovrebbe essere solo un compagno di viaggio della vita, e non colui che ne detta le leggi, l’uomo dovrebbe entrare più in sintonia con la natura, perché è solo lì che può risiedere la beatitudine. Perciò vivere secondo natura equivale a vivere felici. Per vivere felici bisogna conoscere e saper ben giudicare. In questo di grande aiuto può essere la filosofia e la meditazione, intesa come raccoglimento nei propri pensieri. L'intento di Seneca è morale, egli ha come obiettivo il progresso morale degli uomini: prendere coscienza di se 37 stessi. Un importante aiuto nel prendere coscienza di sé viene proprio dall’ozio filosofico, dalla meditazione, da quella vita ritirata che permette di staccarsi dai falsi beni e dalle vanità della vita terrena e porta a guardarsi dentro. Egli è un vero maestro dell’introspezione della coscienza. Poiché la nobiltà di un uomo è data solo dalla virtù, bisogna imparare il più presto possibile a far buon uso del tempo, e ciò è determinato innanzitutto dalle nostre scelte di vita buone o cattive. Come dice ancora una volta Pierre Hadot: “Apprendre à vivre" était le premier but des exercices spirituels. Pour toutes les écoles philosophiques de l’antiquité la principale cause de souffrance et d’inconscience de l’homme ce sont les passions: désirs desordennés, craintes exagérées. […] La philosophie va donc éduquer l’homme pour qu’il ne cherche à atteindre que le bien qu’il peut obtenir et qu’il ne cherche à eviter que le ne mal qu’il peut éviter.37 Le lettere dell’anima Arriverà un momento nella storia della filosofia e della scienza, in cui la lettera assumerà un ruolo importante di divulgazione del sapere. Essa prenderà il posto che prima apparteneva al dialogo. Gli epistolari diventeranno preziosi documenti di vita, di arte e di indottrinamento. Attraverso questi scritti dall’aria solo apparentemente informale, grandi filosofi e scienziati divulgheranno il loro pensiero, la loro arte, le loro scoperte, e tutto il loro ingegno, indirizzandole a parenti, amici o colleghi lontani. Nasceranno miliardi di reti di corrispondenza, attraverso corrieri, accademie e salotti culturali, grazie alle quali col tempo sarà possibile ricostruire secoli di storia, di vite, di pensieri e di menti geniali. I carteggi, che a volte sembrano veri e propri trattati, riguardano la metafisica, l’arte, la scienza, l’etica, la politica, l’amore, la felicità, la morte, la medicina, l’astrologia e altro 38 ancora. Ogni filosofo durante la sua vita abbraccia con il suo pensiero molti aspetti correlati tra loro, ma l’aspetto che a noi interessa, in questa sede, continua ad essere quello del ben vivere, per il raggiungimento della felicità. Dall’antichità greca alla modernità del seicento, molti filosofi hanno scritto lettere sulla felicità, sulla virtù e il saper ben vivere, offrendo vari spunti per meditare. La scuola aristotelica dei peripatetici segnò in maniera evidente la via della nascita degli epistolarî. Ai peripatetici si affianca Epicuro, che visse tra il 341 a.C. e il 270 a.C., dunque in età ellenistica, il quale, decisamente, spicca tra i filosofi greci nell'uso dell'epistola dedicata ai suoi seguaci ed amici. La lettera è espressione caratteristica della scuola epicurea, una scuola che visse a lungo, fino al IV sec. d. C. e che teneva immensamente agli stretti legami spirituali tra gli affiliati dispersi su un gran territorio, come la Grecia, l'Asia o l'Egitto, e sente il bisogno importante di convincere e persuadere. Unito a loro quasi da fede religiosa, egli spiega il suo credo filosofico in molte e varie trattazioni, che possono avere a volte solo l’apparenza esteriore dell'epistola, e trattano di fisica, meteorologia, etica, ecc. fino a diventare dei veri trattati. L'attività epistolare epicurea ha fatto pensare in certo senso all' attività apostolica, di persuasione e diffusione di quello che in principio era il verbo, divenuto poi parola scritta nelle lettere e nei vangeli. Epicuro ritiene che negli uomini coesistano due stati d'animo innegabili e originariamente irriducibili: il piacere e il dolore. Tuttavia l'uomo è destinato a provare dolore solo se non conosce la verità, e la verità, è assolutamente dipendente dal saper distinguere il vero piacere dal piacere dei dissoluti. Scopo dell’epicureismo è avviare l’uomo alla serenità felice, ma proprio per questo è necessario che egli conosca la realtà, dissolvendo con la ragione le illusorie paure. Dunque la filosofia epicurea assume le sembianze di un vero "farmaco" per l'anima, anzi un tetrafarmaco a largo spettro, 39 che copre tutti i mali e li guarisce secondo la visione del filosofo fornendo la conoscenza indispensabile che convinca l’uomo che: 1) la divinità non deve fare paura, 2) la morte non è paurosa, 3) è facile procurarsi il bene, 4) è facile sopportare il dolore. Ma come facciamo noi ad apprendere la vera realtà? Secondo Epicuro unica fonte della conoscenza è la sensazione, che rispecchia sempre una realtà. Dal ripetersi delle sensazioni nasce in noi l’anticipazione (o prolessi) che è vera in quanto confermata dall’esperienza. La morale di Epicuro tende così a guidare il saggio al raggiungimento di una serenità pari, appunto a quella degli dei (atarassia). Serenità basata sulla liberazione dalle false paure e sul giusto godimento dei piaceri, compresi i godimenti del corpo, che corrispondono agli stimoli del processo vitale. Connessa a questo scopo, però, è la virtù della prudenza che, intesa come fondata sull’esperienza, ci insegna l’incompatibilità di taluni piaceri e la necessità di rinunciare serenamente agli uni se vogliamo godere gli altri. Essa ci insegna principalmente ad anteporre a tutti gli altri il piacere dell’amicizia. Quindi ingredienti e rimedi indispensabili per la felicità sono: l'amicizia, la libertà ed il pensiero, la parola e la scrittura consolatoria. "Ciò che al presente non ci turba, stoltamente ci addolora quanto è atteso". Questa frase riassume bene l'atteggiamento filosofico di Epicuro: la vita è pratica di felicità, non conviene pensare a ciò che potrà accadere in futuro se questo implica la rovina della propria serenità presente. La Lettera a Meneceo di Epicuro, vuole essere una sorta di formula per liberare l'uomo dalle paure più comuni: la paura degli dei, la paura della morte, la paura del futuro. Secondo il filosofo, una volta liberato da queste paure, l'uomo raggiunge la tranquillità dell'animo e la felicità, e la lettera si apre quindi, con un'esortazione rivolta sia al giovane che al vecchio a filosofare, in quanto la filosofia è riconosciuta come lo strumento che conduce verso questi nobili obiettivi. Anche 40 se la vita del vecchio si volge più al passato e quella del giovane più al futuro, è la filosofia a far sì che il primo non si perda nel rimpianto, suggerendogli di godere dei beni trascorsi, e i piaceri e i beni trascorsi, sono una certezza della quale bisogna essere grati alla vita. Allo stesso modo è la filosofia a placare l'ansia del giovane, liberandolo dalle paure e da quei turbamenti e desideri che possono renderlo infelice, consentendogli così di non temere l'avvenire. Epicuro nella Lettera sulla felicità scrive a Meneceo: (122) Μήτε νέος τις ὢν μελλέτω φιλοσοφεῖν, μήτε γέρων ὑπάρχων κοπιάτω φιλοσοφῶν· οὔτε γὰρ ἄωρος οὐδείς ἐστιν οὔτε πάρωρος πρὸς τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον. ὁ δὲ λέγων ἢ μήπω τοῦ φιλοσοφεῖν ὑπάρχειν ᾥραν ἤ παρεληλυθέναι τὴν ᾥραν ὅμοιός ἐστι τῷ λέγοντι πρὸς εὐδαιμονίαν ἤ μὴ παρεῖναι τὴν ᾥραν ἤ μηκέτι εἶναι. ὥστε φιλοσοφητέον καὶ νέῳ καὶ γέροντι, τῷ μὲν ὅπως γηράσκων νεάζῃ τοῖς ἀγαθοῖς διὰ τὴν χάριν τῶν γεγονότων, τῷ δὲ ὅπως νέος ἅμα καὶ παλαιός ᾖ διὰ τὴν ἀφοβίαν τῶν μελλόντων· μελετᾶν οὖν χρὴ τὰ ποιοῦντα τὴν εὐδαιμονίαν, εἴπερ παρούσης μὲν αὐτῆς πάντα ἔχομεν, ἀπούσης δέ, πάντα πράττομεν εἰς τὸ ταύτην ἔχειν. (123) Ἃ δέ σοι συνεχῶς παρήγγελλον, ταῦτα καὶ πρᾶττε καὶ μελέτα, στοιχεῖα τοῦ καλῶς ζῆν ταῦτ’ εἶναι διαλαμβάνων.(44) 38 Egli parla così, all’amico, della filosofia come quadrifarmaco, efficace contro la paura degli dei e della morte, del dolore e del piacere, che risulta essere il solo fine della ricerca filosofica in grado di assicurare benessere all’uomo. Vivere secondo natura, vivere secondo ragione, vivere secondo virtù. I massimi filosofi stoici concordano sulla coincidenza della natura con il logòs che governa l’universo. Vivere secondo natura equivale a vivere secondo ragione. Adeguarsi a questa armonia universale è il compito dell’uomo virtuoso, e il premio che a lui è destinato è la 41 felicità. La felicità per Seneca è vivere nella dimensione del proprio essere razionale, vivere secondo verità perché nessuno lontano dalla verità può dirsi felice. La perfetta attuazione della ragione è la virtù morale ed essa può avvenire solo tramite la conoscenza. La felicità non consegue dalla virtù ma è la virtù stessa. L’uomo felice è artefice della propria vita in quanto non si lascia sopraffare o condizionare dall’esterno, la vera libertà del saggio infatti consiste nell’uniformare i propri desideri con ciò che vuole il destino stesso. A chi si trova fuori da ogni desiderio non può venirgli nulla dall’esterno, perché ha già tutto dentro di sé. Una delle ultime opere che Seneca scrisse, dopo il suo ritiro dalla vita politica attiva, vivendo in una villa privata fuori città, furono Le lettere a Lucilio, scritte tra il 62 e il 65 d. c., opera che però è giunta incompleta. Abbiamo: 124 Epistulae morales ad Lucilium, venti libri, composti negli ultimi anni di vita. Seneca trasmette in questa raccolta epistolare il suo pensiero e la sua esperienza, secondo i principi della filosofia stoica. Tacito ci racconta che ebbero molti lettori e anche molte critiche. Secondo questo nuovo mezzo, quindi, l'oggetto della cura dell’anima è anche l'autore, che medita scrivendo. La forma epistolare diventa un colloquio familiare, che concede libertà nell'affrontare vari argomenti che si intrecciano. Nelle lettere coesistono la dimensione teoretica e quella pratica. Ci sono lettere scritte in tono familiare ed altre che nel loro componimento diventano simili a veri e propri trattati, si scrive per dare chiarezza a se stessi, ai propri dubbi che hanno bisogno di essere elaborati, ma si scrive anche per dare appoggio a coloro che cercano i lumi nella filosofia. Si medita sui temi della vita, si mettono per iscritto le proprie riflessioni, e si inviano a coloro che soffrono con la speranza di recare conforto e alleviare le pene del cuore e dell’anima. L’inchiostro diventa medicina. L'epistola assume, così, un'importanza ancora sconosciuta; occupa, il posto che precedentemente apparteneva al dialogo 42 socratico. Il modello cui egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale. Seneca utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale. Propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. [2] Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. [3] Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere.(45) 39 Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistole, di pari passo al fascino della vita appartata e dell'erigersi dell'ozio a valore supremo: un ozio 43 che non è inerzia, ma instancabile ricerca del bene. Le Epistole torneranno alla luce nei monasteri carolingi Francesi e in Germania. In Italia nel 13° sec. ottengono grandi successi, suscitando interesse nel periodo che va dall’umanesimo al rinascimento. In seguito saranno una vera e propria ispirazione per tutti quei letterati, scienziati, pensatori e filosofi che le useranno mettendo per iscritto le proprie meditazioni, divulgandole ad amici e membri delle varie accademie, come i moralisti francesi. Cartesio ritenne di aver trovato un metodo – guida, per l’orientamento dell’uomo nel mondo, che avrebbe condotto ad una filosofia non meramente speculativa, ma anche pratica, permettendo cioè, all’uomo, di utilizzare le forze della natura per rendersene padrone e possessore, e magari in questo modo si sarebbe potuti riuscire anche a schivare l’indebolimento della vecchiaia. Quindi la saggezza di chi studia la filosofia non è altro che la conoscenza perfetta di tutte le cose che l’uomo può sapere in virtù dell’indirizzo che ha saputo dare alla sua vita, grazie alla buona salute e alle buone arti che ha saputo sfruttare nella vita pratica del mondo. Tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, ed i rami principali sono la medicina, la meccanica e la morale. Secondo il filosofo, il buon senso è la cosa del mondo meglio distribuita, e la verità si raggiunge con il buon senso o la ragione, che distingue l’uomo dall’animale, cioè la facoltà di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso. Effettivamente però, egli distingue due domini diversi: l’uso della vita e la contemplazione della verità. Nel primo caso la volontà ha l’obbligo di decidersi senza attendere l’evidenza; nel secondo ha l’obbligo di non decidere finché l’evidenza non sia stata raggiunta. Nel dominio della contemplazione l’uomo non può contentarsi della verità evidente, nel dominio dell’azione l’uomo può 44 contentarsi della probabilità. Mentre viene impegnato dalla rifondazione della struttura conoscitiva ed operativa umana, Cartesio, elabora una morale provvisoria, in attesa di poter poi approfondire le massime di comportamento. La prima regola, di questa morale, era di obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese, restando fedeli alla religione tradizionale, del suo re e dei suoi tutori, e regolandosi, per ogni questione, secondo opinioni moderate evitando sempre di eccedere. In effetti, questa regola, ha per Cartesio un valore permanente e definitivo. La seconda regola era di essere il più fermo e risoluto possibile nell’azione e di seguire con costanza anche l’opinione più dubbiosa una volta che fosse stata accettata. Anche questa regola è suggerita dalle necessità della vita che obbligano, molte volte, ad agire in mancanza di elementi sicuri e definitivi. La terza regola era di cercare di vincere se stessi piuttosto che di cercare di vincere la fortuna, quindi più facile sarebbe risultato cambiare e adattare i propri pensieri piuttosto che l’ordine del mondo. Questa regola rimane il caposaldo fondamentale della sua morale, essa esprime nella formula tradizionale del precetto stoico lo spirito del cartesianesimo, il quale esige che l’uomo si lasci condurre unicamente dalla propria ragione. L'attenzione alle massime è manifesta anche nell'epistolario di Cartesio, in particolare nelle lettere che il pensatore scambia con la principessa Elisabetta, nelle quali egli si presenta in qualità di direttore spirituale. Quello della direzione spirituale, era proprio un metodo atto a consentire al discente di prendere coscienza dei propri difetti, aiutandolo a compiere scelte individuali e ragionevoli nella vita quotidiana, che ha origine nella scuola stoica. Ma soprattutto è evidente nel pensiero filosofico di Seneca, il quale dedica l'intero dialogo De tranquillitate animi a condurre il malato, in maniera serena, sulla via di una saggezza, che si identifica anche con la guarigione, mettendo a nudo la natura dei mali da cui è afflitto. Verso la 45 fine del 1642, un amico di famiglia, Pollot, parlò della principessa del Palatinato a Cartesio che in quel periodo risiedeva in Olanda. Egli aveva già sentito parlare del suo acuto intelletto, e desiderava incontrarla. L’anno successivo iniziò una fitta corrispondenza, nella quale la principessa chiedeva a Cartesio di essere istruita. I due si scrissero dal 1643 al 1649. Il carteggio a noi pervenuto comprende 26 lettere di Elisabetta a Descartes e 33 lettere di Descartes a Elisabetta. In genere il contenuto delle lettere di Elisabetta viene a torto sottostimato a vantaggio delle idee del filosofo, mentre in realtà ella pone delle questioni che mettono in difficoltà il celebre pensatore. Queste lettere partendo dalla trattazione di scienze come la fisica, diventano lezioni di approfondimento, addirittura un vero corso di filosofia morale, che avrà l’intento di curare l’anima afflitta della principessa, che, dopo la morte di Cartesio, si ritirerà nel convento luterano di Herdford in Westfalia, diventandone badessa. Nel corposo carteggio di Descartes, prezioso per i suoi contenuti che affrontano un’infinità di argomenti, uno dei quali è proprio quello della virtù e della scelta del bene che derivano dalla conoscenza, per poter ben vivere senza assoggettarsi alla fortuna, e condurre una vita senza molte e inutili sofferenze, una delle sue più importanti corrispondenze è proprio quella che riguarda tale aspetto, che terrà per molti anni, con la giovane reale, alla quale consiglierà in un primo tempo proprio la lettura del De Vita Beata di Seneca, pensando di renderle un utile servigio fornendole materiale per una interessante e piacevole meditazione. Tuttavia si accorgerà presto di aver commesso un errore, in quanto lo stoico in questo libro non riesce pienamente a chiarire e a definire quale sia il concetto del bene e della virtù, né quale via bisogna seguire per poterle conseguire, così sarà egli stesso, nelle lettere successive a illuminare la principessa, contrapponendosi alla tesi di 46 Seneca. Particolarmente in alcuni passi della loro corrispondenza, si evince in modo chiaro, la pratica volta a illuminare questo cammino a due, sulla ricerca della beatitudine e della virtù, come in questa lettera del 4 agosto 1645, che Descartes scrive alla principessa, partendo proprio dalla lettura di Seneca consigliata: Descartes a Elisabetta En suite de quoi, il me semble que Sènèque eût dû nous enseigner toutes les principales vèritès, dont la connaissance est requise pour faciliter l’usage de la vertu, et règler nos dèsirs et nos passions, et ainsi jouir de la bèatitude naturelle; ce qui aurait rendu son livre le milleur et le plus utile qu’un Philosophe païen eût su Votre Altesse.(46) 40 Lettera alla quale Elisabetta risponderà di non essere ancora riuscita a dissipare i suoi dubbi, sul come si possa raggiungere la beatitudine senza far ricorso anche a ciò che non dipende dalla volontà, in taluni casi in cui una malattia, per esempio della ragione, ci pone: Elisabetta a Descarets Et c’est ainsi que ne saurais encore me dèsembarrasser du doute, si on peut arriver a la bèatitude dont vous parlez, sans l’assistance de ce qui ne dèpend pas absolumentde la volontè, puisqu’il y a des maladies qui ȏtent tout à fait le pouvoir de raisonner, et par consequèntcelui de jouir d’une satisfaction raisonnable, d’autres qui diminuent la force, et empȇchentde suivre les maximes que le bon sens aura forgèes, et qui rendent l’homme le plus modéré, sujet à se laisser emporrequierent une résolution prompte.(47) 41 47 Nel carteggio, il filosofo, verrà definito dalla stessa principessa “il medico della sua anima”, poiché ella gli si rivolgerà proprio con l’intento e con il bisogno di trovare cura per i mali dello spirito, ma non solo, che l’affliggono, causando angosciosi dubbi e perplessità. Aggiunge: “Non sempre si misura a sufficienza fino a che punto la visione antica della filosofia sia costantemente presente in Cartesio, come ad esempio nelle Lettere alla principessa Elisabetta, che sono d’altronde, fino ad un certo punto, lettere di direzione spirituale”42. Ma è soprattutto nella lettera del diciotto agosto 1645 che si può cogliere la filosofia come terapia dell'anima e moderna "meditatio.” Con la scelta del termine “meditatio” Cartesio intende favorire l’assimilazione del suo pensiero attraverso un percorso di immedesimazione con il suo fruitore. Il termine indica un processo di autoriflessione, un esercizio spirituale ripetuto e sistematico. Il lettore, in questo modo, viene reso partecipe in maniera attiva dell’itinerarium mentis di conquista della certezza, ed è spinto a lottare contro l’assuefazione dalle abitudini, contratte attraverso le illusioni. Questo processo porta a un rovesciamento dal senso comune. Descartes a Elisabetta Je remarque, premièrement, qu’il y a de la différence entre la béatitude, le souverain bien et la dèrniere fin ou le but auquel doivent tendre nos actions: car la béatitude n’est pas le souverain bien; mais elle le présuppose, et elle est le contentement ou la satisfaction d’esprit qui vient de ce qu’on le possède. Mais, par la fin de nos actions, on peut entendre l’un et l’autre; car le souverain bien est sans doute la chose que nous devons proposer pour but en toutes nos actions, et le contentement d’esprit qui en revient, étant l’attrait qui fait que nous le recherchons, est aussi bon droit nommè notre fin.(48) 43 48 Continuando in questa discussione su che cosa consista il sommo bene e la beatitudine da raggiungere, il filosofo aggiunge: Enfine Epicure n’a pase eu tort , considérant en quoi consiste la béatitude, et quel est le motif, ou la fin à laquelle tendent nos actions, de dire que c’est la volupté en général, c’est-à-dire le contentement de l’esprit; car, encore que la seule conaissance de notre devoir nous pourrait obbliger à faire de bonnes actions, cela ne nous ferait toutefois jouir d’aucune béatitude, s’il ne nousen revenait aucun plaisir.[…] Je crois pouvoir ici conclure que la beatitude ne consiste qu’au contentement de l’esprit, c’est a dire le contentement en général; car bien qu’il y ais des contentements qui dépendent d corps, et des autres, qui n’en dépendent point, il n’y en a toutefois aucun que dans l’esprit: mais que, pour avoir un contentement qui soit solide, il est besoin de suivre la vertu, c’est-a-dire d’avoir une volonté ferme et costante d’exécuter tout ce que nous jugerons ȇtre le meilleur et d’employer toute la force de notre entendement à en bien juger.(49) 44 Nella loro corrispondenza inoltre, grazie agli interrogativi posti da Elisabetta, Descartes cominciò a interessarsi al tema delle passioni, la principessa, quindi, è da considerarsi certamente all’origine di questo trattato che non può prescindere dall’essere letto in relazione alla loro vasta corrispondenza epistolare, dove Cartesio, ascoltando le sue difficoltà esistenziali, si adopera negli anni a confortarla attraverso la conversazione filosofica, che oggi potremmo definire quasi un counseling filosofico ante litteram. Elisabetta a Descartes Je vous voudrais encore voir définir les passions, pour les bien connaȋtre; car ceux qui les nomment perturbations de 49 l’ȃme, me persuaderaient que leur force ne consiste qu’ȃ éblouir et soumettre la raison, si l’experience ne me | montrait qu’il y en a qui nous portent aux actions raisonnables. Mais je m’assure que vous m’y donnerez plus de lumiére, quand vous expliquerez commente la force des passions les rend d’autant plus utiles, lorsqu’elles sont suijettes à la raison.(50) 45 E Descartes, effettivamente, si dedicherà da questo momento, come se fosse una solenne promessa, a riprendere la stesura del Trattato delle passioni dell’anima, per poter arrivare a dare ad Elisabetta le risposte che attende, compito facile in un certo senso, dovendo interloquire con lei che più di chiunque altro conosce ormai così bene, gli altri suoi scritti e il suo pensiero. I due corrisposero costantemente (1643-1649) su temi di varia natura (medicina, matematica, filosofia, politica). Descartes le dedicò i Principi della filosofia (1644). Durante una malattia della principessa (estate-autunno 1645) le inviò una serie di lettere in cui le espose i principi della morale, cosa che lo indusse poi a scrivere nell’inverno del 1645-1646 un primo abbozzo delle Passioni, che già nell’aprile del 1646 darà da leggere alla principessa. Descartes a Elisabetta Mais il faut que j’examine plus particuliȇrement ces | passions, afin de les pouvoir dȇfinir; ce qui me sera ici plus aisé, que si j’écrivais à quelque autre.(51) 46 Così nella lettera del maggio 1646, il filosofo scriverà: Pour les remédes cointre les excés des passions, j’avue bien qu’ils sont difficiles pratiquer, et mȇme qu’ils ne peuvent suffire pour empȇcher les désordres qui arrivent dans le corps, mais seulement pour faire que l’ȃme ne soit point 50 troublée, et qu’elle puisse retenir son jugement libre.A quoi je ne Juge pas qu’il soit besoin d’avoir une connaissance exacte de la vérité de chaque chose, ni mȇme d’avoir prévu en particulier tous les accidents qui peuvent survenir, ce qui serait sans doute impossible; mais ḉ’est assez d’en avoir imaginé en général de plus fȃcheux que ne sont ceux qui arrivent, et de s’ȇtre préparé à les souffrir. Je ne crois pas aussi qu’on péche guére par excés en désirant les choses nécessaires à la vie: ce n’est que des mauvaises ou superflues quel es désirs ont besoin d’ȇtre réglés. Car ceux qui ne tendent qu’au bien sont, ce me semble, d’autant meilleurs qu’il sont plus grads”(52) 47 Quando Cartesio capì che i bisogni della principessa non erano solo di tipo teorico, iniziarono insieme un cammino finalizzato a dare sollievo, nella vita della giovane, e a farle considerare che le disgrazie non sono così devastanti, purché si riesca a trovare equilibrio e felicità dentro se stessi. La rivisitazione della morale provvisoria, il commento al De Vita Beata di Seneca, l’analisi delle passioni, sono alcune tappe del percorso. Cartesio diventerà, è vero, il medico della sua anima, ma si può senz’altro dire che Elisabetta fu la sua musa ispiratrice. L’unica cosa che appare certa è che, da quando esiste, l’uomo è sempre stato afflitto tanto dai mali fisici quanto dai mali dell’anima, quelli che noi oggi tendiamo a chiamare problemi esistenziali, ed è solo parlandone, che essi possono guarire. Gorgia, grande sofista siceliota, sosteneva che: “La potenza della parola nei riguardi delle cose dell'anima sta nello stesso rapporto della potenza dei farmaci nei riguardi delle cose del corpo.” Antichissimo quindi è il bisogno della “cura” che è passato attraverso i secoli dal dialogo come mezzo della trasformazione del singolo, attraverso cui si imparava a vivere in maniera filosofica, alla 51 scrittura, che permetteva di rielaborare il proprio esercizio e la propria meditazione, per arrivare sino ad oggi alla figura del counselor filosofico. Oggi più che mai l’uomo ha bisogno di essere affiancato e aiutato a superare i disagi della vita, tirando fuori tutto il negativo che ha dentro, e ancora una volta il miglior modo per avere successo sembra proprio essere il metodo della maieutica socratica. Certamente esistono i medici della psiche, ma che cos’è la psiche se non una piccola parte dell’anima? La psicologia non è forse nata proprio sulla scia del tramonto dell’anima voluto dalla cultura occidentale moderna? Viviamo in un’epoca in cui per ogni problema sembra esserci una soluzione, e c’è uno specialista per ogni malattia, eppure non c’è più nessuno che sia in grado di curare la nostra anima. Qual è la nostra dimensione di realtà oltre la superficie dello spazio impersonale degli scambi sociali? Quali sono le passioni della nostra epoca? E ancora come si costruisce l’esperienza soggettiva, il sapere dell’anima, in un vivere dove si è smarrito il senso dell’agorà, il tempo dell’incontro e del confronto, il tempo dell’ascolto dell’altro e del sentire di sé in ognuno di noi? Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinoza chiamava le “passioni tristi.” Con questa espressione il filosofo si riferiva all’impotenza e alla disgregazione. La speranza era quella di un sapere globale, capace di spiegare le leggi del reale e della natura per poterli dominare. L’incertezza della nostra epoca ci viene continuamente rimandata da eventi che evocano paesaggi apocalittici: quasi a ribadire l’inconsistenza del dogma positivista, “libero è colui che domina,”48 il succedersi continuo di catastrofi naturali e le innumerevoli sequenze di guerre e di lutti, hanno dissolto l’idea che l’universo globale delle conoscenze, garantisca un qualsiasi dominio del reale e che l’uomo possa essere padrone del suo tempo. Ma le passioni tristi, ovvero il senso di disgregazione e di impotenza, secondo Spinoza, non derivano solo da una crisi 52 di un’epoca che minaccia il futuro, bensì dalla diminuzione della percezione di realtà, che viene dall’incapacità di sentire, di avvertire il valore delle cose, e i vissuti del cuore all’interno del mondo che scorre, del tempo che passa. La parte IV dell’Etica49 è dedicata alla possibilità di trasformare le passioni da stati di passività della mente in affetti consapevoli, capaci di conservare le spinte emozionali più costruttive contenendo le componenti depressive e distruttive. Ciò che è venuto meno nel presente è la ricerca di un diverso modo di accogliere il limite e la precarietà, che invece proprio perché così palesemente pressanti, ci dovrebbero spingere a godere di più del nostro tempo e ad essere più felici. Viviamo in una società dove ormai si amano più le cose delle persone, e questo non è più definibile “amore per la vita.” Il tempo della modernità, lacera i messaggi concettuali d’amore e misticismo che l’uomo dovrebbe recepire nel suo animo, dall’ascolto della natura e dall’infinto incomprensibile dell’universo. L’angoscia del senso di vuoto, della perenne mancanza, della precarietà, si consuma proprio in quel sapere dell’anima, che diventa sempre più profondità di conoscenza e la conoscenza stessa è un archetipo che si proietta in un tempo ancestrale. Alla sua origine c’è una lotta con se stessi e la coscienza di dover dare massima libertà alla parola, per concedere respiro alla realtà che rischia di soffocare. Di fronte alle incongruenze della vita, alla sua fragilità, alle sue disattenzioni e contraddizioni, l’uomo deve trovare un punto saldo a cui appoggiarsi, qualcosa in cui credere, e credere che quel qualcosa darà pace al suo tormento. L’uomo avverte il bisogno di fuggire da se stesso e il bisogno, ancora più forte, di recuperare se stesso, sperando che possa essere un passaggio di eternità dove si compia la vera rivelazione del sé. Un tempo quando non si era ancora smarrito il concetto di anima, le persone sofferenti trovavano proprio nel dialogo, magari con un monaco, con un saggio, 53 con un anziano, quelle risposte e quel sollievo di cui avevano bisogno, per placare il tumulto dell’anima, che non può certo essere messo a tacere da un tubetto di ansiolitici. Saper ascoltare un’anima in difficoltà, è una cosa delicatissima, nobile ed estremamente faticosa, esattamente come avveniva un tempo attraverso la confessione liberatoria. Nel tempo abbiamo deliberatamente eliminato la nozione di anima; abbiamo distrutto, idealmente, l’odioso armadio del confessionale; ma che cosa ci è rimasto? Il lettino dello psicanalista? Esso non può bastare a risanare il baratro che oggi si è aperto nell’esistenza del singolo e della comunità. Per curare il male di viverre, il male dell’anima, dobbiamo ritornare alla filosofia che è, come sosteneva Platone, la capacità di vedere l’intero e non le singole parti. Siamo diventati dei professionisti delle mezze verità, degli esperti del mezzo vedere, del mezzo sentire, del mezzo comprendere: e questo sapere dimezzato, questa conoscenza mutilata, li abbiamo chiamati verità, accontentandoci di vedere solo quelle singole parti, ma impossibilitati a vedere l’insieme. Tutto dipende da noi. L’infelicità nasce dal desiderio di cose che non possiamo avere la sicurezza di ottenere. Se le otteniamo siamo persone felici e se non le otteniamo diventiamo persone frustrate. Allora, un ottimo esercizio di filosofia pratica è proprio quello di esercitarsi a rinunciare, ai piaceri volubili, saper trasferire i nostri desideri, su cose realizzabili solo grazie alla nostra volontà e non essere schiavi dell’esteriorità. Sarà proprio esercitando il libero arbitrio sulla nostra volontà che potremo diventare liberi e padroni della nostra vita, e prenderci cura della nostra anima. Occorre innanzitutto riabituarsi al raccoglimento interiore, alla “meditatio,” alla riflessione, sui valori che rappresentano i principi cardine della nostra esistenza, così da non avvertire più alcun senso di vuoto e di smarrimento, nessuna angoscia lacerante che ci consuma. Come dice Simon Weil: 54 “Quaggiù ci sentiamo stranieri, sradicati, in esilio; come Ulisse che si destava in un paese sconosciuto, dove i marinai l’avevano trasportato durante il sonno, e sentiva il desiderio d’Itaca straziargli l’anima”.50 1 Aa. Vv., La svolta pratica in filosofia. Vol. 2. Dalla filosofia pratica alla pratica filosofica, Discipline Filosofiche, XV, I, 2005 2 Platone, La Repubblica, X, 606. 3 Epitteto, Manuale, Mursia, Milano, 1971, trad. it. di Giacomo Leopardi 4 Aristotele, Etica Nicomachea, III, 1 e II, 6 e Retorica, II, 1 -11. 5 Epicuro, Lettera a Meneceo (lettere sulla felicità.) 6 T. D’Aquino, Summa Theologiae, II, 2, 22-48. 7 T. Hobbes, Leviathan, 1, 6. 8 P. Ricoeur “ What is a text? Explanation and interpretation”, in Hermeneutics and Human sciences , a cura di Jhon B. Thompson, Cambridge UP, Cambridge 1981, pp.145-164 9 Aristotele, Metafisica, II, 1, 993 b 19-23 10 M. Foucault, Tecnologie del sé. in Un seminario con Michel Foucault - Tecnologie del sè. Torino, Boringhieri, 1992. pag. 23 11 G. Invitto, La misura di sé tra virtù e malafede, Mimesis, MilanoUdine 2012, p.22 12 C. Manzo, titolo del saggio Segni e comprensione, n. 79, 2013, p.3 13 Platone, op. cit., 85d. 14 Ivi, 189e-190d 15 P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard, Paris 1995; trad. it. Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 1998, p. 252 16 P. Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino, 2008, cit., p. 170. 17 Cfr. Rivista di storia della filosofia, Volume 63, FAE Riviste, 2008; Guido Calogero, Scritti minori di filosofia antica, Bibliopolis, 1984; Patricia Fagan, John Edward Russon, Reexamining Socrates in the Apology, Northwestern University Press, 2009 e 55 Gabriele Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Edizione postuma a cura di Bruno Centrone, Edizioni Bibliopolis. 18 Walter Bernardi e Domenico Massaro, La cura degli altri. La filosofia come terapia dell’anima, Università degli studi di Siena, 2005 19 Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, ed. UTET, Torino, 1992, pag. 391 20 Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, (1987), tr. it., Torino, Einaudi 1988, pp. 29-68. 21 P. Hadot, La felicità degli antichi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011, p.63 22 M. Foucault L’herméneutique du sujet, 2001, trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (19811982), Feltrinelli, Milano 2003, cit., pp. 20-21, 71.107, 88-91, 180200, 330-367. 23 Ivi, p. 19 24 M.Foucault Histoire de la sexualité 3. Le souci de soi, 1984, tr. it. Storia della sessualità 3. La cura di sé, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 48-53, 57-61, 67-70. 25 M. Foucault Discorse and Thruth, 1985, tr. it. Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1997. 26 Maria Luisa Martini L’autocostituzione del soggetto in Michel Foucault. www.pratichefilosofiche.it 27 Porfirio, Lettera a Marcella, 31, trad. it. Porfirio. Vangelo di un pagano ( a. c. di A. R. Sodano), Rusconi, Milano, 1993, p.83. 28 Centro studi di Gallarate, Dizionario filosofico, Sansoni Editore, Firenze, 1976, p. 914 29 P. Hadot, (2011) op. cit. p.73 30 P. Hadot,(1998) op. cit, p.119 31 S. C. Schuster, La pratica filosofica Apogeo editore, 2006, pp.45,46. 32 P. Hadot, ivi, p.170 33 Mario Trombino, www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil 34Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, I-II q. 1, a. 6. 35 Hans Von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, II, fr. 38, Lipsia 1903 36 Platone, Repubblica, 352 d. 56 37 Pierre Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Etudes Augustiniennes, Paris, 1981, pp. 16,17., 169-176. 38 Epicuro, Lettera sulla felicità. Massime capitali. Testo greco a fronte, trad it di M. Lazzati, Brossura, Milano, 2010. 39 L. Annaei Senecae, Epistularum Moralium ad Lucilium Liber Primus. Seneca, Lettere a Lucilio, libro I, Paideia Editrice, Brescia, 2001 40 Renè Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, Giulia Belgioioso (a. c. di), Descartes a Elisabetta, 4 agosto 1645, 267, 514, pp.2060,2061, Bompiani, Milano, 2005. 41 Ivi, Elisabetta a Descartes, 16 agosto 1645, 269, 516, pp. 2064,2065. 42 P. Hadot, 1998 [2007], op. cit. p. 254. 43 René Descartes, (2005), op.cit., Descartes a Elisabetta, 18 agosto 1645, 275, 517, pp.2068,2069 44 Ivi, Descartes a Elisabetta, 18 agosto 1645, 276-277, 517, pp.2070,2071 45 Ivi, Elisabetta a Descartes, 13 settembre 1645, 289-290, 520, pp.2080,2083 46 Ivi, Descartes a Elisabetta, 6 ottobre 1645, 310, 526, pp.2102,2103 47 Ivi, Descartes a Elisabetta, Maggio 1646, 411, 556, pp. 2200,2201 48 M. Benosayag, G. Smith , L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 20,21 49 B. Spinoza, Etica, Borirgheri, Torino 1973 parte IV, proposizione 18 50 S. Weil Attente de Dieu, Arthème Fayard, Paris, 1966, tr. It. Attesa di Dio, Rusconi, Milano, 1972, p.144. 57 La musica non è solo un’arte, ma una categoria dello spirito umano F. NIETZSCHE 1. Pro et contra Wagner Il primo approccio di Nietzsche con il mondo musicale wagneriano risale agli anni giovanili, quando costituì con altri due sedicenni una sorta di sodalizio di estetica, dal nome “Germania”. I conti di cassa della società registrarono, a un dato momento del suo corso, l’acquisto dello spartito del Tristano e Isotta53 (nella versione pianistica a cura di Hans von Bülow), opera wagneriana che nel cuore del giovane Friedrich restò a lungo simbolo di somma perfezione. Solo nell’ottobre 1868 poté finalmente godere dal vivo il sensuale effetto del Preludio, in occasione del concerto tenuto da Wagner all’Euterpe Gesellshaft di Lipsia54. L’incontro diretto di Nietzsche con il musicista seguì a breve, quando Wagner si recò nella città natale, ospite della sorella Ottilie e del cognato Hermann Brockhaus, per una alquanto misteriosa visita in incognito. A seguito delle entusiasmanti discussioni filosofiche e musicali tenute in casa dei Brockhaus, i due si ripromisero di continuare altrove gli interessanti colloqui nei quali s’erano ritrovati sorprendentemente vicini55. Chiamato alla cattedra di filologia classica presso l’Università di Basilea, per segnalazione del maestro NOTE ILLUSORIETÀ DELL’IDEALE WAGNERIANO IN NIETZSCHE di Elsa Martinelli 58 Ritschl56, Nietzsche giunse in città il 19 aprile 1869. Dopo alcune settimane si recò a far visita a Wagner nel soggiorno di Tribschen, presso Lucerna. Approssimandosi alla villa, ascoltò il maestro al pianoforte intento a comporre le armonie del lamento di Brünnhilde in Sigfrido, “Verwundet hat mich, der mich erwekt!” (ferita m’ha colui che m’ha svegliata!)57. Come ridestato da un lungo sonno e illuminato da luce nuova, a seguito di quell’incontro iniziò a guardare al musicista come a una figura centrale della propria esistenza, dando inizio a un rapporto alla lunga tormentato e segnato da ferite insanabili, sebbene fondamentale alla formazione del filosofo. Sentimenti di venerazione e gratitudine per Wagner animarono il giovane in quella fase iniziale dell’amicizia 58. Sebbene impegnato da orari gravosi in università e da una quantità di impegni ai quali attendere in privato, trascorse ore stupende a Tribschen, attratto oltre che dal musicista, dalla di lui consorte, Cosima Liszt59, i quali sembrarono piuttosto ritenere che il dottor Nietzsche non dovesse avere altro compito che tornar utile alle proprie necessità – Cosima rivolgendo all’amico richieste di personali commissioni a Basilea, Wagner affidando alle sue cure la supervisione della stampa dei primi capitoli del proprio Mein Leben60. Pur provando grandissima simpatia riguardo a Nietzsche, l’amicizia del tutto disinteressata fu un lusso che Wagner si permise di rado: riconoscendo al giovane fini doti di scrittore, si adoperò per asservirle alla propria causa. Il titolo di professore onorario di filologia classica conferito a Nietzsche aveva fortemente impressionato il musicista, il quale per parte sua non aveva ricevuto troppi appoggi dai dotti. Per l’ambizioso musicista la compagnia del giovane filologo e del suo brillante collega di studi Erwin Rohde fu motivo di grande orgoglio. In quest’ottica utilitaristica, Wagner si aspettava, evidentemente, che gli scritti di Nietzsche avrebbero 59 concorso a diffondere il wagnerismo nei circoli accademici presso i quali l’entusiasmo era stato, fino a quel momento, pressoché limitato. Benché consapevole di tali manovre propagandistiche61, il giovane filologo restò profondamente legato a Wagner, al quale riconobbe una genialità filosofica oltre che musicale62. Divenuto il rapporto tra i due sempre più stretto, durante il periodo funestato dalla guerra franco-tedesca (1870/71), che segnò il culmine della loro intimità, entrambi attesero a scritti che riflettono questo felicissimo momento della loro amicizia: il Beethoven, redatto da Wagner in occasione del centenario della nascita del musicista (1870), e Die Geburt del Tragödie aus dem Geiste der Musik (La nascita della tragedia dallo spirito della musica), che Nietzsche pubblicò nel gennaio del 187263. L’opera di Nietzsche trae spunto da una serie di problemi estetici, condivisi da Wagner, la cui soluzione fu elaborata per anni nel suo pensiero. Teso allo sviluppo di tali problematiche, aveva tenuto agli inizi del 1870 due conferenze pubbliche a Basilea, rispettivamente dal titolo Il dramma musicale greco (18 gennaio) e Socrate e la tragedia (1 febbraio). I testi di queste due relazioni menzionano già i cortei dionisiaci dell’antica Grecia, ma le categorie “apollineo” e “dionisiaco” vi sono presentate secondo un uso non estetico. Saranno tali poco più oltre nel saggio dal titolo Visione dionisiaca del mondo, redatto nell’estate del 1870. Nel Dramma musicale greco la troppo forte preoccupazione per le tesi wagneriane ostacolò un’esposizione originale: sulla scia di Wagner, Nietzsche insisteva nella critica dell’opera moderna e della tragedia classica francese, contrapponendo ad esse il dramma antico visto come pluralità unificata di parallele prestazioni artistiche. In Socrate e la tragedia le critiche furono indirizzate contro Socrate ed Euripide ritenuti principali corruttori della tragedia. Ricevuto a Tribschen il testo 60 manoscritto delle due conferenze, Wagner restò particolarmente impressionato dalle tesi esposte nelle due relazioni: Ieri sera ho letto il Suo lavoro all’Amica [Cosima]. Dopo di che ho dovuto darmi da fare un bel po’ per calmarla [...]. Quanto a me, ho provato per lo più un certo spavento per l’ardire con cui Ella, così concisamente e categoricamente, comunica una idea talmente nuova ad un pubblico presumibilmente non troppo suscettibile di essere educato, sicché Ella potrà ricevere l’assoluzione soltanto se da quella parte nessuno capirà nulla. Persino coloro che sono iniziati alle mie idee potrebbero, a loro volta, spaventarsi, se a causa di queste idee si trovassero in conflitto con la loro fede in Sofocle e, persino, in Eschilo. Io – per quanto riguarda la mia persona – Le grido: così è! Ella ha colpito giusto, e ha indicato esattamente e con la massima acutezza l’aspetto decisivo, sicché attendo, pieno di meraviglia, il Suo ulteriore sviluppo, per convincermi del comune pregiudizio dogmatico. Ma mi preoccupo per Lei, e mi auguro con tutto il cuore che Ella non debba rompersi il collo. Perciò vorrei consigliarLa di non palesare più idee così sensazionali in lavori che mirano, per fastidiose considerazioni, a un effetto superficiale; bensì se Ella – come riconosco – ne è così profondamente convinto, raccolga le Sue forze per un lavoro più ampio e di più vasta portata su questo argomento. Allora, certamente, troverà anche le parole giuste per gli errori divini di Socrate e di Platone, i quali erano nature così possentemente creative, che, sebbene ci allontaniamo da loro, dobbiamo tuttavia venerarli.64 I presupposti alle teorie contenute nella Nascita della tragedia si riscontrano nel saggio Visione dionisiaca del mondo, inviato da Nietzsche a Cosima Wagner in occasione del Natale 1870, col titolo mutato in La nascita del pensiero 61 tragico. In questo scritto, accanto alle categorie di “apollineo” e “dionisiaco” nella accezione di istinti artistici primordiali furono abbozzati vari temi estetici (il sentimento, il linguaggio gestuale, il simbolismo del linguaggio musicale, il grido), in vista di un approfondimento teoretico dell’intero problema dell’arte. Tali lavori costituirono la trama di riferimento sulla quale impiantare le teorie che informano La nascita della tragedia, primo saggio di grandi proporzioni del giovane filologo sul quale continuarono a incombere le tesi wagneriane al punto che, per le argomentazioni in esso esposte, l’autore dichiarò apertamente di provare nei confronti dell’amico musicista un certo imbarazzo. Quel che aveva pensato e scritto apparve ai suoi occhi la parafrasi imperfetta di intuizioni già da tempo elaborate da Wagner65. Di ciò sembra voler fare ammenda nella minuta di una lettera inviata a Wagner, in data 2 gennaio 1872: Tutto quello che qui ho da dire sulla nascita della tragedia greca, sarebbe stato detto da Lei meglio, più chiaramente e in modo più convincente [...]. Infatti debbo scusare l’esistenza di questo scritto, giacché che cosa potrei raccontarLe, che Ella, proprio in questo campo dell’indagine estetica non abbia già indovinato da lungo tempo? Mentre d’altro canto temo che Ella, in molti punti, troverà che vado a tentoni e sono fuori strada, mentre Ella con una parola ha pronta l’illuminazione decisiva.66 Nel testo definitivo della missiva Nietzsche ribadì tali convincimenti, dando peraltro l’impressione di provare un qualche timore a non poter corrispondere, con la propria opera, a quelle che credeva fossero le aspettative dell’amico musicista: 62 Possa la mia opera, almeno in certo grado, corrispondere alla simpatia che Ella, certo con mia confusione, ha rivolto alla sua nascita. E se io, a mia volta, ritengo di avere ragione nella questione principale, ciò vuol dire soltanto che Ella con la Sua Arte deve avere ragione per l’eternità. In ogni pagina troverà che cerco soltanto di ringraziarLa per tutto ciò che mi ha dato: e in me si insinua soltanto il dubbio, se veramente ho sentito in modo giusto che cosa Ella mi ha dato. [...] Frattanto sento con orgoglio di essere segnato, e che d’ora in poi mi si nominerà in rapporto con Lei.67 Per parte sua, Wagner dimostrò sincero entusiasmo per La nascita della tragedia, e persino Cosima ebbe per Nietzsche parole di elogio per aver concepito e realizzato quel saggio68. Assai diversa fu la posizione assunta riguardo all’opera negli ambienti accademici. Il libro provocò accese polemiche, soprattutto per l’improvvisa direzione intrapresa dall’autore con quella pubblicazione che sembrò costituire una minaccia per la scienza. Fino a quel momento Nietzsche aveva interpretato il ruolo del classico studioso che «accetta la tradizione della filologia, ammonisce i suoi amici a reprimere la fantasia, a rispettare il metodo, a controllare le ipotesi. Poi viene questo libro, dove tutto è contraddetto, dove nessuno allora riconobbe l’autore. Dall’università tedesca esce la rottura della sua stessa visione del mondo, d’improvviso, senza che nessuno potesse aspettarselo, da uno che aveva studiato a Pforta, a Bonn, a Lipsia. [...] Tutti capirono che la scienza ufficiale era in pericolo, che quelli erano modi illeciti, contro il galateo, di trattare l’antichità. L’antichità doveva restare appunto qualcosa di antiquato, di inoffensivo, eventualmente edificante o illustrativo o retorico. Come si poteva permettere che diventasse qualcosa di ingombrante, di vivente, che non si può “storicizzare”, cioè sterilizzare?».69 63 La diffusione dell’opera segnò l’avvio di una furiosa querelle che annoverò nelle file dell’opposizione persino il princeps philologorum, l’erudito Wilamowitz70, il quale replicò pubblicamente alla Nascita della tragedia con il pamphlet Zukunftsphilologie! (1872). In risposta al tentativo di salvataggio del lavoro di Nietzsche ad opera di Wagner e del fidato amico e collega Erwin Rohde71, Wilamowitz ribadì le proprie posizioni pubblicando nel 1873 la seconda parte di Filologia dell’avvenire! La diffusa ostilità e i numerosi giudizi negativi sulla Nascita della tragedia amareggiarono profondamente Nietzsche: Tra i miei colleghi sono diventato improvvisamente così screditato. [...] Tutti mi condannano e perfino quelli “che mi conoscono” non arrivano più in là che a compiangermi per quella “assurdità”. Un professore di filologia [Hermann Usener, filologo e storico delle religioni], che stimo molto, ha detto semplicemente ai suoi studenti a Bonn che il mio libro è “follia pura” e assolutamente inservibile; e che uno che scrive roba del genere è “morto per la scienza”.72 Che un giovane filologo dal così promettente avvenire avesse elaborato la sua prima opera rigettando i mezzi tradizionali della scienza, per di più in favore di una causa (il wagnerismo) guardata con tanto sospetto, apparve come un tradimento che ne decretò la morte accademica. È innegabile che nel saggio vi sia un’impronta wagneriana. La musica della Nascita della tragedia è musica wagneriana e in qualche luogo anche lo stile e il clima espressivo del libro riecheggiano la prosa di Wagner. Se il punto di partenza della meditazione di Nietzsche sulle origini fu l’amore (intensissimo sempre) per il Tristano e Isotta, proprio tale amore estremo celava in sé il presentimento di un conflitto che non tardò ad emergere. 64 È difficile indicare con precisione il momento di frattura, il momento in cui Nietzsche iniziò a dubitare di Wagner e delle sue opere. Con ogni probabilità i dubbi andarono sviluppandosi al tempo del trasferimento a Bayreuth, come annotato in appunti risalenti all’estate del 1876: Il mio errore è stato di andare a Bayreuth con un ideale, perciò dovetti subire la delusione più amara. L’eccesso di volgarità, di sapidità, mi respinse violentemente. Allora non soltanto toccai con mano la completa vanità e illusorietà dell’ideale wagneriano; ma vidi soprattutto che, perfino per coloro che vi erano più impegnati, l’“ideale” non era la cosa più importante, e che le cose del tutto estranee venivano ritenute più importanti, più appassionanti.73 A riconferma di tale sentimento di delusione, ne precisò le motivazioni nel pamphlet dal titolo Nietzsche contra Wagner, scritto nel suo ultimo anno di lucidità mentale (1888-1889): Già nell’estate del 1876, nel bel mezzo del primo festival [al Festspielhaus di Bayreuth], presi dentro di me congedo da Wagner. Non sopporto nessuna ambiguità; da quando Wagner venne in Germania, accondiscese poco per volta a tutto ciò che io disprezzo – persino all’antisemitismo... Era proprio quello, in realtà, il momento giusto per congedarsi: ben presto ne ebbi la prova.74 Nietzsche iniziò a individuare nel wagnerismo, più che una forza artistica rigenerante, una moda, una snervante menzogna, un discorso artificioso da demagogo adatto per ogni folla. L’antico sospetto sulla fondamentale identità tra dramma wagneriano e grand-opéra si fece maggiore certezza. Più nulla poté distogliere Nietzsche dalla 65 convinzione che l’opera di Wagner costituisse un tentativo di imporre e dominare mettendo insieme qualunque cosa: l’elemento nevrotico, quello estatico, sontuoso, fragoroso, tutti scaraventati alla rinfusa entro la cornice grandiosa del grand-opéra. Il teatro totale di Wagner, con la retorica del senso tragico e l’importanza conferita all’elemento drammaturgico-spettacolare, gli apparve ben lontano dall’ebrezza dionisiaca e piuttosto affine al dramma decadente di Euripide. La delusione per tante promesse disattese si fece col tempo più cogente e il distacco dal genio, così devotamente ammirato, doloroso ma necessario: «Niente può compensare per me il fatto di aver perduto negli ultimi anni la simpatia di Wagner [...]. Ma ormai è finita: e a che serve avere ragione in parecchi punti contro di lui».75 Tra il 1876 e il 1888, nel decennio che corse tra la pubblicazione di Richard Wagner a Bayreuth (esaltazione incondizionata del genio wagneriano) e Il caso Wagner (accusa insolente e spietata mossa al musicista), Nietzsche nutrì il proprio risentimento per avere subito e patito il fascino del grande maestro ed elaborò la propria rivolta contro la modernità, che Wagner compendiava, nel timore, tuttavia, di ricadere nella sua rete. Visse il rapporto di amore-odio con Wagner in termini esasperati, persino allucinati, quando non solo dichiarò il suo entusiasmo per il Bizet della Carmen76, ma gli capitò addirittura di affermare la sua preferenza per l’opera di Peter Gast, musicista destinato nel tempo al più completo e meritato oblio77. La prospettiva era inevitabilmente mutata, definitivo e ineluttabile il congedo dal musicista: Eravamo amici, e siamo diventati estranei. Ma è giusto che sia così, e non vogliamo nascondercelo né stendervi un velo, quasi che dovessimo vergognarcene. Siamo due navi, ognuna delle quali ha il suo fine e la sua rotta; possiamo 66 benissimo incrociarci e far festa insieme, come abbiamo fatto, [...] forse ci rivedremo ma non ci riconosceremo: i mari e i soli diversi ci hanno cambiato! Che dovessimo diventare estranei l’uno all’altro è la legge che sta sopra di noi: ma proprio così dobbiamo diventare più degni di noi! Proprio così il pensiero della nostra amicizia di un tempo deve diventare più sacro!78 La grande illusione wagneriana era finita, i problemi posti nei libri erano diventati vita, iniziavano gli anni del tormento fisico. L’ultimo Nietzsche rimase solo, con i suoi interrogativi inquietanti e le sue convinzioni (il tentativo sovrumano di una affermazione e giustificazione della vita, il valore della scienza e dell’arte e la loro giustificazione dinanzi alla vita). Perduto ogni contatto con quelli che pure lo avevano seguito nella sua avventura, volse l’esistenza verso un tragico epilogo. Il velo protettivo della pazzia gli evitò ulteriori tradimenti ed equivoci. 2. Sogno ed ebrezza Die Geburt del Tragödie aus dem Geiste der Musik (La nascita della tragedia dallo spirito della musica) è il primo importante saggio del 1872 con il quale Nietzsche si allontanò dagli studi rigorosamente filologici che avevano caratterizzato gli anni della formazione, per rivolgere i suoi interessi alla filosofia. Gli studi scientifici, che pure gli avevano procurato numerosi successi (appena venticinquenne fu nominato professore straordinario di filologia classica presso l’Università di Basilea, incarico che tenne dal 1869 al 1879), non poterono più soddisfare gli impulsi che lo spinsero a indagare nel passato per ritrovare le verità originarie della vita, quel desiderio di vivere l’arte e non farne solo oggetto di metodica ricerca. Questi stimoli e alcuni felici incontri della sua esistenza (la scoperta della 67 filosofia di Schopenhauer e l’amicizia con Wagner) fecero di un così promettente filologo un eccellente pensatore. In questa metamorfosi vanno collocate le sue meditazioni sull’arte tragica e musicale che trovarono sfogo sistematico nel saggio filosofico dal titolo La nascita della tragedia. Per Nietzsche il mondo può essere spiegato solo in termini estetici (obiettivo principale è trovare nella propria speculazione un posto per la tragedia dell’esistenza, dimostrare che essa appartiene a quell’affresco totale della vita vista come processo creativo). Per fondare la propria teoria prende spunto dal mondo greco: il popolo ellenico è il solo che, nella storia dell’umanità, abbia sentito profondamente la tragicità dell’esistenza, riuscendo a trasfigurare la consapevolezza del dolore nell’arte. Il pensiero nietzscheano muove dalla medesima diagnosi della vita fornita da Schopenhauer: l’esistenza è dolore, caos, lotta insensata e crudele. A fronte della cieca animalità del vivere, Schopenhauer aveva indicato la via della rinuncia e dell’ascesi contemplativa, ora Nietzsche respinge questa morale schiva, tipica dell’umiltà cristiana, per affermare la necessità di accettare e celebrare entusiasticamente la vita, così com’è. Indica il popolo ellenico quale luminoso esempio, nella storia della civiltà, della possibilità di dominare le oscure forze della natura, dominazione che i Greci conseguirono facendo ricorso al “mondo intermedio” degli dei olimpici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura [...] fu dai Greci ogni volta superata o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei 68 olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dei.79 Deriva da tali premesse il celebre assunto della Nascita della tragedia, vale a dire il conflitto tra “apollineo” (capacità di contemplare, sognare, creare nel sogno e nell’illusione) e “dionisiaco” (forza dell’ebrezza, del delirio, impulso che bandisce limite e rassegnazione). Alle loro [dei Greci] due divinità artistiche, Apollo e Dioniso si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: i due impulsi così diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine “arte” solo apparentemente supera; finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della “volontà” ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica.80 La spiegazione delle varie fasi della civiltà e cultura greche va ricercata nel conflitto tra Apollo e Dioniso, tra impulso apollineo e impulso dionisiaco (sogno ed ebrezza), i quali di volta in volta avrebbero prodotto opere d’arte secondo che l’uno o l’altro, vicendevolmente, abbia prevalso. La conciliazione delle due forze in contrasto trova attuazione nella tragedia attica del V secolo a.C. Da buon esegeta dell’antichità, Nietzsche pone la questione delle origini della tragedia e del ditirambo drammatico. Teoria di partenza è ancora la teoria della musica di Schopenhauer, che vuole la musica radicalmente separata da ogni altra forma artistica: la musica rappresenta 69 la realtà metafisica, mentre le altre arti sono solo prototipi della realtà. Anche in Nietzsche la musica rappresenta la “volontà”, ma il problema consiste nel superare la distinzione tra le varie arti e realizzare un’organica unione tra musica e poesia, essendo la tragedia scaturita dallo spirito della musica. Il punto sul quale Nietzsche si allontana da Schopenhauer sta nella poesia lirica, originariamente unione di parole e musica. In questo legame trova germe la coordinazione tra musica e dramma. Il poeta lirico (artista dionisiaco) si identifica nel suo delirio con l’uno originario, col reale metafisico, producendo un’immagine riflessa di tale reale come musica finché, sotto l’influsso del “sogno apollineo”, tale musica gli ridiventa visibile in una visione che gli permette di interpretare la propria esperienza metafisica. La poesia è effolgorazione imitativa della musica in immagini e concetti balenanti, immagini che, in forma più estesa, divengono ditirambi drammatici e tragedia. Una melodia può produrre un numero indefinito di effolgorazioni imitative, di visioni illusorie. Tali effolgorazioni non sono altro che un tentativo del poeta di interpretare la propria esperienza musicale a se stesso in forma visionaria. Non sempre tali tentativi hanno completo successo, essendo impossibile esprimere adeguatamente in parole il significato metafisico della musica. Il linguaggio compie ogni sforzo per imitare o esprimere la musica, ma non c’è sentiero che conduca dal reale metafisico (la musica) alla comprensione (le parole della poesia). Solo la musica, grazie all’intimo rapporto che ha con la vera essenza delle cose, ci dà di esse il senso più chiaro, arricchendo di significato, con la propria potenza espressiva, le immagini e i concetti, i quali, per parte loro, sono in grado solo di imitare l’apparenza. La musica rappresenta l’origine, l’identificazione con le forze primordiali e istintive, costituisce il nucleo, l’essenza intima 70 delle cose, con la conseguente indipendenza da immagine e concetto, capaci solo di restituirne l’involucro. Dalla teoria della poesia lirica Nietzsche pone in evidenza la proposizione più importante sull’origine della tragedia greca. Accogliendo i dati della tradizione indica come prima forma di poesia tragica il coro ditirambico dei satiri adoratori di Dioniso. Nel satiro riconosce un simbolo dionisiaco attraverso il quale il coro trascende ogni convenzione sociale e ricerca la conciliazione di uomo e natura, per un processo in difesa dal nichilismo. Nella loro profonda conoscenza del dolore, i Greci superarono il rinnegamento della vita trasformandola in arte tragica. Il germe della tragedia va individuato in un gruppo di adoratori di Dioniso che, incantanti nella propria estasi e convertiti nella propria immaginazione in satiri, trovano unione con le forze della natura. Nasce, così, il coro tragico che nell’estasi dionisiaca (come il poeta lirico) ha una visione (originariamente le sofferenze di Dioniso). Questo coro contempla nella sua visione il suo signore e maestro Dioniso ed è perciò in eterno il coro servente: esso vede come questi, il dio, soffra e si glorifichi, e perciò non agisce esso stesso. Nonostante questa posizione, assolutamente servile di fronte al dio, esso è tuttavia l’espressione suprema, cioè dionisiaca della natura, e perciò nell’entusiasmo pronuncia, come questa, sentenze oracolari e di saggezza; come partecipe della sofferenza esso è insieme il saggio, che annuncia la verità del cuore del mondo.81 Se il coro è la rievocazione dei πάθη, delle sofferenze di Dioniso, occorre spiegare l’evidenza delle fonti, vale a dire giustificare il contenuto dei drammi pervenuti che solo occasionalmente fanno riferimento a Dioniso e ai suoi riti, mentre in sostanza il soggetto delle tragedie è tratto dai miti 71 sugli eroi. Nietzsche risolve la questione sostenendo che, nel momento in cui la vicenda teatrale si trasforma in rappresentazione di eventi mitici, l’eroe tragico rappresenta in realtà il nume celato. È tradizione incontestabile che la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso, e che per molto tempo l’unico eroe presente in scena fu appunto Dioniso. Con la stessa sicurezza peraltro si può affermare che fino a Euripide Dioniso non cessò mai di essere l’eroe tragico, e che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo, Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quell’eroe originario. Che dietro a tutte queste maschere si nasconda una divinità, è l’unica ragione essenziale della tipica “idealità”, così spesso ammirata, di quelle celebri figure.82 La morte dell’eroe tragico è simbolo della morte del dio e della sua rinascita garantita dall’illusione apollinea che, collocandosi come un mondo interposto tra l’individuo (i satiri del coro ditirambico, l’eroe-dio) e la frantumazione del suo essere individuale, gli rende salva la vita. Come il poeta lirico nella funzione inebriante con il reale metafisico produce dalla sua musica molte imitazioni o effolgorazioni in parole, il coro dionisiaco “si alleggerisce” ripetutamente nelle visioni apollinee. Scena drammatica e azione sono una serie di visioni originariamente presenti nella mente del coro, di seguito proiettate nel teatro reale. Il dramma, nel senso più stretto del termine, inizia quando la massa (originariamente solo ed esclusivamente tutto il coro) si divide in attori e pubblico. Intento originariamente ad auto-estasiarsi, il coro assume in questa separazione il compito di diffondere la propria estasi tra gli spettatori, mentre il pubblico, identificatosi con esso, può godere della sua medesima visione. Il pubblico delle 72 origini non ha richieste razionalistiche tipiche di quello euripideo o dell’opera: completamente ipnotizzato ed estasiato mediante i canti del coro realizza la sua stessa visione. Tutta la rappresentazione poggia sull’unione ritualistica e religiosa del pubblico con gli attori. Fino a quando tale rapporto ideale è in grado di esistere, lo spirito della tragedia corrisponde strettamente allo spirito degli spettatori. Lo stile primigenio sta proprio nell’unione di musica e visione, nella combinazione impenetrabile di sfondo e primo piano, di profondità e semplicità. Il mondo visionario, col dialogo degli attori, si rivela chiaro e trasparente, ma di una superficialità ingannevole che maschera, in realtà, le più grandi profondità dionisiache e tragiche. Il declino della tragedia greca è prodotto di un nuovo stile e, conseguentemente, di un diverso atteggiamento del pubblico. È quel che avviene con i drammi di Euripide, laddove il poeta non riconosce la funzione dell’elemento dionisiaco della tragedia, anzi lo rimpiazza col razionalismo e la passione, mettendo in scena l’uomo quotidiano, la maschera fedele della realtà nella quale lo spettatore non riconosce altri che se stesso: «Per opera sua l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura».83 Più che il cittadino medio, Euripide intende soddisfare con la propria arte due figure taciturne e assorte individuate nella cavea rumorosa. In ordine, lo stesso Euripide, visto non come poeta, ma come pensatore che assiste perplesso ai drammi di Eschilo e di Sofocle: «Così egli sedette in teatro, stillandosi inquietamente il cervello da spettatore confessò a se stesso di non capire i suoi grandi predecessori».84 Al fianco di Euripide, come secondo spettatore, è Socrate, quel 73 demone che oppone all’entusiasmo dionisiaco il genio razionalizzante. Benché per solito si attribuisca a Euripide l’uccisione materiale della tragedia, Nietzsche individua in Socrate il vero antagonista dello spirito tragico dato che in virtù del principio socratico secondo il quale “tutto deve essere razionale per essere bello” il poeta osò spingere la propria arte nella sfera limitante della dialettica, causandone l’inevitabile declino. Il nuovo stile accorda così la vittoria allo spirito scientifico, a tutto svantaggio dello spirito istintivo, e tale vittoria sarà simbolo di tutte le epoche di decadenza. Alla luce di tale lotta storica ideale, tra spirito critico e spirito dionisiaco, Nietzsche interpreta le grandi tappe della civiltà musicale, dalla tragedia attica fino al melodramma dei suoi tempi. La logica socratica ha plasmato anche il mondo dei suoni realizzando un prodotto, il melodramma, che priva la musica della sua missione universale dionisiaca, per conferirle carattere di puro diletto. Se il programma degli umanisti fiorentini della Camerata de’ Bardi intende far rivivere in questa nuova forma d’arte lo spirito della tragedia greca, con Nietzsche il melodramma non rappresenta la rinascita di tale spirito, ma ancora una volta decreta la vittoria della cultura anti dionisiaca. Con la sua innaturalità ed esteriorità il recitativo può essere giustificato esclusivamente da una “tendenza extra-artistica”.85 Questo alternarsi di discorso appassionatamente insistente, ma cantato solo a metà, e di interiezioni tutte cantate, che è nella natura dello stilo rappresentativo, questo sforzo rapidamente mutevole di agire ora sul concetto e la rappresentazione, ora sul fondo musicale dell’ascoltatore, è qualcosa di così totalmente innaturale e di così intimamente contraddittorio – in pari misura – con gli impulsi artistici del 74 dionisiaco e dell’apollineo, che bisogna dedurre un’origine del recitativo che si trovi al di fuori di tutti gli istinti artistici.86 Anche la cultura socratica ha conosciuto il momento del declino. Nietzsche colse i sintomi del risveglio dello spirito dionisiaco nella propria epoca e, in particolare, in Wagner, ultimo grande rappresentante della musica tedesca, dopo Bach e Beethoven. Quanto non era riuscito agli eroici restauratori dell’ideale greco nella poesia e nel pensiero (non a Goethe, né a Schiller o a Winckelmann) si andò realizzando, nel suo presente, grazie alla irresistibile forza del dramma wagneriano. Nel dramma musicale di Wagner l’individuo attinge le più alte verità metafisiche, ode il grido di esultanza e angoscia che si leva dalle profondità del mondo senza esserne annientato. Come un tempo fece la tragedia greca, il dramma wagneriano frappone tra rivelazione dionisiaca e ascoltatore il mito, quale mezzo di salvazione dalla rinuncia ascetica. Sulla sua persona, l’eroe del mito accetta il peso della suprema idea del mondo. Solo commiserando lui con pietà profondissima ci si può salvare dal dolore primordiale. Nell’illusione apollinea le immagini allegoriche del mito (Wotan, Brünnhilde, Tristano), soffrendo, additano la verità e difendono dalla spaventosa esperienza del dolore. La luce di una nuova cultura del mondo è nel mito germanico spinto ai più alti significati dalla musica di Wagner. Pur nell’entusiastica considerazione del dramma musicale wagneriano, Nietzsche vi riconobbe solo l’esempio più vicino al proprio ideale tragico, e già all’epoca della Nascita della tragedia i dubbi sui drammi di Wagner poi divenuti certezze si fecero in qualche modo sentire. Nietzsche si trovò imbrigliato in pochi problemi nella stesura del saggio, per non venir meno alla fedeltà verso l’amico musicista e più ancora per non dover rinunciare alle proprie convinzioni. Proprio il tentativo di conciliare 75 l’inconciliabile spiega alcune affermazioni provvisorie contenute nella Nascita della tragedia o le vaghe allusioni che lasciano spazio, com’è loro prerogativa, a differenti interpretazioni. A ben vedere, gran parte dei riferimenti a Wagner appare velata da una certa ambiguità. Servendosi di tale escamotage Nietzsche riuscì a salvare la propria lealtà verso l’amico e mascherare la contraddizione tra Wagner e se stesso, in specie riguardo al fondamentale problema della relazione tra musica e dramma. Se in Wagner tutte le arti concorrono alla realizzazione dell’unico fine che è il dramma (nella sua concezione la musica è solo un mezzo), Nietzsche guardò alla musica come arte autosufficiente, capace di annullare in sé ogni contenuto poetico e drammatico. Appare evidente quanto l’affermazione di Wagner, della derivazione della musica dal dramma, potesse essere fonte di grande imbarazzo per Nietzsche, il quale peraltro nella prima stesura della Nascita della tragedia definì questa tesi una “mostruosa superstizione artistica”, omettendo ovviamente una così negativa e radicale considerazione nelle versioni successive. Nietzsche fu combattuto tra opposti sentimenti riguardo a Wagner, le cui opere gli si offrirono esclusivamente come primo progredire nella giusta direzione, più che come esemplificazione perfetta del proprio ideale di tragedia. Scorrendo con cura il saggio e leggendo attentamente tra le righe della Nascita della tragedia diventa palese come Nietzsche si premunì dal proclamare nettamente Wagner novello Eschilo, lasciando invece intendere che se uno ce ne sarebbe stato, sarebbe stato prodotto del futuro. Le speranze poggiavano ancora sul potere dionisiaco della musica tedesca, ma lo sguardo di Nietzsche era rivolto alle generazioni a venire, nella scia di Wagner, oltre Wagner. 76 1 La prima del Tristano e Isotta di Wagner si era tenuta all’Hoftheater di Monaco in data 10 giugno 1865. 2 Nietzsche confidò all’amico Erwin Rohde (Amburgo 1845Heidelberg, 1898) le impressioni e sensazioni di rapimento suscitate in lui da quel concerto in una lettera, in data 27 ottobre 1868, per la quale cfr. F. NIETZSCHE, Epistolario 1850-1869 (a cura di G. Colli e M. Montinari), Milano, Adelphi 1976, pp. 637-640. 3 Nietzsche riferì a Rohde con entusiasmo di questo primo incontro con Wagner in una lettera da Lipsia, in data 9 novembre 1868, ibid., pp. 642-650. 4 Il filologo Friedrich Wilhelm Ritschl (Großvargula, 1806-Leipzig, 1876) fu un fervido studioso dei testi di Plauto e professore in varie università, quali Halle, Breslavia, Lipsia e Bonn. 5 Atto III, scena III. 6 In proposito, cfr. le testimonianze dello stesso Nietzsche, che si possono leggere passim in Carteggio Nietzsche Wagner (a cura di M. Montinari), Torino, Boringhieri, 1959, Epistolario1850-1869, cit., e F. NIETZSCHE, Lettres choisies (20 novembre-21 dicembre 1888), Paris, Stock 1931. 7 Sposata da Wagner in seconde nozze dopo il divorzio dal musicista Hans von Bülow. 8 La mia vita (1865-1880). 9 Perfino Nietzsche fu cosciente del desiderio dei wagneriani di mettere a frutto le sue capacità letterarie. Al riguardo, cfr. la lettera a Rohde, in data 28 febbraio 1869, in Epistolario 1850-1869, cit., pp. 684-687: «Recentemente ho espresso alcuni miei punti di vista sulla musica del futuro, e ora i seguaci di questa cercano insistentemente di cavarmi fuori qualcosa: io, per quanto mi riguarda, non ho la minima voglia di mettermi subito a schiamazzare in pubblico come una gallina. Senza considerare poi che i miei signori fratelli in Wagnero [sic] sono per la maggior parte terribilmente stupidi e scrivono in modo disgustoso». 77 10 Per gli esaltanti giudizi su Wagner confidati da Nietzsche all’amico Rohde, cfr. la lettera da Lipsia, in data 9 dicembre 1868, ibid., pp. 656-661. 11 Per le diverse stesure e rielaborazioni di quest’opera, cfr. le note di G. Colli e M. Montinari in appendice a F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi 1972, vol. III, t. I, pp. 499503. 12 Lettera da Tribschen, in data 4 febbraio 1870, in Carteggio Nietzsche Wagner, cit., pp. 33-35. 13 Spunti e analogie con le teorie esposte nella Nascita della tragedia si riscontrano, in particolare, negli scritti zurighesi di Wagner: L’arte e la rivoluzione (1849), L’opera d’arte dell’avvenire (1849), Opera e dramma (1851). 14 Carteggio Nietzsche Wagner, cit., pp. 54-55. 15 Ibid., pp. 55-56. 16 Cfr. lettere di Wagner, in data 4 e 10 gennaio 1872, ibid., rispettivamente p. 57 e pp. 57-60: «Caro amico! Non avevo ancora letto niente di più bello del Suo libro! Tutto è magnifico!»; «E ora Ella pubblica un lavoro che non ha eguali. Ogni influenza che potrebbe essere stata esercitata su di Lei è ridotta quasi a nulla dall’intero carattere di questo Lavoro: ciò che contraddistingue il Suo libro rispetto a tutti gli altri, è la compiuta sicurezza con cui vi si manifesta un carattere estremamente profondo»; e ancora, v. lettera di Cosima Wagner a Nietzsche, in data 10 gennaio 1872, ibid., pp. 134-135: «In questo libro, Ella ha evocato degli spiriti che credevo ubbidissero soltanto al nostro Maestro [Wagner]; Ella ha gettato la luce più intensa su due mondi, dei quali l’uno non lo vediamo perché è troppo lontano, l’altro non lo conosciamo perché ci è troppo vicino: sicché afferriamo la bellezza che ci ha esaltato e riempito di presentimenti, e comprendiamo la volgarità che per poco non ci soffocava. [...] Non posso dirLe quanto mi commuova il Suo libro, nel quale Ella constata con estrema semplicità la tragicità della nostra esistenza; e come Le è riuscito di ottenere la massima chiarezza nelle questioni più difficili!». 17 Dalla nota introduttiva di G. Colli a F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi 1986, pp. XI-XII. 18 Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (Markowitz, 1848-Berlino, 1931). 78 19 Wagner intervenne in difesa del saggio incriminato con una lettera aperta a Nietzsche, pubblicata in “Norddeutsche Allgemeine Zeitung” il 23 giugno 1872; Rohde contribuì con due recensioni all’opera, entrambe del ’72 (la prima presentata come comunicazione al “Litterarisches Centralblatt”, ma respinta dal direttore della rivista, la seconda per la “Norddeutsche Allgemeine Zeitung”) e con una lettera a Wagner, dal titolo Afterphilologie, sempre del ’72. 20 Lettera a Wagner, da Basilea, in data metà novembre del 1872, in Carteggio Nietzsche Wagner, cit., pp. 81-84. 21 Ibid., pp. 153-154. 22 F. NIETZSCHE, Nietzsche contra Wagner (a cura di G. Colli e M. Montinari), Milano, Adelphi 1970, vol. VI, t. III, p. 406. 23 Lettera a Peter Gast, in data 20 agosto 1880, in Carteggio Nietzsche Wagner, cit., pp. 164-165. 24 Nietzsche ebbe modo di assistere alla prima italiana della Carmen di Bizet il 27 novembre 1881 al Teatro Paganini di Genova, restando particolarmente entusiasta del carattere di quest’opera istintiva, solare e mediterranea, ricca di accenti estremamente tragici, ma anche chiara e intellettuale. Nel saggio Der Fall Wagner (Il caso Wagner) del 1888, originariamente pubblicato con il sottotitolo Il problema di un musicista, esaltò gli elementi esotici di quest’opera e la chiarezza strutturale della sua partitura, definendola un simbolo della vera nuova musica. Al riguardo, cfr. L. ABBATINO, Nietzsche tra Wagner e Bizet. La Carmen di Bizet vista da Nietzsche, Lecce, Pensa multimedia 2007. 25 Peter Gast, pseudonimo di Heinrich Köselitz (Annaberg, 1854-ivi, 1918), studiò filologia e filosofia presso l’università di Basilea sotto la guida di Burckardt, Overbeck e dello stesso Nietzsche, alla morte del quale si dedicò alla sistemazione dell’archivio in Weimar. Tra le composizioni di Gast (dalle opere teatrali alla musica da camera e per coro) si ricorda l’elaborazione per orchestra della Manfred-Meditation e dell’Hymnus an das Leben di Friedrich Nietzsche; in merito ai giudizi in favore di Peter Gast, cfr. la lettera di Nietzsche alla madre, in data 30 ottobre 1887, in Lettres choisies, cit., p. 255: «Cette amélioration de situation lui a permis de recommencer à composer des choses admirables bien éloignées, fort heureusement, du coup de poing et de la crispation 79 de Wagner», e ancora la lettera di Nietzsche allo stesso Peter Gast del 31 maggio 1888, ibid., p. 282: «Toutes les fois qu’une de vos mélodies me vien à l’esprit je m’attarde à ces souvenirs avec une longe rèconnaissance: rien ne m’ha jamais mieux renouvelé, et élevé, et allégé que votre musique. C’est ma bonne musique par excellence, et je me revêts toujours l’âme pour elle d’une vêtement plus net que pour toute autre». Per la musica di Nietzsche (73 composizioni musicali), v. S. ZACCHINI, Al di là della musica. Friederich Nietzsche nelle sue composizioni musicali, pref. di Giorgio Penzo, Milano, Franco Angeli 2000. 26 Aforisma sull’amicizia “astrale”, in Carteggio Nietzsche Wagner, cit., p. 165. 27 F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia (ed. critica a cura di G. Colli e M. Montinari), Milano, Adelphi 1972, vol. III, t. I, p. 32. 28 Ibid., p. 21. 29 Ibid., p. 62. 30 Ibid., p. 71. 31 Ibid., p. 76. 32 Ibid., p. 81. 33 Ibid., p. 124. 34 Ibid., p. 125. 80 LE PAROLE SONO RIVOLTELLE CARICHE PRATICA LETTERARIA, SITUAZIONE ED ENGAGEMENT IN JEAN-PAUL SARTRE di Andrea Mincigrucci La drammatica contingenza storica della guerra e dell’occupazione, l’esperienza della resistenza e dell’azione clandestina: tutto ciò non poteva passare senza conseguenze, filosofiche e letterarie, nell’esistenza di Jean-Paul Sartre. Quando viene dato alle stampe il saggio Que est-ce que la littérature? è il 1947. Fino ad allora, il pensiero del filosofo francese, declinatosi da subito sia nella sfera prettamente filosofica che in quella letteraria, si aggirava tra le maglie riflessive di un solipsismo esistenziale, dando forma all’atteggiamento dell’uomo solo, che rappresenta la struttura portante del suo primo romanzo, La Nausée. L’intellettuale borghese che cerca di smascherare la malafede della sua classe di provenienza che rifiuta e odia, non è solo un personaggio letterario ma una figura filosofica forte; egli subisce un’evoluzione che è la stessa che supporta l’intera esistenza del suo autore. Già ne L’Être et le Néant, Sartre si era reso conto in corso d’opera della necessità del superamento dell’impasse teoretica del solipsismo, così come lo aveva posto. Nella sua visione della “condizione umana secondo l’esistenzialismo”, sottotitolo del suo trattato di ontologia, egli aveva introdotto, dopo l’analisi del rapporto individuale che intercorre tra l’essere umano come coscienza e il mondo come in-sé – che d’altronde mantiene - quelle 81 categorie di ipseità, situazione e essere-per-altri, che denotano i prodromi della sua svolta, teoretica ed esistenziale. Per un intellettuale a tutto tondo come egli era, il solo ambito teoretico era eccessivamente ristretto, il limitarsi all’indagine astratta del pensiero e delle sue modalità di conoscenza rappresentava un tradimento del concreto. Rimasto sempre fedele al suo l’esistenza precede l’essenza, sentiva la necessità di un ripensamento della letteratura, vista come apertura della riflessione filosofica al mondo concreto della Storia, come messa-in-situazione del pensiero stesso. Il saggio che qui si cerca di analizzare, si mette subito in luce per la sua impostazione rivoluzionaria e “scomoda” sul che cosa è quella produzione umana intellettuale, la letteratura, e su che cosa siano, o debbano impegnarsi a diventare, lo scrittore e – per la prima volta nella storia culturale europea – il lettore. La ricerca solipsistica della coscienza autodichiaratasi autonoma de La Nausée e, in parte, dei personaggi che compongono il mosaico di racconti della raccolta Le Mur, viene soppiantata da Sartre da una serie di domande all’apparenza banali ma di un portata storica e culturale fondamentale per l’evoluzione del romanzo nel Novecento, che vengono poste direttamente in seno all’agone della produzione letteraria. Senza dimenticare che tale agone si svolge nel teatro situazionato della Storia. Perché si scrive? Per chi si scrive? Che cos’è scrivere? Possiamo affermare che il porre queste tre domande, che rappresentano il fulcro, l’ossatura di Que est-ce que la littérature? abbia creato un sommovimento di grande portata all’interno del panorama letterario non solo francese ma europeo e mondiale. L’incedere del saggio, che non a caso porta una domanda come titolo, è una riflessione di ampio respiro sul fenomeno letterario, sui rapporti tra letteratura e società, sui compiti e il ruolo dell’intellettuale moderno, lo scrittore-in-situazione. Possiamo affermare che questo saggio, centrale nello sviluppo del pensiero sartriano, abbia rappresentato anche uno degli snodi 82 fondamentali per comprendere l’evoluzione della Teoria del Romanzo e i suoi fondamentali legami con la Storia e con l’esistenza umana. L’unicità della letteratura e il problema del significato. Secondo Sartre, ciò che è alla base di tutte le arti è una stessa scelta indifferenziata, che in un secondo momento verrà determinata dalle contingenze del mondo. In una medesima epoca storica, tutte le arti sono influenzate dai fattori sociali, politici e culturali nei quali sono immerse, e sono vicendevolmente condizionate da loro stesse. Ma esse non sono fra loro parallele; non solo la forma ma anche la sostanza diversifica fra loro le arti. È quindi un problema di significato, in quanto non è possibile dipingere o mettere in musica i significati, ma è possibile scrivere dei significati. A differenza del poeta, lo scrittore di prosa ha a che fare con i significati. Secondo Sartre, infatti, la poesia fa coppia con la scultura e la pittura, il poeta non si serve delle parole come il romanziere, e anzi le serve, «si ritirato di colpo dal linguaggio-strumento; ha scelto una volta per sempre l’atteggiamento poetico che considera le parole come cose e non come segni»1. Le parole non perdono completamente il loro significato, ma vengono rovesciate, esso diviene naturale, e il linguaggio diviene lo specchio del mondo, per cui una parola diviene un’immagine verbale scelta per somiglianza ad un oggetto del mondo, ma che può tranquillamente non essere la parola con la quale il linguaggio designa e significa un determinato oggetto. La parola poetica è una sintesi di reciproche implicazioni tra corpo sonoro ed anima verbale. Viene così a instaurarsi tra la parola e la cosa, un duplice rapporto di significato e rassomiglianza magica, e ciò compone quell’unità poetica della frase-oggetto. Diversamente la prosa è utilitaria, e lo scrittore si serve delle parole, le quali diventano un particolare momento dell’azione. La prosa, quindi, assume essa stessa i caratteri di una certa azione, mentre la poesia è 83 contemplazione disinteressata delle parole. Lo scopo del linguaggio è comunicare, parlare è agire. «Così nel parlare, svelo la situazione mentre progetto di cambiarla; la svelo a me stesso e agli altri prima di cambiarla.»2 Il concetto di situazione: perché non si può essere imparziali. Quindi, se da un lato la scrittura di prosa si struttura a partire da un impegno concreto nel mondo presente, dall’altro essa mette in atto una certa trascendenza, che lo supera in direzione dell’avvenire; lo scrittore – di prosa – è colui che, quindi, ha scelto di agire in un modo ben determinato, che Sartre chiama di azione per rivelazione. Se la parola è azione e lo svelare attraverso le parole è già un cambiamento, lo svelamento è possibile solo all’interno di un progetto di cambiamento. Non è possibile quindi un’imparzialità e, paradossalmente e ironicamente, Sartre ci dice che qualora dio esistesse non potrebbe essere imparziale di fronte all’uomo e si troverebbe in-situazione. Evidentemente, assume centralità il concetto di situazione, esplicitato già ne L’Être et le Néant e che nel discorso letterario fonda l’urgenza della scrittura, la sua traiettoria e la sua produzione di significati. La situazione è l’intersezione tra l’inseità del mondo, che limita la mia libertà sottoforma di dati e strutture situazionanti (il luogo di azione, il passato storico-esisitenziale del singolo, le cose che mi circondano e il loro coefficiente di utilizzabilità, la presenza dell’Altro, l’alienazione che, superata e superabile attraverso l’azione non può mai essere del tutto eliminata, e che invece rappresenta il carattere essenziale di ogni situazione, la molla della nostra presa di coscienza, e la morte come caduta irresolubile e assurda nella datità definitiva) e la libertà dell’individuo, che si esplicita nel progetto, come superamento, attraverso l’azione, della situazione attuale verso l’avvenire. Il linguaggio si situa come modalità primaria e fondamentale attraverso la quale declinare tale impegno: tutt’altro che 84 innocenti, disinteressate o imparziali, le parole sono rivoltelle cariche. «Lo scrittore ha scelto di svelare il mondo e, in particolare, l’uomo agli altri uomini, perché questi assumano di fronte all’oggetto così messo a nudo tutta la loro responsabilità»3. Attraverso lo scrittore e la sua produzione, nessuno ha più il diritto di ignorare il mondo e di proclamare la propria innocenza nei suoi confronti. Nei rapporti dell’uomo col mondo e con gli altri uomini, una volta che si compie il passo verso il linguaggio, questi diventa ineludibile, non è più possibile uscirne e anche il tacere, lungi dall’essere un indifferente mutismo, assume i caratteri del rifiuto di parlare, e quindi, attraverso questo suo stesso rifiuto, è già un parlare. La centralità della situazione con cui lo scrivere necessariamente si trova in rapporto, per Sartre non solo pone in secondo piano lo stile – in quanto prima del come bisogna sapere su che cosa scrivere – ma spiega anche i cambiamenti e le evoluzioni linguistiche come il rinnovamento di una lingua che si trova sprovvista di mezzi adatti per affrontare nuove situazioni a lei successive. Viene rimproverato a Sartre che lo scrittore, anziché trattare argomenti temporali, dovrebbe lanciare al lettore dei messaggi, ma questi messaggi sbandierati dai “critici”, sarebbero solo messaggi vuoti, in quanto svuotati dei contenuti reali che lo scrittore voleva comunicare ai propri lettori. Ciò che vorrebbero è che, distaccandosi nettamente dalla realtà, lo scrittore parli di argomenti superati e di idee talmente vuote e generiche che convincano in partenza il lettore. Ma secondo Sartre, «il pensiero nasconde l’uomo, ed è proprio l’uomo che ci interessa»4. La vera e pura letteratura, allora, altro non sarebbe che una soggettività che si offre sotto le mentite spoglie dell’oggettività, un discorso disposto abilmente in modo tale da essere silenzio, un pensiero che nega se stesso, una Ragione come maschera della follia. «Il messaggio, in fin dei conti, è un’anima fatta oggetto. Un’anima; e che cosa si fa d’un’anima? La si contempla a rispettosa 85 distanza»5. La letteratura dunque si esaurirebbe nell’arte letteraria, cioè in una serie di trattamenti che la renderebbero inoffensiva. Secondo Sartre, al contrario, ogni scritto è un’impresa e lo scrittore, prima di essere morto, è vivo nel suo tempo, e anche qualora l’avvenire dia torto alle sue opere, non è comunque un buon motivo per darselo da soli in partenza. Lo scrittore deve impegnarsi nelle proprie opere come volontà risoluta, come scelta, come impresa totale di vivere. Soggettivismo della creazione ed esigenza dialettica della lettura: il ruolo del lettore. Uno dei motivi primari della creazione artistica è quello per l’uomo di sentirsi essenziale al mondo, nonostante egli sia completa gratuità, sia di troppo per l’eternità. Attraverso il linguaggio viene rivelata una parte dell’essere, e l’uomo è il mezzo attraverso il quale le cose si manifestano. Egli fa sì che si manifestino, ma non le produce, e ciò crea quel sentimento di inessenzialità che lo spinge verso la creazione artistica. Ma ci troviamo comunque divisi tra due fuochi; certamente sono essenziale all’oggetto che creo, ma esso mi sfugge in quanto ne sono io il creatore, poiché non si può svelare e produrre contemporaneamente; la creazione diventa inessenziale all’attività creatrice. La mia creazione mi appare comunque incompiuta, in quanto se fosse il contrario, è come se io la guardassi con gli occhi di un altro, ma, essendo noi i produttori della nostra opera, non vi ritroviamo che noi stessi, i risultati raggiunti non ci appaiono oggettivi. «Nella percezione l’oggetto si dà come essenziale e il soggetto come inessenziale; quest’ultimo cerca l’essenzialità nella creazione e la ottiene, ma allora diventa inessenziale l’oggetto»6. L’oggetto letterario porta in sé un’esigenza dialettica concreta che è la lettura; l’autore non può leggere ciò che scrive, sapendo già quello che verrà dopo. La lettura è un’operazione per cui il lettore trascende sempre ciò che legge in direzione di ipotesi probabili da lui stesso formulate, e questi probabili crollano o si 86 consolidano man mano che prosegue la lettura, facendo apparire l’oggetto letterario nelle vesti di un orizzonte mobile. Lo scrittore contrariamente, non può fare previsioni sulla propria opera leggendola, ma sa già ciò che incontrerà, cioè la sua volontà, i suoi progetti, le sue conoscenze, cioè se stesso. Non si scrive mai per se stessi, in quanto l’opera letteraria ha bisogno della lettura per venire alla luce come opera, e quindi scrivere è uno dei due poli dialettici che implica necessariamente quello della lettura come suo correlativo, e il risultato di questa operazione dialettica è l’opera letteraria. «L’arte esiste per gli altri e per mezzo di altri» 7. La lettura pone l’essenzialità del soggetto e dell’oggetto, il lettore svela l’oggetto, fa sì che vi sia un oggetto, ma ha coscienza di creare e svelare a un tempo, in quanto proietta sulle parole una forma sintetica e dunque il senso non sarà la somma delle parole ma la loro totalità organica, e l’oggetto letterario, realizzato mediante il linguaggio, non ha il suo senso nel linguaggio. I silenzi della lettura conferiscono all’oggetto letterario il suo senso più proprio, il suo volto particolare, dacché sono il suo inesprimibile, e lo scrittore guida il lettore attraverso la selva di questi silenzi. E quindi l’azione della lettura, lungi dall’essere una pura passività ricettiva, assume la una forma di creazione vera e propria, in quanto, se da un lato l’oggetto letterario trova la sua sostanza nella soggettività del lettore, dall’altro ogni singola parola è una trappola regolata ad arte per suscitare determinati sentimenti che, a sua volta, il lettore colloca in un’operazione di trascendenza su di un personaggio immaginario che vive solo per lui e per mezzo di lui. Poiché la creazione si completa nella lettura, ogni opera letteraria viene ad assumere il senso di un appello al lettore, il quale conferisca un’esistenza obiettiva a quella rivelazione che lo scrittore ha abbozzato per mezzo del linguaggio, e il termine ultimo di questo appello è la libertà del lettore, che il libro esige come suo fine. Dunque, l’immaginazione del lettore non ha solo 87 funzione regolatrice ma anche costitutiva, sempre impegnata in un’impresa. A differenza di Kant, secondo Sartre la bellezza della natura non può essere paragonata a quella dell’arte; secondo il filosofo tedesco l’opera d’arte non ha fini, ma, Sartre aggiunge, è un fine; infatti Kant sostiene che l’opera d’arte esisterebbe in un primo tempo di per se stessa e che, solo in un secondo momento, sarebbe vista. Ma sappiamo come, sartrianamente, l’opera d’arte diviene tale solo dopo che l’operazione del fruitore, lettura o visione che sia, sia stata compiuta, in quanto necessaria affinché l’opera d’arte si costituisca come tale, essa «non esiste se non la si guarda ed è, inizialmente, puro appello, pura esigenza di esistere»8, si presenta, sotto forma di imperativo categorico, come compito da assolvere per una libertà; l’opera d’arte è un valore in quanto appello alla libertà. Dialetticamente, da un lato lo scrittore scrive rivolgendosi alla libertà dei lettori, libertà non astratta ma che impegni tutto il loro essere, chiedendogli di conferire esistenza alla sua opera, e dall’altro esige da loro la stessa fiducia che lui gli ha accordato riconoscendo la sua libertà creatrice. Incontriamo qui il primo paradosso della lettura: tanto più avvertiamo la nostra libertà, tanto più riconosciamo la libertà altrui. Nella lettura non vi è l’insicurezza della casualità, in quanto il lettore si trova sempre a percorrere strade che lo scrittore ha già tracciato, la causalità nell’opera letteraria è pura apparenza, in quanto nella lettura incontriamo una causalità senza causa, mentre la sua realtà profonda è la finalità. Nella letteratura, l’oggetto ha le sue radici profonde nella libertà umana, ed ogni atto di creazione si dirige in direzione di una riconquista totale del mondo, un recupero della totalità dell’essere, che poi viene presentata alla libertà del lettore. È però necessario un atteggiamento di generosità nel rapporto reciproco tra scrittore e lettore; ciascuno conta sull’altro, si affida all’altro e dall’altro esige né più né meno di quanto esige da se stesso. 88 Responsabilità, libertà e engagement tra estetica e morale. L’oggetto dell’opera letteraria è il mondo focalizzato attraverso immagini; e questo mondo assume il ruolo di valore, di compito proposto alla libertà umana. Avviene qui una modificazione estetica del progetto umano; il mondo appare sempre come l’orizzonte della nostra situazione, una totalità sintetica del dato, allo stesso tempo indifferenziata e piena di ostacoli da superare e strumenti utilizzabili, ma mai come un’esigenza che si propone alla nostra libertà; qui il mondo è un compito. Nella letteratura, nella gioia estetica, la coscienza posizionale immagina il mondo nella sua totalità, allo stesso tempo come essere e dover essere, interamente nostro e interamente estraneo simultaneamente, «poiché lo scopo finale dell’arte è per l’appunto questo: ricuperare questo mondo presentandolo alla vista così com’è, ma come se la sua fonte fosse la libertà umana. Ma, poiché ciò che l’autore crea assume la sua realtà obiettiva solo agli occhi dello spettatore, è la cerimonia dello spettacolo – e in particolare della lettura – che consacra tale ricupero»9. Nello svelare il mondo scrivendo, si ricorre alla generosità del lettore per farsi riconoscere come essenziale al mondo. Cominciamo a intravedere quel concetto di engagmént se ora ci poniamo la seguente domanda; se lo scrittore vuole, creando un’opera letteraria, farsi riconoscere come essenziale al mondo, egli può volere questa essenzialità anche in relazione alle ingiustizie che l’universo racchiude? Secondo Sartre la risposta non può che essere affermativa: lo scrittore si accetta come creatore di ingiustizie al fine di superarle verso la loro abolizione, il lettore crea e mantiene il mondo ingiusto propostogli dallo scrittore per rendersene responsabile, per compromettersi. Entrambi si assumono la responsabilità dell’universo che si svela nelle sue ingiustizie che io non devo affatto contemplare freddamente dall’esterno, ma invece assumere come ingiustizie-che-vanno-superate. Nel fondo stesso dell’imperativo estetico si coglie appieno l’imperativo 89 morale, il mondo è presentato sotto una forma immaginaria quale esigenza della libertà umana, e proprio la libertà è il tema centrale dello scrittore che, da uomo libero si rivolge ad altri uomini liberi per impegnarsi insieme a loro con le proprie libertà. «Scrivere è un certo modo di volere la libertà; una volta che si è cominciato, per amore o per forza ci si trova impegnati.»10 Secondo Sartre, non esiste una libertà data, ma essa trae il suo aspetto dall’ostacolo che ha di fronte e che deve di volta in volta superare. Lo scrittore è storico, vive ed incarna la sua epoca, al pari di tutti gli altri uomini, ed egli si rivolge agli uomini della sua epoca, ed un libro è pienamente comprensibile solamente dai suoi contemporanei in quanti, nello scrivere, utilizza il linguaggio come un’ellissi, nel senso che, condividendo coi suoi lettori le medesime problematiche, non ha bisogno di una spiegazione analitica, ma si serve di parole chiave condivise, e svela determinati aspetti dell’universo. «Scrivere e leggere sono due aspetti di uno stesso fatto di storia, e la libertà alla quale lo scrittore ci invita non è solo una coscienza astratta d’essere liberi (...) non è mai ma si conquista invece in una situazione storica. «Ogni libro propone una liberazione concreta partendo da una particolare alienazione»11. E il lettore compie la sua la propria liberazione, partendo dal fatto che il mondo è alienazione, situazione e storia; ognuno deve assumere il mondo, mutarlo o conservarlo per se stesso e per gli altri, in un atto di libertà che, negazione concreta, conserva ciò che nega e ne è pervasa. Per quanto riguarda lo scrittore, il mondo è una forza propulsiva che agisce da dietro, mentre il pubblico incarna un’attesa, un vuoto da colmare; è l’Altro; lo scrivere assume il carattere specifico di un libero superamento di una situazione umana determinata e totale, e lo scrittore è impegnato, quando assume una coscienza chiara del fatto di essere concerné, e trasferisce per sé e per gli altri l’impegno dalla spontaneità immediata sul 90 piano della riflessività, lo scrittore è «mediatore per eccellenza, e questa mediazione costituisce il suo impegno»12. Lo svelamento della letteratura e il problema del pubblico. All’origine della scelta di essere scrittore c’è un atto di libertà, ma una volta intrapreso questo progetto libero, esso comporta un determinato ruolo sociale. Ma chi è il suo destinatario? A chi egli si rivolge? Il colui a cui lo scrittore si rivolge non è affatto l’uomo universale. Come difatti egli non parla, ad esempio, di una libertà eterna, ma di quella libertà situazionata, storica, allo stesso modo egli si rivolge all’uomo come gruppo storico dei suoi lettori, dislocati in contesti sociali e culturali particolari. Analizziamo ora il concetto di gratuità della letteratura; le opere sono gratuite, non vi è, economicamente, un rapporto stabilito, tra l’opera frutto della mente e il compenso pagato. L’attività dello scrittore non è utile alla società, ma spesso invece le può crear danno, stimolando una presa di coscienza e quindi una mobilitazione, dato che i concetti di danno e utilità sono determinati all’interno dei quadri della stessa società. Dicevamo che scrivere è svelare; attraverso la letteratura la società diventa visibile a se stessa e cosciente di essere-vista, e quindi determina una contestazione di quei valori costituiti e del regime politico vigente. «Lo scrittore impone alla società una coscienza inquieta, perché è in eterno antagonismo con le forze conservatrici, che mantengono l’equilibrio che lui vuole rompere. Il passaggio al mediato, infatti, che si può compiere solo negando l’immediato, è una rivoluzione perpetua»13. La situazione della scrittore, secondo Sartre, è un conflitto originario fra il suo essere parassita della classe dominante da un lato, e il suo operare contro i valori di quella stessa classe; dare un nome significa rivelare, e rivelare è il primo passo verso il cambiamento. L’aspetto oggettivo e reale del conflitto può essere espresso dalle due categorie, nel caso di Sartre, di forze conservatrici, il pubblico reale, borghese, e forze 91 progressiste, il pubblico potenziale, il proletariato, i cui valori lo scrittore porta avanti senza che questi, ancora, lo riconoscano come tale. Nella società senza classi lo scrittore sarebbe mediatore per tutti, e quindi la letteratura sarebbe completamente liberata dalle opposte tendenze, e rappresenterebbe la negazione come momento necessario della costruzione. Inoltre lo scrittore deve operare su di sé un distacco dalla classe dei suoi lettori reali, per poter farne un ritratto confutazione, e quindi deve avere coscienza della contraddizione che intercorre fra sé e il suo pubblico, ed avvicinarsi ad esso dall’esterno. Lo scrittore nell’epoca dell’ascesa della borghesia. Nel XVII secolo non vi era il lettore potenziale, dacché vi è da parte dello scrittore l’accettazione senza critiche dell’ideologia del potere, ed esso scrive ciò che il potere vuole leggere, in una prospettiva in cui senso e valore della letteratura vengono fissati dalla tradizione. Sartre chiama questi scrittori i classici, e il classicismo viene ad essere quella forma d’arte fondata sul mito della sua continuità. Il carattere della letteratura è quello del riconoscimento, il lettore vuole leggere nei romanzi i suoi stessi pensieri. Ma che cosa accade quando lo scrittore rifiuta l’ideologia delle classi dirigenti. Nel XVIII secolo la borghesia ha iniziato a leggere, proprio nel momento in cui la classe dirigente tradizionale ha perso fiducia nella propria ideologia, e rimanendo in un atteggiamento difensivo tenta di impedire il dilagare delle nuove idee che comunque iniziano già a permearla, ed una verità pragmatica viene a prendere il posto della verità rivelata. In questo contesto, qualora lo scrittore attraverso le sue opere voglia ancora schierarsi dalla parte del vecchio regime politico, quanto meno compie una scelta volontaria. La borghesia è qui una classe che se da un lato subisce un’oppressione politica, dall’altro possiede mezzi economici, denaro, cultura; essa viene ad essere il primo 92 abbozzo di un pubblico di massa, e lo scrittore gioca il ruolo di arbitro tra le due fazioni, in quanto egli non è più il parassita della sola classe dirigente ma viene sovvenzionato da entrambe. Una classe non può avere coscienza di sé fin quando non si possa vedere sia dal di dentro che dal di fuori, e questo ruolo è affidato allo scrittore, l’eterno declassato, che trae orgoglio dal pensare se stesso come sciolto dalle classi e che al contempo però, mantiene con esse un certo rapporto, per poterle guardare anche dall’interno. La letteratura prende coscienza della propria autonomia e libera lo scrittore e se stessa, identificandosi con lo spirito, cioè potere permanente di formulare idee e critiche, e a sua volta lo scrittore, «prendendo la penna in mano, si scopre come coscienza senza luogo e senza data, come uomo universale (...) la letteratura che lo libera, è una funzione astratta e un potere a priori della natura umana: è il movimento che permette all’uomo, minuto per minuto, di liberarsi della storia: è cioè, l’esercizio della libertà»14. Lo scrittore del XVIII secolo esercita contro la storia una ragione antistorica ponendo in luce le esigenze di una letteratura astratto, ed in quanto diventato universale si rivolge ad un pubblico universale, reclama che i suoi contemporanei spezzino i loro legami storici per seguirlo nell’universalità. La libertà d’opinione è la prima tappa che la classe della borghesia si propone per raggiungere quel potere politico che ancora non detiene, e per farlo ha bisogno di essere illuminata; reclamando la libertà d’opinione per sé e per gli altri, lo scrittore necessariamente serve gli interessi della borghesia. L’appello che lo scrittore rivolge attraverso le sue opere è duplice: da un lato chiama la borghesia alla rivolta, dall’altro intima alla nobiltà l’abbandono dei suoi privilegi, e allo stesso tempo prende coscienza della gratuità e della libertà assoluta che caratterizzano lo creazione letteraria. La sua posizione è quella per eccellenza della critica, la quale viene rivolta contro le istituzioni, le tradizioni e le suopersitizioni. Lo scrittore scopre la 93 dimensione temporale del Presente al quale conferisce un senso appassionato che lo distacca nettamente da posizioni idealistiche che concepiscono Libertà ed Eguaglianza come concetti astratti, come idee eterne, e le cala invece nella quotidianità della vita pubblica prendendone parte. Ma inversamente, perseguendo, anche indirettamente gli interessi della borghesia, sotto forma di libertà d’opinione ed uguaglianza di diritti, la difesa della letteratura diventa puramente formale, poiché, nel momento in cui la borghesia prenderà il potere, essa diverrà la prigione della letteratura, in quanto non vi sarà più una distinzione tra lettore potenziale e reale, dacché proprio il lettore potenziale reintegra in sé quello reale, e in secondo luogo perché, classe produttrice per eccellenza, non considererà la letteratura come gratuità ma come servizio da retribuire, ovvero perseguendo un utilitarismo dell’opera d’arte, che porterà la letteratura ad abbandonare la sua posizione di critica e svelamento per rendersi utile a sua volta. «L’arte borghese sarà mezzo o non sarà; si vieterà di toccare i princîpi per timore che crollino e di sondare troppo a fondo il cuore umano per paura di trovarvi disordine»15. Temendo la genialità come rivelatrici di zone d’ombra, oscure, da tenere nascoste per non minare l’ordine costituito, la borghesia preferirà la facilità, ovvero il genio incatenato e ammansito all’interno del recinto della tranquillità. L’ottimismo, tipico della borghesia, è agli antipodi della concezione dell’arte secondo lo scrittore; egli vuole svelare l’essere in quanto tale, con le sue luci e le sue ombre, nell’indefinita spontaneità dell’esistenza. L’opera d’arte sarà dunque irriducibile all’idea, e il concetto del Male verrà ad assumere le forme dell’irriducibilità del mondo e dell’uomo al pensiero. Il principio utilitaristico della borghesia ridurrà tutto a parte del meccanismo sociale, permeato di quell’utilità, e quindi non potrà riconoscere le istanze del proletariato, in quanto non solo non riconosce ma fugge la libertà dell’uomo. Utilitaristica ed 94 antilibertaria, l’ideologia borghese è antitetica ai principi che fondano la letteratura, ma questa ancora non trova legami con il proletariato, che come classe oppressa potrebbe accogliere gli scrittori, mantenendo allo stesso tempo le loro istanze. Ma la letteratura era rivoluzionaria solo aglio occhi della borghesia, in quanto le libertà formali che essa propugna non hanno nulla a che vedere con le esigenze rivendicate dal proletariato. L’intellettuale e il potere nel XIX secolo. Nel XIX secolo la letteratura, appena svincolatasi dall’ideologia religiosa, non vuole affatto asservirsi a quella borghese; ma essa stessa è ideologia, e si affanna continuamente ad affermare quella tanto agognata quanto sterile autonomia che nessuno le contesta. I soli che sembrano avere intuito l’esistenza di un rapporto intimo tra le rivendicazioni della letteratura e quelle delle classi oppresse sembrano essere Marx e Prodhon, ma essi non sono affatto dei letterati. In nome di una forzata liberazione la letteratura diviene oggetto di se stessa, riflette e mette alla prova i suoi metodi; non volendo piegarsi ad un pubblico determinato, e alle sue esigenza, non prende in considerazione il fatto di avere dei contenuti, altrimenti dovrebbe alienarsi da se stessa per stabilire canoni e parametri in base a quei contenuti. Ma, vediamo anche come, nella sua pretesa e presuntuosa autonomia, la letteratura prende tacitamente una scelta fondamentale; in quanto le classi oppresse, che vogliono prendere il potere, non hanno né cultura né tempo per formarsela, essa opera in favore del conservatorismo sociale, e quindi effettua un ritorno in seno a quel pubblico borghese che essa sbandierava di aver abbandonato. Questo abbandono è meramente simbolico e lo scrittore si trova in malafede, sa e insieme non vuol sapere per chi scrive, la sua solitudine è una pura finzione in quanto lo scrittore borghese e lo scrittore maledetto si muovono sullo stesso campo. Viene così a ricrearsi una conventicola di artisti e più lo scrittore si allontana, 95 nello scrivere, dalla vita e più l’arte si riveste delle vestigia delle sacralità. Lo scrittore che in malafede prova a distaccarsi dalla sua classe reintegra il modello di una società simbolica di stampo aristocratico e passatista, in cui lo scrittore è parassita dei potenti e martire del consumo puro, e nella quale vige il canone dell’arte per l’arte, nel sogno di raggiungere, nello scrivere o nel leggere, lo status di soggetto assoluto e trasformarsi in puro sguardo; l’immaginazione viene ad assumere i caratteri di una illimitata negazione del reale e il suo oggetto viene edificato solo sulle macerie che seguono il crollo dell’universo. «Il limite estremo di questa letteratura brillante e nefasta è il nulla, limite estremo ed essenza profonda, perché il nuovo spirituale non ha nulla di positivo: è negazione pura e semplice del temporale»16. Così facendo lo scrittore vuole stabilire la propria irresponsabilità, in quanto se egli mirasse ad edificare qualcosa sarebbe suscettibile di una resa dei conti, ma in quanto egli afferma se stesso e la sua opera come distruzione pura sfugge a qualsiasi giudizio. Sul finire dell’800 tutto ciò è ancora confuso, ma quando col surrealismo la letteratura istigherà all’assassinio, il circolo si chiude e lo scrittore pone esplicitamente il principio della sua assoluta irresponsabilità, si adopererà per provocare lo scandalo e per sfuggirne le conseguenze. Quest’opera così concepita, necessita della borghesia come implicito committente ed unico lettore, in quanto le tematiche che tratta sono troppo distanti da quel proletariato che rappresenta la reale minaccia all’ordine costituito; dunque la figura dello scrittore, lungi dall’essere rivoluzionaria, incarna invece la figura del ribelle, in quanto agli occhi della classe dominante la sua opera è innocua, un semplice gioco, un divertimento. La letteratura è quindi diventata una negazione astratta, che si nutre solo di se stessa e, da parte della borghesia, il capriccio ribelle dello scrittore che si cerca come soggetto assoluto, viene disinnescato della sua pericolosità sotto l’etichetta n’est 96 pas qui littérature. Il romanziere del XIX secolo riduce il diverso all’identico, poiché la borghesia teme più di qualsiasi altra cosa il cambiamento e propugna invece una difesa spasmodica dell’ordine e dell’abitudine; il cambiamento altro non è che un non-essere, e qualora esistesse, sarebbe tradotto come il turbamento individuale di un’anima disadattata; «non si tratta di studiare in un sistema in movimento – la società, l’universo – i movimenti relativi di sistemi parziali, ma di considerare dal punto di vista della quiete assoluta il movimento assoluto di un sistema parziale relativamente isolato»17. Se in una società ordinata che si crede e si vuole eterna, nella quale questa eternità si celebra attraverso dei riti collettivi, si evoca un fantasma di un disordine, nel momento in cui esso si fa inquietante, lo si fa sparire magicamente, reintegrandolo nella malformazione del singolo individuo, e lo si sostituisce con la gerarchia eterna delle cause e delle leggi. In questo periodo, nella letteratura vi è sempre il narratore interno, ma la storia è proposta non dalla soggettività storica individuale di uno scrittore, ma attraverso la figura dell’uomo di esperienza che è ideale ed universale, un po’ come il vecchio capofamiglia che davanti al focolare domestico racconta a generazioni di figli e di nipoti, innocui e momentanei peccati di gioventù, conditi dal sorriso affabile dell’ipocrisia. Non a caso, infatti, il tempo del racconto è il passato, che è necessario proprio a creare quel distacco tra il pubblico e gli avvenimenti, e l’aneddoto è narrato dal punto di vista dell’assoluto, cioè dell’ordine, come mutamento locale di un sistema in riposo. Non v’è spazio per la sorpresa e l’imprevisto, il fatto è avvenuto nel lontano passato e ormai catalogato. In una società borghese che crede di trovarsi al di là della storicità e secondo la quale non vi saranno più avvenimenti rilevanti, non è concepibile altra forma di romanzo; e l’altra letteratura, quella cosiddetta maledetta, nonostante la sua posizione di rivolta, rispecchia nelle sue strutture profonde e nello stile le classi dirigenti. Se lo scrittore 97 avesse dato il suo appoggio al proletariato avrebbe affermato quella che è l’essenza dello scrivere, la coincidenza tra la libertà formale del pensiero e libertà politica concreta; e anche lo stile avrebbe trovato una sua propria tensione interiore in quanto sarebbe stato rivolto ad un pubblico diviso: da un lato avrebbe cercato di risvegliare le classi oppresse e dall’altro avrebbe posto le classi dominanti davanti alle ingiustizie ai privilegi che quotidianamente perpetrano e difendono. Avrebbe parlato al mondo intero, ed avrebbe contribuito a fare del marxismo un pensiero ed un movimento rivoluzionario molto più sfaccettato ed aperto. Calando però nello specifico un discorso che appare astratto, notiamo come non sia possibile scrivere senza un pubblico, formato dalle circostanze storiche, e senza un mito della letteratura, che dipende dalle richieste e dalle esigenze del pubblico. L’autore, lo scrittore, è un uomo in situazione, al pari di tutti gli altri uomini, e i suoi scritti, come qualsiasi atto umano, racchiudono, precisano e superano la situazione presente. La libertà è per natura situata, e descrivere la situazione, operando su di essa, non è affatto un attentato alla libertà. Conclusioni. Situando in diverse epoche la libertà dello scrittore, Sartre ne ha descritto i rapporti con la società nella quale, in un modo o nell’altro, veniva a trovarsi ed agire attraverso lo scrivere; «se è vero che l’essenza dell’opera letteraria è la libertà che si scopre e vuole essere un appello alla libertà degli altri uomini, è anche vero che le diverse forme dell’oppressione, impedendo agli uomini di accorgersi che erano liberi, hanno dissimulato questa essenza, tutta o in parte, agli autori»18. La letteratura di una certa epoca è alienata quando non ha ancora raggiunto la coscienza della propria autonomia, e dunque si sottomette al potere temporale o a una ideologia. La letteratura è astratta quando non vede in modo completo la sua essenza, quando si limita a porre la sua 98 propria autonomia solo sul piano formale, ma rimane indifferente alla scelta dell’argomento. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, la letteratura si fa negazione assoluta, rompe i legami con la società e si ritrova senza un pubblico, preferendo il disordine della poesia alle composizioni in prosa, realizzando ciò che Sartre chiama terrorismo o autodistruzione della letteratura. Superato il terrorismo, Sartre vuole fissare i caratteri di una letteratura concreta e libera. Lo scopo e l’idea regolatrice dello scrittore non sono più assumibili nella gloria, ma al contrario nella totalità degli uomini viventi in una determinata società; in una società senza classi non c’è differenza tra i temi e il pubblico, che diverrebbero, insieme, l’uomo-nel-mondo. E se il pubblico si identificasse con l’universale concreto, lo scrittore potrebbe davvero scrivere per la totalità degli uomini. Non andrebbe adorato lo Spirito, ma invece bisognerebbe recuperare il mondo nella sua opacità e varietà, e il Male invincibile che da sempre lo corrode senza mai riuscire a distruggerlo. Il tratteggio di una simile concezione di letteratura è già un invito al cambiamento, all’interno di un universo non più considerato nelle sue possibilità di consumo, ma come le speranze di coloro che lo abitano. La letteratura concreta sarà dunque una sintesi tra Negazione, come sottrarsi al potere del dato, e Progetto, come intenzione di abbozzare un ordine futuro. Ma perché tali aspetti possano essere tra loro complementari, non solo lo scrittore ma anche il lettore devono avere la completa libertà di dire tutto, e ciò non si traduce solo con un progetto di abolizione delle classi, ma anche e soprattutto nell’abolizione di qualsiasi dittatura, del rinnovamento continuo delle strutture e del rovesciamento senza sosta dell’ordine al fine di evitare una sua fissazione. «la letteratura è, per essenza, la soggettività di una società in rivoluzione permanente.»19 99 1 J.P. Sartre, Que est-ce que la littérature, Librarie Gallimard, Paris, 1947, tr. It. Luisa Arano-Cogliati...[et al], Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 16 2 Op. cit. p. 23 3 Op. cit. p. 23 4 Op. cit. p. 29 5 Op. cit. p. 30 6 Op. cit. p. 33 7 Op. cit. p. 35 8 Op. cit. p. 38 9 Op. cit. p. 45 10 Op.cit. p. 50 11 Op.cit. p. 53 12 Op. cit. p. 57 13 Op. cit. p. 61 14 Op. cit. p. 77 15 Op. cit. p. 83 16 Op. cit. p. 95 17 Op. cit. p. 102 18 Op. cit. p. 109 19 Op. cit. p. 114 100 La scrittrice francese Fred Vargas pubblicò il romanzo Parti in fretta e non tornare1 nel 2001, quando aveva quarantaquattro anni ed aveva prodotto altre opere di narrativa. E’ un romanzo giallo, del gruppo che ha come protagonista il commissario Adamsberg e che ha contribuito più delle altre narrazioni a far conoscere la scrittrice, a renderla nota anche all’estero. Fred Vargas ha cinquantasette anni, vive a Parigi dove è nata nel 1957, è ricercatrice di archeozoologia presso il Centro nazionale francese per le ricerche scientifiche (CNRS), è studiosa del Medioevo, per molto tempo ha indagato sui modi con i quali la peste si trasmette dagli animali all’uomo, ha scritto opere scientifiche, saggi, romanzi, racconti e da alcune sue narrazioni sono stati tratti film per la televisione. Soprattutto i romanzi gialli l’hanno resa nota perché diversi sono rispetto alla maniera tradizionale. In essi la scrittrice tende a far rientrare nella quotidianità della vita , nello scorrere dei giorni anche i misfatti, i crimini sui quali indaga la sua polizia. Di tali misfatti cerca la spiegazione nelle zone più remote dell’anima, dello spirito di chi li commette ed una volta trovata la loro gravità si riduce perché risulta motivata. I “casi” da lei presentati diventano misteri inestricabili, molto tempo, molte operazioni richiedono per essere risolti e quando lo sono non stupiscono più perché quel tempo, quelle operazioni hanno procurato loro una ragione, sono serviti a farli rientrare tra le altre manifestazioni, gli altri elementi, aspetti dell’esistere. Dentro i crimini entra la Vargas col suo commissario e tanto chiare sono le rivelazioni finali alle quali questi giunge, tanto è Recensioni L’ALTRO DELLA VITA di Antonio Stanca 101 servito per ottenerle che essi finiscono col poter stare accanto ad ogni altra cosa. Così avviene pure in Parti in fretta e non tornare dove il commissario Adamsberg, come altre volte, si trova in una situazione intricata, confusa, si dibatte tra molte supposizioni prima di giungere a quell’intuizione finale che ha in ogni romanzo, che avviene sempre durante una delle sue passeggiate solitarie e che gli serve per risolvere il caso. Come altre volte egli si è mostrato in modi diversi da quelli richiesti dalla forma, dall’ufficio perché semplici, naturali, spontanei. L’indagine che conduce in questo romanzo è tesa a capire la morte che sta avvenendo, a Parigi e dintorni, di alcune persone perché strangolate. Esse muoiono uccise e intanto il misterioso colpevole vuol far credere che muoiano a causa della peste, del contagio trasmesso loro dalle pulci di topo che si trovano sempre sul luogo del delitto e che sono portatrici d’infezione. Di tale contagio, di tale infezione ci sono continui annunci da parte di un banditore che li trova sistematicamente nella cassetta postale insieme ad altri che tante persone vi mettono perché li legga pubblicamente. Così avviene in una determinata zona di Parigi e la maggior parte degli annunci letti dice della rovina, della morte che stanno per verificarsi e che riguarderanno l’intera umanità. Essi si richiamano alle più antiche epidemie di peste, con queste collegano le morti recenti e la distruzione che verrà. «Il signor Le Guern fa il banditore, professione tramandatagli dal suo trisavolo. Declama le notizie del quartiere all’incrocio Edgar Quinet-Delambre. […] Ogni giorno, e al momento due o tre volte al giorno, il signor Le Guern trova questi brevi scritti che annunciano la peste. E ogni nuovo annuncio ci avvicina al momento in cui scoppierà».2 Intanto la polizia continua a scoprire persone che muoiono per strangolamento. Un vero e proprio mistero per Adamsberg che indaga aiutato da tanti collaboratoti e che non crede di potercela fare. Un lunga, lunghissima azione diventa la sua 102 durante la quale è visto pure nella vita privata, nei rapporti con la sua donna, nei luoghi frequentati, nelle abitudini, nei modi di vestire, mangiare, camminare, guardare, in tutto quanto è suo. Un uomo completo ha voluto creare con lui la Vargas, un uomo vero che si muove in ambienti veri, tra strade, piazze, case, persone, volti,discorsi, momenti della vita di ogni giorno, e lo ha messo alla ricerca di altre verità, di altre vicende che avvengono all’insaputa di tutti e che, pur se malvagie, hanno una loro spiegazione. Così si propone di fare la scrittrice, vuole mostrare per mezzo del suo Adamsberg, delle sue indagini, quanta vita avviene lontano da quella conosciuta, come essa meriti di essere compresa, accettata. Anche in questo romanzo sarà l’improvvisa illuminazione finale ad orientare definitivamente il commissario, a fargli scoprire come dietro una situazione così complicata, dietro un mistero divenuto sempre più fitto si celi la triste storia di una famiglia, di un padre crudele, di una madre isolata, di un figlio diverso dagli altri due, di amori, odi, rancori che si sono formati, di violenza subita, di vendetta cercata. Giungerà Adamsberg a sapere che qualcuno crede di uccidere diffondendo una peste che non esiste e che un altro uccide veramente strangolando, che due sono i responsabili della confusione che si è creata, giungerà a conoscere quanto di complicato, di tortuoso può verificarsi nell’animo dell’uomo, come in esso ci sia la spiegazione di ogni azione compresa quella criminale. Nessuno dei due responsabili aveva mai pensato di poter giungere a tanto e, tuttavia, niente aveva potuto evitarlo giacché la loro vita, le loro esperienze avevano fatto rientrare tra le loro cose anche il male. Questa era la tragica verità che andava riconosciuta. Sempre così sarà con l’Adamsberg della Vargas, sempre altro gli farà scoprire la scrittrice, sempre disposta sarà a capire, comprendere, far rientrare quell’altro nella vita, sempre chiara la sua intenzione 103 di trarne un messaggio, di scrivere per ottenerlo e diffonderlo. E sempre riuscirà, sempre questo sarà lo scopo delle situazioni complicate, delle ampie costruzioni che ogni romanzo contiene. Non solo la scrittrice ma anche la studiosa, l’erudita emergono dalle narrazioni dal momento che a distinguerle concorrono l’ampiezza dei contenuti, la sicurezza nell’espressione e la ricerca di una finalità diversa dalla realtà rappresentata. 1 In Italia il romanzo è stato pubblicato nel 2004 e più volte ristampato dalla casa editrice Einaudi di Torino. La più recente ristampa risale al 2012 ed è comparsa nella serie Super ET con traduzione dal francese di Maurizia Balmelli e Margherita Botto (pp. 359). 2 Ivi, p. 104. 104 Pubblicazioni ricevute AA. VV., Frammenti di cultura del Novecento, a c. di I. Pozzoni, Gilgamesh, Asola 2013, pp. 374 AA. VV., L’esistenza come viaggio. Il cinema come viaggio, a c. di G. Invitto, Amaltea, Melpignano 2013, pp. 152 F. BIRULES Y ROSA RIUS GATELL, eds., Lectoras de Simone Weil, Icaria, Barcelona 2013, pp. 222 M. R. BOZZETTI, Tu, l’altra carne, poesie, Milella, Lecce 2012, pp. 120 H. CAVALLERA, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. Tenebre e dialettica, Pensa, Lecce 2013, pp. 246 G. COGLITORE, Sulle emozioni. Filosofia e Neuroscienze, Pellegrini, Cosenza 2012, p. 270 L. DE BERNART, Antico Manoscritto, Fondazione “MarioLuzi”, Roma 2012, pp. 218 F. DE NATALE, La presenza del passato. Un dibattito tra filosofi italiani dal 1946 al 1985, Guida, Napoli 2012, pp. 164 P. DI NUNNO, Riflettere Bergson. La filosofia come rovesciamento, Trauben, Torino 2012, pp. 338 A. INVITTO, Roccia, Libro aperto ed., Marino 2013, pp. 54 G. INVITTO, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti temi ed eventi dell’esistenza, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 316 S. LO GIUDICE, Breve documento sulla “Nuova Filosofia”, n. e., Pellegrini, Cosenza 2012, pp. 118 MAINE DE BIRAN, Difesa della Filosofia, a c. di S. Cavaciuti, Il Ramo, Rapallo 2013, pp. 172 F. PASCA, L’a-Thea (Uomo) di Nazareth, Il raggio verde, Lecce 20121, pp. 126 P. RICCI SINDONI, Viaggi intorno al Nome. Percorsi e figure dell’ebraismo contemporaneo, Le Lettere, Firenze 2012, pp. 254 L. ROMANO, Diario Elementare, Fernandel, Ravenna 2012, pp. 105 182 I. TAVILLA, Senso tipico e profezia in Sǿren Kierkegaard. Verso una definizione del fondamento biblico della categoria di gjentagelse, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 160 A. ZORETTI, Carmelo Bene il fenomeno e la voce, Lupo, Copertino 2012, pp. 224 Periodici Annuario Filosofico, n. 27, 2011; Mursia, Milano Chiasmi International, n. s., n. 14, Vrin, Mimesis, Penn State University; Foedus, n. 33 e n. 34, 2012; Associazione Artigiani e Piccole Imprese, Mestre Idee, n. s., a. II, n. 4, 2012; Milella, Lecce; L’immaginazione, n. 273, 2013; Manni, San Cesario di Lecce; Itinerari. Quaderni di studi di etica e di politica, n. 3, 2012, a. LI; Ed. Itinerari, Lanciano; Plat. Quaderni di Pratiche linguistiche e analisi dei testi, n. 1/2012, Tempo, corpo, scrittura, Pensa multimedia, Lecce Ricercazione, v. 4, n. 2, 2012¸ Erickson, Trento 106