Legge naturale, un tema da approfondire

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tudi e commenti |
FILOSOFIA E TEOLOGIA
Legge naturale,
un tema
da approfondire
Il filosofo Rudolf Langthaler
sul discorso di Benedetto XVI
al Parlamento federale tedesco
1. Introduzione
La concezione cattolica del diritto
naturale è stata riformulata da Benedetto XVI in molti interventi, e sta
alla base dell’insegnamento morale
della Chiesa anche su diverse tematiche oggetto del questionario in preparazione al Sinodo del 2014 sulla
famiglia. Tale concezione tuttavia,
com’è sinora stata fondata, «è, in
realtà, inconciliabile con la concezione del soggetto moderno e della
sua autonomia», e ostruisce «la visione delle potenzialità liberate per
la prima volta nell’epoca moderna
grazie alle concezioni del diritto razionale». Il filosofo Rudolf Langthaler, docente di filosofia presso la Facoltà di teologia cattolica di Vienna,
sottopone a una serrata critica la
fondazione teologica tradizionale
del rapporto tra natura e ragione,
che comprova una seria difficoltà di
rapporto tra la Chiesa e la modernità, e invoca un approfondimento
capace di accogliere sia le riserve
verso le carenze della filosofia del
diritto positivista sia il principio di
autonomia della ragione moderna.
«Einige Gedanken zu bestimmenden Themen
der Papst-Rede im Deutschen Bundestag»,
in G. ESSEN (a cura di), Verfassung ohne
Grund? Die Rede des Papstes im Bundestag,
Herder, Freiburg i. Br. 2012. Nostra traduzione dal tedesco, sottotitoli redazionali.
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«Incontrare l’uomo e parlare di Dio». Già nel suo
primo incontro al Castello Bellevue, Benedetto XVI
enunciò questo motto, sotto il quale intendeva porre
la sua visita in Germania. Indubbiamente una bella
prospettiva: «Ascoltare il papa parlare di Dio» in Germania, nella sua terra di origine e in uno dei baluardi
dell’Illuminismo. Questo poteva attirare l’attenzione
anche dei dubbiosi dal punto di vista religioso, di chi
era in ricerca, di chi era sull’orlo della rassegnazione o
dell’abbandono della religione. Inoltre quel motto papale lasciava intravvedere l’intenzione di interpellare
anche coloro che erano lontani dalla Chiesa cattolica,
gli agnostici seri e gli «atei devoti», quindi tutti quei
contemporanei critici che, nella loro onestà intellettuale
e sincerità esistenziale, tenevano ancora a questi temi
e non volevano accontentarsi della dieta troppo leggera e delle manovre suggestive del «nuovo ateismo»
attualmente in circolazione. Non da ultimo, quel motto
poteva suscitare anche la curiosità dei «dotti fra gli spregiatori della religione» riguardo a ciò che forse il leader
«primo responsabile» della Chiesa cattolica aveva da
dire anche a loro su queste questioni in quell’occasione
particolare. Queste aspettative riguardavano, sia pure
con accenti particolari, anche il suo discorso al Parlamento federale tedesco.
La «cultura illuminista»
1.1. Che cosa si è udito dal papa? Già il suo discorso di saluto ha permesso di riconoscere chiaramente l’orientamento della sua intenzione di «parlare
di Dio»: non solo la religione ha bisogno della libertà,
ma anche «la libertà ha bisogno della religione», una
conclusione lievemente precipitosa, che – come si poteva intuire – sfocia subito nell’affermazione abituale:
«La libertà richiede il collegamento con un’istanza
superiore», quindi un collegamento con Dio, con un
fondamento ultimo ancorato, in definitiva, in una teologia della creazione, il solo ritenuto in grado di evitare
il relativismo, l’individualismo e il decisionismo altrimenti inevitabili.1
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Un incipit forte – ma non immediatamente convincente – a Berlino, subito accanto al quale risuonava, dopo
una rimozione di oltre 200 anni, all’orecchio dell’alto
ospite nella sua terra natale, come una potente eco, la
voce di Kant: «La morale, essendo fondata sul concetto
dell’uomo come essere libero, il quale, appunto perché
tale, sottopone se stesso, mediante la propria ragione, a
leggi incondizionate, non ha bisogno né dell’idea di un
altro essere superiore all’uomo per conoscere il proprio
dovere, né di un altro movente oltre la legge stessa per
adempierlo».2 Giustamente Jürgen Habermas ha qualificato questo «squillo di tromba» kantiano tipico del modo
di pensare illuministico «la superba dichiarazione di indipendenza della morale razionale profana dal guinzaglio
della teologia».
I discorsi del papa in Germania si sono ricollegati in
modo inequivocabile e saldo – con alcuni accenti addirittura rafforzati – alle affermazioni critiche nei riguardi
della modernità espresse nel suo discorso di Regensburg
(2006). Come già allora, a causa di una concezione ridotta dell’Illuminismo e della modernità, non è rimasto
di fatto granché di positivo, a prescindere dalle discutibili
conquiste della tecnica e delle scienze naturali. Inoltre
praticamente tutti i modelli di autocomprensione della
«ragione secolare» sono caduti sotto l’accusa papale di
ateismo, scetticismo, soggettivismo, relativismo, una
sentenza inflessibile emessa sulla cosiddetta «cultura illuminista» e sulle sue pretese fatali o manifestazioni perniciose, che ritorna con regolarità anche nei discorsi e
nelle pubblicazioni successive.3 (Qui già la designazione
piuttosto sprezzante di «cultura illuminista» indica chiaramente la direzione).
Alla flebile luce di questa «cultura illuminista»,
che secondo il giudizio papale può offrire all’umanità
contemporanea solo un orientamento molto carente,
il papa contrappone, con intenzione correttiva, «la ragione aperta al linguaggio dell’essere», la cui luce, da
parte sua, si nutre «del vasto mondo di Dio».4 Questo
motivo serve a correggere le concezioni positiviste della
ragione e della natura, frutto della riduzione della «cultura illuminista», e serve al papa anche come guida per
il «vero Illuminismo», sul quale basa anche il suo aperto
appello a tornare a una concezione della ragione metafisica, premoderna.5
Il papa contrappone decisamente questo «vero
Illuminismo», il solo in grado di tornare a conciliare
veramente «ragione e fede», alla luce molto più debole (e per giunta vacillante in modo inquietante) della
«cultura illuminista» moderna, soprattutto perché
quest’ultima, a prescindere dalle sue conquiste in parte
certamente utili, appare necessariamente con i suoi
«modelli» (o meglio «miraggi») piuttosto una «storia di
decadenza». In ogni caso, secondo la triste conclusione
di Benedetto XVI, la «cultura illuminista» moderna,
attentamente considerata, rappresenta una vistosa regressione rispetto al «vero Illuminismo», raggiunto già,
a suo avviso, con la sintesi filosofico-teologica medievale come «unità relazionale fra illuminismo e fede».
La nefasta separazione fra i due è considerata una
fatale eredità del nominalismo e delle sue successive
1 Benedetto XVI qui ribadisce il motivo da lui spesso ripetuto,
secondo il quale solo nel ricorso a Dio la libertà umana e «tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente
bisogno» (J. Ratzinger, «L’Europa nella crisi delle culture», in Regnodoc. 9,2005,219; Benedetto XVI, Gott und die Vernunft. Aufruf zum
Dialog der Kulturen, Sankt Ulrich, Augsburg 2007, 83).
2 I. Kant, incipit della Prefazione alla prima edizione del suo
scritto La religione entro i limiti della sola ragione, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, UTET, Torino 2006, 323. L’affermazione del papa secondo cui senza ricorso a «Dio» e «immortalità»
secondo la (presunta) visione di Kant «coerentemente… non era possibile alcun agire morale» («L’Europa nella crisi delle culture», in Regnodoc. 9,2005,219) contrasta direttamente con l’insegnamento kantiano
dell’«autonomia della morale», come riportato in diversi luoghi del
Kant più tardo. Se – come afferma un noto concetto kantiano – un
uomo dovesse arrivare alla convinzione che «non esiste un Dio; egli
sarebbe però ai propri occhi un essere miserabile, se in conseguenza
di ciò volesse tenere per puramente immaginarie, senza valore e senza
virtù di obbligare, le leggi del dovere, e volesse decidersi arditamente a
violarle» (I. Kant, Critica del giudizio, § 87, Laterza, Roma-Bari 1997,
589). È sconcertante che anche il riferimento del papa allo «sforzo
davvero grandioso di Kant» («L’Europa nella crisi delle culture», in
Regno-doc. 9,2005,219) si volga (poche frasi dopo) in direzione opposta
alle intenzioni del filosofo.
3 Su questo i discorsi del papa in Germania riprendono direttamente le affermazioni contro le filosofie illuministe di stampo positivista, affermazioni che si trovano in forma concentrata in alcuni suoi
discorsi precedenti. Le «moderne filosofie illuministe», che porterebbero inevitabilmente a «un’autolimitazione della ragione», secondo la
sorprendente idea del papa «sono caratterizzate dal fatto che sono positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che, alla fine, Dio non può
avere in esse alcun posto. Esse sono basate su un’autolimitazione della
ragione positiva, che è adeguata nell’ambito tecnico, ma che, laddove
viene generalizzata, comporta invece una mutilazione dell’uomo. Ne
consegue che l’uomo non ammette più alcuna istanza morale al di
fuori dei suoi calcoli e (…) anche che il concetto di libertà, che a tutta
prima potrebbe sembrare espandersi in modo illimitato, alla fine porta
all’autodistruzione della libertà» («L’Europa nella crisi delle culture»,
in Regno-doc. 9,2005,217), perché un illimitato «saper fare» separato
dal «poter fare» non esiste più (ivi). Questa visione delle «filosofie illuministe» è piuttosto radicale: non è stato per esempio proprio Kant a
sottolineare incessantemente che una libertà «senza regole generali»
può essere la cosa più spaventosa? Il rimprovero del papa: «Una confusa ideologia della libertà conduce a un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà» (Regno-doc. 9,2005,216), qui
non coglie il bersaglio.
4 Rimane ancora degna d’attenzione l’avvertenza kantiana, che
l’uso non riduzionistico della ragione, evocato giustamente dal papa,
dev’essere tuttavia distinguibile dalla pura «sregolatezza» ed «eccesso»
in base a dei criteri, e pure la ragione richiede un «disciplinamento»; è
«umiliante il fatto che essa, nel suo uso puro, non arrivi a nessun risultato e che abbia addirittura bisogno di una disciplina per frenare le sue
sregolatezze e impedire le illusioni che da esse le derivano» (I. Kant,
Critica della ragion pura, B 823, Bompiani, Milano 2004, 1121).
5 In Kant – un maestro di questa «filosofia illuminista» da cui
Benedetto XVI prende le distanze – si trova abbastanza frequentemente anche il contrario di queste affermazioni. Kant ha per esempio
criticato una forma dell’«incredulità» come «norma», il «non dare
atto di alcun’altra esperienza della ragione (e quindi alcun uso della
ragione) che nel credito di un oggetto dell’esperienza. E non si deve
ritenere che tutto quello che non è oggetto dei sensi sia impossibile (…)
o assumere come contrario al costume dell’esperienza della ragione
e alle sue massime, comunque come rinunciabile e completamente
superfluo, quello che non è oggetto dell’esperienza, per esempio Dio
(…), vederlo per questo come inutile o (…) del tutto rinunciabile e non
importante per la ragione» (Refl. 6219, in Akademie Ausgabe XVIII,
508). A tali riduzionismi «positivistici» Kant ha contrapposto le esigenze incontenibili della ragione, che si estendono oltre l’ambito e
l’interesse delle scienze empiriche, poiché il «bisogno della ragione»
non può ancora trovarvi appagamento; il fatto che il papa nei suoi testi
arruoli regolarmente anche Kant tra i protagonisti del «positivismo
razionalista» e «soggettivista» induce a ritenere che la deformazione
delle intenzioni di Kant presente nel discorso di Regensburg non fosse
una deriva isolata.
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conseguenze nell’età moderna, indicando come tappe
decisive «Cartesio, Spinoza, Kant».6 Secondo il papa,
oggi la sfida prioritaria è quella di ristabilire e anche
arricchire quel «vero Illuminismo», reagendo alle sue
successive riduzioni.
Ragione e fede
1.2. Il prezzo di questa diagnosi è indubbiamente
alto. In questo modo non si eclissa forse, o non si considera addirittura una pericolosa «decadenza», l’orizzonte in base al quale l’epoca moderna comprende il
mondo e se stessa, e non si riducono gravemente, o addirittura deformano, le conquiste ineludibili dell’Illuminismo? In ogni caso, per una concezione della ragione
illuministica non vale, ad esempio, ciò che il papa, sulla
scia della concezione anti-modernistica,7 lamenta instancabilmente come una fatale conseguenza dell’abbandono della concezione cattolica del diritto naturale:
«Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati
all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito
della ragione nel senso stretto della parola» (Discorso al
Parlamento tedesco, in Regno-doc. 17,2011,515).
Con rispetto parlando, negli sforzi illuministici di
«orientarsi nel pensiero» avviene chiaramente il contrario. Chi non ricorda, ad esempio, la richiesta espressa
di Kant, secondo cui proprio «il modo di pensare illuministico» deve tendere alla necessaria relazione di
tutte le conoscenze con «gli scopi essenziali e supremi
della ragione umana», perché altrimenti l’esigenza non
ridotta del famoso sapere aude! non sarebbe soddisfatta?8 Perciò «la massima dell’Illuminismo» di Kant
contiene anche un netto rifiuto di un concetto di ragione «scientisticamente» atrofizzato e preserva quindi
anche la relazione a questo collegata – necessaria – con
gli «scopi essenziali e supremi della ragione umana»
(che «interessano necessariamente ognuno» e, secondo
Kant, rappresentano anche il fondamento necessario
della «fede») dal puro irrazionalismo e «relativismo».
I contemporanei portati a ragionare in termini filosofici non potranno, in realtà, reprimere i dubbi riguardo al se e al come quella ragione che rispecchia
il «vasto mondo di Dio» – mobilitata contro questa
«cultura illuminista» del mondo moderno – possa essere ancora distinta dall’«infatuazione» e dalla temeraria9 «esuberanza». Non bisogna comunque dimenticare che anche l’ultimo Kant mise espressamente in
guardia10 dai «toni di distinzione in filosofia», che si
potevano notare, a suo avviso, nelle correnti «mistiche
neoplatoniche» del suo tempo e nei loro protagonisti
«particolarmente favoriti».
Riguardo al «vero Illuminismo» rivendicato dal
papa e al suo verdetto sulla «cultura illuminista relativistica», va avanzata en passant un’ulteriore annotazione: alla concezione della legge naturale, che egli
considera valida (cioè appartenente a questo «vero Illuminismo») e di cui lamenta la mancanza di considerazione, è legata anche l’idea decisamente sorprendente
(risalente già alla penna del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede) secondo cui il cristianesimo ha «sempre definito gli uomini, tutti gli uomini
Documenti ufficiali della Santa Sede
(2011)
I
l volume è dedicato ai documenti pubblicati
dalla Santa Sede nel 2011. Vi si riflette quindi
l’attività del papa – dai viaggi di Benedetto XVI
in Germania, Croazia e Benin fino all’indizione
dell’Anno della fede – e dei principali organismi vaticani. Tra i numerosi documenti di carattere canonico e legislativo, compare anche la
circolare sulle linee guida per i casi di abuso
sessuale su minori da parte di chierici.
«ENCHIRIDION VATICANUM»
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senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio,
proclamandone in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa
dignità»,11 un’argomentazione o una rappresentazione
orientata chiaramente ancora al mondo delle «società
tradizionali organizzate gerarchicamente» e alla loro
concezione della dignitas?12 Un tale rinvio alla dignità
dell’uomo proclamata solo «nei limiti imprescindibili
degli ordinamenti sociali» non provoca direttamente la
sua «relativizzazione»? L’«Illuminismo» (che sottolinea
la differenza in linea di principio fra «dignità» e «valore
relativo») non ha forse sempre visto chiaramente anche
questo in un modo un po’ «più fondamentale» rispetto
al papa che critica il relativismo, dobbiamo dire in
un modo incomparabilmente meno «relativistico»? Il
concetto di «dignità», decisivo nell’epoca filosofica moderna considerata tanto «relativistica», con le sue distinzioni ha realmente superato tanti limiti immaginati
«imprescindibili».
Anche i relativi riferimenti nei discorsi del papa durante la sua visita in Germania confermano che, nonostante la sua ripetuta affermazione di non voler in
alcun modo ritornare a prima dell’Illuminismo e prendere le distanze dalle concezioni dell’epoca moderna
(lo sottolinea anche nel Discorso di Regensburg), di fatto
fa proprio questo, considerando i loro orientamenti e
«ideali» come semplici «idoli» o «ideologia» e prendendone le distanze – significativamente proprio con
il suo specifico rinvio al «vero Illuminismo», che deve
preservare, o ripristinare, l’antica sintesi fra «ragione»
e «fede».
2.1. Nel suo discorso al Parlamento federale tedesco13
il papa ha toccato i temi sin qui citati, ma ha posto diversamente gli accenti principali. In quell’occasione ha
basato il suo appello per una concezione cattolica della
legge naturale sul fondamento metafisico di una «ragione aperta al linguaggio dell’essere» e sulle «fonti della
conoscenza dell’ethos e del diritto» a essa collegate. Nel
suo discorso al Parlamento federale tedesco, con questo «strumento (che) purtroppo risulta spuntato»14 della
«concezione della legge naturale», Benedetto XVI intendeva lottare – concentrandovi l’attenzione – soprattutto
contro i cortocircuiti della «concezione filosofica positivista del diritto»; questo doveva permettergli, contro una
ragione ridotta «in senso positivista», di colmare anche
il presunto abisso fra «essere e dover essere», per richiamare così «natura [e] ragione» come le due tradizionali
«vere fonti del diritto» e legittimare al tempo stesso il loro
carattere irrinunciabile.
Certamente non si possono ignorare la critica papale delle carenze della «filosofia del diritto positivista»
e i cortocircuiti aporetici a essa collegati (o i possibili
pericoli che ne derivano). Benedetto XVI la considera
semplicemente un’escrescenza tardiva di quella nefasta
«cultura illuminista», della sua concezione della ragione
«positivista» e della sua libertà priva di fondamento; del
resto, il papa ha ripetutamente affermato15 che «la concezione mal definita o non definita affatto di libertà che
6 Più precisamente il «vero Illuminismo (filosofico)» secondo il
papa deriva dalla «demitologizzazione», intrapresa e intensificata dal
cristianesimo, delle rappresentazioni pagane di Dio e dalla «teologia
naturale» a esse contrapposta, e quindi alla raggiunta «sintesi» di
«ragione e fede». E questo risultato lo vede distrutto dalla successiva
cosiddetta «razionalità»: «Avevamo visto che l’unità relazionale tra razionalità e fede, cui in ultima analisi Tommaso d’Aquino diede forma
sistematica, fu mandata in frantumi non tanto dagli sviluppi della fede
quanto piuttosto dai nuovi progressi della razionalità. Quali tappe di
questa separazione reciproca si potrebbero citare Cartesio, Spinoza,
Kant» (J. Ratzinger, «Verità del cristianesimo?», 27.11.1999, in
Regno-doc. 5,2000,190). In questa «razionalità moderna» Benedetto
XVI vede la vera radice di tutte le «crisi interne del cristianesimo».
7 Anche rispetto a tali rilievi si ha l’impressione che queste caratterizzazioni della «cultura illuminista» venate di anti-modernismo
siano vistosamente simili alle critiche rivolte da papa Leone XIII alla
filosofia kantiana, collegata in particolare ai «principi del soggettivismo, dello scetticismo e del protestantesimo».
8 La tarda caratterizzazione kantiana del programma illuminista
punta esplicitamente a rifiutare una «mutilazione» in senso positivista
dello stesso: «Sapere aude, asservire la tua ragione ai tuoi veri fini assoluti» (Akademie Ausgabe XXI, 117).
9 «La parola tedesca vermessen (temerario) è una parola bella e
piena di senso. Un giudizio in cui si dimentichi di calcolare la portata
delle nostre forze (dell’intelletto), può apparire qualche volta molto
umile, e tuttavia aver grandi pretese ed esser molto temerario. Di questa specie sono la maggior parte dei giudizi con cui si pretende d’innalzare la saggezza divina, attribuendole, nelle opere della creazione e
nella conservazione di queste opere, intenzioni che veramente possono
fare onore solo alla saggezza di colui che almanacca in questo modo»
(Kant, Critica del giudizio, § 68, B309 nota, 449).
10 In questo saggio tardo Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie (Di un tono di distinzione adottato recentemente in filosofia, in Akademie-Ausgabe VIII, A398s) Kant si rivolge contro alcune tendenze «mistico-neoplatonizzanti» riconoscibili
nei filosofi suoi contemporanei. A questo proposito fa un’annotazione
interessante: «Che delle persone distinte filosofeggino sulle vette della
metafisica, va a loro massimo onore, ed esse meritano indulgenza per
la loro mancanza (appena rimediabile) verso la Scuola, poiché essi si
abbassano ai piedi dell’uguaglianza borghese. Ma che dei filosofi si
diano delle arie da gran signori non merita affatto indulgenza, perché
essi si levano al di sopra dei loro contemporanei e offendono l’inalienabile diritto di questi ultimi alla libertà e all’uguaglianza sul piano della
pura ragione».
11 «L’Europa nella crisi delle culture», in Regno-doc. 9,2005,218.
L’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede dava
corda a un equivoco sul concetto di «dignità», che ignora anche le
tradizionali necessarie differenziazioni di esso. Certamente altrove il
papa – per esempio nel discorso al Parlamento tedesco – sottolinea il
«riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo»,
un’argomentazione che indubbiamente contraddice quella sopra riportata e dunque indica un bisogno di chiarificazione.
12 Sul concetto di dignità umana e le differenziazioni da osservare cf. anche J. Habermas, «Das Konzept der Menschenwürde und
die realistiche Utopie der Menschenrechte», in Id., Zur Verfassung
Europas. Ein Essay, Frankfurt a.M. 2011, 13-38; L. Honnefelder,
«Menschenwürde und Transzendenzbezug», in Deutsche Zeitschrift für
Philosophie (2009) 2, 273-287.
13 Anche i temi filosofico-teologici del discorso del papa al Parlamento federale tedesco risalgono nei loro fondamenti teoretici a motivi
e argomentazioni che si trovano nei suoi discorsi e testi precedenti,
i più rilevanti dei quali sono raccolti nel volume Benedetto XVI,
Gott und die Vernunft. Aufruf zum Dialog der Kulturen, Sankt Ulrich,
Augsburg 2007.
14
Nell’incontro con J. Habermas, in J. Ratzinger, J. Habermas,
Etica, religione e stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005, 50.
15 Cf. «L’Europa nella crisi delle culture», in Regno-doc.
9,2005,216. Questo rilievo sfocia nella tesi ricorrente di Benedetto
XVI, secondo la quale la libertà dev’essere ancorata a un’istanza
più alta.
2. La legge naturale
e il suo fondamento filosofico
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sta alla base di questa cultura inevitabilmente comporta
contraddizioni; ed è evidente che proprio per via del suo
uso (un uso che sembra radicale) comporta limitazioni
della libertà che una generazione fa non riuscivamo neanche a immaginarci. Una confusa ideologia della libertà
conduce a un dogmatismo che si sta rivelando sempre
più ostile verso la libertà».16
Quest’accusa è particolarmente degna di nota già
per il fatto che, come vedremo, le carenze qui lamentate
dal papa – imprecisione, contraddittorietà o «ideologia
non illuminata» – dovrebbero riguardare, in misura incomparabilmente maggiore, il «concetto di natura», che
la sua arringa pone a fondamento della concezione cattolica della legge naturale; infatti, a ben guardare, qui
non si può assolutamente parlare di un «concetto di natura» unitario, come risulta semplicemente dal fatto che
il papa presenta il suo rinvio a questo concetto di «natura» principalmente come un correttivo o una controistanza critica di un «concetto di natura» ridotto in senso
positivista. Ma al di là di questo, l’ampia utilizzazione
equivoca del termine «natura» da parte del papa non
permette di riconoscere chiaramente ciò che si intende
con esso nei singoli casi. Si ha quindi l’impressione che
di fronte alla presunta «ideologia non illuminata della
libertà» lamentata dal papa vi sia solo un’«ideologia non
illuminata della natura», che sfocia naturalmente in un
«dogmatismo» di tipo particolare. Il fatto che il discorso
del papa al Parlamento federale tedesco sollevi molte
più domande di quelle a cui risponde dipende, non da
ultimo, dall’ambiguità o confusione del concetto di «natura» utilizzato, anche se occasionalmente il papa rinvia a «diverse dimensioni del concetto di natura», che
«erano proprie del diritto naturale di un tempo».17
Anche nel discorso al Parlamento federale tedesco,
il termine «natura» viene usato in modo non univoco
e contraddittorio. Il rinvio del papa alla «natura» o all’«essere» oscilla stranamente fra una concezione della
natura come semplice «realtà naturale» («fatticità empirica») e una «teleologia» che caratterizza la natura vivente (cioè a essa immanente), nonché fra un concetto di
«natura» nel senso di «essenza» ontologica e un concetto
di «natura» come specifico «essere stesso dell’uomo»;18
quest’ultimo deve poi fondare anche un «concetto di
natura» eticamente normativo e gettare così anche un
«ponte verso l’ethos e il diritto». Forse questo «concetto di
natura» orientato all’«essere stesso dell’uomo» e quindi
supposto normativo si trova anche in quel passo del discorso al Parlamento federale tedesco, nel quale il papa
vuole difendere contro la concezione del diritto positivista avanzata da Hans Kelsen l’idea che un «concetto di
natura» non ridotto in senso positivista può «contenere
delle norme» (che quindi non «possono derivare dalla
volontà» soltanto), per cui deve anche permettere di determinare la «legge naturale» come una sorta di catalogo
di norme.19
La «ragione aperta al linguaggio dell’essere»
2.2. Ma occorre anzitutto chiedersi che cosa significhi più precisamente quel rinvio alla «ragione aperta
al linguaggio dell’essere», articolato dal papa nel suo
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discorso al Parlamento federale tedesco; come suo organo fungerebbe in qualche modo la coscienza umana
in quanto «cuore docile», come sottolinea il papa con il
suo rinvio alla celebre parola di Paolo sulla «legge iscritta
nel cuore» (Rm 2,14). Già qui risulta chiaramente che
il fondamento su cui si basa e più precisamente il suo
appello a favore della concezione cattolica della legge
naturale s’ispira prioritariamente alla concezione della
legge naturale propria della teologia morale neoscolastica, secondo la quale – come già nella caratterizzazione
della «ragione» come «vero specchio di Dio» operata nel
Discorso di Regensburg – la coscienza in quanto «ragione
soggettiva» funge per così dire come un’istanza di registrazione di norme già esistenti in un «ordinamento della
creazione» eterno. Di conseguenza, nell’argomentazione
del papa si attribuisce alla coscienza lo status o il ruolo di
un’istanza che ascolta il «linguaggio dell’essere» e poi lo
riproduce in qualche modo fedelmente.
Anche qui appare la concezione che si trova sullo
sfondo (che rende particolarmente evidente uno scambio
o livellamento di piani diversi): «Dio stesso è Logos – il
fondamento naturale di tutte le realtà, la ragione creativa
dalla quale il mondo emerge e che nel mondo si specchia.
Dio è Logos – senso, ragione, parola, e perciò l’umanità
gli corrisponde con l’apertura della ragione e l’accesso
a una ragione che non può essere cieca alle dimensioni
morali dell’essere».20 Più precisamente questo viene inteso come una sorta di «raffigurazione» collegata al «linguaggio dell’essere» (cioè «alla ragione oggettiva») da
ascoltare, che deve produrre la «ragione aperta» (come
«ragione soggettiva») a questo. Perciò quest’ultima trova
chiaramente la sua misura nei «valori e norme essenziali» iscritti per così dire in questo «linguaggio dell’essere» e nella loro forza illuminante (cf. nota 20), che, in
base alle pretese «dimensioni morali dell’essere» considerate normative, sono presupposti nel senso di un dato
previo quasi ontologico.
In base alla dottrina tradizionale («tomista») del diritto naturale, la lex naturalis – anzitutto come il comandamento elementare (primum praeceptum, «fare il bene
ed evitare il male», «scritto nel cuore» (lex indita, non
scripta) – trova la sua necessaria concretizzazione solo nel
senso di una vis ordinativa creativa, immanente alla ragione umana, e in uno sviluppo graduale. Di conseguenza
la coscienza «razionale» non sarebbe un’istanza speculare puramente passiva, che si volge verso un «ordine
dell’essere» normativo prefissato, «da rappresentare»; in
esso sarebbe piuttosto la ragione come un’«istanza autoordinante» rivolta al «moralmente giusto» e «buono» lì
inteso, che di conseguenza non ha la sua misura al di
fuori di sé, bensì in un ordo (dato a se stessa) quem ratio
considerando facit (e quindi non solum considerat, come
si può probabilmente comprendere il rinvio di Tommaso
d’Aquino all’ordo conforme alla ragione).
Quale concetto di natura?
2.3. I problemi derivanti dalla mancanza di chiarezza
già segnalata (2.1) nell’utilizzazione del «concetto di natura» nei singoli casi appaiono particolarmente evidenti
anche nella tesi enunciata altrove dal papa e confermano
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i succitati dubbi (2.2): «Di contro al diritto positivo, che
può essere ingiustizia, deve pur esserci un diritto che
derivi dalla natura, dall’essere stesso dell’uomo. Questo
diritto si deve necessariamente trovare, e allora esso costituisce il correttivo nei confronti del diritto positivo».21
Questo leitmotiv – formulato nel contesto del suo incontro con J. Habermas –, mirante a determinare «i presupposti del diritto: diritto-natura-ragione», è ancora sullo
sfondo, quando, nel suo discorso al Parlamento federale
tedesco, il papa si chiede nuovamente, sia pure con cautela, «se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura
[quindi ovviamente nel senso di un concetto di natura
pensato in senso teleologico] non presupponga una Ragione creativa» (Regno-doc. 17,2011,516).
Qui è ormai decisivo il rinvio al diritto derivato da
questa «natura, dall’essere dell’uomo», che, come tale,
deve essere inteso come un «correttivo al diritto positivo», ancorato in un concetto di «natura razionale», che
così viene installato come misura idonea della libertà –
cioè una «ragione della natura e così un diritto naturale
per l’uomo e per il suo dimorare nel mondo»:22 perciò la
«razionalità» della libertà avrebbe la sua misura analoga
nella «razionalità» della natura (del «vivente») pensata
«in modo teleologico».23 Risulta ancora una volta evidente che la misura del «dovuto» va dedotta da una concezione antropologico-teleologica, che perciò dovrebbe
acquisire uno status normativo; anche in questo caso
è difficile comprendere come si possa sostenere senza
un cortocircuito naturalistico o senza la confusione dei
diversi piani delle pretese di validità. (Da ciò che segue
risulterà anche chiaramente che il ricorso del papa a «natura e ragione» come «fonti del diritto» d’un tratto assimila, o confonde, il livello della fondazione delle norme o
della produzione giuridica24 di giudizi morali normativi e
la questione della validità dal punto di vista dei contenuti
delle pretese di verità).
Qui la domanda fondamentale è quella del rapporto
fra quella «natura», quell’«essere dell’uomo» che fonda
il diritto, e la «natura» che si rivela e si fa valere, «la ragione oggettiva»; in altri termini, qui che cosa dice esat-
tamente nei rispettivi casi questo concetto di «natura»?
Più specificamente, bisogna chiedersi: se la determinazione fondamentale dell’uomo come «essere razionale» è
quella di oltrepassare la natura (come «vivente»), per cui
non può avere in essa alcuna misura, che cosa implica
allora quel rinvio a essa collegato alla «natura, all’essere
dell’uomo» come misura della libertà? Non implica forse
il fatto che l’analogia qui posta a fondamento con la natura dell’uomo resta solo molto generale, ed è lacunosa?
Ancora, nella concezione del diritto naturale professata
apertamente dal papa resta completamente senza spiegazione un punto: come ci si può appellare alla «natura»
come misura contenutistica, cioè come norma della libertà? Quale «concetto di natura» deve assicurare questo
senza ricaduta naturalistica e senza trasferimento totalmente acritico di una concezione teleologica della natura
al piano della libertà (diritto e morale)?
E inoltre, se con buone ragioni si considera irrinunciabile il concetto «teleologico» di natura per la
determinazione dello status ontologico del vivente, in
che modo questo concetto di natura normativo come
«piano del dovere» conforme alla specie del vivente
può essere norma o per così dire misura «determinata
in senso entelechiale» della libertà umana? Si può
considerare una tale analogizzazione della teleologia
della natura e della determinazione contenutistica
della libertà un solido fondamento, senza assimilare il
«senso normativo» del «dovere della libertà» al «telos
naturale» del vivente? In che modo una prospettiva
teleologica della natura può fondare un contenuto moralmente normativo? Qui non appare particolarmente
evidente una confusione dei diversi concetti di natura?
Una cosa è il necessario rispetto per una natura non
«correttamente orientata in senso funzionalistico» (nel
senso di una «teleologia della natura» critica) (cf. sotto
2.4), altra e differente cosa è il rinvio problematico a
una teleologia della natura per un fondamento normativo della «natura, dell’essere dell’uomo».
Tuttavia queste linee di fondazione confermano che
quella prospettiva ontologico-filosofica della «teleologia»
16 «L’Europa nella crisi delle culture», in Regno-doc. 9,2005,216.
17 Ratzinger, Habermas, Etica, religione e stato liberale, 50s.
18 Ratzinger, Habermas, Etica, religione e stato liberale, 48s.
Non è qui il luogo dove verificare quanto siano reciprocamente «compatibili» le singole definizioni di legge naturale.
19 Cosa che secondo Spaemann una concezione critica della legge
naturale deve evitare: R. Spaemann, «Die Aktualität des Naturrechts»,
in Id., Philosophische Essays, Stuttgart 1994, 60-79. L’affermazione di
Spaemann che «la legge naturale come diritto immediatamente valido
viene vista in concorrenza con il diritto positivo» (p. 71) si avvicina
molto alla versione attualizzata della «legge naturale» di Benedetto
XVI.
20 J. Ratzinger, Conferenza su «Alla ricerca della pace», Caen,
Normandia, 6.6.2004, in Deutsche Tagespost n. 407, 12.6.2004. Quello
che in questo «specchio» si mostra come «legge naturale» sono ovviamente «i valori e le norme essenziali in qualche modo conosciuti
o presagiti da tutti gli uomini», che quindi devono avere una «nuova
forza d’illuminazione» (Ratzinger, Habermas, Etica, religione e stato
liberale, 57).
21 Ratzinger, Habermas, Etica, religione e stato liberale, 48.
Anche questa posizione si avvicina molto a quella da cui prende le
distanze Spaemann: «La legge naturale oggi non si può più interpretare come un catalogo di norme, una specie di metacostituzione. È
piuttosto un modo di pensare, cioè un modo di pensare che vaglia
criticamente tutte le legittimazioni giuridiche dell’agire» (Spaemann,
«Die Aktualität des Naturrechts», 78).
22 Ratzinger, Habermas, Etica, religione e stato liberale, 52.
23 Al dato elementare e alla «razionalità» dell’ordinamento «naturale-teleologico» dei viventi (come alla sua «ecologia») appartiene
certamente anche il fatto che gli esseri viventi si pongano diversamente
al suo interno, in modo assolutamente conforme a quel concetto di
ius naturale che deriva da Ulpiano: «Ius naturale est, quod natura
omnia animalia docuit: nam ius istud non humanae generis proprium,
sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium
quoque commune est» (cf. Ratzinger, Habermas, Etica, religione e
stato liberale, 51). Come mostra questa citazione fa parte di questo ius
naturale, per l’autoperpetuarsi della vita, l’agire degli individui in vista
dell’«autoconservazione naturale». Questo non è il concetto positivistico e riduzionistico di natura, che «considera la natura in termini puramente funzionali»; tuttavia un concetto della «natura ragionevole»
(in questo senso teleologico) ristretto alla «teleologia della natura» (e
all’«autoconservazione naturale» dei viventi) non può essere il criterio
normativo della libertà umana, benché nel concreto rapporto con la
natura vivente (anche nel senso di un «benessere degli animali») sia
certamente da considerare.
24 È autoevidente che i «dati naturali» stabiliti siano fattori da
considerare per la capacità di giudizio; questo tuttavia non giustifica il
fatto di definirli «vere fonti del diritto» in senso normativo.
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viene rivendicata o tacitamente applicata, al punto che
«la natura stessa potrebbe contenere in sé norme», viene
quindi trasferita anche al piano normativo della morale
e del diritto, deve fungere cioè come piano del dovere e
misura della libertà umana. Questo può mostrare ancor
più chiaramente che la visione della «legge naturale»
avanzata dal papa in questa pretesa metafisica di dedurre
il «dovere dall’essere», nonché il rinvio a essa collegato
al linguaggio delle «dimensioni morali dell’essere» da
ascoltare, derivano principalmente dal fatto di stabilire
un’analogia molto problematica fra un «concetto di essere» metafisico-normativo e il «concetto di libertà»,25
che comunque in seguito suggerisce anche un ricordo
critico della cosiddetta «deduzione naturalistica errata»
in filosofia.
Ora il papa (in collegamento con quella frase già citata di Ulpiano) ha nuovamente sottolineato: «Ma ciò
appunto non basta a rispondere ai nostri interrogativi,
in cui non si tratta precisamente di quanto concerne
tutti gli animalia, ma di compiti specificamente umani,
che la ragione dell’uomo ha creati e a cui non si può
rispondere senza la ragione».26 Ma (a causa del mancato
chiarimento del «concetto di natura»), questo non rende
la cosa più semplice, soprattutto perché occorre ricordare anche quella sorprendente affermazione del papa
nella sua
enciclica
Deus caritas
R1f_Cattorini:Layout
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Paginaest,
1 dove dice: «La
dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla
ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che
è conforme alla natura di ogni essere umano».27 Ma in
PAOLO CATTORINI
La libertà
del cervello
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che modo o su che cosa si deve fondare questo «diritto
naturale»? Non chiaramente sulla «ragione»?
Ma se la «ragione» viene intesa come «natura essenziale» dell’uomo o viene messa in discussione anche
come «fonte del diritto» e può anche da sola fondare la
dimensione dell’universalità in essa implicita,28 come
suggeriscono ulteriori affermazioni del papa con accenti
diversi, che cosa significa allora precisamente quel rinvio
già ricordato alla «ragione, che non può essere cieca di
fronte alle dimensioni morali dell’essere»? Se qui «natura» significa «essenza», bisogna ancora chiedersi se
l’«essenza» dell’uomo non sia appunto la «ragione» e se
non si misuri in essa anche la sua azione dal punto di
vista normativo; ma allora anche il rinvio del papa a «natura e ragione» come le «vere fonti del diritto» (cf. sopra
2.1) deve apparire necessariamente molto ambiguo. Se
qui si deve impedire quel rinvio distorto a un concetto di
natura che si orienta come misura ai dati solo «naturali»
o alla «teleologia del vivente», allora questo riferimento
mira alla «ragione dell’uomo aperta al linguaggio dell’essere», cioè a nient’altro che alla fondazione necessaria
nella costituzione razionale dell’uomo; e solo questo può
impedire anche un abbassamento del moderno principio
di autonomia, spesso frainteso.
Una pretesa della ragione orientata all’idea dell’universalità non può rendere ragione della versione cattolica del «diritto naturale» proposta da Benedetto XVI.
Il collegamento fra diritto e morale effettuato da Benedetto VI in questo quadro ontologico (inteso in analogia
con la «razionalità della natura») come «misura della
libertà», è stato considerato con buone ragioni, nella filosofia dell’epoca moderna, sempre più problematico e
rimosso o superato da punti di vista universalistici nella
cultura moderna definita e criticata dal papa come «cultura illuminista». I punti critici proposti al riguardo dal
papa vanno invece nel senso di un deciso rifiuto di questi
principi e modelli del moderno o della loro autocomprensione, e ricorrono contro di essi a fondazioni ormai
discutibili od obsolete, con conseguenze «ideologiche» di
ampia portata (come risulta, ad esempio, dai riferimenti
del magistero o di altri pronunciamenti di Benedetto
XVI al tema dell’«omosessualità»).29
Perciò è evidente che, nella concezione proposta
da Benedetto XVI, quest’idea del diritto naturale non
opera come un’idea critica orientata essa stessa alla ragione, ma come un’istanza quasi ontologica preposta
per così dire al diritto positivo,30 accessibile solo a una
«ragione aperta al linguaggio dell’essere». Così, come
abbiamo visto, essa deve operare come misura contenutistica della libertà umana in un modo che è, in realtà,
inconciliabile con la concezione del soggetto moderno
e della sua autonomia (e con la sua pretesa di validità
incondizionata, non «relativistica»). Quest’idea guida
metafisica mette radicalmente in discussione le pretese
«moderne» dell’autonomia della ragione (e anche del
«diritto della ragione»), che trae i contenuti normativi
della libertà da se stessa,31 e ancora una volta in un
modo che favorisce direttamente i malintesi, ostinatamente mantenuti, dell’autonomia della ragione come
«soggettivismo» e «relativismo».
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La pretesa esistenza di una linea continua dal «legame
precristiano fra diritto e filosofia» fino alla «nostra Legge
fondamentale» per legittimare quella concezione cattolica del diritto naturale ostruisce ovviamente anche la visione delle potenzialità liberate per la prima volta nell’epoca moderna grazie alle concezioni del diritto razionale
e ai loro contenuti emancipatori. A prescindere dalla sua
problematica costruzione «della storia delle idee» e dalle
continuità addotte in questa concezione del diritto naturale, si misconoscono soprattutto la spinta innovativa e la
potenzialità di emancipazione presenti nel modo in cui la
ragione secolare moderna comprende se stessa.32
2.3.1. L’argomentazione circolare che appare anche in
questo processo di fondazione proposto da Benedetto XVI
è strettamente legata ai succitati dubbi. Come ho già ricordato, se per l’uomo «ciò che è conforme alla natura» è
«ciò che è conforme alla ragione», come può un «concetto
teleologico di natura» non solo rappresentare un segnale
di arresto plausibile di fronte a una comprensione riduttiva
della natura, ma anche offrire una misura normativa contenutistica per la sua libertà, dato che solo la ragione stessa
può essere la misura adeguata di «ciò che è giusto in base
alla natura»? Ora questa problematizzazione dovrebbe essere valorizzata anche come critica della fondazione cir-
25 Anche il riconoscimento del papa, volto a contrastare concezioni etiche consequenzialistiche, sul fatto che Kant aveva «evidenziato chiaramente» la categoria di bene («L’Europa nella crisi delle
culture», in Regno-doc. 9,2005,215) è fuorviante, perché la fondazione
kantiana della «categoria del bene» è in controtendenza rispetto alle
intenzioni del papa: infatti «il concetto del bene e del male non deve
esser determinato prima della legge morale (per la quale dovrebbe
apparentemente valere da fondamento), ma soltanto dopo di essa e
mediante essa» (I. Kant, Critica della ragion pura, A 110, UTET,
Torino 2006, 203). Questo è incompatibile con l’esigenza fondativa
del papa. E, da non dimenticare: «Nella natura tutto è; in essa non ha
senso parlare di dovere», né ha alcuna «istruzione etica» (I. Kant, Il
conflitto delle facoltà, Morcelliana, Brescia 1994).
26 Ratzinger, Habermas, Etica, religione e stato liberale, 51. La
«razionalità» (concepita teleologicamente) di questa natura (orientata
all’autoconservazione) resta distinta da quella «razionalità» che è data
all’uomo, tanto più che – senza riduzionismo naturalistico-biologico –
non si può porre a criterio di essa. È significativo che l’argomentazione
del papa da un lato si orienti in questo senso e dall’altro (come nel
riferimento a Ulpiano) lo smentisca.
27 Benedetto XVI, lett. enc. Deus caritas est, 25.12.2005, n. 28;
EV 23/1582. Secondo questa argomentazione si deve forse dare accanto alla «ragione» anche un «diritto naturale» da essa indipendente?
Non si può definire un semplice cavillo terminologico (ma indica
quanto rimane di non chiarito nell’esigenza ratzingeriana del «diritto
naturale»), in quanto è difficilmente compatibile con altre affermazioni sul rapporto «diritto - natura - ragione», in cui egli richiama la
nuova situazione creatasi con la Riforma: «Si deve sviluppare un’altra
volta un diritto comune, almeno un minimo di diritto precedente il
dogma, un diritto i cui fondamenti ora non si devono trovare più necessariamente nella fede, ma nella natura, nella ragione dell’uomo.
Hugo Grotius, Samuel von Pufendorf e altri hanno sviluppato l’idea
del diritto naturale come diritto razionale che, al di là dei confini della
fede, è messo in essere dalla ragione in quanto essa è l’organo della
formazione del diritto comune». E così, come se non rimanessero da
affrontare alcune cesure decisive nell’esigenza di fondazione e legittimazione, afferma: «Il diritto naturale – particolarmente nella Chiesa
cattolica – è rimasto il modello di argomentazione, con cui essa si
appella alla ragione comune nei dialoghi con la società laica e con altre
comunità di fede e cerca i fondamenti a favore di un’intesa sui principi
etici del diritto in una società pluralistica “secolare”. Ma questo strumento purtroppo risulta spuntato (…) L’idea del diritto naturale presupponeva un concetto di natura, in cui natura e ragione fanno presa
l’una nell’altra, la natura stessa è razionale» (Ratzinger, Habermas,
Etica, religione e stato liberale, 49s). Anche qui la continuità richiamata
sembra discutibile, e torna a porsi la domanda: che cosa significa in
base a questi testi «dalla ragione e dal diritto naturale»?
28 Cf. lo scetticismo di Benedetto XVI, in Ratzinger, Habermas, Etica, religione e stato liberale, 52.
29 Alla «cultura illuminista radicale» derivata dalla «libertà» come
«valore fondamentale che misura tutto» viene imputata da Benedetto
XVI anche la conseguenza che sotto questo dominio culturale «non
si potrà più affermare che l’omosessualità, come insegna la Chiesa
cattolica, costituisce un obiettivo disordine nello strutturarsi dell’esistenza umana» («L’Europa nella crisi delle culture», in Regno-doc.
9,2005,216). Tale «cultura illuminista» al riguardo potrebbe appunto
voler salvaguardare il legittimo dubbio se per una tale valutazione
dell’omosessualità in base al diritto naturale è sufficiente o convincente
l’affermazione «che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati” (…) Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto
sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati»
(Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2357).
30 Bisogna riconoscere come anche questa argomentazione si sottragga alle intenzioni dichiarate da Spaemann; sembra inoltre presupporre (con il ricorso al «linguaggio dell’essere») quello che Spaemann
vuole evitare: «Anche il diritto naturale è solo diritto, se viene voluto
non è un “essere” immediato» (Spaemann, «Die Aktualität des Naturrechts», 74). Il ricorso al «linguaggio dell’essere» che va ascoltato
si riferisce a un presupposto catalogo di norme, altrimenti che cosa
significherebbe il riferimento alla «natura (che) racchiude in sé queste
norme»?
31 L’obiettivo del giudizio del papa è questa pretesa erronea
della «cultura illuminista» (alla quale vengono negate legittimità e
plausibilità): «Il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose
umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre
di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo»
(«L’Europa nella crisi delle culture», in Regno-doc. 9,2005,219). Questa conclusione è presente anche nel discorso al Parlamento federale
tedesco. La citazione riportata dimostra in particolar modo che il
papa rifiuta di riconoscere i «principi» della modernità, in base al
fatto che «questa nuova identità, determinata esclusivamente dalla
cultura illuminista, comporta anche che Dio non c’entri niente con
la vita pubblica e con le basi dello stato» (ivi, 216). L’emancipazione
da tali esigenze di fondamento legittimatrici definisce indubbiamente
un aspetto essenzialmente «di diritto razionale» del moderno, che
il papa appunto rifiuta di riconoscere. Il tentativo di «costruire la
comunità umana assolutamente senza Dio» (ivi) dovrebbe secondo
il papa offendere anche quanti appartengono alle altre religioni. La
conseguenza dunque sarebbe: chi volesse evitare una simile offesa
(e chi non vorrebbe?) dovrebbe coerentemente essere favorevole ad
abbandonare il fondamento di tali principi «moderni». Questo getta
una luce particolare anche sulla deplorazione che nel dibattito sul
riferimento a Dio nella Costituzione europea l’impronta delle radici cristiane non trovi alcuno spazio (ivi, 215). Le riflessioni fondamentali per la sua visione e diagnosi della modernità, contenute nel
discorso su «L’Europa nella crisi delle culture» del 2005, implicano
anche un indiretto rifiuto delle riflessioni espresse da Habermas in
occasione del dialogo di Monaco nel 2004, sui «fondamenti prepolitici dello stato liberale» (Ratzinger, Habermas, Etica, religione e
stato liberale, 21).
32 Nel suo contributo all’interno del dialogo con il card. Ratzinger, Habermas – prevenendo l’idea di una continuità ininterrotta – ha
affermato: «Il liberalismo politico (…) si comprende come una giustificazione non religiosa e postmetafisica dei fondamenti normativi
dello stato costituzionale democratico. Questa teoria s’inserisce nella
tradizione di un diritto razionale che rinuncia a forti assunti, di tipo
cosmologico o di tipo salvifico, quali sono invece propri delle dottrine classiche o religiose del diritto naturale. La storia della teologia
cristiana del Medioevo, e in particolare la tarda scolastica spagnola,
appartengono naturalmente alla genealogia dei diritti dell’uomo. Ma
i fondamenti che legittimano il potere di uno stato ideologicamente
neutrale trovano, in conclusione, la propria origine nelle correnti profane della filosofia del Seicento e del Settecento. Soltanto molto più
tardi, la teologia e la Chiesa rispondono con efficacia alle sfide intellettuali, che sono state poste dallo stato costituzionale rivoluzionario»
(Ratzinger, Habermas, Etica, religione e stato liberale, 22s). A quanto
mi risulta il card. Ratzinger non ha reagito a questo né nel suo contributo di allora né, come papa Benedetto XVI, nei luoghi pertinenti del
suo discorso al Parlamento federale.
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colare del papa: come si può dedurre «ciò che è conforme
alla ragione» da «ciò che è giusto in base alla natura», se
(o mentre) bisogna nuovamente misurare quest’ultimo su
«ciò che è conforme alla ragione»? Se questo «circolo»
mostra che bisogna rinunciare al rinvio alla natura come
«fonte del diritto», che cosa dice ancora una volta il rinvio
del papa a «natura e ragione come vere fonti del diritto»
(che, inoltre, come tali, vengono presentate come «due
sfere» basate sulla «ragione creativa di Dio»), se si vuole
evitare quel «cortocircuito naturalistico» non critico? Appare evidente il circolo fondativo, nel quale resta inevitabilmente intrappolata questa argomentazione: se il diritto
naturale alla luce dell’uomo che oltrepassa tutto ciò che è
puramente naturale si orienta necessariamente alla misura
della ragione, e questa si orienta a sua volta a «ciò che è
giusto in base alla natura», che ovviamente non si misura
con la pura «fatticità» come norma, allora, se si vuole evitare una «fondazione circolare», essa può orientarsi solo a
se stessa come misura.33
L’excursus ecologico
2.4. Nel suo discorso al Parlamento federale tedesco,
l’«excursus ecologico», con il quale Benedetto XVI ha voluto spezzare una lancia a favore della sua versione della
«concezione del diritto naturale cattolico», giunse un po’
a sorpresa. Evidentemente qui non si trattava più del
«concetto di natura», che era alla base della lex naturalis, bensì del concetto di «natura viva» (e della corrispondente concezione dell’«ecologia»), che, come tale, non
può essere normativo per il «diritto naturale». Poiché il
papa attribuisce alla «cultura illuminista» da lui criticata
anche le «conseguenze negative» in campo ecologico, qui
mi limito a ricordare che il concetto di ragione divenuto
determinante per l’epoca moderna non si esaurisce nella
razionalità metodologicamente fondata delle scienze naturali moderne («ragione strumentale»), ma prende le
distanze anche dalla riduzione della natura a «una natura residuale funzionalizzata» e attribuisce all’uomo il
dovere di una relazione rispettosa con l’ambiente naturale e contro il suo sfruttamento come semplice risorsa
(Leibniz, Kant, idealismo tedesco). Anche in questo caso
la critica del papa a una «concezione positivista di ragione e natura» non coglie nel segno e non può in alcun
modo legittimare, anche in questa visione e intenzione, la
concezione del diritto naturale che egli sostiene.
Queste carenze non possono essere colmate con il rinvio – piuttosto fuorviante – al fatto che «la terra stessa
porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue
indicazioni». Se, ancora una volta, queste «indicazioni»
devono essere un’«indicazione etica della natura», non
è forse in aperta contraddizione con il fatto che questa
«indicazione», ancorata nella natura, è insufficiente per i
«compiti specificamente umani», «ai quali senza ragione
non si può rispondere», come il papa stesso sottolinea (cf.
sopra, 2.3)? Anche in questo caso appare chiaramente la
mescolanza già evidenziata di diversi concetti di natura.
La protesta, indubbiamente fondata, contro la riduzione
della natura vivente a un «mondo esteriore di fatti» (A.
Gehlen) manipolabili e contro la privazione, nella relazione con essa, della sua «autonomia» e del suo «valore
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proprio» indipendente dall’utilizzazione umana (cioè
contro lo sfruttamento della natura considerata una semplice «risorsa») non giustifica in alcun modo l’attribuzione
a essa di una «dignità» o anche di una «indicazione» da
seguire.34 Alla «natura» manca precisamente ciò a cui è
legata la «dignità», per cui anche l’attribuzione a essa di
una «dignità» è dovuta a un equivoco. Un’illustrazione del
motivo del dominium terrae correttamente inteso sarebbe
risultata meno equivoca e la richiesta al riguardo certamente più utile, non da ultimo nel senso di un necessario
rinvio alla responsabilità collettiva a essa collegata per le
future generazioni e le loro condizioni di vita.
3. La «crisi della Chiesa» come «crisi di fede»?
3.1. Il rinvio del papa, inserito in questo contesto ecologico e in esso anche decisivo, a una «ragione oggettiva, che si
manifesta nella natura» dovrebbe, in definitiva, mantenere
aperta o legittimare anche la visione metafisica, grazie alla
«ragione ampia», di una «ragione creativa, di un creator Spiritus», dato che il papa in questo contesto tematico spesso
sottolinea: «Il dato che la materia porta in sé una struttura
matematica, è piena di spirito, è il fondamento sul quale
poggiano le moderne scienze della natura. Solo perché la
materia è strutturata in modo intelligente, il nostro spirito è
in grado di interpretarla e di attivamente rimodellarla».35
Si è quasi costretti a chiedersi se il papa anche qui non
tagli in qualche modo il ramo sul quale è seduto: se il rinvio direttamente collegato alla «teologia naturale» – in
questo caso, il rinvio diretto, sia pure solo di sfuggita, ma
in modo inequivocabile, a un creator Spiritus, quindi, in
definitiva, a «una prova teleologica di Dio» – appare altamente problematico, e se, come ho già ricordato, anche
la fondazione e legittimazione del diritto e della morale
non hanno bisogno di alcuna «idea di un altro essere al di
sopra dell’uomo», allora si perviene necessariamente alla
conclusione che segue.
Mediante queste pretese di fondazione non si conferma
solo la «crisi di fede», diagnosticata dal papa: «La vera crisi
della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede». La
pretesa avanzata perlomeno indirettamente da Benedetto
XVI, con il suo rinvio all’«ampiezza della ragione», contro
un Illuminismo (a suo giudizio) mutilo e il suo concetto di
natura e di ragione ridotto, la pretesa cioè di far valere
la tematica di Dio in una riscoperta tuttavia non mediata
della prova teleologica di Dio, nonché di una fondazione
ultima del diritto e della morale «in una ragione creativa di
Dio» anche per i tentativi filosofici e teologici moderni, non
riesce assolutamente a convincere già da questo punto di
vista programmatico.36 La sua stessa intenzione di «parlare
di Dio» nella sua terra di origine in un modo accettabile
e coerente anche per i contemporanei illuministi diventa
piuttosto direttamente, a ben guardare, una conferma involontaria della «crisi di fede» da lui stesso diagnosticata.
Se poi si arena questo rinvio del papa, sia pure prudente, a
una teologia naturale in questo modo diretto, così come la
sua pretesa di una fondazione teologica ultima del diritto
e della morale – e per entrambi gli «insuccessi» esistono,
come è noto, «secondo l’Illuminismo» ragioni assoluta-
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mente valide –37 allora la «crisi di fede nel mondo occidentale» è da considerarsi direttamente e in misura maggiore
una «crisi di Dio». Se i presunti fondamenti della fede in
Dio negli stessi discorsi del papa «su Dio» si dimostrano
fragili (e anche i mezzi di salvezza proposti contro la «crisi
delle culture» si dimostrano inefficaci), allora anche queste
stesse affermazioni in materia sono una dimostrazione di
questa crisi, sulla quale vale la pena riflettere. Inoltre le
pretese fondazioni metafisicamente «caricate» del papa
non finiscono forse di nuovo – volontariamente e «direttamente» – sotto quel coltello della critica della religione,38
che un Illuminismo illuminato su se stesso per strade lunghe e spinose era riuscito a superare?39
Crisi di fede, crisi di Dio
3.2. Perciò se bisogna partire dal fatto che i punti presentati rappresentano il vero fondamento del pensiero sul
diritto naturale proposto dal papa e dell’idea di Dio «che lì
deve trovare l’ultimo fondamento», allora riaffiora ancora
una volta non solo il suo atteggiamento critico verso la modernità, che si ricollega senza soluzione di continuità con
precedenti affermazioni al riguardo. Non da ultimo, il fatto
che Benedetto XVI metta in discussione in linea di principio la pretesa avanzata nell’«epoca moderna», ma basi la
sua fondazione della tematica di Dio su fondamenta insufficienti o divenute obsolete, dimostra realmente in modo
acuto questa «crisi di fede» come «crisi di Dio». Perciò,
in verità, i discorsi del papa confermano la profondità di
questa crisi e dimostrano, inoltre, l’impotenza della dire-
zione della Chiesa cattolica nei suoi riguardi. Considerata
da questa prospettiva, anche la domanda rivolta dal papa
ai suoi ascoltatori (alla fine della sua visita in Germania):
«Che cosa significa la domanda su Dio nella nostra vita?»
ha un valore praticamente solo retorico. Sì, che cosa significa? Proprio su questo molte persone si sarebbero aspettate
da lui almeno alcune indicazioni meritevoli di riflessione.
In questa misura, anche l’ultimo rinvio del papa al
fatto che molte persone non hanno «un’esperienza della
bontà di Dio» dice ben poco; questo non dipende solo
dal loro essere senza parole, indipendentemente dal
rinvio alla «ragione oggettiva», davanti alla domanda:
«Dov’è Dio?», ma dipende anche, e principalmente, dal
fatto che per molti contemporanei ciò che si chiede sul
tema di Dio e le collegate domande della fede e della
speranza sono diventate in gran parte estranee, si sono
perse. Si ha l’impressione che l’intenzione annunciata
dal papa «di parlare di Dio» abbia rafforzato sotto vari
aspetti quest’esperienza piuttosto che sensibilizzare su
queste domande.
Perciò un buon numero di quei contemporanei pensosi ricordati all’inizio hanno trovato piuttosto una conferma ai loro dubbi: l’intenzione del papa di «parlare di
Dio», scelta come motto della sua visita in Germania,
poteva veramente, con quel modo di pensare rivolto
piuttosto al passato e con le sue «sintesi» cercate in esso,
assicurare il successo di un presunto «vero Illuminismo»?
Rudolf Langthaler
33 L’argomentazione del papa qui si muove all’interno del circolo
descritto come segue da Spaemann in riferimento alla concezione
stoico-cristiana della legge naturale: «La natura umana veniva definita
attraverso la ragione. Tutta la legge naturale mira al dominio del volere razionale. Ma che cosa deve volere la volontà razionale? Il giusto
secondo natura. Che cos’è per gli uomini il giusto secondo natura? Il
dominio della ragione. La recente crisi dell’etica della legge naturale
appunto in ambito cattolico ha la sua ragione teoretica proprio in questo
circolo, che rende impossibile l’orientamento della ragione a qualcosa
come una natura umana del fine ultimo» (Spaemann, «Die Aktualität
des Naturrechts», 74). Invece questo ricorso circolare del papa a «natura
e ragione come fonti dell’ethos e del diritto» va letto anche in funzione
del concetto di legge naturale presente nell’enciclica Deus caritas est e
permette di chiarirne alcuni aspetti terminologici e sostanziali.
34 Una conseguenza peregrina sarebbe questa: mentre la «terra
stessa porta in sé la propria dignità», il cristianesimo proclamerebbe
«in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità» («L’Europa nella crisi delle culture»,
in Regno-doc. 9,2005,218).
35 Benedetto XVI, Discorso alla curia romana, 22.12.2008, in
Regno-doc. 1,2009,8.
36 Con ciò non si deve mettere in dubbio che le obiezioni sollevate
da Benedetto XVI contro un «evoluzionismo» che si pensa come «filosofia prima» o contro le false pretese di una malintesa teoria dell’evoluzione siano completamente giustificate. Ugualmente si dovranno
mediare anche le legittime e indispensabili prospettive teleologiche e
la connessa pretesa, posto che non ne venga esclusa la consapevolezza
del problema formulata e accresciuta attraverso la filosofia moderna.
37 È quanto contesta anche il papa, quando dà alla «razionalità
scientifica» sviluppata dall’Illuminismo la responsabilità del risultato
di una cultura «che, in un modo sconosciuto prima d’ora all’umanità,
esclude Dio dalla coscienza pubblica, sia che venga negato del tutto, sia
che la sua esistenza venga giudicata non dimostrabile, incerta, e dunque
appartenente all’ambito delle scelte soggettive, un qualcosa comunque
irrilevante per la vita pubblica» («L’Europa nella crisi delle culture», in
Regno-doc. 9,2005,215). Questa affermazione sottolinea suggestivamente
un aspetto chiave della critica del papa alla modernità, ma ne rivela
anche la problematicità. L’antidoto offerto dal papa alla malattia della
ragione da lui diagnosticata sarà curativo? Mentre si manifesta, anche
dentro la Chiesa, una «crisi della fede» come «crisi di Dio». Non è qui il
caso di dibattere se la ragione, che si trova «in una situazione debole» (J.
Ratzinger, presentazione dell’enciclica Fides et ratio, in L’Osservatore
romano 28.10.1998), possa ritornare in forze con il rimedio proposto dal
papa (e se ciò sarebbe auspicabile), o se non si tratterebbe quasi di una
«morte dolcissima». Probabilmente a questo proposito Benedetto XVI
non apprezzerebbe (perché troppo «soggettivistica») la tesi sostenuta da
Spaemann: «Le prove dell’esistenza di Dio dopo Nietzsche possono solo
avere il carattere di argumenta ad hominem» (R. Spaemann, «Gottesbeweise nach Nietzsche», in L. Nagl [a cura di], Religion nach Religionskritik, Oldenbourg Verlag, Wien 2003, 111-123, qui 119).
38 Non è necessario condividere il «razionalismo critico» di H.
Albert e apprezzare la sua polemica (cf. H. Albert, Joseph Ratzingers
Rettung des Christentums. Beschränkungen des Vernunftgebrauchs im
Dienste des Glaubens, Alibri, Aschaffenburg 2008), per vedere come
problematiche le pretese filosofiche del papa in riferimento alla sua
fondazione della tematica su Dio; tuttavia non si può negare che vi si
trovino molti punti di contatto per tale critica moderna della religione.
Essi si mostrano non da ultimo nelle argomentazioni circolari sul rapporto tra «razionalità secolare» e religione, che si trovano anche nel
suo contributo al dialogo con Habermas e toccano il dubbio del papa
sull’affidabilità della ragione.
39 Merita attenzione il fatto che alla fine del suo discorso nella
«Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia
nel mondo» (Assisi, 27.10.2011), poche settimane dopo la visita di
Benedetto XVI in Germania, egli abbia affermato che «l’assenza di
Dio porta al decadimento dell’uomo e dell’umanesimo» (Regno-doc.
19,2011,592). E chiede: «Ma dov’è Dio?». Chi dopo questa domanda
si aspettasse una risposta resterebbe deluso; e diverrebbe più sensibile al
riferimento finale – che sta al posto di una risposta a quella domanda – a
«persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Persone del genere non
affermano semplicemente: “Non esiste alcun Dio”. Esse soffrono a motivo della sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente
in cammino verso di lui». Questa delicata affermazione senza dubbio si
differenzia positivamente dalle contestazioni polemiche dell’agnosticismo e dell’ateismo nelle dichiarazioni magisteriali dei primi tempi.
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