Latinitas or Europa: from present to past, from past to present LE ANTICHE ROTTE COMMERCIALI DEL MEDITERRANEO 1. 2. 3. 4. 5. 6. INTRODUZIONE STORIA MARITTIMA DI ROMA LA PIAGA DELLA PIRATERIA ROTTE LUNGO LE COSTE LIGURI OPERE MARITTIME I FARI - Colosso di Rodi - Faro di Alessandria - Faro di Ostia - La tour d’Ordre 7. LE NAVI - Navi commerciali a-Sistemazione dello scafo per il trasporto delle anfore - Navi da guerra a-La galera b-La liburna c-La trireme d-Il terribile corvus e le rovinose catapulte - A bordo delle navi:la vita quotidiana e l’attrezzatura - Il personale dei porti e delle navi 8. LA NAVE DI ALBENGA 1. INTRODUZIONE Prima dell’affermazione di Roma, il Mediterraneo era teatro del confronto di tutte le potenze marittime rivierasche, che vi si ritagliavano delle proprie aree di dominio esclusivo controllate dalle otte da guerra e regolate da appositi trattati navali. Nel bacino occidentale operavano soprattutto Cartagine, Marsiglia, gli stati dell’Etruria e le marinerie della Campania; nello Ionio, Taranto e Siracusa; nel Mediterraneo orientale e mar Nero, Rodi, i regni di Pergamo, di Macedonia, del Ponto, di Siria e d’Egitto, e una moltitudine di altre città elleniche. Il commercio marittimo, già fortemente condizionato dai vincoli e divieti presenti nelle varie aree controllate dalle predette potenze e dai rischi derivanti dalle situazioni di conitto in atto sui mari, era anche soggetto al depredamento da parte dei pirati che infestavano tutte le acque in cui potevano impunemente condurre i loro lucrosi agguati. I Romani ebbero n dai primi anni della Repubblica la necessità di avvalersi del commercio marittimo (il detto “Navigare necesse est” si riferiva proprio l’ineludibilità della navigazione per soddisfare, innanzi tutto, le esigenze vitali dell’Urbe); essi si trovarono pertanto a confrontarsi sul mare sia con le maggiori potenze navali del Mediterraneo, sia con i pirati. La sicurezza del mare venne poi denitivamente assicurata dalle vittorie navali riportate da Marco Agrippa, ammiraglio di Ottaviano, contro le nuove otte piratiche di Sesto Pompeo e contro la otta egizia di Antonio e Cleopatra (Azio, 2 settembre 31 a.C.). L’impulso conferito dai Romani allo sviluppo della navigazione marittima conseguì nel Mediterraneo dei risultati straordinari. Roma, infatti, con il principio di libero utilizzo del mare e il principio basilare di libera navigazione, riuscì a fare di quell’ampio e bellicoso mare un placido “lago” interno brulicante di vita, di trafci commerciali e di ogni genere di altre attività marittime, come pesca, viaggi e diporto. La facilità delle comunicazioni marittime fra tutte le rive del Mediterraneo favorì la romanizzazione dell’Impero, che non fu una monotona riproduzione stereotipata della matrice con gli usi e costumi dei Romani, ma un ampio e complesso fenomeno di osmosi che consentì il reciproco arricchimento delle varie popolazioni. 2. STORIA MARITTIMA DI ROMA La prima otta di cui si parla nella storia di Roma è quella che, circa quattro secoli prima della fondazione dell’Urbe, approdò sul litorale laziale, ove sbarcarono i profughi troiani guidati da Enea, il mitico progenitore della stirpe regia di Alba Longa e, quindi, di Romolo, nonché della stirpe Giulia. Quanto quella stessa otta venne incendiata dal nemico, la Madre degli dei volle assicurarne l’immortalità: le navi vennero infatti trasformate in divinità marine, analoghe alle Nereidi, che rimasero in quelle acque per proteggervi i naviganti; e non vi è motivo di credere che se ne siano mai allontanate. Gli antichi, pertanto, ebbero la possibilità di annoverare quella soprannaturale benevolenza fra i primissimi fattori del potere marittimo della nascitura Roma. La posizione di Roma, non lontana dal mare, si è dimostrata del tutto privilegiata, per il suo clima ideale, per la sua centralità (nella Penisola italiana e, quindi, nel Mediterraneo) e per quella sua particolare natura marittima .I commerci navali, indubbiamente avviati n da quel secolo, raggiunsero sul nire del VI secolo a.C. un’estensione già signicativa agli occhi di una potenza marittima di prima grandezza come Cartagine: fu infatti nel 509 a.C. che venne stipulato il primo dei Trattati navali fra Roma e Cartagine. I Romani, quindi, avevano già allora dei ben precisi interessi sul mare: oltre alle esigenze di controllo della fascia costiera laziale, avevano trafci marittimi estesi alle isole maggiori ed al Nord Africa; sembra che essi si avvalessero anche di qualche nave da guerra, verosimilmente per la protezione di certe rotte commerciali contro gli attacchi dei pirati. Circa un secolo e mezzo dopo il trafco mercantile romano doveva già interessare buona parte del bacino occidentale del Mediterraneo e, verso oriente, il mare Ionio, come risulta dal secondo Trattato navale con Cartagine, raticato nel 348 a.C., e dal Trattato navale bilaterale stipulato con Taranto qualche decennio prima . In epoca imperiale, Roma era una città enorme abitata da circa un milione di persone. Essa costituiva un mercato straordinario, quale non si ritroverà più sulle rive del Mediterraneo occidentale no al XIX secolo. 3. LA PIAGA DELLA PIRATERIA Mentre Roma conquistava l’egemonia meditteranea,si era vericata una forte ripresa dell’ attività dei pirati, soppratutto delle coste meridionali dell’Asia Minore (Cilicia) e di Creta. Da principio Roma non intervenne,anche perché questi pirati erano i maggiori fornitori di schiavi del mondo antico, e quindi svolgenavo una funzione ritenuta preziosa.Quando però le loro azioni cominciarono a disturbare il commercio e la pace romani, si decise di passare all’azione, afdando a Publio Servilio Vatia l’incarico di sottomettere la Cilicia.Vatia attacò i pirati al largo delle isole Chelidonie e li sconsse,ma si trattò di una vittoria senza grandi conseguenze.I pirati infatti continuarono a fare da padroni in tutto il mediterraneo, saccheggiando città e templi, catturando personaggi importanti (tra cui il giovane Giulio Cesare), appoggiando Mitridate, promettendo aiuti a Spartco e giungendo a distruggere una otta consolare nella rada di Ostia. I continui assalti dei pirati causavano incertezza nei rifornimenti di grano a Roma, che si rietteva in un aumento del prezzo e nel timore di una carestia. Ciò indusse il senato a varare misure eccezionali, contenute nella lex Gabinia del 67 a.C.: per tre anni veniva afdato ad un solo capo un imperium innitum su tutto ilmeditteraneo e le sue coste no a 50 miglia del loro retroterra, con competenze amplissime. Il prescelto per tale incarico fu Gneo Pompeo. Dopo aver nominato 13 luogo tenenti, suddivise il bacino meditteraneo in settori, destinando una squadra ad ogniuno di essi e tenebdo per se Creta e la Sicilia, dove intendeva sferrare l’attacco decisivo.La strategia di Pompeo ebbe un successo spettacolare: infatti catturò molte navi e uccise 10.000 pirati. Venne così acclamato dal popolo Romano “pacicatore del mare”; e così per la prima volta Roma aveva conseguito l’effettivo dominio del mare. 4. ROTTE LUNGO LE COSTE LIGURI Già a partire dall’età classica esistevano degli “itinerari marittimi” che possiamo equiparare ai moderni portolani, che fornivano indicazioni e punti di riferimento per navigare lungo tali rotte. Durante l’antichità la Liguria era compresa in una rete di vie di comunicazione marittima che, secondo la terminologia moderna potremmo denire “di piccolo cabottaggio” acui vanno aggiunti “i trafci locali”. Per quanto concerne la prima, la Liguria era interessata dal tratto settentrionale della rotta così detta “tirrenica”, compresa tra lo stretto di messina e il pèorto di Massalia (Marsiglia). A quest’ultimo porto faceva capo anche un’altra rotta, la “iberica”, che si sviluppava no a giungere lo stretto di Gibilterra. Un collegamento trasversale tra le due rotte era attuato con la rotta “ispanica”, che collegava le coste levantine dell’Iberia con Ostia. La rotta “ispanica” prevedeva dei tratti di navigazione d’altura.A meridione, la “tirrenica” si collegava alla rotta “fenicia” che attraversava costeggiando l’Africa settentrionale tutto il meditteraneo. In Liguria già a partire dall’età del ferro sono rimaste testimonianze di un’antichissima rotta lungo le cosate del tirreno, e sono rimasti resti di ceramica proveniente da vari luoghi del meditteraneo. Probalbimente a questi percorsi ad ampio raggio erano legate le più importanti strutture portuali, di riferimento e di segnalezione.Dalla rotta “tirrenica” si staccavano delle ramicazioni che la collegavano ai centri marittimi più importanti tra cui la Corsica e la Liguria.In Liguria la navigazione relativa ai trafci locali doveva essere molto sviluppata e di notevole importanza, sia perché il trasporto via mare era più conveniente ed economico di quello terrestre, sia per le particolari caratteristiche morfologiche della regione.I trafci in area locale miravano allo smercio dei prodotti importati indigeni, verso i centri minori e i borghi merinari, le mansiones e le villae marittime, presumibilmente provviste di approdi privati.Possiamo ricordare, per fare qualche esempio di questi trafci, le produzioni di vasellame di Albintimilium, l’antica Ventimiglia romana; i prodotti provenienti dai grandi latifondi, come quello dell’azienda di famiglia dell’imperatore Pertinace, che dall’entro terra facevano conuire sul litorale legname, lana e altri prodotti della pastorizzia. Le ceramiche liguri che tendevasno ad imitare le classi di più ampia diffusione marittima erano esportate via mare, per esempio nel mezzogiorno francese, come quelle prodotte ad Albintimilium. Durante l’età reppublicana ai porti Liguri, e soppratutto a Ventimiglia, arrivava, lungo la rotta “iberica”, del vasellame iberico come i cosidetti “sombreros de copa” o “kalathoi”. Non bisogna dimenticare che le isole Liguri e alcuni tratti della costa, accessibili con difcoltà da terra, furono sede, con l’avvento del cristianesimo, di importanti insediamenti monastici, che fanno presupporre la necessità di collegamenti abbastanza fraquenti. (g.1 rotte del mediterraneo. Did.Le rotte di cabottaggio nel Mediterraneo nell’antichità) 5. LE OPERE MARITTIME Un altro importante campo d’azione del fervore organizzativo dei Romani, e della loro concretezza in fase di realizzazione, fu senz’altro quello delle opere marittime, anch’esse intese ad incrementare la consistenza, l’efcienza e la sicurezza delle linee di comunicazioni marittime. Vennero allestiti numerosi nuovi porti, potenziati quelli esistenti e resi tutti più sicuri con la costruzione di estese dighe foranee. Parimenti rispondenti si presentano tutte le altre strutture portuali, quali le banchine (robuste, accuratamente pavimentate e dotate di anelli per i cavi d’ormeggio), gli ampi magazzini, le torri per il controllo del trafco, i fari per l’ingresso notturno, ecc. A benecio della sicurezza della navigazione, inoltre, i Romani realizzarono una vera e propria rete di fari disseminati su punti cospicui, integrando in tale rete anche i pochi fari precedentemente esistenti (incluso l’antesignano faro di Alessandria, celebrato fra le meraviglie del mondo). Il più noto dei fari romani divenne inevitabilmente il grande faro del Porto di Roma (eretto dall’imperatore Claudio), poiché orientava la rotta dei naviganti verso la meta che veniva universalmente considerata il centro del mondo. 6. I FARI Un fuoco acceso sulla riva è stato sempre percepito come un segnale, un messaggio di avvertimento lanciato ai naviganti. L’Odissea di Omero (ne dell’VIII sec. A.C.) cita l’uso di fuochi e di luci per guidare i marinai. A partire da quest’epoca si fecero garandi sforzi per fare in modo che i fuochi continuassero a brillare durante la notte e potessero così guidare la navigazione col buio. All’inizio si erigevano delle grandi cataste di legna, poi ci si sforzò di renderle visibili a grande distanza. (g.2 torre di segnalazione.did. ipotetica torre di segnalazione) I più antichi fuochi di segnalazione conosciuti sono quelli dei canali, disposti lungo la costa. La loro luce era molto debole e dovevano essere continuamente alimentati e attizzati. Imoltre la luce dei segnali ssi si confondeva spesso con quella di altre sorgenti luminose, poteva essere resa meno visibile dal fumo e durante le tempeste di vento il fuoco poteva provocare incendi. C’erano perciò numerosi inconvenienti di questo tipo di installazioni: non si poteva mai sapere con certezza a quale distanza si trovavano, ne se erano accesi oppure no. I pirati capirono che anche i naufragi potevano essere occasione di guadagno. Cominciarono così ad accendere falsi fuochi di segnalazione, con lo scopo di attirare le navi verso la costa, farle incagliare e impadronirsi delle loro mercanzie. Già intorno al 700 a.C. si hanno notizie di questi falsi segnali, che continuarono ad esistere no agli inizi del XIX sec. (g3. pianta dei fari.did.Durante gli ultimi secoli prima della nostra era vennero costruite altre torri per segnalazioni, mentre fenici, egizi e romani cominciavano a moltiplicare le spedizioni navali e militari. Le navi viaggiavano anche di notte. Le torri di segnalazione sorsero ben presto all’entrata dei pporti importanti, tra i quali vanno ricordati in particolare quelli del mar Egeo (Il Pireo, Smirne), del Mar Nero (Eraclea pontica, Timea), della costa africana (Cartagine) e della Spagna meridionale (Turris Caepionis, Gades), ma anche quelli della Sicilia (Messina).) La farologia prende il nome dall’isola di Pharos, situata davanti ad Alessandria d’Egitto, dove nel III secolo A.C. fu eretto il primo faro, progettato dall’architetto greco Sostratos di Cnide, considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Tuttavia la pericolosità delle basse e piatte coste, portò alla costruzione sull’isoletta di Pharos di una torre alta 120 metri, sulla cui sommità veniva acceso un enorme braciere, la cui luce, visibile no a 50 km, era accresciuta ad intermittenza da enormi specchi concavi di metallo, inventati da Archimede. Il faro di Alessandria funse da guida ai naviganti per diverse epoche storiche no a che non cadde in rovina nel XIV secolo. La torre di Alessandria non fu l’unica a rappresentare il primo sistema nautico inventato dall’uomo per la sicurezza nel mare. Analoga realizzazione fu anche il Colosso di Rodi, altra meraviglia del mondo antico, un gigantesco simulacro di un dio all’ingresso del porto dell’isola che teneva in mano un braciere ardente. Successivamente altri fari furono costruiti dai romani a Marsiglia, Fos, Narbonne, Boulogne e Fréjus. Ancora oggi a Dover in Inghilterra si può ammirare una torre-faro di epoca romana. Poi il Medioevo portò al decadimento di queste istituzioni ed i pochi che resistettero furono gestiti da monaci. Colosso di Rodi La statua venne costruita da Chares di Lindo, scolaro di Lisippo. Dopo che venne eretta il vocabolo “kolossos” indicò solo le statue di grandissime dimensioni ed essa venne annoverata tra le sette meraviglie del mondo. L’iscrizione dedicatoria è conservata nelle fonti scritte e forse anche si può ricostruir l’epigramma dell’artista. La costruzione dell’opera durò dodici anni, sicché si può pensare che l’opera fu dedicata nel 290 a.C. a Helios. Dal racconto di Filone di Bisanzio riguardante la costruzione della statua, si apprende che essa era alta 32 metri e che l’artista, dopo aver insso solidamente con grossi perni di ferro i piedi di bronzo della statua in una base di marmo, elevò il resto del corpo a strati avendo cura di preparare, nell’interno della statua, un’intelaiatura di ferro che seguiva la forma della statua e che era ssata con perni alle pareti di essa. Non si sa se essa reggesse una accola o una lancia. L’impostazione era verticale perché, date le dimensioni, la statica doveva essere sicurissima. E’ pensabile che nel rendimento dei lineamenti del volto e nell’espressione psicologica nel Colosso, Chares si sia ispirato all’immagine del Sole sulla quadriga eretta per gli abitanti di Rodi da Lisippo. La scultura di Chares, con ogni probabilità, aveva intorno al capo una tta raggiera, come altre immagini del sole scoperte a Rodi. (g 4-5 colosso rodi 1-2.did.Ricostruzione dell’enorme Colosso di Rodi all’ingresso del porto) Faro di Alessandria Architetto ne fu Sostrato di Cnido . La costruzione del Faro iniziò probabilmente nel 297 a.C e l’inaugurazione ebbe luogo tra il 280 e il 279 a.C. Il Faro era stato consacrato a favore dei navigatori agli dei salvatori che poteva facilmente essere scorta da chiunque entrasse o uscisse dal porto : la amma del Faro vista isolata e alta sull’orizzonte, come una stella, sembrava ad essi l’apparizione della divinità protettrice. Assai presto si diffuse nel mondo antico la fama della torre luminosa sorta sulla spiaggia dell’Egitto, torre che in verità era annoverata tra le più colossali costruzioni dei re greci. Poco sappiamo intorno all’edicio, dagli antichi genericamente ammirato a mai sufcientemente descritto,anche perché tutte le innumerevoli torri luminose che lo presero a modello sono andate distrutte,però in alcune monete alessandrine coniate sotto Domiziano, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Comodo, che rafgurano il Faro, sono evidenti i particolari essenziali dell’edicio, specialmente i Tritoni, i mostri marini che sappiamo nelle tombe o nelle conchiglie tortili, riprodotti agli angoli della cima del I piano.(g.6 faro-alessandria.did. Dipinto del faro di Alessandria di notte) Ulteriori descrizioni del Faro ricorrono negli scritti di vari autori classici all’inizio dell’era cristiana, soprattutto in Diodoro Siculo. Il sistema d’illuminazione consisteva nell’accendere fuochi di legno resinoso e grandi torce, oppure nel bruciare oli minerali in vasti recipienti. La potenzialità ed efcacia della luce, che gli antichi considerarono stupefacenti, tanta era la distanza, 50 Km. circa, a cui veniva proiettata, erano accresciute ad intermittenza da enormi specchi concavi di metallo, i quali sarebbero stati espressamente inventati da Archimede. E’ noto infatti che nel primo Medio Evo il Faro trasmetteva alla città di Alessandria messaggi eliograci dalle navi in arrivo. Secondo testimonianze storiche, essa era un vero e proprio colosso, alta quanto un edicio di 45 piani. La sua altezza infatti doveva aggirarsi intorno ai 120 - 130 metri e, come una torta nuziale, era composta da tre piani distinti, sempre più stretti. Il I°, alto 60 metri, aveva una pianta quadrata ed era molto largo. Il II° era alto 30 metri e, sempre stando a racconti e scritti di epoca antica, ricordava molto una torre a sezione ottagonale. L’ultimo pezzo, di 15 metri, invece era costituito da una vera e propria torre cilindrica sormontata da un’enorme statua, forse quella di Alessandro il Grande o quella di Zeus Soter. Si sa che il Faro attraversò diverse epoche storiche senza grossi traumi e poco dopo l’anno 1000 era ancora in piedi. Ma, in seguito, gli occupanti musulmani distrussero il 3^ piano del Faro, sostituendolo con una piccola moschea. Nei tempi che seguirono il Faro cadde in rovina, no a trasformarsi in una vera e propria “cava di pietre” per la realizzazione del forte, già citato, che si erge ancora. Sul Faro di Alessandria si modellarono le altre torri consimili, innalzate in età ellenistica e romana, in vari punti del Mediterraneo: esse ebbero in generale un’altezza minore, furono suddivise in un numero maggiore o minore di piani, ma il tipo rimane sempre il medesimo. L’ultima possibile rafgurazione del Faro prima della sua distruzione la troviamo in un mosaico della volta della cappella di San Zeno in S. Marco a Venezia, databile intorno al 1200. Mostra il Faro e una nave con l’Evangelista al timone, mentre arriva ad Alessandria per fondare la chiesa copto-cristiana in Egitto. Il faro di Ostia (g.7 faro di Ostia did.faro di Ostia) La collocazione del faro, struttura oggi perduta, si pone sulla sinistra del molo che faceva parte del Porto di Claudio. Sulle modalità in cui fu costruito il faro ci soccorre Svetonio che scrive: “Fece costruire il Porto di Ostia circondato da un braccio a destra e da uno a sinistra e fece ergere un molo all’ingresso, in acque profonde, anzi, per poter gettare fondamenta più solide, vi fece affondare una nave che aveva trasportato dall’Egitto l’Obelisco Grande e , ssati su quella dei pali, vi fece costruire sopra un’altissima torre, ispirandosi al Faro di Alessandria, che guidasse la rotta delle navi con le sue luci notturne.”, (Svetonio, Vita di Claudio, 20,3). Sulla forma del faro possiamo rifarci alla numismatica, al mosaico della tomba 43 della necropoli di Porto e a quello posto nel Piazzale delle Corporazioni. Il faro doveva essere costruito da tre grossi dadi sovrapposti che si restringevano verso l’alto. In cima vi era una piccola torre dove veniva acceso un braciere che serviva per illuminare la zona del porto per un raggio superiore ai quarantacinque chilometri.Sulla forma del faro possiamo rifarci alla numismatica, al mosaico della tomba 43 della necropoli di Porto e a quello posto nel La tour d’Ordre (g.8 la tour d’Ordre.did. la tour d’Ordre) Intorno al 40 D.C. l’imperatore Caligola guidò l’esercito attraverso il territorio dell’odierna Francia, no a Douvres, sulle coste inglesi. Quattro anni dopo venne costruito a Boulogne un monumento celebrativo, la tour d’Ordre, in ricordo della conquista della Gallia. 7. LE NAVI ROMANE Nelle costruzioni navali i Romani seppero riversare tutta la loro maestria di edicatori di opere rispondenti ed afdabili, con l’applicazione di tecniche sosticate ed innovative nei campi dell’architettura navale (fra l’altro, le perfette unioni ad incastro ed un sorprendente rivestimento metallico degli sca), della meccanica (ruote dentate, piattaforme girevoli, ecc.), dell’idraulica (tubazioni, valvole e pompe) e dell’attrezzatura marinaresca (bozzelli, carrucole, timoni ed un’ancora di ferro a ceppo mobile). L’ingegneria navale romana seppe quindi incrementare le capacità dei cantieri, ponendoli in condizione di fornire dei prodotti di elevata qualità ed in linea con i migliori canoni dell’arte marinaresca. Avvalendosi di tali capacità, ed al ne di conseguire il più intensivo interscambio fra tutte le rive del Mediterraneo, i Romani diedero un vigoroso impulso alle costruzioni navali, sviluppando una otta mercantile di dimensioni sbalorditive. Le navi commerciali In epoca imperiale, le navi commerciali raggiunsero il loro apogeo. Le numerose rafgurazioni e i relitti messi in luce grazie agli scavi sottomarini ci hanno rivelato una straordinaria diversicazione tipologica: dalle imbarcazioni adibite al piccolo e medio cabotaggio alle grandi navi da carico, passando attraverso tutta una serie di barche da pesca, servizio o per usi particolari. (g.9 nave mercantile.did.nave mercantile romana) Le differenti imbarcazioni commerciali spesso possedevano anche nomi diversi, corbita, gaulus, ponto, cladivata, etc., che variavano a seconda della loro origine geograca e della forma dello scafo. (g.10 varie navi.did. Resti di una tavola rappresentante alcuni modelli di navi romane) Tuttavia, sul piano tecnico doveva esistere una certa omogeneità determinata dai numerosi scambi attraverso il Mediterraneo, ormai considerato dai Romani mare nostrum. Sistemazione dello scafo per il trasporto delle anfore Lo scafo è costituito essenzialmente da ordinate (o costole) in rovere e dal fasciame esterno in tavoloni di abete, ricoperti da uno strato di lamierine in piombo di circa un millimetro di spessore; fra questi ultimi e il fasciame esterno è interposto uno strato di canapa. Le anfore erano collocate nella caratteristica posizione di stivaggio delle naves onerariae romane, in almeno cinque strati sovrapposti, col collo trattenuto fra i quattro fondi delle anfore superiori e i piedi fra i quattro colli delle anfore inferiori, con una tecnica evidentemente perfezionata da lunga esperienza. Le anfore erano chiuse ermeticamente coi tappi di sughero (quercus suber) collocati nella parte più stretta del collo, e a loro volta sigillati da malta di calce. Sopra il tappo, in alcuni casi, è stata notata la presenza di una pigna, ssata profondamente nel collo, a scopo di protezione o forse aromatico, per conservare al vino, o agli altri eventuali liquidi trasportati, il loro sapore durante il viaggio. Per la stessa ragione le anfore erano state impermeabilizzate con uno spesso strato di resina o di pece. Sui puntali, ma talvolta anche sul collo e sulle spalle, ricorrono bolli e contrassegni che determinano la provenienza dell’anfora. (g.11 disposizione anfore.did. Disposizione delle anfore all’interno della stiva) Navi da guerra: La galera (g. 12 galera did.galera romana) Questo disegno moderno di una galera romana che rafgura una delle tante ricostruzioni induttive di quello che fu il supparum,una vela triangolare di prua che prendeva il nome da una specie di scialle che portavano le matrone romane e che qualcuno considera il primo esempio di occo. La liburna (g.13 liburna romana.did. liburna romana a un solo ordine di remi) Le liburne furono galere leggere derivate dalle navi dei pirati dell’Adriatico.Queste in seguito divvenero biremi.Nell’immagine possiamo notare lo sperone esageratamente allungato. La trireme La trireme romana fu uno sviluppo di quella cartaginese che a sua volta derivava da quella greca, dal cui modello tuttavia, si era molto distaccata due secoli dopo la battagia di Salamina. Le triremi romane erano veloci quanto quelle greche, ma molto più robuste. Anni di combattimenti avevano infatti condotto a un forte incremento della solidità strutturale e anche l’attrezzatura aveva subito una grande evoluzione. L’incremento delle dimensioni non fu opera dei Romani, ma piuttosto dei Tolomei, i quali introdussero grandi catapulte e delle baliste che lanciavano a più di 300 m. dardi e diversi strumenti demolitori. Se i Tolomei furono gli autentici innovatori delle triremi, i Romani raggiunsero la perfezione nelle loro tecnica di costruzione. Ci sono pochi resti delle navi da guerra, quelle ritrovate sono di fattura eccezionale: gli sca erano stati calafatati con stoppa, pece e resina, erano protetti con uno strato di minio e rivestiti di un tessuto di lana impregnato di una sostanza impermeabile. Gli speroni non erano di bronzo, ma di ferro, e conferivano alle prue una caratteristaca forma a U. La coperta aveva una supercie di 1400 m.(g.14 trireme.did. Risotruzione di una trireme) Il terribile corvus e le rovinose catapulte La tattica impiegata dai Romani nella loro prima battagli navale contro i Cartaginesi a Milazo sconvolse tutti gli schemi di combattimento no ad allora imperanti,bastai sull’ urto frontale con lo sperone, introdotto dai Greci. I romani adegurono la tattica ai loro punti di forza e debolezza. Sapevano che i loro equipaggi addestrati frettolosamente e conposti da gente di estrazione molto diversa, sarebbero stati molto inferiori a quelle cartaginesi al momento di manovrare con rapidità e velocità;d’altra parte erano conaspevoli della superiorità dei loro aggueriti legionari, asuefatti al combattimento corpo a corpo, addestrati e disciplinati.Cambiarono quindi il metodo greco di tagliare la linea nemica per accerchiarla e attaccare con la prua, in modo da conccare lo sperone nella nave nemica il più perpendicolarmente possibile e adottarono la tattica dell’abbordaggio diretto, che consisteva nell’avvicinarsi lateralmente al nemico, rompere quanti più remi possibile e poi lanciare una specie di ponte levatoio in modo che i legionari potessero occupare la coperta avversaria in pochi minuti. Per questo idearono il corvus, una piattaforma rettangolare simile ad un ponto levatoio, munita di un enorme gancio accuminato che, lasciato cadere, perforava la coperta e imprigionava la nave nemica. La truppa d’assalto si lanciava allora sul ponte avversario e ingaggiava un combattimento corpo a corpo. Alcuni dei corvi giungevano a misurare 11 m. di lunghezza e 1.20 di larghezza. Alcuni erano girevoli e altri si potevano ripiegare durante la navigazione. Le triremi romane furono in seguito dotate di armi balistiche, catapulte, capaci di scagliare pietre o palle di piombo pesanti no a mezza tonnellata, con una gettata di 500-600 m. In seguito, verso la metà del II secolo a.C., i romani cominciarono a far uso delle macchine belliche conosciute come “mani di ferro” che cosisteva nel gettare olio bollente sulle formazioni nemiche. ( g.15 trireme con corvus.did. trireme romana con corvus) A Bordo delle Navi: la vita quotidiana e l’attrezzatura Conoscere le regole e le convenzioni che regolavano la vita sulle navi antiche è possibile sia grazie all’analisi delle fonti scritte che grazie allo studio degli oggetti rinvenuti sui relitti. In questo caso, le informazioni sono di prima mano e ci parlano direttamente della vita di bordo. Possiamo conoscere l’alimentazione dell’equipaggio dalle pentole da cucina, spesso con tracce di bruciato, oppure dal vasellame da tavola. Sono venuti alla luce anche esemplari di macine a mano utilizzate a bordo per ricavare la farina dai cereali e preparare, così, polente, zuppe o pagnotte. (g. 16 ipotetica stiva.did.Rocostruzione della stiva) Gli alimenti necessari al sostentamento dell’equipaggio erano conservati all’interno di contenitori, quali anfore, ceste o sacchi. La scorta per la navigazione comprendeva alimenti liquidi (acqua potabile, vino, olio e garum) e alimenti solidi (cereali, olive, frutta fresca o conservata legumi, carne affumicata o sotto sale). Nella cabina potevano essere riposti anche oggetti personali dell’equipaggio o dei passeggeri, quali indumenti, calzature, anelli oppure i dadi che, custoditi in apposite scatoline o sacchetti, servivano come passatempo in viaggio. A bordo non mancavano i medicamenti, utili nel caso di mal di mare, mentre monete e bilance (stadere) venivano usate, una volta giunti in porto, per le transazioni commerciali. Per l’illuminazione si faceva grande uso di lucerne. Le pratiche di culto non venivano trascurate dai marinai e a bordo potevano trovare posto piccoli altari portatili e immagini di divinità. Durante la navigazione, l’equipaggio, se non impegnato nelle manovre della nave, poteva attendere ad attività di manutenzione, come la riparazione di vele con aghi in osso, oppure alla pesca, utile per arricchire con alimenti freschi la povera dieta di bordo. Lo scavo dei relitti ci permette, seppur parzialmente, di conoscere l’attrezzatura delle imbarcazioni anche se la fonte principale per le sovrastrutture e la velatura proviene dalle rappresentazioni delle navi antiche (iconograa). Tra gli attrezzi più comuni, che spesso però viene ritrovato isolato, ricordiamo lo scandaglio che, munito nella sua parte inferiore di una cavità riempita di resina, serviva per conoscere natura e profondità del fondale nonché a seguire la rotta e a riconoscere i migliori luoghi di ancoraggio. L’ancora era lo strumento di bordo più importante e, di solito, ogni nave ne possedeva più di una di diverse dimensioni. In età romana, era costruita in legno con ceppo di appesantimento in piombo oppure interamente in ferro. Personale dei porti e delle navi In epoca romana, in modo particolare durante il periodo imperiale, la navigazione commerciale è tanto importante e diffusa che sia il personale navigante sia quello dei porti è numerosissimo, e normalmente di umili origini. Il personale dei porti era costituito per lo più da fabri navales (carpentieri navali e manodopera specializzata nelle costruzioni navali), stuppatores (calafatato ri), velari (fabbricanti di vele e riparatori delle stesse), baiuli e saccarii (scaricatori a mano), phalancari (scaricatori con carretto), urinatores (sommozzatori e recuperatori, impiegati dentro e fuori il porto; interessanti sono le pietre che usavano per scendere nelle profondità marine e l’uso dell’olio nell’acqua per migliorare la visibilità), mensores (misuratori che controllavano i carichi delle navi e l’esatto contenuto degli stessi), tabularii (ragionieri che tenevano il conto di ciò che veniva misurato), horrearii (magazzinieri e custodi degli horrea, i corrispondenti degli attuali docks o magazzini). Il tutto era controllato da una sorta di Capitaneria di Porto, che regolamentava ormeggi, entrate, uscite, ecc. Esistevano anche dei battelli per rimorchiare le navi in porto o alla banchina stabilita, per scortarle fuori perché potessero prendere vento, e per scaricare le merci delle imbarcazioni che erano alla fonda e non alla banchina. Gli uomini che conducevano queste barche prendevano il nome dal tipo di imbarcazione che usavano: scapharii, lyntrarii e lenunculari.Sulle navi romane si trovavano marinai molto più specializzati rispetto ai periodi storici precedenti, anche se Roma, all’inizio, non era una potenza marittima. La visione che gli storici ci danno degli equipaggi è quella della massima unità e disciplina, ma ciò raramente si vericava nella realtà. I marinai erano divisi in tre grandi gruppi: i remiges (rematori per le scialuppe, manovali non specializzati per le pompe, mozzi), i mesonautae (la loro funzione ancora non è chiara) e i nautes (manovratori di ancore e vele, cioè i veri marinai di ponte). Lo stato maggiore della nave era formato, invece, dal gubernator -gr. Kuberne-tes (capitano di navigazione e spesso timoniere), dal proreute e kleuste o pausarius (secondo e nostromo), dal thoicharkos (forse il commissario di bordo, che interatteneva i rappoprti con i passeggeri), dal diaetarius (colui che occupava la cabina della nave, forse lo scrivano) e dal exercitor (l’armatore, quasi mai imbarcato). Fra i marinai, alcuni erano imbarcati a stagione, altri, invece, facevano parte del personale sso. Forse alcuni remiges ed alcuni marinai erano schiavi e, proprio come oggi, anche in epoca romana, chi andava per mare aveva una pessima reputazione. 8. LA NAVE DI ALBENGA Le campagne di ricerca e scavo sul relitto di Albenga, che si sono susseguite negli anni e sono attualmente in corso, hanno permesso di acquisire numerose conoscenze sulla nave che, agli inizzi del secolo I a.C., affondo nelle acque al largo della cittadina ligure, e giace ancora oggi sul fondale a circa 42 metri di profondità. Il relitto,al momento della scoperta si innalzava sul fondo per 2 metri e si presentava come una massa compatta di anfore rimaste in situ dal momento del naufragio e ricoperte da uno strato di limo.Un asezione longitudinale ha permesso di ricostruirne il carico, stimato di circa 10.000 anfore contenenti vino della campania o di altre zone dell’Italia centro meridionale.(g.17 anfore sul fondale did.Veduta del cumolo delle anfore) A bordo della nave, lunga oltre 40 metri e larga circa 10, le anfore erano disposte in almeno 5 strati sovvraposti, per sfruttare al massimo la capienza della stiva.(g.18 nave di Albenga.did. Ricostruzione in sezione longitudinale della nave di Albenga ) Oltre al carico di vino campano trasportato nelle anfore,tra i vuoti di queste ultime, erano impilati piatti e coppe in ceramica a vernice nera, fabbricate nella stessa area geograca, che viaggiavno sulla nave, diretta verso qualche porto dell’alto Tirreno, della Spagna, della Gallia. Di questi centri le varie derrate alimentari, trasportate dalle naves onerariae, venivano poi diffuse in tutti i siti romanizzati, compresi quelli più interni. La nave romana di Albenga, del tipo a corbita con propulsione esclusivamente a vela, di grande portata, costituisce uno dei più grandi relitti di età romana oggi conosciuti del meditteraneo e potrebbe identicarsi, per il numero di anfore del suo carico stimato circa 10.000, con le classiche ******* citate da Strabone.Per il tipo di anfore rinvenute e le forme della ceramica a vernice nera facente parte del carico, nonchè per gli altri vasi trasportati, alcuni dei quali riferibili alla dotazione di bordo, altri anch’essi destinati al commercio, la nave si data nei primi decenni del I secolo a.C. e, tradizionalmente tra il 100 e il 90 a.C. (g.19 schema del relitto.did. Evoluzione del relitto della nave dopo essersi adagiata sul fondale )