Migrazioni, globalizzazione, politica sociale

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Globalizzazione, migrazioni, politica sociale
Domenico Maddaloni*
Gran parte della letteratura italiana sulle migrazioni internazionali si occupa dei
fenomeni migratori e dei processi di integrazione, o dis/integrazione, lavorativa e
sociale degli immigrati in Italia. Il rapporto tra migrazioni e welfare è dunque preso in
esame con riferimento alla situazione di uno specifico Paese del mondo occidentale, e
cioè il nostro, che a partire dagli anni ’70 ha sperimentato un’inversione del suo ruolo
storico in ciò che è possibile definire “sistema globale della mobilità territoriale”, da
Paese di origine a società di destinazione di flussi di migranti (Pugliese, 2002, pp. 5571). Scopo di questo lavoro è invece esaminare il rapporto tra migrazioni e welfare in un
contesto assai più ampio, che rappresenti il sistema globale della mobilità territoriale
nella sua totalità, per quanto con le semplificazioni indispensabili ad evidenziare, nel
breve spazio di poche pagine, alcuni elementi per la riflessione e la ricerca su questo
fenomeno. Ne deriva, ed è opportuno segnalarlo al lettore, che le scelte operate in
questo saggio per quanto riguarda la letteratura sull’argomento non poggiano sulla
pretesa di considerarla nella sua esaustività: tanto più che, in un’ottica globale, la massa
degli studi sulle migrazioni e la politica sociale prodotti nei più diversi contesti
disciplinari è ormai talmente grande che non si può mai essere completamente sicuri
dell’estensione e della profondità delle proprie conoscenze. Oggetto di questo lavoro è
dunque il rapporto tra migrazioni e welfare nel contesto dei processi di globalizzazione
che, come si cercherà di mostrare in seguito, sembrano più antichi e radicati nella storia
di quanto non si possa pensare se si tengono presenti soltanto le opinioni più comuni su
questo argomento. Nella prima sezione di questo lavoro si presenterà pertanto qualche
spunto teorico circa il rapporto tra migrazioni e globalizzazione, in maniera da
evidenziare la pluralità delle interazioni e delle influenze tra i due fenomeni in oggetto.
A questa parte seguono tre paragrafi dedicati ciascuno ad una delle dimensioni del
rapporto tra globalizzazione e mobilità territoriale in precedenza delineati, e che si
riferiscono rispettivamente alla specie umana nel suo insieme, alla società ed
all’individuo. Nelle ultime tre sezioni del saggio si passerà infine a discutere di alcune
tra le principali implicazioni che un rapporto tanto stretto e tanto articolato comporta per
la politica sociale e per lo sviluppo nell’epoca attuale.
1. Mobilità spaziale e dimensioni della globalizzazione
*
Professore associato di Sociologia, Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica, Facoltà di Scienze
Politiche, Università degli studi di Salerno. Ringrazio i colleghi dell’IRPPS-CNR e gli amici studiosi (in
maniera particolare Laura Bazzicalupo, Vittorio Dini, Lidia Greco, Antonio Martone, Paolo
Montesperelli, Massimo Pendenza, Enrico Pugliese) che hanno letto precedenti versioni di questo lavoro
e mi hanno aiutato a migliorarlo con osservazioni e rilievi critici. Mia ovviamente la responsabilità delle
affermazioni qui riportate. Una versione di questo paper è in corso di pubblicazione in G. Ponzini (a cura
di), Welfare e migrazioni. Rapporto Irpps-Cnr sullo Stato sociale in Italia 2009-2010, Donzelli, Roma.
1
Come è noto, il dibattito sulla globalizzazione si è aperto negli anni ’70 ed ha
conosciuto un’impennata a partire dagli anni ’90, in seguito all’enorme sviluppo del
mercato finanziario globale e della nuova divisione internazionale del lavoro, fenomeni
entrambi trainati dalle innovazioni tecnologiche ed organizzative che vengono di regola
riassunte nella formula “rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni”. Il periodo tra
gli anni ’70 e gli anni ’90 ha visto la comparsa e/o il radicale rinnovamento di artifici
tecnici quali l’aereo e il container, da una parte, il telefono, la radio, la televisione, il
computer e soprattutto Internet dall’altra; oltre a ciò, esso ha visto anche l’affermazione
planetaria di un “consenso di Washington” orientato a favore di politiche di crescita
economica che puntano sul mercato quale attore principale, a scapito del ruolo delle
istituzioni pubbliche. La riduzione, e se possibile, la scomparsa degli ostacoli politici
alla circolazione delle merci e dei capitali, e la privatizzazione delle imprese statali e dei
servizi pubblici divengono l’ortodossia dello sviluppo – un’ortodossia propagandata in
diverse forme dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e a partire
dagli anni ’90 anche dalla neocostituita Organizzazione Mondiale del Commercio
(Gallino, 2000). E’ in questo contesto che, presso l’opinione pubblica e le comunità
degli scienziati sociali, emerge un interesse generale e crescente per la globalizzazione,
innanzitutto nell’accezione ristretta di globalizzazione dell’economia: per quanto quasi
altrettanto rapidamente emerga altresì la coscienza delle implicazioni ecologiche,
sociali e culturali della crescita delle interdipendenze globali (Beck, 1999; Giddens,
2000). Tuttavia, secondo la linea di riflessione che qui si cercherà di sviluppare, la
globalizzazione costituisce in realtà un fenomeno assai più antico: per alcuni coincide
con il processo, presentatosi più volte nella storia, di formazione e sviluppo di sistemi
sociali di dimensioni più ampie di quelle relative ad un’unica cultura, che si tratti di
“civiltà” (Robertson, 1999; Cotesta, 2004), o di “sistemi mondo” (Wallerstein, 2006).
Per Edgar Morin, la cui riflessione si cercherà di seguire per un tratto, è un fenomeno
ancora più esteso, coincidendo con la dimensione spaziale del processo di realizzazione
delle potenzialità insite nella specie umana che il sociologo francese definisce
“ominizzazione” (1999, pp. 55-94; 2002, pp. 10-14).
Ancora più importante, per la materia qui presentata, è l’individuazione, da parte
di Morin – qui peraltro sulla linea di Durkheim e di Simmel –, di tre direttrici che
definiscono unitariamente il processo di ominizzazione/globalizzazione in corso:
“l’umano si definisce innanzitutto come trinità individuo-società-specie (...) ognuno di
questi termini contiene gli altri” (2002, p. 32). L’identità umana si definisce, secondo la
prospettiva qui presentata, mediante l’individuazione simultanea e ricorsiva delle
coordinate che la traiettoria di ciascuno di noi attraversa lungo le tre direttrici in
precedenza menzionate, ciascun essere umano essendo sia un individuo, sia il membro
di uno o più gruppi, sia l’appartenente ad una particolare specie animale, l’homo
sapiens sapiens. Il che, per il sociologo francese, significa innanzitutto che un’adeguata
comprensione dei fenomeni umani non può che tenere conto di ciascuna di queste
dimensioni e delle mutue dipendenze tra queste. Ciò significa che una “scienza
dell’uomo” adeguata al suo compito non può non servirsi di tutte le fonti di conoscenza
scientifica sugli uomini, qualunque ne sia la collocazione disciplinare. Nelle sezioni che
seguono si cercherà di connettere la riflessione di Morin al dibattito sulle migrazioni,
considerando i fenomeni di mobilità spaziale quali aspetti di un processo di
globalizzazione che va esaminato lungo i tre livelli della specie, della società,
dell’individuo.
2. Nomadismo: o della globalizzazione della specie.
2
Ad un primo livello i movimenti migratori coincidono con il processo di
globalizzazione di più lunga durata e che ha assunto la più ampia portata in senso
spaziale: la dispersione della specie umana a partire dal suo ambiente originario, la
savana africana alle sorgenti del Nilo, il luogo in cui sembra essere comparso per la
prima volta, 150.000 anni fa, l’homo sapiens sapiens. Le indagini condotte negli ambiti
disciplinari della linguistica, della genetica di popolazione, della paleoantropologia,
dell’archeologia preistorica (un’ottima sintesi, con riguardo soprattutto alle prime due
discipline, è in Cavalli Sforza-Cavalli Sforza, 1993; con riguardo alle seconde, cfr.
Foley, 1999) hanno permesso di mostrare che la pressione esercitata dall’aumento della
popolazione umana sulle risorse disponibili, in un contesto nel quale l’interazione tra
uomini e ambiente era basata sulla caccia, la pesca, la raccolta del cibo, l’impiego di
energie da fonti rinnovabili – che è il contesto nel quale la nostra specie ha vissuto per
oltre i nove decimi della sua vicenda, e cioè fino alla rivoluzione agricola, avviatasi
circa 13.000 anni fa (Diamond, 2000, pp. 61-146) – ha innescato ondate migratorie che
hanno spinto l’umanità a popolare l’intero spettro delle terre emerse, giungendo infine,
più o meno intorno all’anno 1000 dell’era cristiana, ai territori particolarmente remoti e
scarsamente ospitali dell’isola di Pasqua (Diamond, 2005, pp. 85-130) e della
Groenlandia (ibidem, pp. 193-292). Poiché, nelle condizioni tecnologiche delle società
di caccia, pesca e raccolta, non è possibile superare una densità della popolazione molto
bassa, variabile a seconda dei luoghi ma comunque molto difficilmente maggiore di uno
o due abitanti per chilometro quadrato, lo squilibrio emergente tra la popolazione e le
risorse fa sì che i gruppi umani si dividano e si aprano conflitti per l’accesso alle
risorse, con i perdenti che si trovano espulsi dal territorio di riferimento consueto e
costretti a cercare fortuna in spazi ancora non segnati dalla presenza della specie umana.
Ma è anche possibile che gruppi più numerosi o più forti, in senso tecnologico o
organizzativo, invadano il territorio di riferimento di altri, costringendoli a spostarsi
altrove; come pure è possibile che dal gruppo si separino dei “pionieri”, individui più
intraprendenti che vanno ad esplorare zone non ancora raggiunte dalla presenza umana e
ne richiamano altri.
Naturale estensione della motilità del corpo, la mobilità degli esseri umani nello
spazio si presenta dunque innanzitutto quale uno degli espedienti che consentono ad una
specie, il cui biogramma (Meyer, 1996) ne permette la sopravvivenza ad una grande
varietà di latitudini, di sfuggire in parte alla trappola malthusiana dello squilibrio
tendenziale tra la popolazione e le risorse – gli altri espedienti essendo costituiti da
attività quali la guerra, l’antropofagia, l’infanticidio, le pratiche sessuali non ortodosse
(Harris, 2007). Il nomadismo, carattere fondamentale delle società di caccia, pesca e
raccolta dal punto di vista del rapporto tra popolazione e territorio, è pertanto
responsabile della diffusione globale della specie umana, che a parere di chi scrive è
opportuno ritenere la prima e più fondamentale forma di globalizzazione (sulla materia
qui esaminata cfr. anche Saporiti, 2004, pp. 173-224). Ma, attenzione, il nomade non è
assolutamente equiparabile al naufrago o al vagabondo che, privo di risorse e di punti di
riferimento, si trascina da un luogo all’altro restando in balia degli eventi: una metafora
questa che, soltanto in parte a ragione come si vedrà in seguito, è stata talvolta usata (p.
e., da Bauman: 1999a, 2005) per descrivere la condizione dei rifugiati e dei migranti nei
nostri tempi. Diversamente dal naufrago o dal vagabondo, infatti, il nomade ha
conoscenze, strumenti e relazioni che gli consentono – spesso, non sempre – un
percorso agevole e sicuro: non bisogna dimenticare, a questo proposito, che buona parte
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degli itinerari dei nomadi segue una logica circolare, che in realtà l’assenza di una
dimora stabile non comporta assenza di familiarità con i luoghi e i paesaggi.
3. Diaspora: o della globalizzazione della società.
Se il nomade rappresenta il protagonista assoluto della prima parte della vicenda
qui esaminata, nella seconda il proscenio è occupato dal mercante, dal conquistatore, dal
colono, dall’esiliato, dallo schiavo; più tardi, con l’affermazione del capitalismo
globale, queste figure verranno sostituite da quelle, a noi più familiari, del manager o
del professionista “globale”, del lavoratore, del rifugiato politico. E’ importante
ricordare, a questo riguardo, che le tre forme assunte dai processi migratori, e dunque
dalla globalizzazione, lungo le tre dimensioni in precedenza ricordate (e cioè specie,
società, individuo), non costituiscono che soltanto in parte degli stadi di un mutamento
unilineare: nella fattispecie, la conquista della “frontiera” delle terre emerse da parte
della specie nel suo insieme non era ancora completa che già altrove si avviavano
movimenti di popoli, o di frazioni di questi, che andavano ad investire territori già
occupati da altri gruppi, con una diversa lingua, religione, cultura, con costumi alieni,
con istituzioni differenti. In una prospettiva evoluzionista, ci si trova qui di fronte a
società di pastori, orticole ed agrarie, in un momento in cui si è diffusa la
domesticazione degli animali, è avvenuta la transizione all’agricoltura, i gruppi umani
sono divenuti sedentari legandosi al territorio messo a coltura e sul quale si allevano gli
animali, è comparso lo Stato e si è sviluppata un’ineguaglianza profonda tra le classi
sociali e tra i generi (Lenski, 1984, pp. 117-296; Diamond, 2000; Harris, 2007; una
sintesi recente di questo dibattito si trova in Saporiti, 2004, pp. 225-268). In un caso,
quello del traffico degli schiavi, lo spostamento di popolazione avviene per l’interesse e
a beneficio degli autoctoni; in altri, quelli del mercante o dell’artigiano, è possibile che
il vantaggio si riveli reciproco – del contesto di origine come pure della società di
destinazione –; in altri ancora, quelli del conquistatore o del colono che sottraggono
risorse economiche e persino talvolta la libertà personale agli autoctoni, ciò avviene a
beneficio dei primi e a svantaggio della popolazione già insediata. Senza voler cercare
esempi troppo lontano da noi, possiamo riandare all’esperienza della colonizzazione
greca nel Mediterraneo per constatare, ad esempio, che quest’ultima
non si presenta certo come un’avventura gloriosa di espansione e di irradiazione
culturale a senso unico: si presenta piuttosto come un dramma umano millenario di
genti costrette ad emigrare, spesso sradicate brutalmente dalla loro patria da forze
maggiori – la siccità, la fame, le epidemie, le lotte di fazione, l’ordine di un tiranno, le
guerre, le invasioni nemiche. Dramma esistenziale di emigranti falliti che vengono
ricacciati in mare dai loro concittadini rimasti in patria; di genti divelte dalle loro terre
in cerca di nuove radici e di una nuova identità, di esuli politici in attesa di rimpatrio,
di popolazioni indigene massacrate, estirpate e soggiogate, di donne vedove o orfane
costrette a coabitare con conquistatori stranieri, di famiglie e di società miste di lingua,
di mentalità, di cultura. Come tutte le storie coloniali, anche quella greca è
prevalentemente una storia di sopraffazioni, di violenze, di assimilazione e di
resistenza. Non è lecito, neanche con le migliori intenzioni, raddolcire questa vicenda
per trasformarla in una storia idilliaca di convivenza volontaria e civile fra le genti
(Asheri, 2008, p. 74).
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Un elemento comune a tutte le circostanze qui prese in considerazione ed a tutti
gli attori in precedenza menzionati è costituito, a parere di chi scrive, dal rappresentare,
rispettivamente, i vettori ed i protagonisti di un processo di complessificazione
sistemica. Questo consiste nello sviluppo di vincoli strutturali che connettono gruppi
differenti in maniera reiterata e, appunto, costitutiva di un sistema sociale di ordine
superiore rispetto alla dimensione puramente locale di regola associabile allo stadio
logicamente precedente, quello delle società di caccia, pesca e raccolta consistenti in
gruppi umani molto radi e culturalmente omogenei, che entrano in contatto reciproco in
maniera perlopiù occasionale. Le economie mondo premoderne e gli imperi tradizionali
che emergono nel contesto definito dall’orticoltura, dall’allevamento, dall’agricoltura,
costituiscono in questa prospettiva altrettante forme di (parziale e incompiuta)
globalizzazione della società, nel senso precedentemente descritto e che Robertson
(1999) ha forse per primo posto in rilievo, pur arando un solco scavato da Wallerstein e
già delineato, ancora in precedenza, da Braudel (sulla pluralità dei percorsi della
globalizzazione cfr. anche Cotesta, 2004). In questa prospettiva, aspetto caratteristico
dei movimenti migratori è il tendere a costituire delle diaspore, ovvero a definire
comunità fisicamente separate dalla madrepatria ma che mantengono delle relazioni
economiche, sociali, culturali con quest’ultima. Una delle conseguenze di ciò è che la
multiculturalità (da non confondere, come si vedrà, con il multiculturalismo) costituisce
la regola in queste formazioni sociali, pur basate sull’egemonia di un gruppo etnico e
distinte dall’adozione di una “lingua franca” utile alla diplomazia, all’amministrazione,
al commercio. La parola greca “diaspora” significa appunto “dispersione”: in questa
sede sarà usata non nell’accezione più restrittiva, quella di recente adottata dai cultural
studies e che allude a condizioni, oggettive di segregazione e soggettive di esilio,
sperimentate da alcune comunità – l’esempio tipico essendo costituito dalla migrazione
ebraica in Europa e nel Mediterraneo –; ma in un significato più neutro, che si riferisce
semplicemente ad un processo e ad una condizione di separazione fisica dalla società
d’origine, che può lasciare spazio ad una varietà di interazioni tra gruppi etnici,
dall’assimilazione totale all’estraneità reciproca (Skeldon, 1997, pp. 17-40).
E’ possibile sostenere che il contesto storico nel quale l’esperienza della
globalizzazione della società diviene, per la prima volta nella vicenda umana, globale –
nel duplice senso di includere tutte le società “nazionali” e le comunità locali, e di
influenzare la totalità delle dimensioni del sociale – sia l’economia mondo capitalistica
moderna che emerge a partire dal XVI secolo, con le “scoperte” geografiche e le
conquiste coloniali dell’Europa occidentale, e si sviluppa dando in seguito vita a
imponenti processi di crescita industriale, di sviluppo urbano, di mobilità spaziale e
sociale della popolazione, di diffusione delle istituzioni del mercato e dello Stato a
livello mondiale. Per dirla più o meno con le parole di Marx, non è un impero, ma il
capitalismo, la forza storica che ovunque nel mondo abbatte le muraglie cinesi e strappa
le masse all’idiozia della vita rurale: una metafora che appare di grande rilevanza per
l’argomento qui sviluppato, dal momento che è proprio con l’emergere di questa
formazione sociale che i movimenti di popolazione si intensificano e si estendono su
una scala continentale e persino transcontinentale. Pur restando assolutamente corretta
l’affermazione secondo la quale la maggior parte dei flussi di mobilità si verifica
all’interno di un determinato Paese – ad esempio, ma non soltanto, dalle regioni più
arretrate a quelle più avanzate – o anche di una regione – come nel caso già citato sopra
della crescita delle città –. E’ per questa ragione che Skeldon (ibidem) sostiene l’utilità
di considerare i fenomeni di mobilità umana in un quadro concettuale basato sulla
nozione di sistema globale delle migrazioni, che costituisca un complemento, sotto
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questo profilo, dei concetti di “economia mondo” (Wallerstein) o di “società globale”
(Robertson).
A questo proposito è importante notare che lo squilibrio tra la popolazione e le
risorse, assunto in precedenza quale fattore esplicativo pressoché unico dei movimenti
che, attraverso il nomadismo, conducono alla globalizzazione della specie, non appare
più una variabile sufficiente a spiegare la pluralità dei fenomeni di mobilità spaziale che
interessano i gruppi umani nel tempo storico coperto dai processi di globalizzazione
della società, e in particolare da quelli di formazione dell’economia mondo capitalistica
moderna. Dal “commercio triangolare” tra l’Europa occidentale, l’Africa e le Americhe,
alla colonizzazione dell’Europa orientale e della Siberia; dalla mobilità circolare dei
lavoratori tra le regioni dell’Europa occidentale, alle migrazioni transoceaniche
dall’Europa e dall’Asia in direzione delle Americhe, dell’Africa del Sud, del continente
oceanico: la formazione e l’articolazione dell’economia mondo tra l’epoca Moderna e
quella Contemporanea non si esaurisce affatto con movimenti di capitali e di merci, ma
comporta il trasferimento, talvolta forzato ma in larga misura volontario, a volte
temporaneo ma in parte permanente, di grandi masse da un contesto ad un altro, da una
società “nazionale” e da una comunità locale ad un’altra, sempre sotto la spinta di forze
a carattere sistemico che possono rendere conto delle regolarità riscontrabili nei
movimenti migratori. Ed anche della ragione per cui, osserva a più riprese la Sassen
(1999, 2008), in tutta la storia della “società globale” lo squilibrio tra la popolazione e le
risorse, nel frattempo evolutosi in un quadro strutturale basato sull’opposizione tra
“fattori di spinta” (disoccupazione e povertà) e “fattori di richiamo” (lavoro e ricchezza)
non ha mai generato, neanche al giorno d’oggi, un massiccio, spaventoso, ingestibile
travaso di popolazione dai Paesi o dalle regioni povere a quelle ricche; non ha mai
generato, neanche al giorno d’oggi, un’invasione barbarica del calibro degli spauracchi
agitati dagli imprenditori politici dell’insicurezza (Bauman, 1999a, pp. 113-140; 2005,
pp. 79-116; cfr. al riguardo anche Maddaloni, 2003).
Ci si limiterà qui a considerare soltanto il fenomeno della mobilità territoriale
per motivi economici, nella quale ai ruoli del mercante o dell’artigiano si è ormai
gradualmente, ma definitivamente, sostituita, nel corso dell’epoca Contemporanea, la
figura del lavoratore migrante, cui di recente si affiancano sempre più spesso quelle del
professionista e del manager “globali” (Sassen, 2008, pp. 161-183), che è possibile
distinguere dal primo in virtù della collocazione molto differente nel sistema delle
diseguaglianze di reddito e di condizione sociale. Tra le regolarità identificate dalla
ricerca sulle migrazioni per motivi economici (riassunte in Sassen, 2008, pp. 129-160) è
possibile ricordare, in primo luogo, che le migrazioni spesso hanno inizio con il
reclutamento diretto da parte delle imprese dei contesti di destinazione, per il tramite di
servizi legali o illegali di intermediazione di manodopera, e soltanto in un secondo
momento si rendono parzialmente autonome da questi meccanismi mediante
l’instaurazione di catene migratorie. Guardando sempre alle migrazioni nell’ottica delle
società di destinazione, è da osservare che nel capitalismo moderno la tendenza
all’immigrazione è legata agli squilibri che si creano in mercati del lavoro a crescente
segmentazione, nei quali la popolazione autoctona si sforza di spostarsi verso ruoli
lavorativi e settori di attività ad elevato prestigio, qualifica, remunerazione. In terzo
luogo, la tendenza in questione non si riduce, ma al contrario si amplifica con la
transizione ad un’economia postindustriale – e quindi nell’attuale stadio di sviluppo del
capitalismo globale –, dal momento che alla comparsa di una grande varietà di servizi
ad elevata qualificazione e retribuzione si contrappone una crescita ancora più
impetuosa di attività banali, nocive, pericolose, che richiedono una scarsa qualificazione
e che offrono una scarsa remunerazione, ma che non possono essere decentrate altrove –
per esempio le attività di ristorazione o di pulizia –.
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Guardando invece alle migrazioni nella prospettiva delle società di origine, è
opportuno osservare che il reclutamento della manodopera avviene in Paesi o in regioni
con cui esistono dei vincoli storici, che possono essere indotti da una comune
membership statale (è il caso delle campagne nei confronti delle città, o delle regioni
arretrate di un Paese sviluppato), da un’esperienza imperiale (è il caso delle ex colonie
delle potenze europee), o da una partnership segnata dalla dipendenza postcoloniale (è
il caso dei Paesi più economicamente, politicamente o militarmente subalterni agli Stati
Uniti). Inoltre, è da riconoscere che l’approfondirsi del processo di globalizzazione
economica, a partire dagli anni ’70, ha creato o rinforzato degli ulteriori legami di
interdipendenza internazionale, sia mediante la crescente esposizione delle popolazioni
delle regioni o dei Paesi sottosviluppati all’influenza delle comunicazioni di massa
(legami culturali), sia attraverso gli investimenti diretti delle imprese transnazionali
all’estero (legami economici), sia mediante la crescente penetrazione del mercato
capitalistico in contesti spaziali e in settori sociali in precedenza sottratti alla sua logica,
in quanto gestiti in maniera comunitaria o, più modernamente, riservati all’azione dello
Stato (legami sociali). Ancora, occorre porre in rilievo che, con riferimento in
particolare alle migrazioni internazionali, la parte della popolazione dei Paesi
sottosviluppati più coinvolta nei processi migratori (a carattere economico) non coincide
con l’area della povertà estrema, ma piuttosto con le classi medie, la cui crescente
esposizione a sistemi di istruzione e di comunicazione di derivazione occidentale fa
assorbire valori e schemi di comportamento caratteristici di contesti più sviluppati, in
assenza di adeguate opportunità di inserimento e/o mobilità occupazionale nei Paesi di
origine. Infine, e sempre con riferimento alle società di origine delle migrazioni, è
opportuno notare che, come si può notare prendendo in esame i casi dell’Italia, della
Spagna, dell’Irlanda, della Corea del Sud, i processi migratori si sviluppano più
rapidamente nel corso dei periodi di transizione economica: e cioè quelli nei quali
avviene il “decollo” dell’economia, con il passaggio da una condizione di sottosviluppo
ad una sviluppata (su tutti questi punti cfr. anche Harris, 2000).
Per gli scopi di questo saggio sia consentito ancora di notare che i fenomeni
sopra citati comportano una varietà di effetti, non tutti benefici e non tutti negativi, sul
mutamento strutturale nelle società di origine, e che i movimenti in questione si
trasformano in cronici se il processo di transizione non si chiude con l’approdo ad una
condizione di sviluppo. Come nota Skeldon (1997), le migrazioni e lo sviluppo si
tengono insieme: sia se si esamina la mobilità territoriale nell’ottica delle società di
origine, e quindi dell’emigrazione; sia se la si considera dal punto di vista delle società
di destinazione, e cioè da quello dell’immigrazione.
4. Ibridazione: o della globalizzazione dell’individuo.
Diversamente dalle due precedenti, la terza parte della vicenda dei rapporti tra
migrazioni e globalizzazione non ha figure particolari che si ergano a protagoniste, dal
momento che si riferisce alla cultura, e per questa via ai processi di formazione della
personalità e di costruzione dell’identità sociale dell’individuo – e quindi non soltanto
dei migranti ma anche, in qualche misura, di chi migrante non è né vi si identifica –
nell’epoca segnata dalla globalizzazione della società (Tomlinson, 2001; cfr. anche
Giaccardi e Magatti, 2003). In questa prospettiva è possibile chiedersi in primo luogo
quali effetti possano avere, su questa complessa e delicata materia, l’estendersi e
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l’approfondirsi dell’economia mondo e della società globale, in conseguenza della
rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni a più riprese citata. D’accordo con
Harvey (2002) e Giddens (1994, 1999), è possibile ritenere che il fenomeno sopra
ricordato sia lo stadio più recente del continuo sviluppo – in termini di estensione e di
profondità – del reticolo di connessioni e di interdipendenze in cui, in generale, consiste
la globalizzazione della società in precedenza discussa, e che sembra distinguere
tuttavia particolarmente la condizione umana nel mondo contemporaneo. Lo stato di
connettività sempre più complessa che questi processi inducono genera l’esperienza
condivisa di una crescente prossimità: nel senso della compressione spaziale e
temporale, e cioè della “percezione che le distanze diminuiscano per effetto della
drastica diminuzione del tempo che occorre per attraversarle, sia fisicamente – per
esempio, viaggiando in aereo – sia virtualmente, con la trasmissione di informazioni e
di immagini mediate elettronicamente” (Tomlinson, 2001, p. 15); e nel senso di ciò che
Giddens definisce il disancoramento, e cioè della continua estensione delle relazioni
sociali nello spazio – “l’enuclearsi dei rapporti sociali dai contesti locali di interazione
e il loro ristrutturarsi attraversi archi di spazio-tempo indefiniti” (1994, p. 32) –. Il
pendolarismo consentito dall’automobile, dal treno superveloce, dall’aereo; il
telelavoro, la teleconferenza, le videochiamate telefoniche, i servizi di posta elettronica
e di messaggeria consentiti da Internet: tutti questi non rappresentano che alcuni degli
esempi di una strumentazione in continua crescita e che è impiegata da una quantità
crescente di persone, entrando a far parte dell’esperienza quotidiana. Per quanto, come è
noto, si stia creando anche a questo proposito un problema di distribuzione ineguale
delle opportunità offerte da queste tecnologie (per una visione globale cfr. United
Nations Development Programme, 1999, 2001).
Ma quale relazione ha tutto ciò con la mobilità spaziale della popolazione e con i
processi di integrazione o dis/integrazione dei migranti, che costituiscono l’oggetto del
presente lavoro? A parere di chi scrive, un’importante conseguenza della condizione di
crescente prossimità, di compressione spaziale e temporale, di disancoramento indotta
dalla connettività complessa sulla condizione dei migranti è lo sviluppo del
transnazionalismo. In effetti, la rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni si
traduce in un enorme incremento delle possibilità di costruire e mantenere legami a
carattere transnazionale (Vertovec, 2004): e questi legami non sono affatto solo
economici – per quanto questi siano di certo molto studiati, ad esempio le rimesse degli
emigrati o il fenomeno dell’imprenditoria “etnica” –; ma coinvolgono anche le
dimensioni sociale, politica, culturale – dai contatti informali alla partnership strutturata
tra familiari, parenti, compaesani, compagni di partito, membri della stessa setta o
confessione religiosa –. Il tutto con ricadute tanto sulle società di origine, come ad
esempio quelle relative ai mutamenti nei sistemi di valori, di stili di vita e di
atteggiamenti politici in quanti rimangono nel contesto natale; quanto anche sulle
società di destinazione, come nel caso dell’”esportazione” del fondamentalismo e quindi
del terrorismo di matrice islamica nei Paesi dell’Occidente, un altro spauracchio nelle
mani degli imprenditori politici dell’incertezza citati in precedenza. Come nota Portes
(2003), il transnazionalismo non costituisce tanto un nuovo fenomeno, quanto una
nuova prospettiva nella ricerca sulle migrazioni: ad ulteriore testimonianza del fatto che
il mondo di oggi non emerge bello e pronto dalla testa di Minerva, ma possiede salde
radici in processi storici diffusi e radicati nel tempo – l’esempio più lampante al
riguardo può essere costituito forse dall’emigrazione di ritorno –. Al tempo stesso non
sembra dubbio che l’enorme incremento delle possibilità di mobilità fisica e di
interazione virtuale garantito dalle innovazioni nei sistemi di trasporto e di
comunicazione – dai viaggi in aereo e dalle videochiamate telefoniche – determini
sempre nuove opportunità di sviluppo del fenomeno: che se nelle sue modalità più
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strutturate, come il coinvolgimento nell’ethnic business o in associazioni transnazionali,
non coinvolge che una minoranza, pur qualificata, di migranti (ibidem), in quelle più
informali – ad esempio l’uso delle ICT per comunicare con i familiari o i parenti
“rimasti a casa” (Wilding, 2006) – può anche assumere rapidamente contorni di
fenomeno di massa (per il caso degli immigrati dell’America latina negli Stati Uniti, cfr.
Itzigsohn – Giorgiouli Saucedo, 2002; una sintesi su questa materia è in Portes –
DeWind, 2004).
A questo punto occorre notare che lo sviluppo del transnazionalismo rende più
difficile concepire, genericamente, la condizione dell’emigrato/immigrato in termini di
doppia assenza (Sayad, 2002). L’intera opera dell’antropologo e sociologo algerino
allievo di Bourdieu è rivolta a denunciare, con particolare riferimento alle comunità
degli immigrati nordafricani in Francia, le “illusioni dell’emigrato” e le “sofferenze
dell’immigrato”, che si ritrova straniero sia nel Paese natale che nella patria di adozione:
respinto, nella prima, ai margini di una comunità locale ormai destrutturata dalla
penetrazione dell’economia di mercato e che tende soltanto ad instaurare relazioni
puramente strumentali con lui; escluso, nella seconda, anche quando abbia
apparentemente completato il suo percorso di integrazione rinnegando la cittadinanza
del Paese di origine per assumere quella francese, a causa della sua ineliminabile alterità
che, per motivi legati all’aspetto fisico o alla religione, lo condanna a non essere
“veramente europeo”. L’indagine comparata sui fenomeni di transnazionalismo
evidenzia che questa condizione estrema è uno stadio nel percorso di vita del migrante,
ma non una condanna che lo trasforma inevitabilmente in un naufrago o in un
vagabondo, se non addirittura in un rifiuto umano (cfr. ancora Bauman, 1999a, 2005).
La “doppia assenza” si realizza, in particolare, nel caso dei migranti che dispongono
delle reti sociali più corte, dei soggetti dotati di minore scolarità, di quelli che riescono
meno o per niente nell’inserimento lavorativo e nell’inclusione sociale e culturale
stabile nel contesto di accoglienza. All’estremo opposto, il transnazionalismo riguarda e
coinvolge attivamente i migranti che dispongono delle reti più ampie, i meglio istruiti, i
più favorevolmente inseriti e socialmente integrati nelle società di destinazione (per il
caso degli Stati Uniti, cfr. Portes, 2003; per il caso dei Paesi Bassi, cfr. Sneel,
Engbersen, Leerkes, 2006). Ne deriva, rileva Portes nell’articolo appena citato, una
chiara smentita delle versioni più riduttive della teoria assimilazionista, che tendono ad
associare la persistenza di contatti con la madrepatria a forme di segregazione e/o di
autoesclusione dei gruppi di migranti nel contesto di insediamento.
Quel che forse più importa, la crescita delle iniziative, dei reticoli e delle
organizzazioni transnazionali che coinvolgono i migranti si traduce, a parere di chi
scrive, in un immenso vettore di ibridazione culturale e sociale, attraverso
l’approfondirsi della “bifocalità” delle prospettive che si offrono alle vite dei migranti
(Vertovec, 2004). Almeno limitatamente a queste circostanze, è dunque di doppia
presenza che occorrerebbe parlare – e quindi di globalizzazione dell’individuo, della sua
identità sociale e culturale –, anziché di doppia assenza; o quantomeno del fatto che,
nell’attuale stadio di sviluppo del processo di globalizzazione della società, si danno
entrambe queste possibilità (cfr. in particolare Zimmermann – Zimmermann – Constant,
2007). E sarebbe forse utile proseguire nella riflessione, osservando che questa doppia
presenza può indurre effetti di diffusione, nelle società di origine quanto anche in quelle
di destinazione – per le prime si può pensare ad esempio alla reinvenzione, in forma
sincretica, di usanze locali o di mode “occidentali”; per le seconde alla diffusione della
musica, dell’abbigliamento o dell’alimentazione “etnica” – prolungando ed ampliando
l’ibridazione delle culture, pur senza togliere loro parte delle specificità che ne
definiscono il rapporto con il territorio e con la popolazione che le esprime (Robertson,
1999; Tomlinson, 2001). Ne deriva anche uno stravolgimento del concetto di
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assimilazione, che assume un significato differente nelle condizioni di compresenza tra
le culture che, a detta di McNeill (1986, cit. in Skeldon, 1997), riaffermano la norma
della polietnicità anche nelle società avanzate segnate dalla lunga, pervasiva azione
dello Stato “nazionale” in vista della costruzione di una comunità politica che ad esso
corrispondesse: una compresenza che non è prodotta soltanto dalla mobilità territoriale
della popolazione, o dalle migrazioni internazionali, o dalla grande varietà di gruppi
etnici che in esse è coinvolta; ma dall’incrocio tra questa e le nuove condizioni di
prossimità generate dalla connettività complessa cui si è accennato in precedenza. In
questo nuovo contesto l’inclusione del migrante nel contesto di destinazione
corrisponde non tanto alla sua completa adesione ai valori, alle istituzioni, ai rituali, alle
pratiche esistenti nella società ospite, quanto anche nell’integrazione tra questo contesto
e la società globale emergente, che contribuisce al mutamento, all’osmosi,
all’ibridazione dei valori, delle istituzioni, dei rituali, delle pratiche. L’”integrazione di
successo” è pertanto la risultante non soltanto di un processo di incorporazione del
migrante nella società di destinazione, ma anche di un’intensificazione delle
connessioni tra questa e le società di origine, di un mutamento riflessivo (sul concetto di
riflessività, individuale o istituzionale, cfr. Beck, 2000, 2001; Giddens, 1994, 1999; cfr.
anche Beck, Giddens, Lash, 1999) della sua cultura e della sua struttura, nella
prospettiva segnata dalla globalizzazione della società.
Proprio perchè riflessivo, tuttavia, questo mutamento non potrà non affrontare le
questioni connesse con i legittimi timori dei residenti in merito alla nuova
configurazione delle opportunità e dei rischi associabile alle migrazioni. Timori
legittimi, dal momento che, come si è notato a proposito della colonizzazione greca, non
esiste fenomeno migratorio storico – ad eccezione dell’insediamento su “terre vergini”
di cui si è parlato nel paragrafo 2 – che non abbia suscitato prima o poi contrasti di
interessi o di valori, che risultano essere sfociati prima o poi in nuovi assetti
dell’economia e della società, con ricadute fondamentali sulla condizione delle
minoranze: l’assimilazione integrale, l’integrazione subalterna, il conflitto endemico. E’
importante non dimenticare che, per quanto coinvolti anch’essi nei processi di
globalizzazione dell’individuo che si è cercato in precedenza di descrivere, i residenti
esprimono forse non soltanto una paura dell’ignoto in rapporto al proprio presente ed al
proprio futuro nel contesto della “società dell’incertezza” (Bauman, 1999b), ma anche
domande politiche che chiedono risposte adeguate. E’ giusto che gli immigrati in
possesso di doppia cittadinanza possano scegliere lo status giuridico più conveniente a
seconda delle circostanze, e i residenti dotati di una cittadinanza unica no? Come
comportarsi di fronte a pratiche diffuse presso alcune comunità migranti – e qui
lasciamo perdere la questione del velo e guardiamo invece all’infibulazione, ai
matrimoni forzati, alla clausura imposta alle donne –, ma che appaiono in conflitto con
il sistema dei diritti umani e con i valori universalistici insiti nel progetto della
modernità, e quindi, diciamolo pure, nella civiltà occidentale? Le accuse ripetute di
“etnocentrismo”, se non proprio di “razzismo”, a carico degli imprenditori politici
dell’insicurezza già citati in precedenza, rischiano di far dimenticare troppo facilmente i
disagi concreti da cui nascono domande simili.
5. Implicazioni per la politica sociale e per lo sviluppo 1: della normalità delle
migrazioni.
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Con le riflessioni precedenti il percorso che qui si intendeva svolgere è arrivato
al suo ultimo tratto, la discussione sulle implicazioni dell’analisi sopra condotta per la
politica sociale e per lo sviluppo nel mondo contemporaneo. Quali lezioni è possibile
ricavare, in vista dell’emersione di una “politica di civiltà” (Morin – Nair, 1999),
dall’esame dei rapporti tra migrazioni e globalizzazione nella prospettiva della
complessità? Ancora una volta, è necessario ricordare che le considerazioni che seguono
non intendono esaurire una materia tanto estesa, ma piuttosto seguire alcune, e soltanto
alcune, tra le possibili linee di riflessione scaturenti dalla disamina precedente. Perdipiù,
le indicazioni emergenti dai dibattiti ricostruiti in questo breve saggio non potranno che
collocarsi ad un livello molto elevato di generalità, lasciando all’analisi, se possibile
comparata, di specifiche circostanze e dinamiche concrete il compito di enucleare
elementi più specifici a sostegno delle politiche.
A parere di chi scrive, un primo contributo dell’analisi svolta in precedenza
consiste nell’avere evidenziato con chiarezza la normalità dei movimenti di
popolazione, che in un senso molto generale costituiscono un rimedio efficace agli
squilibri locali tra la popolazione e le risorse, lungo l’intero corso del processo qui
definito di globalizzazione della specie umana (cfr. sopra, paragrafo 2). Lungi dal
costituire un’”epoca delle migrazioni” (secondo la celebre definizione di Castles e
Miller, 2003), quella contemporanea non sembra affatto costituire un’eccezione, se non
per il fatto che coinvolge – in qualità di Paesi destinatari delle migrazioni – alcuni
contesti nei quali l’azione dello Stato era riuscita, per un periodo piuttosto breve, ad
affermare un principio di corrispondenza tra se stesso ed una comunità politica distinta
da un’appartenenza nazionale definita in termini di ethnos, e quindi di un’unica lingua,
di un’unica religione, di un’unica memoria storica condivisa, di un unico “carattere
nazionale” espresso in specifici valori e pratiche sociali.
Da una parte, dunque, si conferma la validità dell’affermazione di Ravenstein,
uno dei primi teorici dei processi migratori, il quale già alla fine del secolo XIX poteva
affermare che “la presenza di migrazioni implica la vita e il progresso, una popolazione
sedentaria implica stagnazione” (cit. in Skeldon, 1997, p. 19), e che perciò una politica
tendente a fermare, o addirittura ad invertire, i movimenti migratori non soltanto non è
perseguibile ma sarebbe anche assolutamente catastrofica per lo Stato che intendesse
realizzarla. E’ ampiamente riconosciuto dall’indagine economica sulle migrazioni,
infatti, il ruolo positivo che i flussi migratori svolgono soprattutto nelle società di
destinazione: in massima parte la domanda di lavoro che si dirige verso i migranti si
riferisce a nicchie di mercato che i lavoratori autoctoni tendono ad abbandonare perchè
relative a lavori “sporchi, difficili, pericolosi”, di scarso prestigio sociale, di scarso
reddito e spesso anche precari, per cercare occupazioni in segmenti del mercato del
lavoro che appaiono più prestigiosi e/o più redditizi; perdipiù i lavori in questione
appaiono molto spesso difficilmente sottoponibili alla logica delle economie di scala
indotte dall’innovazione tecnologica, per cui non possono essere né eliminati né
riqualificati al punto da richiamare di nuovo l’attenzione della manodopera nazionale;
ne deriva che gli immigrati, lungi dal costituire un freno alle opportunità di occupazione
e di reddito dei lavoratori autoctoni, si traducono in un indispensabile complemento ai
tentativi di inserimento lavorativo e di mobilità sociale di questi ultimi, a maggior
ragione in quanto la presenza di elementi dinamici ed attivi tra i migranti si traduce
sovente nello sviluppo di attività imprenditoriali nelle società di accoglienza, attività che
possono sia rafforzare gli scambi economici con le società di origine sia generare nuova
occupazione, spesso a beneficio anche della popolazione locale (un’ottima analisi al
riguardo è in Harris, 2000, pp. 233-267). Rimane soltanto la possibilità, che peraltro non
va trascurata, di una competizione tra gruppi di migranti per la stessa nicchia di
mercato, soprattutto in periodi di stagnazione o recessione economica: l’esempio
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politicamente più dirompente può essere fornito da un ipotetico conflitto tra lavoratori
provenienti da regioni povere di un certo Paese e soggetti originari di altri Paesi; ed è un
esempio che può generare una di quelle domande politiche in cerca di risposta, alle
quali si è prima accennato (cfr. sopra, paragrafo 4).
Dall’altra, la “riaffermazione della regola della polietnicità” impone allo Stato il
compito di ridefinire i confini della sua comunità politica di riferimento, dall’ethnos al
demos: dalla comunità “di sangue” a quella basata sul libero contratto sociale stipulato
tra cittadini dotati di eguali diritti e doveri verso di essa, senza alcun riguardo per
eventuali differenze regionali, linguistiche, religiose, inerenti a costumi e a pratiche che
possono essere volontariamente coltivate da ciascuno in quanto ricadenti nella sfera
delle sue libertà personali. Meno Germania, ma anche meno Francia, e meno Turchia, e
più Stati Uniti, in questa complessa, non facile, ma necessaria opera di (parziale)
sostituzione delle identità politiche di maggiore rilievo, quelle legate alla presenza dello
Stato, sotto la spinta della globalizzazione in generale e delle migrazioni in particolare.
Che il movimento in questione sia in corso è un fatto che può essere testimoniato sia
dalla convergenza tra le politiche statali per quanto riguarda l’accesso degli stranieri alla
cittadinanza, che tendono sempre più a combinare i principi dello jus sanguinis e dello
jus soli (Weil, 2001, in Ambrosini, 2005, p. 215); sia, ed in maniera ancora più esplicita,
dalla diffusione che sta conoscendo il fenomeno della doppia cittadinanza, quale
modalità d’inclusione politica dei migranti nelle società di destinazione che ne preserva
tuttavia in parte anche i legami con la società d’origine, e costituisce pertanto un
ulteriore incentivo al già citato sviluppo del transnazionalismo (Portes e DeWind,
2004). Va notato, peraltro, che sotto quest’ultimo profilo recenti indagini comparate
mostrano che, a dispetto delle pressioni in direzione della convergenza, persistono
notevoli differenze tra gli Stati, anche in un’area segnata dalla presenza di forme di
coordinamento quale l’Unione Europea (cfr. in particolare Morjé Howard, 2005): su
questa materia dunque le specificità (statali-)nazionali continuano a contare,
evidenziando l’impossibilità di ridurre l’analisi sociale ad analisi del sistema globale
(Robertson, 1999).
E non è affatto da dimenticare che, come nota Sayad (2002, pp. 367-384) il
controllo della presenza degli stranieri sul proprio territorio sia un problema vitale per
l’identità dello Stato, nella misura in cui lo straniero che non viaggia in un altro Paese
ma vi risiede e vi lavora, temporaneamente o permanentemente, tende a svelare, con la
sua medesima esistenza, il carattere non naturale, artificioso, di costruzione storica e
politica insito nella corrispondenza istituita tra lo Stato e la “nazione”, la comunità
politica di cui questo pretende di essere il rappresentante. Ma se a queste considerazioni,
inerenti ad una difficoltà intrinseca nel rapporto tra lo Stato e i migranti, si aggiunge la
constatazione che – come si è visto in precedenza a proposito della colonizzazione greca
nel bacino del Mediterraneo – nella storia gli spostamenti di popolazione hanno sempre
prodotto conflitti tra gli outsiders e i residenti, per usare la formula di Elias (cfr. sopra,
paragrafo 3); e che – come si è visto in precedenza a proposito della natura di alcuni tra
i contrasti possibili, di interessi e di valori, tra immigrati ed autoctoni – non sempre la
posizione della maggioranza etnica può essere rubricata sotto le etichette
dell’etnocentrismo o del razzismo (cfr. sopra, paragrafo 4); si comprende come siano
impraticabili le opzioni più radicali in merito alla libertà di circolazione delle persone,
che rivendicano l’abolizione di qualsiasi ostacolo alla mobilità territoriale (Mezzadra,
2001; per una critica di simili opinioni, cfr. Melotti, 2004, pp. 1-14).
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6. Implicazioni per la politica sociale e per lo sviluppo 2: della globalità delle
migrazioni
Un secondo contributo che l’analisi dei rapporti tra migrazioni e globalizzazione
può offrire alla politica sociale e per lo sviluppo riguarda proprio il carattere globale dei
movimenti migratori. La globalizzazione della società (cfr. sopra, paragrafo 4) è infatti
associata allo sviluppo di fenomeni di mobilità spaziale a lunga distanza di portata e
dimensioni in precedenza sconosciute, per quanto gran parte delle migrazioni sia, come
si è detto, sempre legata al corto raggio (Sassen, 1999) ed anche gran parte dei
movimenti di popolazione a livello internazionale si svolgano all’interno di contesti
macroregionali (i development tiers identificati da Skeldon, 1997, nella sua analisi del
sistema globale della mobilità territoriale; ma cfr. anche Castles e Miller, 2003). In altri
termini, ciò che a noi appare come un movimento di massa dai Paesi del Sud a quelli del
Nord è in realtà in sé un fenomeno di proporzioni limitate, sia in senso assoluto che in
rapporto agli spostamenti di popolazione che, per motivi sia economici sia politici, si
verificano all’interno dei Paesi del Sud, o dall’uno all’altro di questi, come anche
all’interno dei Paesi del Nord, o dall’uno all’altro di questi. Anche tenendo conto di
questi caveat, tuttavia, i fenomeni di mobilità costituiscono un problema che ha
dimensioni mondiali, e comunque transnazionali: per l’ampiezza e la direzione dei
flussi, per le forme non legali che può assumere la gestione “spontanea” di questi, per il
legame tra i flussi in questione e i processi di sviluppo sia nelle società di origine che in
quelle di destinazione.
Ciò comporta l’emersione, per la verità ancora in forme embrionali, di una
politica globale di regolazione delle migrazioni, un fenomeno evidenziato in primo
luogo dalla comparsa di un reticolo di organizzazioni internazionali che si occupano,
quale scopo principale o secondario della propria azione, dei movimenti internazionali
di popolazione: innanzitutto l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM),
ma vantano competenze su questa materia anche l’Organizzazione Internazionale del
Lavoro (ILO), l’UNESCO, il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA),
l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) ed ancora altre
agenzie create in occasione di particolari emergenze, tra cui ad esempio quella relativa
alla questione palestinese (Newland, 2005). Questo emergente sistema di governance
dei flussi di popolazione che, per motivi economici o per ragioni politiche, si spostano
da una regione o da un Paese all’altro, sta in effetti producendo, in particolare sotto il
profilo dell’assistenza, un insieme di interventi che qualcuno (ad esempio Deacon,
1997) ha cercato di inquadrare teoricamente coniando la categoria di politica sociale
globale.
In secondo luogo, la “transnazionalizzazione di fatto della politica
dell’immigrazione” può essere evidenziata dal moltiplicarsi di accordi bilaterali e
multilaterali, tra Paesi di origine e Stati di destinazione, e dall’attribuzione di
competenze in materia di regolazione dei movimenti migratori ad organizzazioni attive
su scala macroregionale, tra cui in particolare il NAFTA e l’Unione Europea (Sassen,
2002, pp. 37-59; Melotti, 2004, pp. 105-134). In questo ambito gli interventi da
coordinare si riferiscono innanzitutto alla disciplina degli ingressi e delle permanenze,
ma anche e sempre di più investono i diritti sociali dei migranti, quali quelli relativi
all’accesso al lavoro, all’abitazione, alla salute, al ricongiungimento familiare,
all’istruzione dei minori: anche qui, peraltro, con importanti riserve di competenza per
gli Stati, e talvolta per le autonomie regionali e locali, ad ulteriore testimonianza della
natura politicamente delicata dei rapporti tra lo Stato e i migranti, e tra la “maggioranza
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nazionale” e le minoranze etniche (cfr. in precedenza i paragrafi 4 e 5). Attenzione
molto inferiore ha invece finora ricevuto il legame tra la mobilità della popolazione e i
processi di sviluppo in corso nelle società di origine, che appaiono invece di rilievo
fondamentale se si considera socialmente opportuno mantenere i movimenti migratori a
livelli fisiologici: in questa prospettiva, a parere di chi scrive, ha buon gioco Saskia
Sassen (2002, pp. 60-102; 2007, pp. 129-160) nell’evidenziare che i progetti di sviluppo
realizzati nei Paesi del Sud grazie agli investimenti diretti delle imprese transnazionali si
sono finora tradotti non in una riduzione, ma in un incremento dei flussi, per effetto
soprattutto dei nuovi legami economici, sociali e culturali creatisi con la realizzazione
degli investimenti. In questo campo quindi ancora molto resta da fare, ed è probabile
che la strada da percorrere sia connessa piuttosto all’attivazione di iniziative di
community development, con un sostegno internazionale garantito più dalla promozione
del microcredito, del commercio equo e dell’assistenza tecnica che dall’afflusso di
imponenti masse di capitali sotto forma non soltanto di investimenti, ma anche di
prestiti o di aiuti.
7. Implicazioni per la politica sociale e per lo sviluppo 3: ibridazione, dialogo tra le
culture, cosmopolitismo
Un terzo contributo dell’analisi sviluppata in precedenza può consistere nel suo
evidenziare con forza il ruolo che i movimenti di popolazione svolgono nel definire il
carattere ibrido dei processi di costruzione dell’identità sociale e culturale
dell’individuo contemporaneo. La globalizzazione dell’individuo (cfr. sopra, paragrafo
5) in effetti può sedimentare, da una parte, la compresenza delle culture nei più diversi
contesti locali – sia per effetto dei movimenti di popolazione, sia in ragione delle
influenze che provengono dal sistema dei media –, dall’altra la formazione di uno
sguardo cosmopolitico (Beck, 2003, pp. 7-25) che distingue tra l’adesione al complesso
dei valori etici tipici della civiltà emersa dall’umanesimo e dall’illuminismo –
l’universalismo intrinseco al “progetto della modernità” (Habermas, 2003) –, ad un
livello più generale, e la scelta individuale di uno stile di vita adeguato allo stadio del
processo incessante di costruzione dell’identità che il soggetto attraversa in ciascun
momento della sua esistenza (Giddens, 1999; Sen, 2000), e che – piaccia o non piaccia –
trova un significato pieno soltanto nel contesto del progetto universalistico della
modernità. A questo secondo e particolare livello la libertà dell’individuo incontra la
pluralità delle culture e le combina e ricombina nella sintesi in cui si concreta appunto,
l’ibridazione: formandole e trasformandole, unendo in maniera ricorsiva le dimensioni
globale e locale (Robertson, 1999; Tomlinson, 2001); per quanto certamente in maniera
diversa e con risultati differenti a seconda delle risorse economiche, sociali, culturali,
istituzionali disponibili, ad evidenziare la persistenza e l’ampiezza delle ineguaglianze a
livello sia sociale che spaziale.
A propria volta, la libertà di ibridazione culturale ha quale suo imprescindibile
presupposto il dialogo tra le culture, la traducibilità delle esperienze di una cultura nel
linguaggio di un’altra, la mediazione tra mondi che si concepiscono, e che rimangono
comunque relativamente autonomi, in una parola l’intercultura (Mantovani, 2004). In
questa prospettiva è utile ricordare che la versione del progetto della modernità proposta
da Habermas è fondata proprio sul superamento della centralità del soggetto a favore
dell’intersoggettività dei processi di comunicazione, sulla base di un fondo comune di
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valori che riconoscono l’autonomia e la dignità dell’individuo; e che la reciproca
comprensione è ritenuta proprio da Morin (2001, pp. 14-15) componente
imprescindibile di una riforma dell’educazione che ne consenta l’effettivo adeguamento
ai tempi segnati dalla globalizzazione della società e dell’individuo, ovvero dalla
realizzazione “dell’umanità come comunità planetaria” (ibidem). In questo contesto
appare di grande importanza disporre che tutte le misure di politica sociale includano
forme di mediazione culturale per renderle accessibili alle minoranze etniche ed alle
comunità dei migranti, in primo luogo naturalmente quelle che si riferiscono ai comparti
dell’assistenza, della tutela della salute, dell’istruzione, della formazione, che più
direttamente incidono sull’integrazione sociale non tanto dei lavoratori o della “prima
generazione” di immigrati, quanto delle famiglie di questi e in particolare dei giovani.
Dal punto di vista delle implicazioni di questa analisi per la politica sociale e per
lo sviluppo è importante sottolineare che la multiculturalità presupposta da questa linea
di riflessione quale fondamento del dialogo tra le culture, che a sua volta costituisce
base per lo sviluppo del cosmopolitismo, è cosa alquanto diversa dal multiculturalismo
predicato in numerosi ambienti intellettuali di matrice postmodernista, al punto da
essere diventato una “parola d’ordine” diffusa. La multiculturalità, o polietnicità, è una
condizione di compresenza di culture in un medesimo contesto sociale, che come si è
detto può dare luogo alle configurazioni più diverse dei rapporti tra maggioranza e
minoranze etniche: l’assimilazione integrale, l’inclusione subalterna, forme di apartheid
culturale, processi di creolizzazione/ibridazione. Il multiculturalismo è invece una
dottrina politica che postula il riconoscimento dell’eguale dignità e dell’autonomia
reciproca delle culture compresenti e, con questo, il diritto di ciascuna di queste a
riprodursi autonomamente (Martiniello, 2000; Sartori, 2002, pp. 55-114). In linea
generale il multiculturalismo rivendica l’estensione ai gruppi delle libertà garantite
all’individuo nel modello pluralistico e cosmopolita cui in precedenza si è accennato, e
come tale è sovente presentato dai suoi teorici e dai suoi sostenitori. Ma nelle sue
versioni più radicali, che nei Paesi sviluppati hanno trovato qualche applicazione pratica
soprattutto nell’esperienza britannica, lo spostamento della titolarità dei diritti dai
singoli ai gruppi etnici, linguistici, religiosi – e quindi, si può aggiungere, ai dirigenti
dei gruppi, di regola non nominati con procedure democratiche – può tradursi in una
compressione della libertà dell’individuo in rapporto al gruppo stesso, che non si
identifica più con la “società nazionale” ma con la sua comunità di appartenenza. Non
soltanto, ma in questa maniera le culture che il riconoscimento multiculturalista intende
preservare dall’impatto assimilatore della “civiltà occidentale” rischiano di diventare
forme da difendere da qualsiasi tentativo di ibridazione, o comunque di innovazione,
entità statiche condannate a restare “per sempre” uguali a se stesse. A queste versioni
del multiculturalismo Sen (2006) attribuisce, non casualmente, l’etichetta di
“monoculturalismo plurale”, ed in proposito osserva che
Perorare la diversità culturale perchè è quello che gruppi diversi di persone hanno
ereditato dai loro predecessori non è palesemente un’argomentazione basata sulla
libertà culturale, anche se a volte viene presentata come se fosse una tesi ‘pro-libertà’.
Nascere in una determinata cultura non è ovviamente una manifestazione di libertà
culturale, e preservare ciò che ti è stato appiccicato addosso solo in virtù della nascita
difficilmente potrà essere, di per sé, un esercizio di libertà. (…) La repressione sociale
può negare la libertà culturale, ma la violazione della libertà può venire anche dalla
tirannia del conformismo, che rende difficile ai membri di una comunità optare per
altri stili di vita (p. 118).
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Volendo riassumere la differenza di posizioni tra il cosmopolitismo basato sulla
polietnicità e sull’ibridazione e il monoculturalismo plurale che tende a rivendicare la
separazione tra le culture, si potrebbe dunque sostenere che il cosmopolitismo riconosce
la differenza per trascenderla, nella consapevolezza che dalla fusione nasceranno nuove
differenze, in un processo destinato ad andare avanti nel tempo, e forse anche
all’infinito. Il monoculturalismo plurale, viceversa, “riconosce la differenza e vuole la
differenza” (Aime, 2004, p. 16) in quanto tale, in quanto espressione, in ultima analisi,
di un’essenza che renderebbe gli uomini intrinsecamente ed eternamente differenti. Le
implicazioni di questo confronto di posizioni per la politica sociale appaiono evidenti: in
una prospettiva cosmopolita è importante difendere gli istituti del welfare in quanto
garanti di diritti universali di cui è compito dello Stato assicurare l’effettività: il che
comporta una difesa e un rilancio dell’assistenza pubblica, della sanità pubblica,
dell’istruzione e formazione pubblica, con le opportune declinazioni a garanzia del
pluralismo delle identità e delle scelte culturali – l’ora di religione, o di storia delle
religioni; l’insegnamento della lingua nazionale per gli adulti; quello delle lingue degli
immigrati quale terza lingua; la mensa scolastica od ospedaliera con una varietà di menù
compatibili con le opzioni religiose; l’affermative action nella distribuzione delle
opportunità di residenza, di formazione, di lavoro, ecc. Viceversa, per la prospettiva del
monoculturalismo plurale il ruolo dello Stato deperisce a vantaggio di quello delle
“comunità” etniche, linguistiche, religiose di appartenenza, che diventano titolari dei
diritti sociali e insieme garanti dell’effettività di questi: ne deriva un cambiamento delle
politiche sociali in direzione di un’assistenza, di una sanità, di un’educazione strutturate
diversamente “da” e “per” ciascuna comunità: “dai” dirigenti della comunità “per” i
membri di questa, ed a condizione che la comunità continui ad esistere, si riproduca
confermando e difendendo apertamente i propri confini.
Se, dunque, per “multiculturalismo” si intende il riconoscimento costituzionale –
in un’ottica societaria prima ancora che in quella giuridica – di gruppi etnici, linguistici,
razziali, religiosi quali entità separate dalla collettività dei cittadini, con proprie
istituzioni assistenziali, sanitarie, educative, è necessario riconoscere che ciò
rischierebbe di trasformare le società aperte del mondo contemporaneo globale in entità
frantumate e in potenziale conflitto. Più valida sembra una politica orientata al
cosmopolitismo, che persegua, nella maniera flessibile che si è cercato di delineare nel
capoverso precedente, l’obiettivo universalistico di garantire eguali diritti sociali e
culturali per tutti (Martiniello, 2000, pp. 91-107; sulle politiche per l’educazione cfr.
anche Maddaloni, 2007).
Riferimenti bibliografici
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16
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