1. La riscoperta del concetto Le ragioni della riscoperta

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1. La riscoperta del concetto
Le ragioni della riscoperta
Molteplici e differenti ragioni sono alla base della “riscoperta”, negli ultimi decenni del XX secolo,
della nozione di società civile. L’estesa bibliografia esistente sul tema è concorde nel segnalare
come tale fenomeno, iniziato negli anni settanta nei paesi dell’Europa dell’est1 e dell’America
Latina, con la scomparsa dei regimi di socialismo reale si rafforzi ed estenda ad altre aree
geopolitiche.
A metà degli anni ottanta, Guillermo O'Donnell e Philippe Schmitter (1986) parlano di "rinascita
della società civile" per descrivere i processi di mobilitazione degli attori sociali e politici e di
allargamento della sfera pubblica che accompagnano in America Latina l’uscita dall’autoritarismo2.
Anche in Europa centrale e orientale, il “recupero” della nozione avviene in chiave di
distanziamento/estraneamento dall’ideologia del regime e come strumento di analisi e di direzione
strategica della resistenza all’autoritarismo (Ignatieff, 1995). In quest’ultima area, l’uso della
nozione sottolinea con enfasi particolare la separazione della società civile dallo stato: "società
indipendente", "città parallela”, “seconda società" o "seconda economia", "antipolity" (Chibret,
1995), sono tutte espressione che segnalano la presenza di una visione dualistica del loro rapporto
(Kumar, 1994).
Nella particolare realtà dei paesi di socialismo reale, il “richiamo” alla “società civile” fa di essa, in
modo particolare, un “nuovo ideale” e, insieme, “uno slogan politico, potente e suggestivo”
(Gellner, 1996:223). Il concetto acquisisce, cioè, una connotazione direttamente politica e
prescrittiva, espressiva di una visione society-centered e di una logica di differenziazione prima e di
contrapposizione poi allo stato, che attribuisce alla società civile autonomia e di capacità di autoorganizzazione (Wesolowski, 1995). Tale predominio di un uso politico del concetto, proiettato
verso la conflittualità con lo Stato, contribuisce a fare includere nell’ambito della società civile i
movimenti e i gruppi informali che sostengono la mobilitazione contro il regime (Foley e Edwards,
1996). Produce, così, effetti di oscuramento a più livelli - nelle analisi, nel discorso politico ed
anche nelle logiche d’azione - degli aspetti problematici legati alle differenziazioni e
contrapposizioni interne alla stessa società civile, che successivamente opereranno come fattori di
indebolimento delle strategie e delle politiche della instaurazione democratica3. Tali limiti sono
riscontrabili anche nella letteratura sulla transizione latinoamericana.
L’uscita dall’autoritarismo e la transizione democratica non costituiscono, tuttavia, gli unici
processi da cui promanano spinte alla rinascita del concetto di società civile. Sollecitazioni di tipo
diverso, ma ugualmente forti, provengono dalle trasformazioni che ridisegnano il profilo delle
società post-industriali. L’allentamento dei vincoli comunitari e la nascita di nuove forme di
1 Relativamente al caso della Polonia, Zbigniew A. Pelczynski (1988) osserva che, benchè usata fin dagli anni settanta,
è solo nel 1980, con la nascita di Solidarnosc, che la nozione di società civile acquista un proprio referente concreto.
2 Il fatto che O’Donnell utilizzasse, ancora nella seconda parte del decennio precedente, il concetto di società civile
riferendolo al piano delle relazioni economico-sociali è significativo della rapidità dei cambiamenti che caratterizzano
tale periodo. Subito dopo, infatti, negli anni ottanta, il concetto è da lui impiegato per descrivere la sfera collocata tra
stato ed economia e caratterizzata dalla dimensione associativa e pubblica (Cohen e Arato, 1992).
3 Il passaggio da regimi autoritari a assetti democratici segue una successione non lineare di fasi che la letteratura sul
tema suddivide principalmente in transizione, instaurazione e consolidamento, attribuendo loro caratteristiche e
protagonisti diversi. Schematicamente, la transizione corrisponde a un periodo di fluidità istituzionale, in cui alcuni
caratteri del vecchio regime scompaiono senza però che quelli del nuovo siano pienamente acquisiti. O’Donnell e
Schmitter, la definiscono come “l’intervallo tra un regime politico e l’altro” (1986). L’instaurazione comporta invece un
processo di riorganizzazione profonda che conclude quando la costruzione delle strutture democratiche è completata. Il
consolidamento corrisponde, a sua volta, al processo di stabilizzazione delle strutture e norme democratiche
precedentemente instaurate, cioè al “processo di rafforzamento, irrobustimento del sistema democratico diretto ad
aumentare la capacità di persistenza e a contrastare e prevenire possibili crisi.” (Morlino, 1986b: 203. Vedasi anche
Leonardo Morlino 1986a, in Pasquino, 1986)
aggregazione4, la crisi del pensiero socialista ed insieme del welfare state, i limiti che sia stato che
mercato mostrano in quanto regolatori dell’ordine e dell’integrazione sociale, l’emergenza di nuovi
movimenti e la disarticolazione crescente che la globalizzazione introduce nei rapporti tra
economia, società e politica (Touraine, 1996 e 1997; Dahrendorf, 1995; Beck, 1999), conferiscono a
tale “rinascita” domande e finalità diverse. Il concetto diviene parte di posizioni teoriche e politiche
differenti: liberali, repubblicani5, liberal-democratici, neo-marxisti o post-marxisti, lo assumono
come punto di riferimento per l’argomentazione delle rispettive posizioni, mentre il suo significato
trascorre da una visione amplia che riassimila in sé ogni spazio esterno allo stato, compreso il
mercato, ad una più delimitata e circoscritta che identifica la società civile con l’insieme delle
organizzazioni intermedie tra stato e mercato (Chibret, 1995).
Nel 1989, ad esempio, Daniel Bell vede nella domanda di società civile la manifestazione
dell’esigenza di “un ritorno a una dimensione gestibile di vita sociale” (Bell,1989:56). Da una
prospettiva diversa, di taglio post-marxista6, Jean Cohen e Andrew Arato, pochi anni dopo
ritengono invece che il concetto rappresenti “la migliore chiave ermeneutica” per affrontare due
tematiche all’ordine del giorno negli anni finali del secolo: l’analisi della “sfera legale, associativa,
culturale e pubblica della società" e la costruzione di un progetto normativo di organizzazione
sociale (Cohen e Arato, 1992: 2 e 3).
Gli avvenimenti che caratterizzano la scomparsa del socialismo reale, influenzano il recupero già
avviato del concetto di società civile, accelerando le tendenze in atto: spingono ad estendere la
nozione a nuove aree geopolitiche (Africa, Asia, Medio Oriente) e accentuano la mescolanza di usi
analitici, politici, normativi cosi come la coesistenza e l’intreccio di linee molteplici e distinte di
riconcettualizzazione. (Loechner, 1995; Kumar, 1993; Bryant, 1993). Le ambiguità che
accompagnano tale processo rafforzano, ugualmente, la propensione a fare del concetto uno
“slogan”, che mostra forte capacità di “evocazione”7 ma anche debole spessore concettuale
(Alexander, 1996)8 e difficoltà ad evolvere, secondo la lettura di Cohen e Arato, verso una “teoria
sistematica della società civile” (corsivo nel testo, nda).
Nel corso degli anni novanta, mentre i processi di globalizzazione mutano il profilo degli attori
economici e sociali ed insieme dello stato nazionale e delle relazioni internazionali, la nozione
arriva ad occupare un posto importante nelle analisi e nelle strategie di sviluppo e
democratizzazione, ma anche in quelle di ridefinizione e approfondimento della democrazia ormai
consolidata.
Questa nuova attenzione del pensiero sociale e politico verso un concetto, che ha acquisito nella
storia del pensiero occidentale connotazioni diverse secondo i periodi storici, segnala che ci
4
Negli Stati Uniti il fenomeno alimenta un vasto dibattito, con analisi differenti ed anche contrapposte, sulle
trasformazioni in atto nelle forme associative e nello spirito civico ad esse connesso. Vedasi al riguardo Putnam, 1995 e
Fukuyama, 2000.
5 Il pensiero liberale, che separa nitidamente individualità e vita pubblica, vede nello stato il garante di regole generali
al cui interno lascia spazio alla manifestazione degli interessi e delle preferenze particolari. Il pensiero repubblicano,
invece, si struttura non intorno all’idea di diritti individuali ma di sovranità popolare, cioè intorno ad una definizione
universalistica della vita civica che non lascia spazio al riconoscimento delle particolarità. Vedasi al riguardo la
riflessione sviluppata da Alain Touraine, nel 1994, in Qu’est-ce que la démocratie? In particolare, le pagine 115-120.
6 “Bisogna ammetterlo, la nostra inclinazione è ad affermare un progetto normativo comune, ed in questo senso siamo
post-marxisti. In altre parole, noi collochiamo il nocciolo pluralistico del nostro progetto all’interno dell’orizzonte
universalista della teoria critica piuttosto che all’interno di quella relativista della decostruzione” (Cohen e Arato, 1992:
2).
7 Ernest Gellner (1996) mette in particolare evidenza questa congiunzione di slogan e di ideale che caratterizza la
rinascita della nozione di società civile.
8 “Questi problemi dimostrano la mancanza di precisione nell’uso attuale del concetto di società civile”
(Alexander,1996:48).
troviamo ad un “passaggio di frontiera”. Attraverso di esso tornano a porsi, alla fine del XX secolo,
le vecchie domande sul carattere e le direzionalità del cambiamento sociale che, in autori postmarxisti come Cohen e Arato, trovano risposta nella forma di un progetto di “democratizzazione
della società civile “ visto come possibilità di “democratizzazione delle democrazie liberali”. Su di
un piano più generale, tornano ugualmente a porsi con forza le grandi domande intorno ai principi e
alle forme dell’integrazione sociale che hanno accompagnato, dalla sua nascita, il pensiero
sociologico costituendolo come disciplina specifica (Touraine, 1994; Habermas, 1986). Quali
legami tengono insieme le particolarità arrivando a comporre un ordine sociale? Lo “stare insieme”
deriva da una propensione naturale all’associazione o costituisce una risposta funzionale alla
differenziazione strutturale tipica della modernità o, ancora, è il risultato di una razionalità che,
come ricorda Mancur Olson, non riguarda la presenza di obiettivi altruistici o egoistici ma l’essere
essi “perseguiti con mezzi efficienti e idonei al conseguimento di detti obiettivi” (Olson, 1983:79)?
Cenni alla storia del concetto
Nell’antichità e ancora fino al XVIII secolo, la società civile è identificata con una forma particolare
di società politica, caratterizzata dall’attenzione per il bene comune. Nei moralisti scozzesi (Francis
Hutcheson, Adam Ferguson, Adam Smith) società civile è ancora sinonimo di società politica;
l’unità che in essa si realizza è ricondotta a quella tendenza naturale alla solidarietà, a
quell’inclinazione morale al riconoscimento intersoggettivo che Adam Smith pone alla base anche
dello scambio economico (Seligman, 1992). A partire dalla seconda parte del 1700, però, le
trasformazioni che ridisegnano le relazioni economiche, sociali e politiche si accompagnano a
mutamenti profondi nella storia delle idee che avviano, anche nel caso della nozione di società
civile, una fase del tutto nuova. Il pensiero di Immanuel Kant segna l’inizio di tale
riconcettualizzazione, tracciando una linea di separazione tra società politica e società civile e
identificando quest’ultima con l’ambito specifico del dibattito pubblico delle idee e della critica
razionale.
Questa nuova distinzione tra società civile e società politica delinea il terreno comune su cui, nella
prima parte del XIX secolo, si esercitano concettualizzazioni e teorie diverse, da Hegel a Marx e a
Tocqueville. Hegel identifica la società civile con la sfera, distinta dalla famiglia, dei bisogni ma
anche delle associazioni volontarie e della nascente eticità; le particolarità e la conflittualità presenti
in essa sono destinate a trovare regolamentazione e superamento nell’universalità, cioè nella
razionalità piena dello stato. La ricomposizione degli antagonismi è invece collocata da Marx al
termine di una transizione chiamata a trasformare radicalmente stato e società civile, e a culminare
nell’abolizione della loro separazione. La lettura marxiana, espressione di una prospettiva
chiaramente socio-centrica, ricolloca, al tempo stesso, la nozione di società civile rispetto a quella
hegeliana, spostandola a comprendere l’insieme dei rapporti economici e sociali propri di un modo
di produzione determinato, quello capitalista, che si fonda e riproduce precisamente attraverso la
distinzione-unità di individuale concreto e universale astratto, società civile e stato9.
Alexis de Tocqueville, che si muove in un universo teorico e culturale distinto ed esprime
sensibilità diverse, affronta invece il tema della ricerca dei legami che tengono insieme una società
interrogandosi sulle regole e sui valori che possono impedire al cammino storico di distruzione delle
gerarchie proprie della società tradizionale di dare vita a una nuova tirannia, quella della
9
“La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere
compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici,
piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli
inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di ‘società civile’; e che l’anatomia della società civile è da
cercare nell’economia politica” (Marx,1957:4). Vedasi anche l’analisi già presente nello scritto giovanile dell’autunno
1843, pubblicato l’anno seguente, Sulla questione ebraica (Marx, 1969).
maggioranza. Per lui l’ordine, l’integrazione, la coesione sociale riposano sullo spirito civico,
l’unico in grado di limitare gli interessi e gli egoismi individuali. La riflessione di La democrazia in
America, pubblicata fra il 1835 e il 1840, vede nella tendenza ad associarsi il nucleo della vita
politica e della stessa civiltà. “Nei paesi democratici la scienza dell’associazione è la scienza madre,
quella dalla quale dipende il progresso di tutte le altre”. L’analisi differenzia le associazioni
politiche dalle associazioni civili e, al tempo stesso, ne rende evidente la stretta interazione: “Le
associazioni civili facilitano dunque le associazioni politiche, ma d’altra parte l’associazione
politica sviluppa e perfeziona singolarmente l’associazione civile” (Tocqueville, 1982:526 e 531)
Riferendosi a quest’ultime, Tocqueville riconosce loro il merito di operare come “grandi scuole
gratuite dove tutti i cittadini vengono a imparare la teoria generale delle associazioni”. Sfuggendo a
visioni sia socio-centriche che politico-centriche, egli sostiene così l’esistenza di una relazione di
reciproco rafforzamento tra regole e assetti democratici e formazione e funzionamento delle
associazioni.
Nella prima parte del XX secolo, nel periodo tra le due guerre, è Antonio Gramsci a dare nuova
visibilità alla nozione di società civile. La sua rilettura della posizione marxiana, che passa
attraverso le lenti di Hegel (Bobbio, 1977; 1985), introduce elementi inediti di rottura nel discorso
marxista. Trasforma nuovamente il contenuto della nozione spostandola da una sua identificazione
con il mercato verso uno spazio intermedio, collocato tra economia e stato. “… è da notare che nella
nozione generale di stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel
senso, si potrebbe dire), che stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di
coercizione) In una dottrina dello stato che concepisca questo come possibile tendenzialmente di
esaurimento e di risoluzione della società regolata, l’argomento è fondamentale. L’elemento statocoercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre più
cospicui di “società regolata” o stato etico o società civile” (Gramsci, 1975:763-764) La
trasformazione analitica, operata da questo spostamento della società civile verso l’ambito sociopolitico, che Bobbio individua come l’elemento di maggiore continuità con Hegel, ridefinisce la
concezione “architettonica” marxista della società di cui tende a sottolineare la specificità dei livelli.
Essa permette a Gramsci di sfuggire in parte all’economicismo proprio di un rapporto rigido di
determinazione della politica da parte della struttura economica, e di sviluppare la riflessione che
costituisce il suo contributo maggiore ad una teoria politica del mutamento: la ricerca dei
meccanismi di articolazione interna della società civile, come “direzione morale intellettuale” e non
coattiva delle differenze e degli antagonismi sociali e politici. Il passaggio dal senso comune, come
sapere occasionale e disgregato ad un orizzonte di pensiero sistematico e razionale, il ruolo degli
intellettuali nella creazione del consenso anche quotidiano, la costruzione di una nuova concezione
del mondo vista, insieme all’organizzazione, come la base di un progetto politico capace di
trasformare le relazioni di forza esistenti, le diversità della società civile come fondamento di una
diversità delle strategie del mutamento sociale10, danno alla sua ricerca un particolare spessore
culturale e politico. Fanno di Gramsci il punto di riferimento obbligato quando, negli ultimi decenni
del secolo XX, la società civile torna ad occupare un posto rilevante nella riflessione e nelle
pratiche impegnate nel cambiamento sociale.
Negli anni settanta e ottanta, in Polonia ma anche in Ungheria e Cecoslovacchia, nel periodo in cui
matura la resistenza e poi l’opposizione sempre più decisa verso un regime totalitario che si mostra
10
Vedasi, in proposito, la distinzione tra “guerra manovrata” e “guerra di posizione”, determinante ai fini
dell’individuazione delle strategie di cambiamento da adottare e formulata precisamente a partire dalle diversità
intercorrenti tra società civile in oriente e in occidente: “In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e
gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito
una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di
fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata
ricognizione di carattere nazionale” (Gramsci, 1975: 866).
incapace di riformarsi, la nozione di società civile diviene l’idea-forza del movimento che spinge
verso la trasformazione democratica e la costruzione di una società di mercato. In tali paesi, autori
diversi, come avviene pressoché negli stessi anni in America Latina, leggono Gramsci ed utilizzano
il suo linguaggio (Carothers, 1999-2000; Anheier, Glasius e Kaldor, 2001; Pelczynski 1988; Van
Rooy, 2000). Il contenuto che a questo danno è tuttavia profondamente diverso: esclusivamente
diretto, in questa fase della transizione, ad accentuare la contrapposizione esterna tra società civile e
stato, a domandare il rispetto dei diritti umani, l’apertura democratica, la costruzione di una società
di mercato, e meno attento, invece, a cogliere le linee di divisione interne alla società civile, e a
ricercare le modalità discorsive e organizzative richieste dalla costruzione di forme diverse di
integrazione sociale.
Per alcuni studiosi, questa “riscoperta” del concetto di società civile, oltre a produrre ambiguità e
confusione, introduce complicazioni e sovrapposizioni non necessarie nel campo della sociologia e
della teoria politica, occupando, senza maggiori apporti, gli spazi corrispondenti a concetti come
democrazia e cittadinanza. A tale lettura limitativa delle capacità analitiche del concetto di società
civile, espressa nel dibattito da autori come Adam Seligman (1993) e Krishan Kumar (1993), si
contrappone però quella di altri, come Ernst Gellner (1996) o come Jean Cohen e Andrew Arato
(1992). Questi ultimi ritengono, infatti, che il concetto costituisca il terreno teorico in cui possono
trovare espressione le istanze di cambiamento sociale post-rivoluzionarie e post-riformiste e, al
tempo stesso, cominciare a giungere a soluzione le antinomie che hanno dominato il dibattito
politico degli ultimi decenni e che hanno visto contrapporsi modelli di democrazia d’elite e modelli
di democrazia partecipativa, liberalismo orientato ai diritti e comunitarismo, sostenitori neoconservatori del libero mercato e difensori del welfare state. In effetti, appaiono poco condivisibili
le posizioni che riassimilano tout court il concetto di società civile all’interno della riflessione sulla
democrazia. Pur inquadrato nel contesto più ampio delle teorie democratiche, questo ha infatti il
merito di spostare l’attenzione da un’analisi più politologica, principalmente articolata nella
disamina delle forme istituzionali e procedurali e dei rapporti tra poteri, ad un’analisi più sociologia,
attenta a cogliere il rapporto tra istituzioni, diritti e forme dell’articolazione sociale, secondo una
logica che va dal basso verso l’alto, dalla società civile verso il sistema politico e verso lo stato
(Touraine, 1994). D’altra parte le forti tensioni che nel passaggio tra i due secoli attraversano i
diversi contesti nazionali e lo scenario delle relazioni internazionali, richiedono un profondo
ripensamento del significato stesso della democrazia e delle sue forme. Quest’ultima continua a
costituire lo spazio privilegiato di articolazione e ricomposizione delle diversità e dei contrasti, ma
esige una profonda e complessa riformulazione. Le esclusioni, segmentazioni e fratture prodotte
dalla globalizzazione la spingono a ricercare nuove forme e nuovi contenuti sociali e culturali, a
spostare il suo asse verso la ricerca di nuove cerniere tra sistema politico ed attori sociali.11
In una tale congiuntura, il concetto di società civile ha precisamente il merito di porre le questioni
dell’articolazione sociale, della rappresentanza12, della gestione dei conflitti e della produzione della
fiducia e del consenso, da una prospettiva non necessariamente alternativa ma piuttosto integrativa
del punto di vista meramente politico-istituzionale. Alla fine del XX secolo, quando la
globalizzazione ridefinisce assetti ed attori, locali, nazionali e internazionali, esso opera come
espressione e contemporaneamente come segnale del configurarsi di un fenomeno inedito, la
11
Per una rivisitazione della questione democratica tesa a sfuggire sia ad una visione dello stato come attore unico del
mutamento sociale sia a quella opposta, ma speculare, che attribuisce un ruolo esclusivo al mercato, vedasi Alain
Touraine, 1994 e 1996.
12 Per Touraine non esiste democrazia senza questa funzione di rappresentanza dei conflitti. “Tutti i tentativi spesi per
isolare l’ambito della politica o della democrazia dall’insieme della vita sociale hanno per risultato di isolare la
cittadinanza dalle istanze sociali e culturali concrete, il che non consente di fondare la democrazia, poiché essa non
esiste senza lotta contro forme e meccanismi di potere, dunque senza assumere funzione di rappresentanza dei conflitti,
cosa ben diversa da quanto è implicato dal tema della comunicazione, che rimane nell’ordine cognitivo” (Touraine,
1997:61).
formazione di una società civile “globale” 13. I cambiamenti in atto mutano, infatti, profondamente
gli scenari, spingono a trascendere i vincoli posti dagli stati nazionali e a sperimentare modalità di
azione che attraversano le frontiere (Beck, 1999; Pianta, 2001), dando vita a processi nuovi e
complessi, la cui comprensione è ancora da approfondire, ma che fin dall’inizio conferiscono al
concetto di società civile una nuova centralità.
Il dibattito degli anni ottanta e novanta
La “riscoperta” del concetto di società civile delinea un panorama di letture ed applicazioni vario ed
insieme confuso, come conseguenza non solo della diversità di connotazioni ad esso attribuite ma
anche del fatto che molte volte le differenze non sono adeguatamente esplicitate. Tali ambiguità
traggono origine da imprecisioni analitiche ma anche dalla fluidità e indefinizione dei processi
sociali che il concetto cerca di cogliere. Per altri aspetti, come segnalato da studiosi come Bobbio
(1985), la complessità si trova iscritta nella stessa filologia del termine “società civile”, in cui
"civile" rimanda a civitas ma anche a civilitas, assumendo nel primo caso il significato di società
"politica" e nel secondo quella di società "civilizzata". La caratteristica di essere uno scenario di
libertà individuali, di vita associativa liberamente eletta e, al tempo stesso, di valori, regole,
comportamenti condivisi, permette così visione distinte, a seconda che si ponga l’enfasi sull’uno o
sull’altro dei due aspetti, e della lettura che di essi si operi.
Una griglia utile per ordinare le diversità di connotazioni assunte dal concetto, può essere quella
basata sulla distinzione tra: a) uso analitico, che lo concepisce come strumento di analisi di come
una determinata società funziona e di come si differenzia dalle altre (Gellner, 1996); e b) uso
normativo, che lo identifica con un modello di organizzazione sociale ideale, caratterizzato da una
razionalità specifica, fonte di solidarietà e di cooperazione, con caratteristiche molte volte utopiche
(Seligman, 1993; Cohen e Arato, 1992; Kumar, 1993: 388). Ognuno di questi due usi, a sua volta,
riunisce al suo interno una molteplicità di varianti, a volte anche teoricamente molto distanti.
Trasversale ad entrambi risulta, poi, un’ulteriore distinzione, quella tra concezione attoriale e
concezione relazionale, dove la prima concepisce la società civile come insieme di organizzazioni
più o meno formali, con diversità di interessi e di mission, e la seconda, invece, come “spazio” o
“arena” di interazioni anche conflittuali.14
13
Già nella prima metà degli anni novanta, diversi numeri della rivista Millennium, cosi come il numero monografico
che, nel 1995, Third World Quarterly dedica al tema, Nongovernmental Organisations, The United Nations and Global
Governance, segnalano l’attenzione crescente verso la nascita di una società civile globale.
14 Illustrative di tale varietà di posizioni sono le differenze che intercorrono, per esempio, tra autori quali Larry
Diamond e di John Keane, pur collocati entrambi all’interno della stessa linea lettura che guarda alla società civile come
ad un insieme più o meno ampio di attori. Per Diamond, infatti, la società civile è costituita da: “… un largo spettro di
organizzazioni, formali e informali. Queste includono gruppi 1) economici (associazioni produttive, commerciali e reti);
2) culturali (religiose, etniche, comunali e altre istituzioni e associazioni che difendono diritti collettivi, valori, credenze
e simboli; 3) informativi ed educativi (diretti alla produzione e alla diffusione – con scopi di lucro o senza- di
conoscenze pubbliche, idee, notizie e informazioni); 4) di difesa di interessi (diretti a promuovere o difendere gli
interessi materiali dei propri membri, come lavoratori, veterani, pensionati, professionisti, e simili; 5) di sviluppo
(organizzazioni che riuniscono risorse individuali per migliorare le infrastrutture, le istituzioni e la qualità della vita
della comunità); 6) monotematici (movimenti ambientalisti, di difesa dei diritti della donna, di riforma agraria o difesa
dei consumatori); e civici (orientati in modo universalista a migliorare il sistema politico e a renderlo più democratico
mediante il monitoraggio dei diritti umani e delle elezioni, della educazione e mobilitazione degli elettori, della lotta
alla corruzione, ecc.). Inoltre, la società civile include ‘il mercato ideologico’ e i flussi informativi e di idee. Questo
comprende non soltanto i mezzi di comunicazione indipendenti ma anche quelle istituzioni che appartengono all’area
più vasta dell’attività culturale e intellettuale autonoma – università, case editrici, teatri, produttori cinematografici e reti
d’artisti” (Diamond, 1994:6), Per Keane, invece, “In un momento o in un altro, le società civili moderne hanno incluso
non soltanto le economie capitaliste, ma anche una varietà di organizzazioni non economiche. Le società civili moderne
hanno incluso una costellazione di elementi che mutano e si giustappongono, e che non possono essere ridotti ad un
denominatore comune, ad un nucleo essenziale o ad un principio generatore. Hanno incluso economie capitaliste e
famiglie; movimenti sociali e sfere pubbliche del volontariato (chiese, organizzazioni professionali, mezzi di
L’estensione progressiva della nozione di società civile ad aree geopolitiche diverse concorre ad
accentuare, nell’ultimo decennio, in modo significativo, tali ambiguità e complessità sia a livello
concettuale che operativo. Acquistano importanza, infatti, le strategie di intervento che non solo
riconoscono la società civile come attore di sviluppo ma si impegnano anche direttamente in azioni
volte a promuovere e rafforzare la sua costruzione. Nel dibattito successivo all’89 affiorano cosi
alcune tendenze comuni ai diversi approcci, che mostrano un’attenzione maggiore per: -l’ambito di
estensione del concetto; -la diversità delle dimensioni che esso permette di cogliere, quali quelle
politico-istituzionali (Putnam, 1993) o etiche (Seligman, 1993; Kumar, 1993); -l’adozione di una
prospettiva diacronica, sensibile alle trasformazioni che ridefiniscono la società civile nel tempo,
così come alle possibilità ed ai vincoli che condizionano l’azione diretta al suo rafforzamento e
consolidamento, -il rifiuto di un approccio fortemente socio-centrico, presente anche nelle posizioni
neo-marxiste o post-marxiste che concordano tutte nella “revisione dell’identità stabilita da Marx
tra società civile e società borghese così come dei suoi vari progetti politici diretti alla
riunificazione di stato e società” (Cohen e Arato,1992:71). Permangono, tuttavia, all’interno di
questo nuovo quadro, ampie zone problematiche legate alla presenza di debolezze e ostacoli che,
pur diversi secondo le posizioni, tendono tutti a mettere in luce l’esistenza di una difficoltà comune
sia per definire in modo chiaro le caratteristiche della società civile cui si richiamano che per
operare una delimitazione precisa del suo ambito di estensione.
Se l’autonomia costituisce, infatti, una caratteristica riconosciuta unanimemente come costitutiva
della società civile, differenze importanti si manifestano nel modo in cui essa viene concepita. La
distinzione società civile/stato, e le sue diverse declinazioni, fanno parte, come abbiamo visto, della
storia del concetto fin dall’ultima parte del XVIII secolo. Il dibattito dei primi anni novanta legge
tale rapporto da una varietà di angolazioni, sottolineando la capacità di contrapposizione della
società civile allo Stato, o mettendo in luce la loro interrelazione, fondativa della rispettiva forza o
debolezza (per Robert Putnam come per Michael Walzer, una società civile forte richiede uno stato
forte, e viceversa), o anche argomentando sulla dipendenza o meno della prima dal secondo. Nella
visione di John Keane (1988a), per esempio, la società civile alberga divisioni e conflitti che
abbisognano del ruolo regolatore dello stato; per coloro che si richiamano alla teoria critica, invece,
essa trova in sé meccanismi di autoregolazione, alimentati dall’agire comunicativo (Habermas,
1986)15; per le posizioni neo-liberali, infine, tali meccanismi sono rappresentati dalle leggi del
mercato.
comunicazione indipendenti e istituzioni culturali); partiti politici, associazioni di elettori e altri attori situati sulla linea
che separa la società civile dallo Stato; così come istituzioni di “disciplinamento” quali scuole, ospedali, manicomi e
carceri” (Keane, 1988a: 19-20).
Allo stesso modo, la concezione relazionale raccoglie al suo interno uno spettro ampio e differenziato di posizioni.
Così, per Michael Walzer essa è un’“arena”, un “ambiente di ambienti”: “Le parole ‘società civile’ designano lo spazio
dell’associazione umana volontaria ed anche l’insieme delle reti di relazioni – fondate sulla famiglia, la fede, gli
interessi e l’ideologia - che occupano questo spazio. La dissidenza dell’Europa centrale e dell’est è cresciuta all’interno
di una versione molto ristretta di società civile, e il primo compito delle nuove democrazie create dai dissidenti, da
quello che ci viene detto, è quello di ricostruire reti: sindacati, chiese, partiti politici e movimenti, cooperative,
associazioni di quartiere, scuole di pensiero, società di promozione o prevenzione di questo o quello.” (Walzer, 1995:78). Per Cohen e Arato,invece, la società civile esprime una relazionalità specifica, che la differenzia dallo stato e dal
mercato e tende a esercitare un’influenza riflessiva sull’uno e sull’altro. I due autori post-marxisti, attraverso una lettura
della teoria critica di Habermas che recupera del pensiero di Tocqueville la valorizzazione della vita associativa e della
partecipazione attiva ad essa come componente decisiva per la vita democratica, individuano nella società civile un
nuovo terreno della democratizzazione (“Habermas ha certamente ragione a ricorrere a Marx per criticare il modello
della sfera pubblica borghese, le sue tensioni tra norma e istituzionalizzazione. Molto più discutibile è la sua ovvia
preferenza per Marx rispetto a Mill e Tocqueville nel successivo sviluppo del modello normativo.” Cohen e Arato,
992:230).
15 Habermas definisce l’agire comunicativo come “interazione di almeno due soggetti capaci di linguaggio e di azione
che (con mezzi verbali e extraverbali) stabiliscono una relazione interpersonale. Gli attori cercano un’intesa attraverso
la situazione di azione per coordinare di comune accordo i propri piani d’azione e quindi il proprio agire. Il concetto
Anche il rapporto società civile/mercato è oggetto di letture molteplici, passando
dall’identificazione dei due ambiti o dalla scarsa preoccupazione per precisarne il rapporto (Cohen e
Arato, 1992), all’enfasi sulla diversità delle rispettive logiche. Quest’ultima prospettiva è
riscontrabile nell’approccio di autori come Habermas, Cohen e Arato, ma anche quali Rosanvallon,
che sottolinea come la logica delle organizzazioni senza fine di lucro sfugga alle equivalenze
immediate di privato = mercato = profitto = disuguaglianza e di pubblico = stato = non mercato =
uguaglianza. Dotate di una connotazione di privato sociale, le associazioni non profit risultano,
infatti, promotrici di un modello di welfare state, che tende a sfuggire a tale contrapposizione e ad
operare una riarticolazione non univoca dei rapporti tra stato, mercato e società (Rosanvallon, 1992:
109-112).
Risulta importante sottolineare, in ogni caso, che le differenze di lettura di questi due rapporti
(società civile/stato, società civile/mercato) non risultano espressione di due aree teoriche
omogenee, perché l’identificazione di società civile e mercato appartiene sia a posizioni neoliberiste che marxiste, e la difesa della società civile di fronte allo stato è propria di esponenti sia del
comunitarismo che del pensiero radicale. La difficoltà di cogliere continuità e differenze dipende
anche dal fatto che i termini del rapporto, e non solo il rapporto, cambiano a seconda delle
prospettive assunte.16
Riguardo al rapporto società civile/stato, è utile inoltre rilevare la presenza anche di un modello di
spiegazione triadico che utilizza la distinzione più complessa di stato/società politica/società civile.
La sinistra francese degli anni ottanta, detta anche “seconda sinistra”, richiamandosi al pensiero di
Tocqueville, vede la società civile come lo spazio di manifestazione di nuove forme di relazioni
sociali e di solidarietà (Touraine, 1994 e Rosanvallon, 1992), non privo tuttavia di tensioni e di
agire non razionale. Essa sposta così il discorso sulla democrazia dallo stato verso la società e,
guardando a quest’ultima in termini principalmente di gruppi, associazioni, spazio pubblico, arriva
ad individuare una terza area, rappresentata dalla società politica, collocata tra società civile e stato:
“La separazione della società civile, della società politica, e dello stato è una condizione centrale
della formazione della democrazia. Questa non esiste se non sono riconosciute le logiche proprie
della società civile e dello stato, logiche distinte e spesso anche opposte, e se non esiste, per gestire
le loro difficili relazioni, un sistema politico autonomo di fronte all’uno e all’altra… Lo stato ha un
ruolo internazionale e un ruolo di difesa della memoria collettiva, allo stesso tempo che di
previsione e programmazione di lungo periodo. Nessuna di queste funzioni fondamentali richiama
in sé la democrazia. Allo stesso modo, gli attori e i movimenti sociali che animano la società civile
non agiscono naturalmente in modo democratico, anche se un sistema politico può essere
democratico solo se rappresenta gli interessi degli attori sociali. E’ il sistema politico che è il luogo
della democrazia” (Touraine, 1994: 68-69). In proposito, è importante ricordare che è precisamente
un modello triadico a servire da base a Gramsci per andare al di la di una concezione dello stato
come macchina repressiva e “ comitato d’affari” della borghesia, e per guardare alla società civile
come allo spazio in cui è possibile costruire, attraverso il conflitto e la lotta per l’egemonia, un
soggetto in grado di trasformare radicalmente, superandola, la stessa divisione di società civile e
stato. Per altri aspetti, è anche interessante ricordare la presenza di modelli ancor più articolati di
analisi, come quello, introdotto da Jean Cohen, che aggiunge alla distinzione stato/società
civile/mercato, due nuove sfere: società economica (organizzazioni di produzione, distribuzione,
imprese, cooperative, sindacati, istituzioni di contrattazione collettiva) e società politica (partiti,
centrale di interpretazione si riferisce in prima linea al concordare definizioni di situazioni suscettibili di consenso. In
tale modello di azione il linguaggio viene ad assumere un posto preminente” (Habermas, 1986:157).
16 Per un interessante quadro sinottico dei principali modelli e significati idealtipici di società civile, vedasi PierPaolo
Donati, 1997.
organizzazioni politiche, parlamenti), con funzioni di mediazione tra economia e stato (Cohen,
1995: 36-39).
In diversi casi, poi, alla distinzione mercato/società civile/stato si preferisce quella di
famiglia/società civile/stato, di chiara filiazione hegeliana (Tester, 1992; Shils, 1991; Taylor, 1990;
Diamond, 1994).17
Negli anni ottanta, d’altra parte, la riscoperta del concetto di società civile avviene prevalentemente
sulla base di una definizione “per negazione”, che assume cioè come caratteristica fondamentale di
quest’ultima l’autonomia dallo Stato e dal mercato. E’ solo nel decennio successivo che l’attenzione
si sposta verso la disamina dei caratteri interni. Pluralismo e conflittualità si propongono allora
come approcci che tendono a contrapporsi nella definizione di ciò che la società civile è: mentre il
primo ne sottolinea, infatti, il carattere essenzialmente unitario, il secondo ne mette in luce contrasti
e divisioni interne.
Le letture che identificano nello spirito civico la componente che permette di andare al di là della
semplice considerazione della densità associativa tendono a vedere in esso un insieme armonico di
valori e di norme. Al riguardo è illustrativo il lavoro di Robert Putnam, in particolare la sua ricerca
sul rapporto tra rendimento istituzionale e cultura civica delle Regioni italiane, realizzata al
momento del loro primo configurarsi negli anni settanta. La scelta metodologica di sottoporre a
verifica empirica il carattere di tale rapporto,18 rivela tuttavia delle fragilità, alcune delle quali
riguardano precisamente i criteri di delimitazione dell’universo associativo considerato. I dubbi non
riguardano tanto la nota equiparazione tra associazioni di ricreazione e associazioni di impegno
civico, caratteristica dell’approccio di Putnam, quanto la debolezza delle motivazioni che portano a
non prendere adeguatamente in considerazione il ruolo delle associazioni politiche nella produzione
della cultura civica così come il peso insufficiente, inoltre, attribuito all’analisi congiunturale
rispetto a quella storica. Significativamente anche altri studiosi, come Adam Seligman o come Jean
Cohen e Andrew Arato, diversi per posizione teorica ma legati da un comune approccio normativo,
difendono il carattere tendenzialmente unitario della società civile, dove unitario non significa
chiusura o assenza di diversità ma solo mancanza di forti conflittualità interne19.
Altri autori, invece, ritengono che il pluralismo sia un criterio importante ma non sufficiente di
definizione della società civile. E’ il caso di Ernest Gellner, ma anche di Krisham Kumar (1993), di
John Keane (1988a e b) e di John A. Hall (1995). Per il primo, la contrapposizione unità/diversità,
centralismo/pluralismo, proporziona un asse d’analisi importante ma non sufficiente. Ragionare,
infatti, in termini di pluralismo tout court non permette di differenziare la società civile da una
comunità segmentata che, da parte sua, benché sia in grado di resistere a tentativi di
centralizzazione, finisce per “incatenare fino ad immobilizzare”, per usare le parole di Durkheim,
mostrandosi incapace di conferire “ai suoi membri quel tipo di libertà che noi esigiamo e ci
aspettiamo dalla società civile” (Gellner,1996:13). I legami associativi fondati sul sangue, su
identità ascrittive, esercitano effetti oppressivi sui loro membri, diversi ma altrettanto negativi da
quelli prodotti dai regimi autoritari.
17
Anche in questo caso permangono, però, le diversità a cui abbiamo più volte fatto riferimento. La visione di Larry
Diamond, per esempio, che sottolinea la presenza nella società civile di tensioni e contraddizioni interne, si differenzia
da quella tendenzialmente armoniosa di matrice comunitaria di autori come Charles Taylor.
18 “Quest’opera vuol essere un contributo alla comprensione del rendimento delle istituzioni democratiche… Lo scopo
che ci si è proposto è teorico, ma il metodo di studio è empirico (Putnam, 1993:3-4).
19 Nel caso dello stesso Putnam, il riconoscimento che la comunità civica costituisce una componente decisiva per un
adeguato sviluppo istituzionale, si accompagna ad una visione di comunità vista non “come un mondo chiuso, piccolo,
premoderno” ma, al contrario, come eminentemente moderno, caratterizzato dall’assunzione della solidarietà,
dell’impegno civico, della cooperazione e dell’onesta come valori essenziali. Vedasi Putnam, 1993:132-133.
Nel corso degli anni novanta, il rafforzarsi delle tendenze al particolarismo, al fondamentalismo
religioso e alla conflittualità su basi etniche che, sempre più accentuate nelle diverse aree
geopolitiche, conferiscono alle divisioni e agli antagonismi caratteristiche prevalentemente non
negoziabili e in molti casi fortemente distruttive, spingono in modo crescente la riflessione a
interrogarsi sulle differenze che attraversano la società civile, cogliendone le contraddizioni, la non
linearità, il carattere potenzialmente non democratico (Brecher e Van Roy, 1999).20 Perde allora
capacità esplicative l’approccio liberale che “tende a oscurare i conflitti tra le differenti categorie di
associazioni civiche e non consente un’adeguata ricognizione dell’esistenza di quelle forze sociali
che sono fonte di divisioni e avverse alla democrazia, pur formando parte, nondimeno, della
‘società civile’” (Robinson,1995:78). Viene invece in primo piano la questione del conflitto e
l’indispensabilità, per la riflessione sulla società civile, di confrontarsi con essa, al di là delle
risposte di volta in volta offerte.
Inclusioni ed esclusioni problematiche
Le molteplici concettualizzazioni della nozione di società civile che caratterizzano il dibattito degli
ultimi anni, trovano nelle diverse tipologie di attori che rispettivamente includono od escludono da
essa, uno dei principali elementi di differenziazione: movimenti, gruppi, associazioni formali e
informali, sono, secondo le prospettive e i quadri teorici adottati, considerati “interni” o “esterni” al
suo universo. Un rapido sguardo alle inclusioni ed esclusioni più problematiche permette di cogliere
la grande variabilità di estensione del concetto e, soprattutto, le difficoltà generali che si presentano
per l’individuazione di criteri che consentano una sua definizione:
a. Gli attori economici vengono esclusi sistematicamente dallo spazio della società civile da
quelle posizioni che la identificano come un’area distinta dal mercato e dallo stato. Da altre,
invece, sono considerati parte integrante di essa (Ignatieff, 1995; Keane, 2001). Per le
cooperative e le associazioni imprenditoriali, la contestazione alla loro inclusione è minore.
Per quanto riguarda i criteri di classificazione utilizzati dalla letteratura che identifica la
società civile con il “terzo settore”, è da rilevare che essi escludono non solo gli attori
portatori di una logica di mercato, ma anche tutti quelli che rimangono nell’informalità. Di
conseguenza, risultano collocati fuori della società civile i movimenti e tutti quei gruppi
informali che, pure, svolgono un ruolo rilevante nelle transizioni democratiche degli anni
ottanta21.
b. I sindacati presentano frequentemente problemi d’inclusione, e non solo in congiunture
storiche caratterizzate da un marcato rapporto di subordinazione all’ambito politico quando
non direttamente allo stato. Per alcuni autori, come nel caso degli esponenti della teoria
20
“Questo impegno può essere qualsiasi cosa riguardi la vita pubblica civile: manifestazioni, sotterfugi, violenza così
come proteste pacifiche, auto-aiuto, e lavoro costruttivo nelle comunità. Certamente, uno dei dibattiti più interessanti
sulla ‘società civile’ è, oggi, quello sulla complessità di questi pensieri ed idee con funzioni da contrappeso. Lungi
dall’essere coerente ideologicamente con le organizzazioni della sinistra, la società civile nel Canada e in tutto il resto
del mondo comprende misogeni, difensori dei diritti umani, promotori del libero mercato, collezionisti d’armi da fuoco,
costruttori di case per bambole, guide femminili, leghe naziste, sindacati, ambientalisti, e camere di commercio. Noi
sfidiamo chiunque a trovare all’interno di questo elenco un qualsiasi denominatore ideologico comune”. (Brecher e Van
Roy, 1999).
21 Agli inizi degli anni novanta, la ricerca dell'Istitute for Policy Studies della Johns Hopkins University di Baltimora,
Toward an understanding of the international non profit sector, diretta da Lester Salamon e Helmut Anheier ed estesasi
a 12 paesi, mette in evidenza l’importanza economica, sociale e politica delle organizzazioni senza fini di lucro, cioè di
quelle organizzazioni che attraverso la propria azione perseguono finalità collettive o il benessere dei propri membri. I
criteri adottati per circoscrivere l’oggetto di studio, rispondono ad una visione di tipo strutturale/operativa: costituzione
formale, natura giuridica privata, autogoverno, assenza di distribuzione del profitto, presenza di lavoro volontario.
Rimangono così esclusi dall'universo del non profit i gruppi informali e le associazioni con finalità direttamente
politiche o di culto (Salamon, 1994; Salamon e Anheier, 1996 e 1997).
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g.
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critica, i sindacati sono esclusi perché portatori di interessi e logiche d’azione proprie
dell’economia o della politica.
I gruppi religiosi non sono, in ogni caso, considerati parte della società civile. Decisiva
risulta la natura dei valori che orientano la loro azione e la presenza o meno di
preoccupazioni di ordine sociale. Se nei paesi dell’est e nell’America Latina degli anni
ottanta la loro inclusione non è messa in discussione, lo stesso non si verifica in Africa nel
decennio successivo, a causa della presenza ormai significativa del fondamentalismo. Altre
volte l’esclusione avviene in presenza di interessi esclusivamente spirituali.
I partiti a volte sono inclusi, a volte esclusi. Per gran parte della letteratura dell’Europa
dell’est e dell’America Latina degli anni 70 e 80, i partiti fanno parte della società civile, in
continuità con il carattere esteso della nozione utilizzata (O'Donnell e Schmitter,1986).22
Negli anni novanta, invece, prevalgono le analisi che li escludono (Linz e Stepan, 1996;
Garreton,1994; Coppedge, 1994).
Le associazioni ricreative in alcuni casi risultano equiparate ai gruppi religiosi, classificate
come autoreferenziali ed escluse dall’ambito della società civile. Altre volte, invece, come
in quello delle analisi di Putnam (1993), vengono viste come scuola di formazione ed
esercizio dello spirito civico e considerate una componente fondamentale della società
civile.
Le associazioni indigene sono incluse sempre in America Latina, mentre i gruppi
nazionalisti ed etnici sono, la quasi totalità delle volte, esclusi, soprattutto in presenza di
conflitti etnici particolarmente traumatici (Gellner, 1991; Chazan, 1992). Alcuni autori,
però, come Larry Diamond e Michael Walzer li considerano parte della società civile.
I gruppi basati su relazioni di consanguineità, in continuità con la nota distinzione tracciata
da Hegel tra famiglia e società civile, sono esclusi da una parte significativa della letteratura
attuale. Tuttavia, autori diversi come Offe (1988), Walzer (1995), Cohen (1995), Fukuyama
(2000) li includono.
Le scuole, gli ospedali e le carceri, sono considerati parte della società civile da autori come
John Keane (1988a).
Le associazioni di diritto pubblico come le aziende municipali, sono ugualmente incluse, in
alcuni casi, nella società civile (Fukuyama, 2000).
Per ultimo, è da segnalare la posizione del tutto insolita ma emblematica di quanto differenziata e
aperta sia non solo la connotazione data alla nozione di società civile ma anche la natura delle
strategie promosse, la quale include in essa, in determinati casi, anche lo stato. La definizione di
società civile in termini di “azioni ed attitudini che tendono verso il bene pubblico comune”
(Milner, 2001:31), espressa nel caso specifico in un paper commissionato dalla Commonwealth
Foundation23 e finalizzato a contribuire al dibattito, porta infatti ad includere attori ed istituzioni,
con la sola condizione che la loro azione risponda a tale finalità. E’ chiaro che tale definizione,
anche se rimanda ad un approccio “flessibile” e attento ad un’accurata ricognizione empirica di
attori e contesti, si preclude di fatto la comprensione della diversità delle logiche che distinguono
agire politico, economico o sociale. Il concetto di società civile finisce così per “evaporare” e
vedere i suoi contenuti ridotti ad una generica del bene comune.
Questa diversità dei sistemi di classificazioni concorre a rendere visibile come, nel parlare di società
civile, non possiamo fare riferimento alla solo densità associativa ma dobbiamo prendere in
22 Il loro uso della nozione attraversa differenti tappe, passando da un’accezione molto vicina a quella di Marx a una
più simile a quella di Gramsci.
23 La Commonwealth Foundation, creata nel 1965 dai capi dei governi del Commonwealth ha acquisito nel 1983 la
natura di Organizzazione internazionale. Promuovere la capacità di lavorare insieme della società civile, dei governi e
del settore privato così come lo stabilirsi di rapporti e scambi tra i paesi del Commonwealth costituiscono le sue
principali finalità.
considerazione altri aspetti, in primo luogo la logica che orienta l’azione di gruppi e associazioni in
un contesto determinato, sia esso locale, nazionale o internazionale. Anche le posizioni
maggiormente inclusive introducono, del resto, criteri che permettono di differenziare tra le diverse
tipologie associative e di ragionare in termini di produzione di consenso e di integrazione sociale. In
alcuni casi l’appartenenza contemporanea a più associazioni, il carattere overlapping, cross-cutting,
dell’affiliazione è posto alla base di una vita pubblica democratica. In altri è l’esistenza di
democrazia interna ad essere considerata un requisito indispensabile affinché un’associazione possa
appartenere alla società civile. Anche un autore come Francis Fukuyama, che considera parte della
società civile associazioni criminali come la mafia o dichiaratamente razziste e portatrici di una
logica di esclusione e negazione, come il ku klux klan, introduce poi criteri specifici, quali
l’ampiezza del “raggio d’azione” della fiducia generata e la presenza di “esternalità negative”, cioè
di relazioni di intolleranza e odio verso gli altri, che gli consentono di differenziare le associazioni
in grado di contribuire a una società civile forte da quelle che invece non lo sono (Fukuyama,
2000:34). Significativamente, sviluppando l’impostazione di Fukuyama, Caroline Broussard
distingue due dimensioni della società civile: la società civile vera e propria, costituita dalle
“organizzazioni concrete situate fra la sfera pubblica e quella privata” e la società civica, costituita
dalla “cultura politica democratica”, che appartiene quindi “ad un livello di astrazione più alto di
quello delle organizzazioni concrete che compongono la società civile” (Boussard, 2000: 8). Tenta
in questo modo, attraverso una distinzione di livelli, di trovare una forma di conciliazione tra la
visione liberale e quella democratica della società civile, e di indagare inoltre sulle differenze di
ruolo e di configurazione assunte da quest’ultima nelle fasi diverse della transizione e del
consolidamento democratico. Al riguardo, decisivo si rivela l’esame dei rapporti interni ad
associazioni e gruppi.
Legami associativi basati sulla reciprocità, trasparenza, elettività e provvisorietà del vincolo
associativo sono da ritenere indispensabili per produrre quella fiducia reciproca e quella
condivisione di regole nella gestione dei conflitti che sono alla base di una vita democratica. Il
riferimento a una logica di tipo qualitativo che integri la sola ricognizione quantitativa del numero e
delle dimensioni delle associazioni24, appare indispensabile per la rilevanza e lo spessore delle
strategie e delle modalità possibili di rafforzamento e consolidamento della società civile. E’ questa,
d’altra parte, la sola prospettiva che permette di declinare il rapporto con la politica e con lo Stato
come cammino non a senso unico ma circolare, basato sull’interazione e sulla possibilità di
reciproco rafforzamento.
Densità associativa, conflitti e capitale sociale
La formazione di associazioni volontarie per la consecuzione di scopi comuni e la loro densità
rivelano le modalità e il grado di articolazione degli interessi e delle passioni di una società
determinata, ma non costituiscono di per sé garanzia di integrazione sociale. L’analisi di Mancur
Olson, condivisa o meno, ha il merito di problematizzare l’assunzione, spesso implicita, di un
passaggio automatico dalla percezione di obiettivi condivisi alla organizzazione e realizzazione di
azioni comuni, cioè della produzione spontanea, da parte di gruppi mossi da interessi particolari, di
un benessere comune all’intero corpo sociale. Illustrative si rivelano, per quest’ultimo aspetto, le
pagine da lui dedicate all’esame delle teorie pluraliste, caratterizzate da una visione delle
24 A quest’ultimo aspetto fa riferimento Francis Fukuyama, quando ricerca una spiegazione dell’apparente
contraddittorietà del processo che registra la diminuzione della fiducia nelle istituzioni e, contemporaneamente, la
crescita del numero delle affiliazioni associative, come avviene nel caso statunitense degli anni 90 (Fukuyama, 2000:77
e 65-66).
associazioni come espressioni di libertà e di iniziativa volontaria, chiamate a svolgere un ruolo di
intermediazione tra individuo e Stato (Olson, 1983: 129-150).25
Una concezione di società civile che legge la forza di quest’ultima solo in termini di autonomia e
densità associativa si riduce ad operare con una concettualizzazione troppo povera, inappropriata
per cogliere le dinamiche e la complessità dei fenomeni che vuol spiegare. Del resto, anche quelle
posizioni che meno pongono l’accento sugli aspetti conflittuali, come per esempio quella di Robert
Putnam, non considerano mai il mondo associativo “in blocco” ma tracciano precise distinzioni
nella sua configurazione interna; nel caso di quest’ultimo, per esempio, l’attenzione è
prevalentemente rivolta ai piccoli gruppi, più vicini a “rapporti orizzontali di reciprocità e di
cooperazione”.
D’altra parte, l’esperienza della Repubblica di Weimar, più volte richiamata nella letteratura sul
tema, ricorda come la molteplicità delle associazioni, il cui numero nel periodo crebbe
enormemente, può operare in talune congiunture come fattore di disgregazione più che come
collante sociale. In quel caso, infatti, la significativa proliferazione delle reti associative,
caratterizzata da una forte segmentazione e da tendenze centrifughe, favorì l’instabilità e non il
consolidamento democratico.
Tener ferma la distinzione tra pluralismo sociale, pluralismo culturale e pluralismo politico, e
cogliere le diversità di articolazione tra essi possibili, risulta pertanto decisivo ai fini del discorso
sulla democrazia. L’analisi quantitativa va quindi accompagnata e rafforzata con la ricerca diretta a
individuare quegli elementi o quelle logiche che fanno delle associazioni una fonte di coesione e di
integrazione. Come già si è accennato, il carattere “overlapping” delle associazioni è stato visto più
di una volta come l’elemento decisivo: la pluriappartenenza concorrerebbe a produrre la non
corrispondenza tra cleavages sociali, politici, culturali, e quindi opererebbe come fonte di creazione
di fiducia e tolleranza sociale. La pluriappartenenza, però, presa in sé, non sembra offrire una
risposta esaustiva alla questione ma piuttosto richiede l’introduzione nell’analisi di ulteriori
dimensioni. Nella stessa visione di Tocqueville, che fa riferimento a tipologie associative diverse,
associazioni civili e associazioni politiche, distinte per finalità e logiche di appartenenza ma
convergenti nella produzione di libertà e coesione sociale, il governo locale, e quindi un quadro
politico federalista, svolge il ruolo importante non solo di garante di autonomia nei confronti del
potere centrale ma anche di educatore all’autogoverno (Mouritsen, 2001:20).
25
La riflessione di Olson assume come base la concezione dell’individuo razionale, guidato nella propria azione
dall’analisi costi-benefici. Tale assunzione porta a postulare, in quelle situazioni in cui l’esito dell’azione collettiva è
costituito da un bene pubblico, bene accessibile quindi a tutti, l’apparizione del fenomeno del free rider, cioè
dell’inclinazione a non impegnarsi per ottenere qualcosa che potrà essere comunque goduto indipendentemente dallo
sforzo realizzato per raggiungerlo. Proprio per contrarrestare tale tendenza, sindacati, partiti politici e gruppi di azione
collettiva in generale si vedono obbligati, secondo Olson, a ricorrere all’uso di “incentivi selettivi”, rigorosamente
limitati ai propri aderenti e quindi in grado di motivare l’adesione di quest’ultimi. Interessante e articolata è la critica
che Hirschman avanza al riguardo, a partire dall’osservazione di fondo che l’individuo di cui parla Olson è immaginato
essere “senza storia” (corsivo nel testo, nda), cioè prendere le proprie decisioni al margine delle esperienze precedenti.
Quest’ultime esercitano sempre, invece, un peso importante, producono un vero e proprio “effetto di rimbalzo”, che
porta ad esagerare i benefici e sottovalutare i costi di azioni che presentano caratteristiche opposte rispetto a quelle
compiute e rilevatisi erronee. Hirschman afferma così, diversamente da Olson, che la soddisfazione che si cerca
attraverso un’azione non deriva solo dai risultati che da essa ci si attende. A tale critica ne aggiunge poi un’altra, molto
più contundente per quanto riguarda, nello specifico, l’azione collettiva finalizzata al raggiungimento di beni pubblici.
In questo caso la distinzione tra costi e benefici tende a scomparire: gli stessi sforzi compiuti divengono infatti parte dei
benefici che si vogliono raggiungere, rappresentando un’attività cui si riconosce valore in sé. Numerose esperienze, dai
pellegrinaggi medievali agli spostamenti attuali degli appassionati di calcio, sono addotte per illustrare tale tesi. In
quest’ottica, i free rider appaiono delle “persone che ingannano prima di tutto se stessi” (Hirschman, 1983a).
In tal modo il tema della densità associativa, attraverso la ricognizione della molteplicità delle sue
tipologie, riconduce all’esame dei rapporti intercorrenti tra società civile e stato. E’ il momento
politico, cioè la creazione di assetti e regole di funzionamento di carattere generale il momento
fondativo della stessa possibilità di funzionamento armonioso o controllato delle associazioni civili
o sono quest’ultime, attraverso le loro interrelazioni a produrre il collante sociale che sta anche alla
base dello stato? Stato e società civile costituiscono due scenari, arene, spazi, reciprocamente
limitantesi e funzionali, per i quali la separazione e l’autonomia sono al tempo stesso il fondamento
della loro articolazione e unità? Nella risposta a queste interroganti si sono divisi e contrapposti
nella storia del pensiero moderno, liberali, democratici, marxisti e post-marxisti di differente
orientamento.
Al di sotto delle diversità delle possibili risposte opera, inoltre, un’altra distinzione basilare, quella
tra visione conflittuale e visione funzionale delle differenze sociali. Sono i conflitti, sempre, un
fattore di disgregazione o, al contrario, sono proprio essi, in determinati contesti, ad esercitare
l’importante funzione di legame, di “collante” sociale? Di “legature”, vale a dire di “cemento che
tiene insieme le società”, come dice Dahrendorf?
Il tema è antico ma non sempre posto esplicitamente, come ha ricordato pochi anni fà il saggio di
Albert Hirschman, I conflitti sociali come pilastri delle società di mercato democratiche (1997). In
una congiuntura in cui gli avvenimenti successivi alla fine della guerra fredda contribuiscono a
riportare all’attenzione, a volte anche con forte drammaticità, la problematica dello “stare insieme”,
l’importanza dell’analisi di Hirschman è data dal suo porre la questione non in termini generali ma
contestualizzati26, dall’operare con un concetto non indifferenziato di conflitto ma piuttosto teso ad
individuare quelle caratteristiche specifiche che ne fanno un collante e non un solvente, un fattore di
aggregazione e non di disgregazione sociale, la base di un rapporto agonistico e non antagonistico
con l’altro27. L’esistenza di un quadro politico democratico che rende il conflitto esplicito, il
continuo riproporsi di quest’ultimo sotto la spinta delle dinamiche costitutive di una società
moderna che produce in modo ricorrente problemi e crisi, il carattere provvisorio e non definitivo
delle soluzioni raggiunte, la divisibilità dell’antagonismo e quindi la negoziabilità che lo
contraddistingue, rivelano di costituire le condizioni che rendono possibile, nelle società di mercato
pluraliste, di “avanzare a tentoni”, cioè di far svolgere ai conflitti un ruolo costruttivo. E’ a partire
da essi, infatti, e attraverso un processo di apprendimento sociale, lungo e non lineare, che si
produce “un ordine democratico coesivo” (Hirschman, 1997). Assetti statali e tipologie di conflitto
manifestano così di interagire e di condizionarsi reciprocamente.
D’altra parte, la lettura degli antagonismi di classe come storia di integrazione sociale, fatta da
Hirschman e da lui ripresa da Marcel Gauchet, ci riporta indietro al XIX secolo e ci motiva ad
avanzare l’ipotesi che il quadro democratico presentato come uno degli elementi costitutivi dei
processi di gestione positiva dei conflitti, possa essere inteso anche in senso più flessibile e
processuale, come un indicatore della insostituibilità della presenza della dimensione politica più
che come l’identificazione di quest’ultima come un insieme dato di condizioni istituzionali e
26
“La questione se il conflitto operi prevalentemente come colla o come solvente non può essere decisa in termini
generali; occorre piuttosto riportarla sulla terra attraverso uno sguardo più ravvicinato all’interazione tra una
determinata specie di società e quelli che sono i suoi conflitti tipici” (Hirschman, 1997: 298).
27 Chantal Mouffe pone il conflitto alla base della sua proposta di democrazia plurale e radicale, critica sia della
democrazia liberale che del comunitarismo, entrambi incapaci di riconoscere, per ragioni differenti, le differenze e le
passioni, e quindi le tensioni e l’antagonismo, come dimensione costitutiva dei rapporti umani (Mouffe, 2003). Nel suo
rifiuto del razionalismo astratto Mouffe sviluppa una critica a Kant e alle posizioni che a lui si ricollegano che perde di
vista, però, precisamente quella tendenza alla “insocievolezza” che il filosofo tedesco riconosce propria della natura
umana e considera decisiva ai fini della produzione di un “ordinamento civile”, e he è richiamata invece da altre linee di
lettura che, come quella di Dahrenrdorf, pongono ugualmente l’accento, anche se da posizioni diverse, sulla dimensione
conflittuale delle relazioni sociali e politiche.
procedurali. Sembrano corroborare la validità di tale ipotesi anche alcuni elementi presenti in lavori
precedenti dello stesso Hirschman, soprattutto in alcuni segmenti di Getting ahead collectively che
fanno riferimento al principio della conservazione e trasformazione dell’energia sociale
(Hirschman, 1984). Formulato sulla base dell’osservazione di come il fallimento di talune
esperienze di azione collettiva impegnate nella ricerca di cambiamenti radicali porti, in America
latina, non a un’implosione della spinta al mutamento e neppure a una sua ripresentazione nelle
forme precedentemente assunte, ma piuttosto ad una trasformazione ed a un proseguimento della
“lotta” intorno a cause differenti, tale principio sembra, infatti, segnalare l’esistenza di un processo
di apprendimento sociale che, in taluni casi, opera come produzione di condotte, norme e valori
comuni anche all’interno di quadri politici autoritari. In effetti, è quest’ultimo processo a risultare
decisivo ai fini della coesione sociale, e l’analisi delle condizioni che lo rendono possibile se mette
in evidenza l’importanza per i modi di manifestarsi dei conflitti della diversità dei quadri politici
non conferisce però valore assolutamente determinante a quello democratico.
Significativamente, a testimonianza della sua importanxza, la questione è ripresa da Ralf
Dahrendorf nella congiuntura seguita all’11 settembre, attraverso il richiamo esplicito al Kant di
Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. In questo suo scritto del 1784, il
filosofo tedesco metteva in evidenza precisamente come “Il mezzo di cui la natura si serve per
attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni, è il loro antagonismo nella società, in quanto però
tale antagonismo sia da ultimo la causa di un ordinamento civile della società stessa” (Kant,
1965:127). Il proposito di Kant, la delineazione di una storia universale dell’umanità, porta le nove
tesi che costituiscono la struttura dell’opera, ad indagare la ragione d’essere degli ordinamenti
nazionali così come del sorgere lento e problematico di un ordinamento cosmopolitico. Ai fini delle
considerazioni qui avanzate, è importante distaccare che, nell’un caso e nell’altro, il motore del
processo è lo stesso, e cioè la “insocievole socievolezza (corsivo nel testo, nda) degli uomini, cioè la
loro tendenza a unirsi in società, congiunta con una generale avversione, che minaccia
continuamente di disunire questa società” (Kant, 1965:127).
Alla fine degli anni novanta, Michael Edwards affronta la stessa problematica, ma ad un altro
livello e con un approccio diverso, attento più direttamente alle problematiche dello sviluppo dei
paesi del sud28 e sulla base della nozione di capitale sociale29. A tal fine, introduce la distinzione tra
legami “che fanno da ponte “, “bridging”, cioè che stabiliscono connessioni tra gruppi, e legami
“che legano”, “bonding”, cioè che stabiliscono connessioni al loro interno, che corrisponde anche a
quella tra legami sociali forti e deboli e opera in questo modo come criterio euristico che permette
di individuare il cammino dello sviluppo in quello capace di trasformare i legami interni in legami
che facciano da ponte tra i gruppi30. Si conferma così come, anche all’interno di linee di pensiero
differenti, il concetto di società civile opera come spazio analitico di riflessione e ricerca sul tema
della coesione e del mutamento sociale.
28 I termini nord, sud e paesi in transizione sono usati in questo testo per indicare, rispettivamente, i paesi donatori, i
paesi recettori di aiuto allo sviluppo dall’inizio degli anni sessanta e i paesi ricettori di aiuto dalla fine degli anni ottanta.
29 La nozione di "capitale sociale" fa riferimento all'organizzazione sociale, cioè a tutte quelle reti, norme e
atteggiamenti sociali che promuovono il coordinamento e la cooperazione con mutuo beneficio (Putnam, 1995).Per
Edwards essa “si riferisce al ‘collante’ che tiene assieme le società, in quanto insieme di reti sociali e istituzioni, norme
sociali (come la cooperazione), e valori o attributi sociali (in particolare la fiducia)” (Edwards, 1999a: 1).
30 “Il rafforzamento dei legami interni, ‘bonding’, può accentuare le disuguaglianze poichè la crescita di capitale
sociale verrà usata per promuovere soltanto gli interessi del gruppo considerato; la creazione di legami esterni,
‘bridging’, porterà a ridurli nel corso del tempo nella misura in cui la gente risolverà le differenze all’interno di un più
vasto interesse comune. Per promuovere lo sviluppo economico, quindi, le società devono spostarsi dal ‘bonding’ al
‘bridging’, per assicurare un consenso sociale a favore dei cambiamenti strutturali nell’economia, e per superare la lotta
continua tra gruppi di interesse che ha fatto deragliare il progresso, per esempio, nell’Africa sub-sahariana
dall’indipendenza.” ( Edwards, 1999a: 6).
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