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Capitale sociale e progetto città
I. Dal capitale sociale al capitale urbano
1. Capitale sociale: del concetto
Il capitale sociale è un concetto che affonda le sue radici nei primi anni del Novecento,1 quando un supervisore statale delle scuole rurali in West Virginia si riferisce a esso per spiegare come il successo
delle scuole dipendesse dal coinvolgimento della comunità alle attività didattiche e dalla capacità dei
suoi membri di instaurare relazioni sociali capaci di indurre benefici per l’individuo e per il resto della
comunità. Dalla sua prima formulazione, perché il concetto torni a essere utilizzato, bisogna aspettare gli
anni Cinquanta e gli studi condotti da sociologi canadesi per descrivere le associazioni degli abitanti dei
sobborghi metropolitani. Analogamente, negli anni Sessanta, viene ripreso dall’urbanista Jane Jacobs fino
a diventare, negli anni Settanta, un parametro di analisi per lo studio di molti fenomeni socio-economici. Il
suo carattere poliedrico e la sua versatilità ne hanno consentito l’impiego in vari ambiti disciplinari, la
riconosciuta “complessità” dei fenomeni sociali ha contribuito alla sua fama.
I recenti studi condotti sull’analisi dei processi economici hanno dimostrato, nei loro esiti, non solo
l’influenza di fattori squisitamente economici, ma anche di variabili sociali e culturali. Questo risultato
si pone all’interno di un quadro ben più vasto di “revisionismo” da parte delle discipline sociali in cui
trovano legittima collocazione le riflessioni sulla validità e l’efficacia degli strumenti di cui esse dispongono in relazione alla loro capacità di suffragare, in maniera esauriente, i fenomeni reali. Sul banco degli
imputati la frammentazione del sapere sociale e la costruzione dei “recinti di saperi” all’interno dei
quali ogni disciplina vanta la propria autonomia, custodendosi gelosamente un proprio campo d’azione,
indipendente e autosufficiente. Il capitale sociale rompe gli argini di quei rigidi confini e si colloca
come un concetto di frontiera.
Elaborato dai sociologi che vogliono indagare sul funzionamento del mercato del lavoro e sulla
relazione in cui esso si pone nei confronti dell’organizzazione economica e l’assetto industriale delle
imprese, conosce la sua massima popolarità quando lo si lega, in una ricerca condotta da un politologo
americano, alle strutture politiche e al loro rendimento istituzionale.2
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
1
2
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Cfr. R. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, cit.
Cfr. R. Putnam, Making Democracy Work: Civic Tradition in Modern Italy, cit.
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Giovanna Regalbuto
Una prima delucidazione in merito alla nozione di capitale sociale deriva dall’esplicitazione del significato dei termini che lo compongono: in quanto capitale produce beni materiali e beni simbolici al pari
di ogni altro; sociale per il suo carattere che lo lega non a un individuo o alle sue capacità, piuttosto alle
relazioni tra persone. Il capitale sociale costituisce un’estensione dell’idea tradizionale di capitale. A
differenza del capitale fisico che è costituito da beni tangibili e materiali e del capitale umano che risiede
nelle abilità e nelle risorse dell’individuo, “il capitale sociale è incarnato nelle relazioni tra le persone”.3
Ma l’accezione di sociale non si esaurisce nell’attribuzione del concetto a un soggetto o a un’entità, ma
trova la sua legittimazione nell’avere la natura di bene pubblico. La dimensione sociale in termini di bene
collettivo è una proprietà intrinseca del capitale ma non condizione sufficiente perché il suo uso produca
necessariamente benefici alla comunità. Nella letteratura, infatti, si distinguono due approcci differenti
che corrispondono a due dimensioni diverse di uso del capitale sociale.
Un primo approccio (micro) prende spunto dalla teoria della Rational Choice e vede il capitale sociale
come risorsa per l’azione individuale, utile al perseguimento dei propri fini e interessi. A questo schema
interpretativo aderiscono studiosi come Loury, Bourdier, Coleman. Un secondo approccio trae origine
dalla teoria funzionalista, che rivendica la dimensione collettiva del concetto di bene pubblico. Alla dimensione micro si sostituisce quella macro, i cui più validi assertori sono Fukuyama e Putnam.
Il “primo” a occuparsi dello studio del capitale sociale è l’economista Glenn Loury, che lo utilizza per
riferirsi a quella rete di relazioni (familiari, parentali) a cui l’individuo attinge per accrescere le proprie
conoscenze e abilità. Si tratta di un lavoro incentrato sull’educazione dei bambini in cui viene sostenuta
l’importanza del ruolo rivestito dalle famiglie e dalla comunità per la formazione del loro capitale umano e per la limitazione dell’abbandono scolastico. Il sociologo francese Pierre Bourdieu studia l’influenza che le reti di relazioni assumono per migliorare la propria posizione sociale definendo il capitale
sociale come
la somma di risorse, in atto o virtuali, che derivano all’individuo o a un gruppo in virtù del fatto che questi
possiede una rete stabile di relazioni più o meno istituzionalizzate di mutua conoscenza e riconoscimento.4
James Coleman, considerato il padre del capitale sociale, a cui si deve l’inquadramento teorico del
concetto, partendo dalla prospettiva di individualismo metodologico, individua nel capitale sociale una
risorsa da aggiungere a quella di capitale fisico e umano. Il sociologo si serve di un’immagine esplicativa
per chiarire ulteriormente le differenze:
A • ------------------- • B
Mentre il “capitale umano” risiede nei punti nodali di inizio e fine (A e B) ed essendo una proprietà
dell’attore si estrinseca nei modi in cui questo ultimo sa sfruttare a pieno le proprie abilità professionali,
il capitale sociale risiede nella linea di congiungimento tra i nodi e quindi dipende strettamente dal tipo
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3
Cfr. J. Coleman, “Social Capital” in Foundations of Social Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1998, p. 304.
Cfr. P. Bourdieu, “The Forms of Capital”, in J. Richardson (a cura di), Handbook of Theory and Research in the Sociology of
Education, Greenwald Press, New York, 1986, trad. it. Ragioni pratiche, il Mulino, Bologna, 1995, p. 22.
4
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Capitale sociale e progetto città
di legame che intercorre tra A e B, “a differenza delle altre forme di capitale, il capitale sociale è radicato
nelle strutture di relazione tra e negli individui”.5 Non una proprietà individuale quanto una risorsa relazionale, radicata nelle relazioni sociali.
Il capitale sociale è costituito da relazioni sociali che perdurano nel tempo e che gli individui possiedono in parte perché ereditate (familiari, di ceto), in parte perché si instaurano nel corso della propria
vita. Nonostante si possa ritenere un bene ascrivibile a ogni individuo, è un bene non esclusivo. La sua
produttività risiede nelle risorse che vengono attivate all’interno dei network di relazioni di cui l’attore
beneficia per mettere in atto le proprie strategie. Costituisce quindi un potenziale appropriabile da parte
dell’individuo per incrementare i propri profitti, ma potrebbe rappresentare anche un vincolo per l’azione
individuale, a causa del suo carattere situazionale.6 Inalienabile, consta di relazioni fiduciarie (deboli o
forti, variamente estese) atte a favorire il mutuo appoggio, lo scambio di informazioni, la cooperazione
finalizzata a scopi comuni, consente il raggiungimento di scopi prefissati altrimenti irraggiungibili (o con
costi troppo alti).
Il punto di vista utilitarista, da cui prende spunto l’analisi colemaniana, non impedisce all’autore di
coglierne, a differenza del capitale privato, il carattere di bene pubblico che può rivelarsi utile per la
comunità e la collettività. Ma il riconoscimento di questa sua peculiarità non costituisce di fatto l’armatura della lezione colemaniana, ma viene citato solo per dovere di cronaca. Infatti il capitale sociale è
inteso come
una struttura sociale di cui l’individuo può appropriarsi (appropriable social structure), sfruttando i benefici
indotti dalla formazione di relazioni sociali durature.7
In questo contesto il concetto non si esaurisce nella sua corrispondenza con le relazioni sociali, bensì
diventa un concetto-ombrello entro cui confluiscono diverse entità che Coleman individua come generatrici di capitale sociale: relazioni di autorità, obbligazioni e aspettative, norme e sanzioni, l’informazione potenziale contenuta nelle relazioni sociali. Per il sociologo, le risorse attivate all’interno dei
network sono forme di capitale sociale ancor più significative delle relazioni:
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5
Cfr. F. Piselli, “Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico” in A. Bagnasco, F. Piselli, A. Pizzorno, C. Trigilia, Il
Capitale sociale. Istruzione per l’uso, cit., p. 49.
6
Alla sociologa F. Piselli si deve l’attribuzione di tre caratteri che meglio approfondiscono la natura del capitale sociale: situazionale, dinamico e processuale. Per spiegarne il carattere situazionale, porta come esempio una comunità contadina messicana,
gli Amantengo, regolata da meccanismi di livellamento interno che ne determinano “una democrazia della povertà”. Le regole di
reciprocità, le norme sono le forme di capitale sociale che reggono la società, quindi risorse, ma per coloro che volessero avere
mire speculatrici ne costituiscono i vincoli. Al contrario, in una società regolata da un’economia di libero mercato, le stesse
norme, credenze religiose, regole di reciprocità che legano i membri di una comunità danno luogo a ripercussioni favorevoli
all’attività imprenditoriale (basti pensare allo sfruttamento da parte di gruppi etnici del loro capitale sociale, in termini di legami
forti, per l’avanzamento economico). Il concetto dinamico è spiegato dalla velocità con cui le relazioni si creano, si distruggono
così come si riformano; il carattere processuale dalla flessibilità del suo impiego, che ha spesso un utilizzo diverso rispetto a
quello della sua formazione (un’associazione di inquilini, creata per uno scopo, può rivelarsi utile anche per altri, costituendo
un’importante fonte di capitale sociale per gli individui che ne fanno parte). Cfr. F. Piselli, “Capitale sociale: un concetto situazionale e
dinamico” in A. Bagnasco, F. Piselli, A. Pizzorno, C. Trigilia, Il Capitale sociale. Istruzione per l’uso, cit.
7
Cfr. A. Bagnasco, Tracce di comunità, cit., p. 68.
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Giovanna Regalbuto
! credit slip, vale a dire dei crediti basati su “obbligazioni a restituire”, come nel caso dei prestiti a
rotazione attivati da gruppi di persone che, versando una quota mensile in denaro, hanno la possibilità di disporre a turno della somma complessiva (e chiaro che perché si creino questo tipo di
situazioni, condizione necessaria è che le persone, appartenenti al circuito, godano di un alto livello
di affidabilità reciproca);
! canali informativi che possono abbattere i costi di informazione attraverso l’utilizzo di reti già
esistenti.
Mentre le norme costituiscono una forma di capitale sociale perché, prescrivendo comportamenti socialmente condivisi e utili, inibiscono con le sanzioni comportamenti defezionisti, generando benefici di
cui gode la collettività, le relazioni di autorità, come ogni rapporto di obbligazione e aspettativa, sono
forme che assicurano la riproduzione e l’incremento del capitale.
Il capitale sociale si deprezza nel tempo se non è rinnovato e se le persone diventano meno dipendenti le
une dalle altre.8
Secondo Coleman, la forma di massima attuazione del capitale sociale si verifica nei casi in cui si
creano delle continue relazioni di interdipendenza che vincolano gli attori gli uni agli altri. Tanto più le
persone sono indotte a collaborare, tanto più grande sarà il valore del capitale sociale accumulato. Analogamente, tutte le condizioni che tenderanno a rendere gli individui più liberi e indipendenti gli uni
dagli altri ne agevoleranno la diminuzione. Il benessere individuale o il crescere di forme di sostegno
statali possono costituire delle cause di erosione del capitale sociale, perché consentono l’accesso indipendente a molti dei servizi, prima ottenuti attraverso relazioni informali.
Per quanto detto sino a ora, l’accesso alle “risorse” non può prescindere dall’attivazione dei “mezzi
di profitto”,9 quindi dalla creazione dei legami sociali che, nonostante non costituiscano in sé le mire
dei teorici economici, si attestano come strumenti necessari per raggiungere i propri scopi.
All’interno di queste considerazione, va fatta una riflessione in merito alle implicazioni che l’instaurarsi di una relazione sociale comporta, tanto più quando a essa segue la volontà di perseguire delle
scelte di tipo cooperativo. Se per relazione sociale intendiamo “un comportamento di più individui
instaurato reciprocamente secondo il suo contenuto di senso e orientato in conformità”,10 ci si accorge
come essa implichi un rapporto di obbligazioni reciproche formali o informali in cui prendono corpo
delle scelte di tipo collettivo. Avere accesso a utili canali di informazione, ottenere aiuti in un regime
fiduciario comporta necessariamente che queste azioni vengano ricambiate. Chiunque voglia beneficiare
dei vantaggi del capitale sociale non potrà esimersi dal condividere con altri ciò di cui è in possesso.
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8
Cfr. A. Mutti, Capitale sociale e sviluppo. La fiducia come risorsa, cit., p. 14.
Espressione linguistica che sembra più appropriata per interpretare il pensiero dell’autore in merito al giudizio di valore attribuito ai legami sociali. Definizione weberiana.
10
Definizione di M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, 1922; trad. it. Economia e società, Edizioni di Comunità,
Milano, 1961, vol. I, p. 23.
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L’abbandono di atteggiamenti individualistici e l’adesione a comportamenti cooperativi, in molti
casi, diventa condizione necessaria. Il che genera non poche implicazioni all’interno del quadro metodologico di riferimento del sociologo. Infatti la natura sociale del capitale tiene conto di un insieme di
incertezze che irrompono sulla staticità dello scenario in cui prendono corpo le scelte dell’attore, dettate
dalla propria razionalità.
La Teoria della scelta razionale (Rational Choice Theory), ai cui precetti aderisce Coleman, è
un insieme di teorie e di ipotesi sulla razionalità del comportamento individuale, fondato sul postulato che
associa a ogni individuo un criterio di scelta finalizzato alla “massimizzazione” del risultato da ottenere.11
Nell’ambito dell’agire razionale, l’attore si configura come uno “scienziato impegnato nella ricerca
della one best way”.12 Il calcolo, l’analisi costi-benefici sono gli strumenti che governano il processo di
indagine. La razionalità costituisce il mezzo “infallibile” che gli consente di operare la scelta migliore,
finalizzata alla massimizzazione dei vantaggi.
Laddove ci si allontana da quadri di riferimento certi e l’attore “massimizzatore” si trova a doversi
confrontare con eventi che possiedono margini di incertezza, come il caso dei contesti in cui prendono
corpo azioni cooperative, la razionalità viene a essere ridimensionata. Si parla di razionalità limitata,
alla massimizzazione della preferenza segue l’azione di scelta che mira alla soddisfazione. L’individuo
viene a configurarsi come un attore intenzionale nel senso che la sua è una libera decisione che prevede
l’assunzione di un rischio.
L’incertezza generata dallo “sfruttamento” del capitale sociale, in termini di risorsa relazionale, consiste nell’instaurarsi di un’azione cooperativa che, secondo la concezione razionale dell’individuo, si
presenta quasi sempre come un’azione rischiosa dall’esito imprevedibile. La difficoltà della scelta si
concretizza nel Dilemma dell’azione collettiva o “Dilemma del Prigioniero”.13 L’incapacità di poter determinare aprioristicamente le mosse dell’avversario induce a dover considerare il proporsi di scenari
che potrebbero preludere esiti sfavorevoli. Il Dilemma nasce dal fatto che la strategia adottata da un
attore può condizionare, in maniera sostanziale, l’esito della scelta presa dall’altro. Il profilarsi di un’azione cooperativa, se da un lato può vantarsi di determinare una condizione “soddisfacente”, dall’altro
si prefigura come un’azione ricca di insidie.
La logica “massimizzante”, in casi di incertezza, è guidata dal criterio di minimizzazione delle perdite
individuali; motivo per cui, generalmente, si sceglie di investire su una scelta “peggiore” piuttosto che
incorrere in situazioni rischiose. Paradossalmente si adotta una scelta meno vantaggiosa ma individualistica, piuttosto che aderire a una collettiva e più allettante. Ancora una volta la strategia dominante è
quella privata e particolarista.
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11
Cfr. M. Pendenza, Cooperazione, fiducia e capitale sociale. Elementi per una teoria del mutamento sociale, cit., p. 24.
Ibidem, p. 23.
13
Costituisce il gioco più conosciuto di tutto il paradigma della Rational Choice Theory. Pubblicato da Luce e Raiffa, nel 1957,
è un gioco di interdipendenza, o parzialmente competitivo, utilizzato per studiare le dinamiche che si scatenano all’interno di
contesti in cui si presenta l’opportunità di scegliere di adottare una soluzione di tipo cooperativo. Al contrario di quelli “a somma
zero”, che fanno corrispondere alla vincita di uno la sconfitta dell’altro, prefigura uno scenario in cui ogni partecipante può
raggiungere una condizione “di non perdita” e allo stesso tempo godere dei vantaggi ottenuti dall’agire cooperativo.
12
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La cooperazione stenta a instaurarsi per la reciproca paura di subire una perdita maggiore di quella che si
avrebbe non cooperando.14
Quindi le implicazioni del concetto sulle dinamiche della scelta razionale lo rimandano a un uso parsimonioso, una risorsa utile, un valore aggiunto.
Sinteticamente il capitale sociale viene identificato con la sua funzione e l’agire cooperativo non
trova altra legittimazione che quella della pura convenienza economica. Perché il concetto abbandoni
l’accezione economicista per assumere significati di più ampio respiro, così da poterne valutare le ricadute sociali e la portata dei vantaggi che investono tutta la società, bisogna aspettare la “lezione” del
politologo Putnam, le sue ricerche empiriche e l’uso che ne propone. Ma prima di ricondurre l’attenzione
sulle argomentazioni dello studioso e gli elementi che costituiscono la sua dissertazione, in merito
all’attribuzione di significato attorno al concetto di capitale sociale, sulle quali peraltro si imposta il presente lavoro, conviene tener conto del contributo di un altro studioso che, per avvalorare la sua ricerca
empirica, ricorre a una vicenda che può tornarci utile per comprendere i risvolti del capitale sociale.
Mark Granovetter conduce una ricerca in merito all’influenza del capitale sociale sul mondo del
lavoro, in particolare sui meccanismi che regolano il mercato dei tecnici e dei manager statunitensi.
Quanto sostenuto da Coleman, in merito al potenziale delle informazioni contenuto nelle relazioni sociali,
trova riscontro nell’indagine condotta dal sociologo che, oltre a stabilire che la probabilità di cambiare
lavoro, trovandone uno migliore, è legata all’ampiezza delle relazioni di cui ognuno dispone, teorizza la
forza dei legami deboli come canali privilegiati per raccogliere informazioni utili. Lo studioso dimostra
come le relazioni superficiali, le semplici conoscenze, quelle frutto di rapporti informali siano più efficaci delle relazioni parentali e familiari, permettendo l’accesso a notizie preziose per migliorare la
propria posizione lavorativa. Non sono i legami forti, come ci si potrebbe aspettare e peraltro qualcuno
sostiene,15 ma i contatti di lavoro o i conoscenti a prospettare scenari che potrebbero rivelarsi utili per
l’attore che vi accede. La motivazione, secondo Granovetter, è da ricondursi semplicemente all’estraneità
da parte dei soggetti “appartenenti alla categoria dei legami forti” ai circoli dove è facile reperire questo
genere di informazioni.
Nonostante le sue ricerche abbiano condotto al risultato preconizzato, lo studioso non perde occasione per sostenere in maniera perentoria la superiorità dei legami deboli rispetto a quelli a maglie
strette anche per contesti che non hanno nulla a che vedere con quelli analizzati precedentemente. Il
sociologo, in uno studio che compie su due quartieri americani, riconduce alla struttura dei legami delle
due comunità, il diverso atteggiamento sostenuto, a seguito dell’attuazione di un radicale programma di
rinnovamento urbano che aveva arrecato gravi danni a entrambi i quartieri. Compiendo un’analisi com!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
14
Cfr. M. Pendenza, Cooperazione, fiducia e capitale sociale. Elementi per una teoria del mutamento sociale, cit., p. 27.
Margaret Grieco ha condotto uno studio decennale su diverse aree industriali britanniche. Partendo da uno schema interpretativo
analogo a quello di Granovetter giunge a conclusioni opposte. La studiosa ritiene che nel caso inglese i legami forti abbiano
costituito il principale mezzo di reclutamento. I risultati contraddittori a cui pervengono i due sociologi non sono da attribuirsi
all’inattendibilità dell’uno o dell’altro procedimento analitico (peraltro simile), quanto alle specificità legate ai diversi contesti
in cui le analisi sono state condotte (inglese il primo, statunitense il secondo). Ma, al di là delle conclusioni a cui pervengono in
merito alla predominanza di un tipo di legame rispetto a un altro, entrambi sono d’accordo nel ritenere il capitale sociale (in
termini di risorsa relazionale) un fattore determinante per migliorare la condizione di vita.
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parativa delle diverse reazioni innescatesi nel quartiere italo-americano del West End di Boston e in
quello di Charlestown, Granovetter riscontra un atteggiamento di passività, inerzia e rassegnazione nel
primo contesto urbano a dispetto di uno combattivo, partecipativo e operoso del secondo. Secondo il
sociologo, la mancata reazione degli italo-americani non va attribuita al loro temperamento quanto alla
loro incapacità organizzativa, dovuta da una parte all’assenza di legami che uniscono individui appartenenti a gruppi diversi, dall’altra alla propensione da parte degli stessi a chiudersi all’interno delle
proprie mura domestiche. Il modello di società chiusa intorno a forti legami parentali, se da un lato
genera una salda coesione all’interno di unità sociali minime, dall’altro costituisce un deterrente per il
coinvolgimento in iniziative che valicano i confini familiari e investono ambiti comunitari. Al contrario,
nel caso Charlestown, proprio l’esistenza di “legami ponte”16 tra i componenti dei gruppi e il resto della
comunità ha determinato la formazione di un movimento di difesa del quartiere. Nonostante la scarsa
coesione all’interno dei singoli gruppi che costituiscono l’ossatura della struttura sociale, l’inclinazione
a dar luogo “a forme di socievolezza spontanea” che trascendono la sfera familiare in questo caso si rivela
l’arma vincente per innescare dei processi di difesa dei propri diritti e di emancipazione civica. La vicenda
serve allo studioso a dimostrare come relazioni di reciprocità proficue s’instaurano laddove la comunità
è intessuta da reti di relazione di intergruppo (legami ponte) che vanno oltre le sfere familiari.
Questa considerazione pone una riflessione sulle forme di capitale sociale in relazione alla natura dei
network che li costituiscono. Volendo usare il linguaggio colemaniano potremmo asserire che i legami
deboli dominano i legami forti così come il capitale sociale che apre domina il capitale sociale che serra
(social capital bounding versus social capital bridging).17
Un contabile bianco di trentatré anni dona un rene a un pensionato nero che ha il doppio della sua età […] I
due individui avevano in comune semplicemente l’appartenenza alla stessa lega di bowling […].18
Con questo aneddoto lo studioso Cartocci esordisce nel presentare il volume di Robert Putnam,
Bowling Alone. Esempio quanto mai calzante per introdurre il ruolo del capitale sociale interpretando il
valore che il politologo gli attribuisce. L’aneddoto, spiega Cartocci, non è citato
per proclamare il crollo delle fratture tra classi, razze e generazioni; al contrario […] Questa soluzione è il
capitale sociale […] l’inserimento nel network sociale in cui passavano il tempo libero ha prima annullato
le distanze che l’età e la razza di solito rendevano incolmabili e poi ha offerto la soluzione a una grave
patologia personale. Giocare a bowling con gli amici significa condividere capitale sociale, e il capitale
sociale conta.19
Nonostante non sia il primo libro scritto sull’argomento (l’aveva già trattato in La tradizione civica
nelle regioni italiane), Bowling Alone può essere considerato il manuale del capitale sociale in senso
putnamiano al punto da riportare nell’ultimo capitolo persino “un’agenda per capitalisti sociali”.
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16
Granovetter si riferisce a essi per indicare il legami che uniscono gruppi appartenenti ad ambiti familiari diversi.
Cfr. R. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, cit., p. 20.
18
Ivi, p. VII.
19
Ivi, p. VII.
17
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In esso Putnam si riferisce al capitale sociale sottolineando le differenze che lo distinguono dal capitale
umano e quello fisico, come in precedenza aveva fatto Coleman, e comprendendo nella sua nozione
anche i prodotti che ne derivano:
[…] l’idea centrale della teoria del capitale sociale è che le reti sociali hanno valore. Come un cacciavite
(capitale fisico) o l’istruzione universitaria (capitale umano) possono aumentare la produttività (sia individuale o collettiva), allo stesso modo agiscono i contatti sociali. Mentre il capitale fisico si riferisce agli
oggetti fisici e quello umano alle caratteristiche degli individui, il capitale sociale riguarda le relazioni tra
gli individui, le reti sociali e le norme di reciprocità e di affidabilità che ne derivano.20
Il capitale sociale non è però da identificarsi con la virtù civica “una società di individui molto virtuosi ma isolati non necessariamente è una società ricca di capitale sociale”.21
Hanifan è ricordato da Putnam quale primo vero anticipatore del concetto di capitale sociale alla cui
nozione fa riferimento per mettere in luce come il coinvolgimento della comunità fosse importante per
il successo delle scuole. Supervisore statale delle scuole rurali in West Virginia, come abbiamo già detto
precedentemente, scrive, riferendosi al capitale sociale, come a
quei beni tangibili che contano maggiormente nella vita quotidiana delle persone: vale a dire, buona
volontà, amicizia, solidarietà, rapporti sociali fra individui e famiglie che costituiscono un’unità sociale
[…] L’individuo, se è lasciato a se stesso, è socialmente indifeso […] Se viene in contatto con i vicini e
questi vicini con altri si accumulerà capitale sociale che può soddisfare immediatamente i suoi bisogni
sociali e mostrare una potenzialità sociale sufficiente al miglioramento sostanziale delle condizioni dell’intera
comunità. La comunità, come un tutto, beneficerà della cooperazione delle sue parti, mentre l’individuo
troverà nell’associazione i vantaggi dell’aiuto, della solidarietà e dell’amicizia dei suoi vicini.22
Per lo studioso il capitale sociale assume il carattere di “predictor”23 della democrazia, per questo
diventa la lente attraverso cui indagare sulle ragioni del disimpegno civico della società americana. Per noi
diventa uno spunto interessante per valutare tutte le esternalità che il concetto riverbera in campo sociale.
L’analisi empirica del politologo lo conduce nella valutazione dei dati di partecipazione dei cittadini
americani alla vita comunitaria: dalla partecipazione agli affari pubblici e alla politica, dalla partecipazione religiosa a quella civica. Le indagini riguardano l’andamento di partecipazione alle urne, alle attività
delle campagne elettorali, indagini sul finanziamento dei partiti e sui soldi che vengono annualmente
devoluti dai cittadini, le iscrizioni alle varie associazioni civiche (Pta, sindacati, organizzazioni professionali, confraternite, organizzazioni di quartiere ecc.), l’appartenenza religiosa. Putnam rileva, in ogni
caso, una minore adesione alle attività che riguardano la collettività, un minore attivismo e una tendenza
a chiudersi nel proprio individualismo da parte del cittadino contemporaneo. Il trend vuole che le professioni di fede più secolarizzate vengano abbandonate per nuove confessioni settarie che non producono
esternalità, i cui benefici sono riservati solo per gli adepti. Al capitale che apre (bridging) costituendo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
20
Ivi, p. 14.
Ibidem.
22
Ivi, p. 15.
23
Ibidem.
21
20
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una risorsa per la comunità (movimenti per i diritti civili, gruppi di volontariato, le chiese nere24) si
sostituisce il capitale che serra delle confraternite su base etnica, gruppi di lettura confessionali, settari,
che tendono a escludere i non appartenenti.
Il capitale che serra costituisce una specie di supercolla sociale, mentre quello che apre crea un lubrificante
sociale.25
Per il sociologo non tutte le organizzazioni possono essere valutate in termini di capitale sociale, ma
solo quelle per cui l’adesione comporta un impegno da parte dell’iscritto alle riunioni di direttivo e un
coinvolgimento attivo a tutte le iniziative da esse promosse.
La contemporaneità ha portato con sé, a causa dei crescenti timori nei confronti di catastrofi ecologiche annunciate e degli squilibri prodotti da un uso spregiudicato e predatore da parte dell’uomo, la
nascita di movimenti di portata internazionale che mostrano una sensibilità crescente nei confronti dei
temi ambientali. Greenpeace, per esempio, costituisce la più grande organizzazione americana, ma non
per questo è annoverata come un’associazione a elevato livello di capitale sociale. Il motivo è da ricercarsi
proprio nel criterio discriminatore fissato da Putnam. Tutte le associazione di così ampio respiro che negli
ultimi anni hanno riscosso ampio successo anche in molte nazioni europee (WWF, UNICEF, FAO) sono
associazioni “terziarie”.26 Il massimo impegno richiesto ai soci si traduce nello “staccare” un assegno,
l’adesione è testimoniata semplicemente dalla tessera di iscrizione e dalle ricevute dei versamenti. Il
capitale sociale, oggi, in molti casi è sostituito dal capitale finanziario. Il denaro non ha solo modificato
il nostro modo di vivere: ha anche sostituito le relazioni sociali.
Altre sono le caratteristiche che distinguono le associazioni che investono in capitale sociale: costituiscono un punto di riferimento per coloro che ne sono parte e ne sposano le cause, diventano luogo di
norme di reciprocità, di azioni solidaristiche e collettive che costituiscono una risorsa per coloro che
partecipano direttamente alle attività, così per quelli che pur non aderendo godono del valore di bene
pubblico del capitale sociale (le associazioni dei genitori promuovono delle iniziative volte al miglioramento dell’istruzione scolastica dei propri figli, ma il loro impegno si riflette a beneficio di tutti coloro
che appartengono alla scuola).
L’analisi prosegue nel tentativo di ricercare un diverso canale dove è andato a confluire il capitale
sociale, l’enorme potenziale di relazioni informali e formali (network) che distingueva gli americani dal
resto della popolazione mondiale. L’indagine si rivolge questa volta alle relazioni sul lavoro e a quelle
di tipo informale. Anche qui il politologo nota un’inversione di tendenza. Le cene con gli amici, il gioco
delle carte sono state sostituite da computer, da giochi d’azzardo, da attività prettamente individuali. Le
visite ai bar del quartiere, ai luoghi abituali dove “tutti sanno come ti chiami” sono state rimpiazzate da
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
24
Le chiese nere hanno avuto un ruolo importante nella ricostruzione delle comunità dei centri urbani. Esse costituiscono i
fornitori istituzionali di servizi sociali.
25
Cfr. R. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, cit., p. 22.
26
I sociologi usano il termine “associazioni primarie” riferendosi alle relazioni più intime di una persona (la famiglia e gli
amici più stretti) e quello di “associazioni secondarie” per riferirsi ai rapporti meno intimi, come le chiese, i sindacati e le
organizzazioni della comunità.
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Giovanna Regalbuto
serate solitarie passate in casa. A diminuire sono anche le attività individuali che però, rispetto a quelle
collettive, avvertono meno il calo (scrivere lettere a un giornale, firmare una petizione, scrivere un articolo
per un quotidiano).
A questo punto il sociologo si avventura in una spasmodica ricerca delle cause che hanno prodotto
l’erosione del capitale sociale americano, e le individua nella pressione del tempo e del denaro, nella
mobilità del lavoro, nell’espansione dei sobborghi e nella crescita disordinata delle periferie. È proprio
in questa parte, e ancor meglio in quella successiva, che il concetto di capitale sociale s’intreccia con gli
stili di vita legandosi all’organizzazione della quotidianità. Il politologo non ha dubbi nel ritenere che i
ritmi pressanti, gli impegni di lavoro riducono il tempo dedicato alla comunità. A maggior ragione se
s’aggiunge una condizione di pendolarismo27 e quindi la precarietà del posto di lavoro, che di fatto pregiudica l’instaurarsi di rapporti considerati sin dalla nascita transitori e non duraturi.
La cultura individualistica di forte impronta neo-liberale di certo poi non aiuta: si ritiene una perdita
di tempo impegnarsi nelle azioni rivolte all’impegno civico e all’associazionismo (il tempo è denaro!).
Ma anche qui i dati sono contrastanti, e la lettura non permette di ritenere che le persone che lavorano
non siano dedite all’attivismo; al contrario, Putnam sostiene che proprio le persone impegnate in campo
lavorativo siano quelle più portate ad aderire alle attività civiche.
Analogamente a quanto avviene nel caso lavorativo, anche la condizione affittuaria favorirebbe
l’astensionismo dalla partecipazione alle attività che riguardano la comunità. I proprietari sono assai più
coinvolti degli inquilini negli affari della collettività: la casa è l’elemento discriminante che lega l’individuo al territorio e accresce il senso di appartenenza. Città metropolitane e periferie scoraggiano il
coinvolgimento sociale ed erodono il capitale sociale, e ciò non deriverebbe dalla vocazione dei loro
abitanti ma sarebbe una stretta conseguenza delle loro dimensioni.
Lo zoning, l’aumento delle distanze tra luoghi ove si lavora, quelli dove si abita e altri ancora dove
s’articola la vita cittadina costituisce un deterrente alla formazione di capitale sociale. A tal proposito risulta pertinente lo studio condotto dall’urbanista Jane Jacobs, in The Death and Life of Great American
Cities, e in particolar modo il rimedio proposto per ricostruire il capitale sociale. L’autrice conduce
un’analisi sulle città americane e denuncia lo stato di declino del capitale sociale assieme alla capacità
auto-organizzativa della società, che ritiene responsabile degli interventi spropositati di un agire economico arrogante e spregiudicato.
Il valore del contributo della Jacobs sta nel declinare il capitale sociale all’interno dello spazio fisico
della città e nel proporre una soluzione progettuale per affrontare l’ingente stato di crisi. L’autrice
ritiene che si debba inaugurare un “nuovo urbanesimo” che detti precise regole per la progettazione
delle città, mirate ad aumentare la qualità della vita dei suoi abitanti promuovendo spazi di socialità e
contatto informale tra vicini. Ecco le caratteristiche di un progettare “illuminato” che tenga conto degli
effetti delle trasformazioni territoriali sul capitale sociale, dando luogo a scelte progettuali che ne favoriscano l’incremento.
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27
“Frequenti spostamenti distruggono il sistema delle radici degli uomini così come quelle delle piante”, in cfr. R. Putnam,
Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, cit., p. 24.
22
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Capitale sociale e progetto città
Assieme alla dimensione delle città anche il trasferimento delle attività commerciali dai piccoli centri
urbani ai grandi poli suburbani produce dei danni al capitale sociale. I negozi del centro o le piccole
botteghe costituiscono dei luoghi d’incontro, spazi della socialità dove s’intrecciano storie di vita, esperienze e relazioni informali tra gli habitué che difficilmente riuscirebbero a riproporsi all’interno dei nuovi
ipermercati, dove i rapporti sociali si smaterializzano perdendosi negli ampi corridoi tra gli scaffali.
In ultima analisi non può che essere annoverato, tra le maggiori cause del disimpegno civico, il disagio
economico. Le persone che versano in condizioni di difficoltà economica e chi si sente finanziariamente
più indigente risulta disinteressato alle pratiche partecipative. L’incertezza lavorativa, la precarietà economica generano quel senso di sfiducia che costituisce un deterrente a ogni forma di coinvolgimento.
Alla lettura dei dati che denunciano le cause di erosione, segue nel volume la dissertazione di Putnam
in merito ai benefici che il capitale sociale produce:
! consente ai cittadini di risolvere problemi collettivi e di superare il dilemma dell’azione collettiva
e del free rider:"# “Tutto andrebbe meglio se tutti cooperassero adempiendo ai propri compiti!”;
! lubrifica gli ingranaggi che permettono alla società di progredire senza intoppi. Dove vi sono persone affidabili e che si fidano, gli affari quotidiani sono meno costosi: il capitale sociale spesso si
trasforma in capitale finanziario. Ne è esempio l’incremento di valore che subiscono le case qualora
si trovino in quartieri dove si gode di un elevata qualità di vita, dovuta alle pratiche di buon vicinato
e al proliferare di attività civiche dei residenti;
! chi ha relazioni attive e di fiducia con gli altri migliora la nostra consapevolezza di essere legati
da un destino comune, riconoscimento che diventa garanzia di comportamenti leali e onesti nei
confronti delle istituzioni, di generosità, apertura e tolleranza nei confronti della comunità;
! le reti che costituiscono capitale sociale servono ad accedere a informazioni utili per il conseguimento dei propri scopi;
! gli individui che possiedono uno stock elevato di capitale sociale e conducono una vita ricca di
relazioni sociali superano più facilmente i momenti di difficoltà;
! rende i quartieri più sicuri e produttivi, auspica prosperità economica, assicura una cittadinanza
democratica e un buon rendimento delle istituzioni, è il predictor che assicura istruzione e benessere al bambino: nei quartieri meno coesi i tassi di abusi nei confronti dei bambini sono più alti,
così come gli episodi di violenza più frequenti;
! influisce sul rendimento scolastico dando luogo a dei rapporti di cooperazione tra gli insegnanti e
i genitori; i ragazzi sono più seguiti, gli insegnanti lavorano meglio laddove sono esonerati dal
dover affrontare comportamenti scorretti da parte degli studenti;
! nelle comunità caratterizzate da anonimato e scarse reti di conoscenza tra residenti, i gruppi di
adolescenti non sono sorvegliati, si esercita un debole controllo dello spazio pubblico;
! le comunità caratterizzate da una debole base organizzativa e una bassa partecipazione sociale
vanno incontro a rischi maggiori di sviluppare criminalità e violenza;
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28
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Cfr. M. Pendenza, Cooperazione, fiducia e capitale sociale. Elementi per una teoria del mutamento sociale, cit., p. 29.
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Giovanna Regalbuto
! la violenza è fortemente legata al basso capitale sociale e costituisce l’arma di cui si dota l’individuo che decide di ricorrere a un sistema “fai da te” per imporre il rispetto dell’ordine sociale.
Il contesto influisce molto sull’azione di chi abita all’interno di questi quartieri:
! al di là della propensione iniziale, i ragazzi che frequentano coetanei che fanno uso di droghe,
inclini alla violenza, sono portati ad assumere comportamenti analoghi secondo il principio per
cui ”perché se tutti lo fanno io non lo posso fare?!” L’assenza di norme positive, di contatti informali e relazioni di cortesia con persone appartenenti al proprio ramo familiare o a reti più estese
abbandona i ragazzi a se stessi;
! minore è il capitale sociale, maggiore è l’abbandono scolastico. In contesti simili l’istruzione, così
come l’educazione familiare, incide poco, i giovani sono portati ad associarsi in gang e a dare
sfogo alla propria aggressività.
Il capitale sociale costituisce un deterrente per azioni sleali o scorrette:
! la sua presenza consente l’attuazione di valori morali e positivi;
! costituisce una garanzia per difendere la propria immunità e la propria salute. La collocazione degli
inceneritori o impianti di smaltimento di sostanze tossiche in aree dotate di basso capitale sociale
talvolta diventa la scelta di molte amministrazioni che sfruttano l’incapacità dei loro abitanti nell’organizzare movimenti di protesta, e di opposizione. L’azione pubblica preferisce muoversi in
contesti dotati di scarsa coesione sociale in cui difficilmente si riescono a creare delle condizioni
per ostacolare le scelte precostituite;
! è strettamente legato alla democrazia: non si ha democrazia compiuta se non si realizza un’attiva
partecipazione alla vita pubblica. Le associazioni sono scuole di democrazia in cui i membri si
impegnano attivamente nel gestire assemblee, a parlare in pubblico, a discutere, ad apprendere abilità sociali e civiche.
Bowling alone, come abbiamo accennato all’inizio, si conclude con un “contratto” che Putnam
sottoscrive idealmente con tutti gli attori della società americana. Gli impegni che Putnam invita gli
interlocutori a rispettare riguardano interventi volti alla produzione di capitale sociale. Il politologo sostiene che entro il 2010,29 grazie alla sinergia di tutti gli attori coinvolti nel progetto, si possa ricostituire
il capitale sociale perduto. Il piano ambizioso di Putnam prevede l’impegno da parte del mondo scolastico, del lavoro e imprenditoriale, quello della politica e della pubblica amministrazione, quello culturale
e religioso.
La cultura e l’istruzione rivestono un ruolo essenziale. L’istruzione è da sempre considerata un elemento essenziale per l’impegno civico. Chi è più istruito è più impegnato nelle attività comunitarie,
proprio per le maggiori risorse e competenze acquisite durante gli studi scolastici. D’altra parte la con!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
29
Il libro viene pubblicato nel 2000; la previsione dunque è per il decennio successivo.
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Capitale sociale e progetto città
dizione necessaria perché si aderisca a qualsiasi genere d’iniziativa è la presa di coscienza e la conoscenza
dei fatti. L’informazione, la conoscenza delle questioni pubbliche e l’applicazione quotidiana delle norme
civiche sono prerequisiti di una partecipazione efficace. Per questi motivi Putnam invita le scuole all’insegnamento dell’educazione civica e a realizzare iniziative che coinvolgano i ragazzi in attività a favore
della comunità. La partecipazione ad attività extrascolastiche rappresenta un altro incentivo per incrementare il coinvolgimento sociale e civico.
Il mondo della cultura, come quello religioso, sono chiamati a promuovere iniziative che riportino il
cittadino ad affollare le piazze e i teatri l’uno e alimentare il credo l’altro. La religiosità, al pari dell’istruzione, si rivela un fattore determinante per l’impegno. Chi è più religioso è più incline a coltivare relazioni informali e formali, a partecipare alla vita democratica della città, a dedicarsi al volontariato, ad
assumere ruoli di responsabilità all’interno di associazioni.
Putnam estende l’invito ai datori di lavoro e al mondo della politica, suggerendo a quest’ultima di
incentivare con contributi le iniziative delle aziende che si comportano con responsabilità nei confronti
dei dipendenti e delle loro famiglie. Le imprese, che offrono più tempo libero ai dipendenti, che svolgono attività volontarie al servizio della comunità dovrebbero, secondo l’autore, venire premiate. L’appello
prosegue fino a rivolgersi ad architetti e urbanisti. Il politologo chiama in causa l’operato degli urbanisti,
le cui scelte hanno determinato in alcuni contesti la diminuzione del capitale sociale.
2. Capitale sociale e sviluppo economico
Lo sviluppo del concetto di capitale sociale, a partire dalla sua più antica accezione fino alla formulazione dell’impostazione teorica colemaniana, ha evidenziato come la capacità di cooperazione e la
propensione a instaurare rapporti di fiducia da parte di una società sia responsabile dei caratteri del suo
sviluppo economico e politico. All’interno di questa considerazione trovano legittimità gli studi volti ad
approfondire le relazioni che intercorrono tra capitale sociale e sviluppo economico.
Fukuyama, nell’ambito delle sue ricerche di sociologo, si occupa del rapporto che lega il capitale
sociale all’assetto industriale di una nazione. La domanda che muove l’analisi dello studioso consiste
nel verificare quali effetti produce la presenza di una bassa o elevata disponibilità di capitale sociale e di
fiducia sull’assetto industriale di una società. Il sociologo dimostra come economie più solide appartengano a società con elevata disponibilità di capitale sociale. E ciò dipende dalla struttura industriale su
cui si fonda l’intero impianto economico. Società con un elevato stock di capitale sociale tenderanno ad
assumere un assetto industriale fondato sulla grande impresa, a dispetto di società a bassa dotazione di
capitale sociale che daranno luogo alla formazione di piccole imprese a gestione familiare. Più precisamente il sociologo individua tre possibili ambiti in cui si instaurano rapporti di socievolezza e cooperazione, a cui fa corrispondere diverse strutture imprenditoriali. Gli ambiti in questione riguardano: la
cerchia familiare o parentale, le associazioni volontarie esterne alla parentela e non ultimo lo Stato.
Le forme di impresa a essi associate sono rispettivamente: l’impresa a gestione familiare; la grande
impresa a vasta scala, di gestione manageriale; l’impresa a gestione statale. Perché si abbia una struttura
economica competitiva capace di imporsi nel mercato globale è chiaro che si debba uscire dai confini
!
! 25
Giovanna Regalbuto
della parentela per dar luogo a quella fiducia generalizzata, condicio sine qua non perché ciò possa
avvenire. L’autore riconosce, all’impresa a conduzione familiare, o più in generale alla piccola impresa,
capacità competitive e grande flessibilità, ma nello stesso tempo rileva come a essa siano negati gli
accessi a mercati in cui sono richiesti grossi investimenti finanziari (settore automobilistico, aerospaziale). L’inadeguatezza dovuta all’incapacità di reperire risorse economiche tali da poter accedere ai
settori produttivi ad alta tecnologia che richiedono strutture organizzative di grande scala relega l’impresa a occupare uno spazio ridotto e fin troppo angusto all’interno del mercato, e che non garantisce
futuri di prosperità.
Fukuyama individua nella creazione di reti organizzate di imprese la possibile soluzione per ovviare
ai limiti delle piccole dimensioni (caso di molti distretti industriali italiani che per Fukuyama rappresentano un’anomalia), ma ritiene che, a causa della scarsa propensione ad allacciare rapporti che siano
estranei alla parentela, difficilmente le piccole realtà produttive riusciranno “nell’impresa”. Quindi, se
da un lato le organizzazioni a rete costituiscono, per lo studioso, la configurazione migliore per risolvere i
problemi di flessibilità delle economie contemporanee e assieme godere dei vantaggi delle grandi imprese, dall’altro si rivelano difficili da realizzarsi in contesti che godono di un basso stock di capitale
sociale e di fiducia sociale. In simili condizioni non si riuscirebbero ad allacciare relazioni di reciprocità
tra i membri delle diverse imprese e sarebbe vanificata l’efficienza della rete, i cui benefici risiedono
principalmente nell’abbattimento dei costi di transazione. A supporto di quanto intende dimostrare,
Fukuyama rivolge la sua analisi a tre casi studio. Le società, oggetto di disamina, sono il Giappone, la
Germania e gli Stati Uniti.
Partendo dall’ipotesi della possibilità di poter parlare di socievolezza spontanea anche nell’ambito di
strutture verticistiche, al contrario di Putnam che ne sostiene l’esistenza solo per le relazioni di tipo orizzontale, rileva, nei tre ambiti d’indagine, la presenza di una struttura costituita da organizzazioni economiche di vasta scala gestite da figure professionali di tipo manageriali. Lo studioso si avventura in
un’indagine a tutto campo per andare a valutare la dotazione di capitale sociale delle società in esame.
La misura è calcolata facendo riferimento alla presenza di associazioni volontarie, analogamente a quanto
avviene negli studi di Putnam, testando il grado di propensione alla formazione di ogni genere di aggregazione che rappresenta forme di “socievolezza spontanea”. I risultati acquisiti mostrano come le società
in questione godano di un tessuto di associazioni volontarie che esulano da quelle parentali, e le ragioni
che sottendono questa loro configurazione hanno radici storico-culturali.
Mentre per il caso giapponese l’elevato indice di capitale sociale è frutto della socievolezza, dell’apertura degli asiatici nei confronti di persone estranee alla famiglia, e in particolare del loro forte
senso di dovere e di lealtà che li rende capaci di instaurare facilmente relazioni di tipo economiche, per
la Germania è funzione del fitto tessuto di associazioni che ne caratterizza l’organizzazione sociale (gilde
artigianali e mercantili medievali). Gli Stati Uniti, infine, godrebbero di una grande quantità di associazioni e di relazioni formali e non, grazie alle diffuse comunità religiose, protestanti per la maggior parte,
attive nel territorio, responsabili della creazione di forti legami di solidarietà sociale e caratterizzati da
un rigido codice morale.
26
!
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Capitale sociale e progetto città
Questi esempi basterebbero per dimostrare la perfetta corrispondenza tra capitale sociale, assetto
industriale e sviluppo economico, se non fosse per l’acquisizione di alcuni dati empirici, come fa ben
notare Mutti,30 che minano le basi della sua impostazione teorica, mettendo in luce delle contraddizioni
rispetto alla tesi sostenuta. Se il capitale sociale è una condizione necessaria perché si realizzino economie
di grande scala, non si spiega come i Paesi notoriamente dotati di una scarsa disponibilità di capitale
sociale, o giudicati a elevato familismo, possano avere raggiunto dei risultati paragonabili a quelli in cui
si registrano livelli elevati di capitale sociale. Basti pensare al caso della Corea del Sud che, pur disponendo di una struttura familistica, è riuscita a darsi un assetto industriale basato su grandi imprese capaci
di competere su settori ad alta intensità di capitale, o al caso italiano, nelle sue più modeste prestazioni,
in cui piccole imprese, organizzandosi in rete, sono riuscite a conquistare i mercati internazionali
mostrando un’efficienza paragonabile a quella delle grandi aziende (Benetton e Versace quelle citate da
Fukuyama). La questione tenderebbe a complicarsi peraltro, se riferendoci alle “eccezioni”31 citate, tenessimo in considerazione il rapporto inscindibile che, secondo l’autore, lega il capitale sociale alla tradizione culturale responsabile delle “abitudini etiche ereditate”.32
Per Fukuyama, la cultura è intesa come un insieme di regole morali e di abitudini apprese con il
tempo da una società, determinandone i comportamenti:
Ci sono abitudini etiche, come la capacità di associarsi spontaneamente, che sono cruciali per l’innovazione
delle organizzazioni e, quindi, per la creazione di ricchezza.33
Motivo per cui, a detta di Fukuyama (coerentemente a quanto sostenuto da Putnam), difficilmente
nelle aree investite da “familismo amorale”, nell’accezione ereditata da Banfield,34 possono avere luogo
politiche di sviluppo efficaci e durature.
Quindi il ruolo di “predictor” del capitale sociale in termini di crescita economica, valutato tenendo
conto delle implicazioni culturali del contesto che lo esprime, considerati i tempi lunghi che occorrono
per i mutamenti sociali, condannerebbe a una condizione “permanente di sottosviluppo” tutte le realtà in
cui stentino a instaurarsi le tanto reclamate forme di socievolezza spontanea. Ma anche in questo caso la
perfetta equazione non risulta sempre essere verificata.
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30
Cfr. A. Mutti, Capitale sociale e sviluppo. La fiducia come risorsa, cit.
Tali sono considerate da Fukuyama.
32
Fukuyama (1996) sostiene che “vi sono abitudini etiche, come la capacità di associarsi spontaneamente, che sono cruciali per
l’innovazione delle organizzazione e, quindi, per la creazione di ricchezza”, in M. Pendenza, Cooperazione, fiducia e capitale
sociale. Elementi per una teoria del mutamento sociale, cit., p. 81.
33
L’atteggiamento a cui si riferisce lo studioso americano (Banfield) ne Le basi morali di una società arretrata è quello che
spinge gli individui a comportarsi in maniera da massimizzare i vantaggi materiali e immediati della propria cerchia familiare,
supponendo che tutti gli altri si comportino alla stessa maniera. Banfield sostiene il carattere antropologico-culturale del concetto e
riconosce in esso la tendenza degli individui ad avere sfiducia verso la collettività, ad assumere comportamenti non “community
oriented”, quindi prettamente egoistici, volti esclusivamente al perseguimento di scopi individualistici.
34
Questa “tendenza culturale”, che per Tullio-Altan costituisce una “mentalità”, diffusa in molte regioni meridionali (come successivamente dimostrerà Putnam ne La tradizione civica delle regioni italiane) è responsabile di comportamenti defezionisti
compiuti a scapito della comunità e degli interessi collettivi. Il familismo amorale sarebbe uno degli elementi che hanno contribuito alla diffusione di pratiche clientelari e malavitose, responsabili in molti contesti del Mezzogiorno d’Italia, di uno sviluppo
senza autonomia. Cfr. C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche del Mezzogiorno, cit.
31
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Giovanna Regalbuto
In ultima analisi, ciò che viene dimostrato dal sociologo non è l’esclusività del binomio capitale sociale-sviluppo economico o economie a vasta scala in un rapporto di necessarietà, quanto l’averne istituito
la condizione di sufficienza. O meglio: non è detto che a società con bassa dotazione di capitale sociale
siano preclusi scenari economici vantaggiosi, ma di certo per quelle a elevato capitale sarà più facile determinare assetti organizzativi e politiche per conquistare economie a vasta scala.
Mentre Fukuyama si occupa di vedere le ripercussioni che il capitale sociale genera a un livello macro,
gli studi sulla struttura della società americana rivelano quanto incida il capitale sociale sullo sviluppo
economico della nazione. Non volendo incorrere nell’errore banfieldiano, che ha sollevato le critiche da
parte della sociologa Fortunata Piselli, di voler guardare all’Italia dall’America, ricorro all’esempio, già
citato, semplicemente per evidenziare come, in realtà diverse dalla nostra, il capitale sociale assuma un
ruolo di eccezionale rilevanza. L’esempio in questione riguarda un episodio citato da Max Weber nel suo
famoso saggio su Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo. L’aneddoto racconta di come un giovane, partecipando a una cerimonia di battisti, pur non essendo credente, abbia voluto ricorrere al rito di
iniziazione. Il bagno da vestito nelle acque gelide di uno stagno gli avrebbe consentito di entrare a far
parte della congregazione religiosa. Ma ciò che incuriosisce il sociologo sono i motivi che spingono il
ragazzo a fare un simile gesto.
Proseguendo nel racconto, Weber spiega che l’obiettivo del ragazzo consisteva nell’ottenimento di
quel riconoscimento di qualità morale e rigore etico che viene conferito a quanti appartengano alle sette
americane. L’ammissione a questa professione di fede non solo gli consentirà di poter aprire una qualsiasi
attività economica, nel caso in questione una banca, ma costituirà un’ottima garanzia di successo. Le
facilitazioni, per chi gode dell’appartenenza a una setta, non si esauriscono nel poter accedere a crediti e
mutui agevolati da parte di banche (la maggior parte degli istituiti bancari e creditizi americani sono di
proprietà di organi religiosi), quanto nel godere della stima e della fiducia da parte dei clienti. Agli occhi
della comunità, egli sarà considerato un uomo di grande onestà e lealtà, ogni americano sarà disponibile
ad affidarsi senza remore alla sua riconosciuta professionalità. Le ragioni che sottendono alla disponibilità,
alla propensione a nutrire una fiducia incondizionata da parte della popolazione americana e all’apertura
nei confronti di coloro che appartengono alle sette protestanti vanno ricercate nell’affidabilità di cui esse
stesse godono. La rigidità e l’inflessibilità riconosciuta, che stanno alla base del codice comportamentale
delle istituzioni religiose, costituiscono una garanzia perché i suoi adepti onorino quanto recitato nei
precetti. Il credo battista, nel caso in questione, impone dei comportamenti di integrità, correttezza e impegno nel lavoro, condannando qualunque forma di opportunismo e ricorso alla frode.
La forte identità culturale del gruppo è responsabile del favore riscontrato all’interno della società
civile e costituisce la vera ragione dell’incremento del suo capitale sociale e la continua incidenza nelle
questioni economiche del Paese.
3. Capitale sociale e rendimento delle istituzioni
Risale al 1993 la pubblicazione del volume che raccoglie lo studio condotto dal politologo americano
Robert Putnam in merito ai fattori che influiscono sul rendimento istituzionale delle regioni italiane. In
28
!
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Capitale sociale e progetto città
realtà il lavoro del politologo e dei suoi collaboratori, che si articola in vent’anni di ricerche, prende
spunto dall’interesse di controllare, sin dalle origini, l’operato degli enti di nuova generazione. L’intento
era quello di seguirne le sorti e cogliere i cambiamenti che le nuove istituzioni avrebbero portato sulla
scena politica e amministrativa.
Il politologo analizza l’operato delle venti regioni italiane, raccogliendo documentazioni relative alla
loro attività, realizzando dei cicli di interviste ai consiglieri regionali, agli esponenti politici delle varie
realtà locali e agli elettori dei rispettivi governi regionali. Mentre il funzionamento della macchina governativa viene suffragato direttamente dall’analisi di quanto riportato dagli atti amministrativi, i sondaggi
condotti sull’elettorato rivelano l’incidenza dell’operato degli enti sulla vita pubblica, in particolare il
giudizio che si è formato nell’elettorato in merito al loro funzionamento. Le ricerche conducono gli
studiosi a individuare delle risposte differenti nonostante gli identici apparati organizzativi. I diversi
contesti ambientali, così intendendo specificità culturali e sociali con cui i vari governi si sono inevitabilmente confrontati, hanno determinato profonde fratture tra due aree ben distinte del Paese.
A un Nord dove Emilia Romagna, Lombardia, Toscana e Umbria scalano le classifiche delle migliori
performance governative, segue una vasta area che si raccoglie intorno al Mezzogiorno d’Italia dove
Calabria, Puglia, Campania e Sicilia occupano le ultime posizioni. Le interviste e le ricerche non si
limitano a fornire dati esclusivamente attinenti all’efficienza delle istituzioni politiche,35 ma indagano
sul senso civico che ogni regione ha “ereditato”.36 Nelle intenzioni dell’autore vi è la volontà di dimostrare
l’influenza della civicness37 nel sancire il rendimento istituzionale, che qualora venisse accreditata basterebbe a spiegare il miglior funzionamento dei governi settentrionali rispetto a quelli meridionali.
I dati che emergono dal confronto dei due indici, in nota menzionati, inducono il politologo a spingere
la propria ricerca, oltre qualsiasi previsione, alle origini delle tradizione civica. La ricerca delle radici
della civicness conduce lo studioso all’età medievale e all’esperienza dei comuni. Per Putnam il diverso
atteggiamento civico riscontrato nelle due parti del Paese sarebbe riconducibile a quel preciso momento
storico. La mancata esperienza comunale nei territori meridionali sarebbe responsabile dello scarso senso
civico riscontrato in essi; a dispetto di quanto avvenuto nelle regioni del Nord Italia dove, sin da allora,
si sono diffuse pratiche associative e reti orizzontali che, per lo studioso, oggi hanno determinato atteggiamenti collettivi, cooperativi, inclusivi e orientati verso il perseguimento di obiettivi comuni (community
oriented). La presenza della civicness non spiegherebbe semplicemente il rendimento delle istituzioni,
ma determinerebbe per estensione lo sviluppo economico delle regioni che ne sono dotate.
La questione si fa sempre più intricata e intrigante, il capitale sociale assume il ruolo di variabile
strategica nel determinare non solo l’attecchirsi di pratiche democratiche e l’attuarsi di un assetto politico
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
35
Putnam si serve di un particolare indice, per la valutazione del rendimento istituzionale, che costruisce tenendo conto di dodici
fattori in cui vengono contemplati i tempi di approvazione di bilanci, la capacità di promulgare leggi innovative, la presenza
numerica di asili nido e consultori familiari, la capacità di dotarsi di piani territoriali, i tempi di risposta alle richieste, gli stanziamenti dei sussidi per gli agricoltori e l’effettiva destinazione dei fondi coerentemente a quanto previsto in sede di bilancio.
36
Per rilevare la civicness, il politologo ricorre a quattro indicatori: la vivacità associativa, la partecipazione al referendum, la
diffusione della stampa, il ricorso al voto di preferenza.
37
La civicness viene identificata da Putnam come “l’interesse valutato nel contesto di un più globale interesse pubblico”, al
contrario del “familismo amorale”, basato sul principio di massimizzazione dei vantaggi materiali a breve termine del nucleo
familiare, nella logica giustificazionista per cui è lecito fare tutto ciò che gli altri fanno.
!
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Giovanna Regalbuto
in cui si compia una democrazia sostanziale,38 ma anche nell’incentivare il buon governo delle istituzioni
e il radicamento di politiche di sviluppo.
L’associazionismo, l’attivismo e il coinvolgimento nelle questioni che riguardano la vita democratica
della città non solo costituiscono nutrimento per essa ma responsabilizzano l’operato dei tecnici e degli
amministratori che governano il territorio. La presenza di un numero considerevole di associazioni in un
territorio è indice della misura di quanti cittadini siano disposti a investire il proprio tempo in problemi
che riguardano la comunità; tanto più elevata è la propensione all’associazionismo, tanto meglio funzioneranno le istituzioni e quindi la democrazia. Il governo democratico risulta rinforzato da una società
civile vigorosa, consapevole di quali siano i propri diritti e attenta alle proprie vicissitudini, intessuta da
relazioni fiduciarie estese, norme di reciprocità generalizzata e reti sociali orizzontali (social capital
bridging). I cittadini che riconoscono nel bene collettivo e nel miglioramento delle condizioni generali
le precondizioni perché si producano dei benefici di cui ognuno potrà godere, come direbbe Tocqueville39
che perseguono “l’interesse personale propriamente inteso”, chiedono servizi più efficienti e sono determinati nel raggiungere i propri fini ricorrendo facilmente all’azione collettiva. Laddove si ha uno scarso
interesse per la comunità, minore partecipazione, un debole senso civico, minor “controllo” delle istituzioni, si assiste alla diffusione di atteggiamenti individualisti, egoisti e di pratiche che minano le basi
democratiche della società. In contesti di questo di tipo trovano spesso sfogo azioni di aggressione nei
confronti della “cosa pubblica” a esclusivo vantaggio di interessi personali.
La salda coesione all’interno delle famiglie può essere responsabile di atteggiamenti esclusivi e particolaristi scaturendo nel tanto famigerato “familismo amorale” riconosciuto da Putnam come la principale
causa di arretratezza delle regioni meridionali. Al bene pubblico della comunità viene a sostituirsi prima
l’interesse personale, poi quello esteso alla famiglia e alla parentela che produce effetti clientelari,
dando luogo a meccanismi di nepotismo di cui risentono, qualora essa si erga a mentalità diffusa,
persino le strutture statali e gli organismi politici. Il Mezzogiorno d’Italia s’inscrive in questa cornice
all’interno della quale vanno ricercate le ragioni del suo sottosviluppo e che l’autore riconduce, come
abbiamo già visto, ad anni ben lontani da quelli odierni.
Making democracy work: civic traditions in modern Italy, titolo originale del volume in questione,
ha raccolto numerose critiche provenienti da vari ambiti disciplinari. Per alcuni la fragilità della tesi di
Putnam consiste nell’aver assunto il familismo come una categoria in antitesi a quella di civicness, per
altri nel legare il concetto di capitale sociale in maniera esclusiva allo sviluppo economico, senza tener
conto del ruolo attivo degli attori e del contributo autonomo delle variabili politiche.40
Secondo Carlo Trigilia, la disamina nel tempo, operata per istituire una correlazione tra capitale sociale
e sviluppo socio-economico, non è sufficiente a dimostrarla: occorrerebbe approfondire e analizzare gli
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
38
“Costruire il capitale sociale necessario è la chiave che apre la porta alla democrazia”, R. Putnam, La tradizione civica nelle
regioni italiane, cit., p. 218.
39
“La democrazia funziona non perché gli americani obbediscono a qualche ideale regola di altruismo, ma piuttosto perché
perseguono il proprio interesse correttamente inteso”. A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique (1835/1840), trad. it.(a
cura di) N. Matteucci, Scritti politici. II, la democrazia in America, UTET, Torino, 1968.
40
Cfr. F. Piselli, “Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico”, in A. Bagnasco, F. Piselli, A. Pizzorno, C. Trigilia, Il
Capitale sociale: istruzione per l’uso, cit.
30
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Capitale sociale e progetto città
aspetti relazionali degli attori nella loro interazione e negli esiti che ne discendono. L’appiattimento del
concetto del capitale sociale all’uso restrittivo che propone Putnam impedisce di cogliere il suo carattere
situazionale e dinamico, e di valorizzare altre forme.41
La ricerca, condotta dallo studioso Massimo Pendenza, si muove all’interno di questo ultimo approccio
critico e vuole dimostrare la rigidezza dello schema interpretativo, assunto da Putnam, nel destinare a
una condizione di non sviluppo tutte le aree in cui si registra una bassa dotazione di capitale sociale e di
civicness. Lo studioso prende spunto dall’analisi della realtà industriale di un distretto del Mezzogiorno
d’Italia per rispondere a due questioni pregiudiziali che interessano la capacità di sviluppo delle regioni
meridionali: l’una riguarda la mancanza di cooperazione in contesti in cui si ha una forte configurazione
familistica, l’altra afferisce alla considerazione, accennata all’inizio, secondo cui in queste aree lo sviluppo
economico sia più “un’utopia che una possibilità concreta”.42
Il caso, oggetto di disamina, interessa la campagna avellinese e costituisce uno dei pochi distretti
industriali esistenti nel meridione. Nel distretto campano di Solofra, area a forte vocazione per la concia
di pelli, la divisione in fasi di lavorazione del prodotto consente la strutturazione di una serie di rapporti
economici tra le varie imprese (per lo più a conduzione familiare); ad atteggiamenti competitivi s’alternano quelli cooperativi:
ogni impresa è gelosa della propria autonomia, molto orgogliosa delle sue capacità, ma pienamente consapevole del fatto che il successo e la sua stessa sopravvivenza sono legati agli sforzi collettivi della comunità
della quale fa parte e il cui benessere essa deve difendere.43
Relazioni cooperative si instaurano tra i vari imprenditori, terzisti e sub-fornitori, consentendo la creazione di una “comunità di interessi”, che vengono difesi da tutti gli attori coinvolti nel processo di
produzione dando luogo alla promozione dell’iterazione di comportamenti collettivi.
Questi ultimi contribuiscono alla riduzione dei rischi di quanti intraprendono una nuova attività, poiché
in caso di fallimento a causa della concorrenza spietata di cui potrebbero rimanere vittime vengono reintegrati nel loro vecchio posto di lavoro, e consentono di distribuire più o meno equamente i costi
dell’innovazione e i rischi di insuccesso. Questi alcuni tra i vantaggi che, assieme alla facilità con cui circolano le informazioni all’interno della comunità dei produttori e l’abbattimento dei costi di transazione,
consentono al distretto di costituire un polo produttivo di rinomata fama nazionale e internazionale.44
Il grado di fiducia e la disponibilità ad allacciare rapporti commerciali con i soggetti appartenenti
alla “comunità distrettuale” non corrisponde però a quello presente nella “società solofrana” dove individui isolati, semmai stretti intorno alla propria cerchia familiare, diffidano dagli “estranei”, mostrano
un’elevata sfiducia verso le istituzioni e non si impegnano nelle iniziative promosse in difesa della co!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
41
Cfr. Ivi.
Cfr. M. Pendenza, Cooperazione, fiducia e capitale sociale. Elementi per una teoria del mutamento sociale, cit., p. 89.
43
Cfr. S. Brusco, in Ivi, p. 118.
44
Solofra costituisce il centro specializzato nel trattamento di pelli ovi-caprini. Del 21% della produzione mondiale prodotta in
Italia, il 46% si concentra in Campania, di cui l’80% a Solofra.
42
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Giovanna Regalbuto
munità (propriamente intesa). In tal senso man mano che ci si allontana dalla rete produttiva, la sfiducia
cresce, la comunità si dissolve.
Inoltre la scarsa propensione alla fiducia generalizzata che aleggia all’interno della società civile
trova spazio nel distretto, dove “la comunità dei produttori solofrani sembra chiudersi su se stessa.45 La
coerenza tra quanto avviene intro e fuori dalla comunità distrettuale si ristabilisce, mettendo in evidenza
come la diffusione di pratiche di socievolezza al di fuori di rapporti prettamente commerciali possa influire, in positivo come in negativo, a determinare aperture nei confronti del mondo esterno che possono
rivelarsi proficue e redditizie (l’apertura verso processi di globalizzazione risulta indispensabile per il
mantenimento dell’efficienza del distretto, peraltro strettamente connessa ai sistemi valoriali di cui una
società è portatrice, in altri termini con la sua “tradizione” culturale).
Lo studio di Pendenza, se da un lato costituisce un valido esempio di confutazione per alcune questioni sollevate da Putnam, dall’altro conferma l’importanza che il capitale sociale assume anche in
ambiti economici. La realtà solofrana, secondo Pendenza, rispecchierebbe una situazione in cui vi è una
presenza di capitale sociale, che si esplicita nelle forme di sfruttamento delle risorse comunitarie che
derivano dalla condivisione dei valori legati al lavoro e al legame sociale, e una corrispondente assenza
di capitale civico che, nel caso in questione, a differenza di quanto sostenuto dal politologo americano,
non ha pregiudicato lo sviluppo del distretto industriale. L’esempio offre uno spunto interessante per
individuare, in contesti che potrebbero a prima vista offrirsi come problematici, le risorse che possono
determinare dei reali processi di cambiamento.
A un secondo approccio critico si ascrivono le tesi di coloro che hanno sostenuto come il familismo
abbia in alcuni casi generato dei risvolti civici, e per questo non possa essere annoverato come concetto
in opposizione a quello di civicness, né tanto meno essere considerato l’origine di tutti i mali delle regioni
più arretrate.46 Il capitale sociale del Sud, dagli anni Cinquanta ai Settanta, è stato oggetto di analisi e
ricerche che hanno confermato come la società meridionale fosse intessuta da una fitta trama di solidarietà
e lealtà che andava oltre i legami parentali, e che consentiva a piccole unità produttive di sopravvivere,
generava stabilità economica, costituiva la risorsa nei momenti di tensione sociale (movimenti per le occupazione delle terre).
Se da un lato i network sociali sono stati utilizzati da alcuni per infiltrarsi nelle istituzioni politiche
cercando di ottenere facili profitti e ambendo a ruoli di comando e prestigio (aspetto innegabile della
questione meridionale), dall’altro hanno costituito una risorsa per l’azione collettiva, dando vita a movimenti di protesta per richiedere contributi statali in momenti di seria stagnazione economica47 o per rivendicare i propri diritti in seno alle lotte operaie degli anni Sessantotto-Sessantanove.
Le considerazioni putnamiane, per quanto la perentorietà delle affermazioni abbia potuto scatenare
le ire di alcuni, producendo reazioni più o meno concitate e, dando luogo ad argomentazioni più o meno
condivisibili, rimangono uno spunto di riflessione per quanti, nel trattare il problema del sottosviluppo
del Mezzogiorno, abbiano sottovalutato l’influenza degli aspetti socio-culturali, a causa di approcci troppo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
45
Cfr. M. Pendenza, Cooperazione, fiducia e capitale sociale. Elementi per una teoria del mutamento sociale, cit., p. 121.
Cfr. L. Sciolla, Italiani. Stereotipi di casa nostra, il Mulino, Bologna, 1997.
47
Il riferimento è alle rivolte urbane calabresi degli anni Settanta.
46
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economicisti. Per quanto Pendenza dimostri come vi siano dei margini reali per cui nel meridione possano
prospettarsi scenari di “crescita”, per dar vita a un processo di sviluppo “correttamente inteso”48 è necessario che si ingenerino dei processi virtuosi che valichino le sfere del profitto per tornare a occupare
la dimensione civile. Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno, o meglio del suo mancato sviluppo,
rimane ancora oggi una questione “complicata” e del tutto aperta.
Carlo Trigilia sostiene che il Mezzogiorno sia stato “vittima” di uno sviluppo avvenuto senza autonomia. Gli ultimi quarant’anni hanno visto una crescita considerevole del reddito nelle aree meridionali a
cui però non ha fatto seguito l’incremento della pro-pria capacità produttiva. Se per sviluppo intendiamo,49
a dispetto di quanti sosterrebbero la crescita del reddito, la maggiore produzione endogena, l’industrializzazione e la modernizzazione di processi, possiamo senz’altro affermare che ciò non sia avvenuto. È
vero che il reddito industriale è aumentato, ma ancora incide poco sulla formazione di quello complessivo degli abitanti. Alle poche aree in cui si sono registrati fenomeni di vivacità e dinamismo industriale
fanno seguito diverse regioni in cui tutto ciò è ben lontano dal potersi realizzare. La politica di sostegno
statale ha aggravato maggiormente gli squilibri nella redistribuzione del reddito, macchiandosi della
colpa di aver reso sempre più “povere” le aree marginali e depresse. I contributi pubblici non hanno
prodotto altri esiti che quelli di accrescere la ricchezza pro-capite, nel migliore dei casi di molti, senza
per questo avviare processi effettivi di sviluppo, capaci di creare prospettive durature di ricchezza e benessere; l’unica politica che è riuscita a imporsi è stata quella assistenziale.
A quanti sostengono che le ragioni del sottosviluppo sono da ricercarsi nella scarsezza dei contributi
statali a sostegno delle aree più depresse, bisognerebbe replicare come proprio le aree in cui si è concentrato maggiormente il contributo pubblico sotto forma di incentivi e di opere pubbliche siano oggi quelle
in cui si riscontrano le maggiori difficoltà.50 D’altra parte, se da un lato è vero che gli interventi straordinari da parte statale siano stati pochi se raffrontati con gli ingenti capitali monetari destinati al Mezzogiorno attraverso il trasferimento di contributi ordinari (destinati alle politiche sociali e la spesa corrente
di regioni ed enti locali), c’è da chiedersi quali siano stati gli effetti della gestione di queste risorse da
parte della classe politica locale.
In realtà sarebbe ora che la smettessimo di ricercare al di fuori del contesto meridionale le ragioni
del suo sottosviluppo: risorse come vincoli vanno ricercati all’interno del sud; continuare a relegare la
responsabilità a cause esogene equivarrebbe a non voler affrontare la questione o, come sostiene Trigilia,
cercare di spegnere un incendio troppo grande con pochi secchi d’acqua. L’assunzione di un atteggiamento serio e consapevole diventa assolutamente necessario per trovare una possibile via d’uscita da
una situazione di impasse che dura ormai da molto tempo.
Le politiche di sviluppo centralistiche generano relazioni di dipendenza con i territori che, oltre a
essere responsabili dell’erosione del capitale sociale (ecco che tutti i nodi vengono al pettine), possono
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
48
Cfr. A. de Tocqueville, op. cit.
Il concetto di sviluppo sopra espresso è quello a cui fa riferimento Trigilia in C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti
perversi delle politiche del Mezzogiorno, cit.
50
Cfr. Ivi.
49
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Giovanna Regalbuto
dar luogo a spiragli di crescita economica, ma non garantiscono “l’autonomia” necessaria perché si
abbiano condizioni di sviluppo durature.
[…] il centralismo amministrativo è buono solo a snervare i popoli che lo subiscono, poiché tende
incessantemente a diminuire in essi lo spirito civico. Esso può, è ben vero, riuscire a concentrare a un certo
momento e in un certo luogo tutte le forze disponibili di un Paese; ma è altresì vero che nuoce alla
riproduzione di tali forze.51
Secondo Trigilia, le istituzioni dovrebbero aiutare dall’alto i soggetti locali a mobilitarsi dal basso:
Un rafforzamento delle strutture di rappresentanza, e del tessuto associativo in genere, accrescerebbe infatti
l’autonomia della società civile, promuoverebbe il cambiamento culturale e ostacolerebbe il particolarismo
dei singoli interessi, che attualmente preferiscono dialogare isolatamente con il potere politico, contribuendo a
produrre tutti gli effetti perversi di cui abbiamo parlato. La crescita della società civile è dunque un obiettivo
difficile, ma è un terreno su cui forze anche non meridionali possono aiutare il Mezzogiorno ad aiutarsi da
solo; possono contribuire a costruire già nell’immediato un terreno più favorevole per anticipare e sostenere
innovazioni istituzionali volte a realizzare una maggiore regionalizzazione, a stimolare la responsabilizzazione della classe politica, e in definitiva a promuovere quella mobilitazione della società locale senza la quale
non c’è sviluppo autonomo.52
Ed è proprio in un contesto di questo tipo che assume un’importanza strategica per una politica di
sviluppo il rafforzamento della società civile e la creazione di capitale sociale.
La lezione putnamiana non può esimerci dal considerare il rafforzamento della società civile, la diffusione di norme condivise, la cultura civica, elementi fondanti di una teoria di mutamento sociale che
generi prospettive di sviluppo, e quindi assieme alla politica modernizzata e autonoma dalla società di
Carlo Trigilia occorre costruire una “comunità” vigorosa e consapevole.
4. Oltre il meridionalismo
Gli studi degli ultimi anni hanno guardato al problema del Sud e quello del suo “sottosviluppo” con un
atteggiamento critico che, il più delle volte, ha prodotto un clima di rassegnata sfiducia nei confronti di
una realtà che non mostrava alcun segnale di cambiamento.
L’indagine di tanti ricercatori si è concentrata nell’individuare le ragioni del mancato sviluppo, nel
trovarne gli ostacoli, e invece di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
51
Cfr. A. de Tocqueville, op. cit.
“Un rafforzamento delle strutture di rappresentanza, e del tessuto associativo in genere, accrescerebbe infatti l’autonomia
della società civile, promuoverebbe il cambiamento culturale e ostacolerebbe il particolarismo dei singoli interessi, che attualmente preferiscono dialogare isolatamente con il potere politico, contribuendo a produrre tutti gli effetti perversi di cui abbiamo
parlato. La crescita della società civile è dunque un obiettivo difficile, ma è un terreno su cui forze anche non meridionali possono
aiutare il Mezzogiorno ad aiutarsi da solo; possono contribuire a costruire già nell’immediato un terreno più favorevole per
anticipare e sostenere innovazioni istituzionali volte a realizzare una maggiore regionalizzazione, a stimolare la responsabilizzazione della classe politica, e in definitiva a promuovere quella mobilitazione della società locale senza la quale non c’è sviluppo
autonomo”. Trigilia C., Sviluppo senza autonomia, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 197.
52
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Capitale sociale e progetto città
pensare alla modernizzazione come un processo complesso che non opera nel vuoto, ma implica piuttosto
una miscela originale di rapporti tradizionali e moderni, la si è considerata come un’azione drastica di rottura
con le tradizioni socio-culturali del Sud.53
Questa impostazione metodologica ha alimentato un atteggiamento mentale nei confronti della questione che, sul finire degli anni Ottanta, è scaturito in una “sindrome del fallimento”.54 Gli anni Novanta,
sull’onda dell’emotività prodotta dallo studio putnamiano sulla tradizione civica nelle regioni italiane,
hanno visto il nascere dei segni di una svolta che sembra aver cominciato a muovere i primi passi all’interno della riflessione meridionalista. Le riflessioni che esporremo qui di seguito s’inscrivono in una
cornice di questo tipo, e non avendo la pretesa di costituire un “vangelo” per gli addetti ai lavori possono
ritenersi delle “considerazioni a margine” rispetto a un’idea di sviluppo e di crescita consapevole che,
pensiamo, possa produrre nel nostro contesto gli esiti sperati.
Per tentare di affrontare il problema in maniera propositiva, occorre in prima istanza abbandonare le
categorie dicotomiche (particolarismo-universalismo, civicness-familismo, egoismo-altruismo) che hanno
caratterizzato gli studi sociali, responsabili non solo di aver determinato l’incapacità di cogliere la complessità dei fenomeni sociali e della società che ne era espressione, ma soprattutto di aver indotto ricercatori e distratti osservatori a iconizzare il Mezzogiorno come la culla dell’egoismo, del malaffare e della
connivenza mafiosa. Riteniamo che operare nel Mezzogiorno d’Italia diventi l’opportunità per sperimentare una nuova Politica, un modus operandi che abbandoni le logiche economicistiche che promettevano
benessere e prosperità e i cui fallimenti sono sotto gli occhi di tutti, e ricominci a scrivere il nostro cambiamento a partire dalla formulazione dello stesso concetto di sviluppo.
Questo, che finora è stato semplicemente considerato un’appendice della crescita intesa in termini
quantitativi ed estesa a ogni ambito della società, ha visto consumarsi nell’atteggiamento predatorio di chi
ne ha ben interpretato i precetti non solo il saccheggio del territorio, con il conseguente depauperamento
delle risorse a scapito di un ormai compromesso equilibrio dell’ecosistema, la corsa irrefrenabile verso
il conseguimento di profitti sempre crescenti, la nascita disordinata dei sobborghi, ma soprattutto il crescere delle disuguaglianze e l’esasperazione dei conflitti sociali dovuti agli effetti perversi di una “crescita”
che ha relegato tanti a uno stato di estrema povertà e indigenza.
La centralità del modello in questione ha visto la logica prevaricatrice del profitto dominare qualunque altro valore che la società fosse in grado di esprimere, trasformando la città in un terreno di
scontro dove vigono leggi di mercato e darwinismo sociale. La legge del più forte, la logica massimizzante hanno prodotto la superiorità dell’homo oeconomicus su quello politico, inducendo l’individuo ad
assumere comportamenti individualisti, egoisti, volti alla propria autoaffermazione, disinibita e senza
scrupoli. La logica utilitaristica, da logica economica, ha assunto le sembianze di un modello di vita, si
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
53
Cfr. A. Mutti, Capitale sociale e sviluppo. La fiducia come risorsa, cit., p. 101.
Un approccio cognitivo, che considera il sottosviluppo come un insieme di ostacoli da superare che si aggiunge a “quell’ideologia rinunciataria e ‘gattopardesca’ che considera con scetticismo qualsiasi innovazione, economica o politica, nel contesto
meridionale” e che assume le caratteristiche di “una frustrazione storica [che] diventa un vincolo, una ‘profezia che si autorealizza’”.
Cfr. Trigilia C., Sviluppo senza autonomia, cit., pp. 195-196.
54
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è eretta a mentalità diffusa, facendoci credere che occorresse avere sempre di più per stare meglio,
senza accorgerci che era l’ennesima trappola tesa da parte di coloro che creano i “bisogni” per renderci
marionette a completo servizio della politica del consumo. Da carnefici ci siamo ridotti a vittime.
Gli esiti di questo lungo processo di logoramento non sono stati responsabili semplicemente di squilibri economici, ma hanno avuto dei risvolti ben più gravi producendo dei segni “indelebili” sulla nostra
società. La diffidenza assoluta e generalizzata, il dissolvimento della comunità, il disorientamento e la
perdita di identità collettiva possono annoverarsi tra questi; l’isolamento, il disagio sociale, l’emarginazione, l’indifferenza, in una parola sola il malessere sociale, sono da considerarsi i prodotti. La ricerca
di una via alternativa di sviluppo dovrà necessariamente abbandonare i vecchi paradigmi, dismettere le
vesti personalistiche e utilitaristiche per indossare quelle delle “sostenibilità”: ambientale, politica, economica, territoriale e ultima, ma non per questo meno importante, sociale. Il concetto di sviluppo, così
inteso, subisce un’estensione semantica focalizzando la propria attenzione sulla qualità piuttosto che la
quantità, avendo cura dei processi quanto degli esiti, cercando di realizzare quel sodalizio tra comunità
e territorio in un rinnovato equilibrio tra ambiente umano, costruito e antropizzato.
L’attuazione di uno sviluppo sostenibile, ponendosi come obiettivo la ricerca di meccanismi di autoriproduzione, può avvenire solo attraverso la costruzione di capacità autonome degli attori, coinvolti dal
e nel processo, in grado di poter governare le trasformazioni e non subirle. Ma l’autosostenibilità, di cui
parliamo, non può prescindere da un processo di rinnovamento culturale che deve investire tutti gli
ambiti della nostra società, da quello politico a quello civile. I comportamenti particolaristici, egoistici,
volti al perseguimento dei propri scopi personali, frutto dell’eredità lasciata dalla Modernità, hanno, nei
nostri contesti, generato dei circoli viziosi in cui il perpetrarsi di simili atteggiamenti ha dato seguito
all’attecchirsi di pratiche di malaffare e malavitose. L’assenza della società civile come organo di controllo delle istituzioni democratiche, dei meccanismi di funzionamento degli apparati statali, così come
dell’operato degli enti che governano il territorio, ha assunto il ruolo di connivente e complice di un
“dramma collettivo”. Parlare del promuovere iniziative volte a rendere il territorio autonomo capace di
camminare con le proprie gambe, per quanto ragionevolmente condivisibile, risulta avulso e anacronistico, se si pensa a un contesto che troppo soffre dei legami con la politica clientelare e con “i furbetti
del quartiere”.
Questo il motivo per cui riteniamo che ogni azione orientata alla costruzione di scenari di sviluppo
debba impegnarsi nella ricostruzione della “comunità” come unità sociale in cui ognuno può ritrovare il
senso della propria appartenenza e della propria identità collettiva nella condivisione di valori comuni e
tradizioni culturali. Ritrovare il senso di comunità perduto servirà a individuare nell’altro i propri
disagi, le proprie vicissitudini, riconoscendone un alleato. Questo processo di autoriconoscimento che
impegna l’individuo, prima singolarmente e poi all’interno della propria struttura sociale, darà luogo a
un processo di emancipazione sociale, responsabile della crescita di consapevolezza nell’individuo. Non
una società di individui isolati, ma una comunità di persone intente a individuare problemi e soluzioni
da proporre, organizzati nel difendere propri diritti e volizioni.55 Il capitale sociale in questo contesto
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
55
Cfr. M. Giusti, Urbanista e terzo attore. Ruolo del pianificatore nelle iniziative di autopromozione territoriale degli abitanti,
L’Harmanattan Italia, Torino, 1998.
36
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Capitale sociale e progetto città
diventa la risorsa per l’azione su cui investire per realizzare uno sviluppo endogeno, equo e solidale; la
comunità lo spazio fisico che lo ospita.
Il superamento della sindrome del fallimento può avvenire se riusciamo a sovvertire i termini del
problema, ponendoci nei confronti della questione con approccio positivo, non per questo meno critico,
con la consapevolezza di essere immersi in un sistema complesso che non può essere né ridotto o semplificato, né tanto meno banalizzato. Cominciare a partire dalla società civile per acquisire la consapevolezza di essere portatori “anche noi” di valori positivi, di specificità, di differenze, di un legame non
comune ai luoghi, di un attaccamento materno alla nostra terra e alle nostre tradizioni.
È proprio questo “senso della meridionalità” il valore su cui puntare per tentare di dar luogo alla
comunità e investire sulla building community capacity:
[…] il processo di autoriconoscimento di una comunità insediata che solo riappropriandosi del sapere del
luogo può sviluppare il proprio senso di appartenenza al territorio, può prendersene cura e può identificarsi
in un progetto comune.56
Il familismo può diventare una risorsa qualora lo si declini secondo le categorie “positive” di struttura
a elevata interdipendenza tra i membri, piccole comunità, teatro di azioni cooperative, di aiuto reciproco,
dove ogni comportamento è frutto di un saldo codice morale e di un senso di lealtà. In questi termini le
famiglie rappresentano un incubatore di capitale relazionale notevole, capace di incidere nel coinvolgimento e nella partecipazione a iniziative locali; grazie agli stretti legami che sanciscono i loro rapporti,
l’adesione di uno costituirà una garanzia per quella degli altri. Il particolarismo, una volta che si generano dei rapporti al di fuori della rete parentale e comincia la collaborazione, finisce per “diluirsi”.57 In
tal modo,
la presenza di una pluralità di comunità particolaristiche che comunicano tra di loro trasversalmente e
accettano un vincolo minimo di lealtà verso una superiore “comunità di comunità” permetterebbe, dunque,
la formazione di un quadro di compatibilità entro il quale tolleranza, rispetto e riconoscimento reciproci
possono essere garantiti.58
Aderendo ai movimenti sociali e partecipando all’azione collettiva l’individuo si colloca all’interno di un
processo che può permettere la ricostituzione di reti esprimenti nuove forme di capitale sociale. Tale
adesione non è frutto di un calcolo razionale, ma è motivata dal partecipare stesso il cui senso profondo
risiede, per gli attori, nella possibilità di riconoscimento reciproco.59
Uno sviluppo “correttamente inteso” non può che essere determinato dal perseguimento del proprio
interesse “correttamente inteso”.60
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
56
Cfr. F. Balletti, S. Soppa, “La costruzione di scenari strategici partecipativi”, in A. Magnaghi (a cura di), Scenari strategici,
Alinea, Firenze, 2005, p. 285.
57
Cfr. A. Mutti, Capitale sociale e sviluppo. La fiducia come risorsa, cit.
58
Ivi, pp. 99-100.
59
Ivi, pp. 129-130.
60
Il riferimento è esplicitamente rivolto all’accezione di Tocqueville e di cui abbiamo parlato nel terzo paragrafo.
!
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Giovanna Regalbuto
5. Dal capitale sociale al capitale urbano
La centralità del capitale sociale all’interno della concettualizzazione di un nuovo modello di sviluppo,
dove la costruzione della community capacity assume un’importanza strategica, propone la ritematizzazione e il riposizionamento del planner e delle sue funzioni rispetto alla politica e alla società. Tanto più
quando, in un contesto come il nostro, il “senso della meridionalità” costituisce la chiave di volta e
l’àncora a cui aggrapparsi per ricostruire identità collettiva, senso di appartenenza e ritrovare la comunità
perduta; il profondo legame con il territorio, con i luoghi della propria quotidianità dove s’intrecciano
vissuti ed esperienze e il cui ricordo rimane inscindibilmente legato, assieme al “religioso” attaccamento alle proprie radici culturali e tradizioni popolari, sono risorse su cui investire e rappresentano il
capitale urbano che può agevolare e determinare il cambiamento.
Ma per chi continuasse a chiedersi perché l’urbanista dovrebbe occuparsi di promuovere azioni volte
alla responsabilizzazione della comunità civile così come alla costruzione di processi inclusivi, in cui il
coinvolgimento degli abitanti nelle scelte territoriali rappresenta inequivocabilmente lo strumento per
ricostituire il tessuto connettivo della società, occorre fare un passo indietro e ripartire dalla disciplina,
dalla definizione stessa di planner, e soprattutto dalla crisi che sta attraversando la pianificazione.
L’urbanistica nasce come disciplina che si configura come un insieme di pratiche, norme, procedure, dispositivi, tecnologie per modificare la città e i territori.61
L’urbanista, come l’intellettuale e il tecnico, al “servizio” della politica, mette a disposizione le proprie
competenze e il proprio bagaglio culturale per “disegnare” il futuro delle città, essendo in grado di determinare esiti e governarne cambiamenti e trasformazioni. La concezione positivista della scienza e del
suo metodo, assieme alla presunta infallibilità degli strumenti di razionalità, forniti dalla disciplina, rendevano il tecnico unico depositario di certezze e verità assolute. Il piano era il mezzo attraverso cui venivano raccolti e interpretati bisogni e desideri, e restituiva il “disegno della crescita della città”62 futura.
L’assetto fisico e gli aspetti formali costituivano spesso una priorità, facendo della “fisicità della città la
principale infrastruttura e il principale mezzo di socializzazione della conoscenza”.63 L’enfatizzazione
della superiorità e dell’infallibilità della conoscenza esperta, a dispetto di una laica di cui si disconoscevano persino competenze pratiche, determinava l’estromissione dal processo di costruzione di piano di
chiunque non facesse parte di quella élite a cui si attribuivano capacità e precisi requisiti.
Con il crollo delle certezze e del paradigma razional-determinista,64 la crisi dei modelli di interpretazione della realtà e il fallimento degli strumenti che vantavano poteri di previsione e controllo, la disciplina oggi si trova a mettere fortemente in discussione il proprio ruolo e quello del planner, cercando di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
61
B. Secchi, Racconto Urbanistico, Laterza, Bari, 2000, p. 20.
S. Ombuen, M. Ricci, O. Segnalini, I programmi complessi. Innovazione e Piano nell’Europa delle Regioni, Il Sole 24 Ore,
Milano, 2000, p. 3.
63
Cfr. F. Schiavo, “Della partecipazione. Considerazione e margine”, in Archivio di Studi Urbani e Regionali, n. 74, 2002, p. 22.
64
Il paradigma prevede che per ciascun problema esista un pacchetto di norme e soluzioni “standard” che sono prerogativa
esclusiva dell’urbanista.
62
38
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Capitale sociale e progetto città
ridefinire la propria legittimità e i propri paradigmi. Note le cause che hanno determinato l’insuccesso
degli strumenti urbanistici, dovute ai falsi presupposti su cui si basava la pianificazione, è il momento di
leggerne gli esiti. A fronte delle previsioni disattese di piano e lo scollamento tra quello che erano le
esigenze a cui gli strumenti urbanistici dovevano rispondere e quelli che in effetti sono stati gli esiti, la
mancanza di comunicazione tra la sfera tecnico-professionale e la società ha prodotto città sempre più
estranee ai suoi abitanti, e un divario tra ambiente fisico e sociale, tra “mondo sistemico” e “mondo
della vita”.65
La presunta capacità di cogliere e interpretare autonomamente la pluralità dei bisogni riuscendo a
“trasferire la realtà nel piano”,66 che ha contraddistinto la teoria come la prassi urbanistica basata sul
paradigma razional-comprensivo,67 si è rivelata inadeguata a comprendere uno scenario ben più complesso di quello che si poteva pensare essere. Il riduzionismo e la semplificazione della realtà in modelli
lineari, più facili da studiare, sono stati responsabili dell’esclusione di questioni (ritenute eccezioni e
particolarità) che hanno il più delle volte prodotto conflitti e disagi nel tessuto sociale.
Proprio queste considerazioni portano il planner ad assumersi la responsabilità sociale di quanto
avvenuto e a impegnarsi nel ricucire lo strappo esistente tra abitante e territorio. I tentativi di rimediare,
quanto alla rigidezza dei tradizionali strumenti di gestione del territorio tanto alla trascuratezza degli
aspetti sociali negli interventi urbani, trovano riscontro negli strumenti di nuova generazione – i cosiddetti
programmi complessi – anche se alcune questioni rimangono comunque irrisolte.
Le ragioni della crisi dell’urbanistica, la complessità della realtà, così come l’irriducibilità dei sistemi
urbani, pongono sul banco degli imputati il modello di pianificazione tradizionale e contestualmente
hanno portato alla formulazione di approcci di stampo argomentativo che restituiscano un ruolo centrale
agli abitanti. Mentre l’attività processuale tradizionale tendeva a escludere l’abitante dalle scelte urbane,
relegando la sua partecipazione (ex post) e il suo ruolo decisionale, al più, alla sola esposizione di
opposizioni e osservazioni al piano, quando in realtà le decisioni erano già state prese, le pratiche partecipative a cui fanno riferimento i nuovi approcci succitati si differenziano dalla disciplina consolidata
proprio per il coinvolgimento dei soggetti locali in ogni fase che regola il processo di pianificazione
(dalla costruzione della domanda alla realizzazione e gestione dei prodotti progettuali). Rispetto alle
altre ipotesi,68 che sono state avanzate negli ultimi anni per restituire legittimità scientifica, efficacia e
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
65
G. Ferraresi, “La costruzione sociale del piano”, in Urbanistica, n. 103, 1995, p. 114.
Cfr. F. Schiavo, “Della partecipazione. Considerazione e margine”, cit., p. 20.
67
“Nel modello di decisione razionale la decisione consiste nell’adottare mezzi che permettano di raggiungere fini dati nel modo
migliore possibile (più efficace, meno costoso) e si risolve perciò in un processo di massimizzazione. […] Il modello razionale
è un metodo comprensivo perché presuppone un’indagine completa del campo decisionale. Cerca di non lasciare nulla al caso
o all’improvvisazione. Ambisce a sconfiggere l’incertezza”. L. Bobbio, La democrazia non abita a Gordio. Studio sui processi
decisionali politico‐amministrativi, Franco Angeli, Milano, 1996, pp. 15‐16.
68
M. Giusti individua cinque strategie per uscire dalla crisi della pianificazione: 1. l’ipotesi tecnocratica con l’esasperazione
“dell’esperto neutrale potenzialmente in grado di raggiungere la conoscenza completa e oggettiva di un fenomeno”; 2. l’ipotesi
dell’autoreferenza in cui il planner cerca legittimazione non tanto nella razionalità scientifica, quanto all’interno della comunità
accademico-professionale; 3. l’ipotesi della concertazione, in cui il planner si avvale della partecipazione di altri soggetti
riconducibili ai due macro-attori (lo Stato e il mercato: l’uno come portatore degli interessi della collettività, l’altro “inteso come
luogo degli interessi concreti capaci di mobilitare risorse per la costruzione del territorio”); 4. l’ipotesi dei grandi progetti
urbani in cui “si propone di decentrare l’attenzione tanto da piani direttori generali quanto da politiche incrementaliste non
66
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Giovanna Regalbuto
credibilità sociale alla pianificazione, quella partecipativa si rivela una delle possibili vie praticabili per
risolvere “il gap esistente tra tecnica ed etica”69 e uscire dalla crisi.
Il planner, come “operatore di comunità” e “portatore di una cultura del territorio, capace di valorizzarne la memoria storica e rintracciarne valori sociali e culturali”,70 non può che essere il promotore di
processi di coinvolgimento e di costruzione di comunità nell’intento di rendere la pianificazione un processo culturale inteso come ricerca di significati condivisi.
6. Tecniche di coinvolgimento degli abitanti nei processi inclusivi
Le pratiche partecipative moderne non sono dettate tanto dalla convinzione ideologica di coinvolgere
coloro che sono stati esclusi dai processi decisionali, quanto dal restituire credibilità a un processo di
gestione del territorio fortemente in crisi, o al più per raggiungere forme edulcorate finalizzate alla realizzazione di progetti che inizialmente avevano posto in posizioni conflittuali abitanti e promotori delle
iniziative territoriali. Premesso che le tecniche utilizzate nei processi inclusivi sono numerosissime, per
cui sarebbe stato impossibile citarle tutte, riportiamo di seguito semplicemente quelle che nelle esperienze
italiane hanno riscosso più successo e si sono dimostrate più efficaci per raggiungere i risultati sperati.
Le tecniche in questione possono essere raggruppate in tre grandi famiglie e classificate in:
! tecniche per l’ascolto: riferendoci ai metodi che si utilizzano soprattutto nella prima fase dei processi inclusivi, quando si vogliono comprendere i problemi avvertiti dagli abitanti;
! tecniche per l’interazione costruttiva: riferendoci ai metodi che facilitano i partecipanti a comunicare tra loro fornendo soluzioni interessanti;
! tecniche per la risoluzione dei conflitti: quei metodi utilizzati per superare situazioni di impasse e
che consentono di affrontare questioni controverse.
6.1. Tecniche per l’ascolto
Mentre i questionari costituiscono l’unica tecnica dell’ascolto passivo, peraltro difficilmente definibili
come strumenti di processi inclusivi (“la progettazione inclusiva non è un sondaggio di opinione!”71), le
tecniche per l’ascolto sono:
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legate direttamente al prodotto (al manufatto) del piano, e di mettere piuttosto l’accento su grandi progetti capaci di ‘creare città’
attraverso la forza della loro stessa presenza”; 5. l’ipotesi della partecipazione. M. Giusti, Urbanista e terzo attore. Ruolo del
pianificatore nelle iniziative di autopromozione territoriale degli abitanti, cit., pp. 9-14.
69
Cfr. F. Schiavo, “Della partecipazione. Considerazione e margine”, cit., p. 18.
70
Cfr. A. Magnaghi, Rappresentare i luoghi. Metodi e tecniche, Alinea, Firenze, 2001, p. 424.
71
Cfr. L. Bobbio (a cura di), A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali
inclusivi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2004, p. 63.
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Capitale sociale e progetto città
! l’Outreach: letteralmente “raggiungere fuori”, consiste nell’andare alla ricerca dei propri interlocutori, piuttosto che aspettare che siano loro a presentarsi spontaneamente. È una pratica per
raggiungere le persone che sono più restie a partecipare, coloro che vivono in condizioni di grave
disagio e che, nonostante le proprie contingenze, raramente si presentano agli sportelli degli operatori sociali per richiedere servizi di primaria necessità. Le modalità dell’outreach prevedono la
promozione di iniziative di sensibilizzazione e di informazione attraverso la distribuzione di materiale divulgativo, articoli su giornali locali e attività pubblicitarie per radio e TV, svolgimento
di camminate di quartiere, la realizzazione di uffici mobili come camper, caravan o punti localizzati nel territorio;
! l’Animazione Territoriale o Sociale: consiste in una pratica di coinvolgimento degli attori sociali
finalizzata alla lettura e all’analisi del contesto locale secondo una logica di tipo bottom-up e,
naturalmente, al raggiungimento del maggior grado di adesione dei soggetti locali a strategie condivise per risolvere problemi comuni. La prima fase consiste in un’attività di tipo conoscitiva,
detta anche di ricerca-azione, volta all’acquisizione di dati qualitativi e quantitativi relativi al
quartiere, all’individuazione degli elementi di forza su cui investire e quelli di debolezza su cui
lavorare attraverso la realizzazione di progetti locali. Attraverso questo tipo di azione la pratica si
propone di raggiungere la dinamizzazione e la sensibilizzazione dell’area territoriale, favorire lo
scambio di informazioni ed esperienze tra i partecipanti, la socializzazione, la mutua cooperazione
e, in ultimo, di elaborare un progetto condiviso di sviluppo territoriale;
! la Ricerca-Azione (Action Research) Partecipata: è un’indagine conoscitiva che si propone di
coinvolgere attivamente tutti i soggetti e gli attori sociali depositari del sapere locale. L’attività
prevede l’attivazione di un Forum Locale con il compito di alimentare tutte le fasi della ricercaazione e costituire un Gruppo Territoriale Locale rappresentativo di forte azione partecipativa.
Ogni fase, che va dalla campionatura alla somministrazione dei pre-test fino all’elaborazione dei
dati, all’analisi, all’interpretazione e alla restituzione pubblica, è organizzata in maniera tale da
prevedere momenti di discussione tra gli addetti ai lavori per definire obiettivi e modalità operative, e in modo tale da ottenere il coinvolgimento sistematico di nuovi attori nel processo;
! la Camminata di Quartiere: è un metodo per superare qualunque ritrosia dei residenti nei confronti
di “quei tecnici” che troppo lavorano sulle carte e poco stanno a sentirli. Consiste nell’organizzare
delle passeggiate all’interno del quartiere in compagnia dei residenti in modo da raccogliere, in
un clima disteso, osservazioni, desideri, problemi, esperienze, ricordi e stralci di vissuto che riguardano l’area oggetto di esame. Generalmente si concludono con un rinfresco e in un luogo di
riunione in cui è possibile continuare a discutere dei problemi sollevati durante la camminata,
anche insieme a coloro che si sono aggiunti al gruppo solamente in una fase successiva;
! i Punti: sono sportelli dedicati al pubblico collocati all’interno degli ambiti territoriali interessati
da progetti di riqualificazione fisica e sociale. Sono attivi per tutta la durata degli interventi e
costituiscono dei luoghi di riferimento per i residenti che volessero denunciare disagi, bisogni in
riferimento alle nuove trasformazioni; si occupano di contenere i disagi dovuti ai lavori attraverso
attività d’informazioni preventiva, e fanno sì che gli abitanti possano partecipare attivamente alla
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Giovanna Regalbuto
realizzazione degli interventi apportando modifiche ai lavori o ai progetti (scelta delle finiture o
indicazioni in merito al trattamento di parti comuni etc.);
! i Focus Group: sono dei piccoli gruppi di discussione, formati da un numero che si aggira tra le 4
e le 12 persone, specializzati nel trattare uno specifico tema. I componenti dei gruppi sono scelti
in maniera tale da garantire una certa omogeneità ed evitare difficoltà di comunicazione, vengono
selezionati in base al tema da trattare, in modo che possano contribuire efficacemente alla questione
posta, fornendo il proprio punto di vista. È una tecnica utilizzata per definire obiettivi operativi, per
studiare un problema cercando di coglierne le diverse sfaccettature, per indagare le reazioni suscitate da un eventuale intervento;
! il Brainstorming: “tempesta di cervelli”, è stato inventato negli anni Trenta da Alex Osborn ed è
un metodo che consente di liberare la creatività dei singoli e del gruppo dalle comuni inibizioni in
maniera da proporre soluzioni creative ai problemi. L’obiettivo consiste nel formulare tante più
proposte o soluzioni a uno specifico problema posto e vuole che ogni partecipante esprima la
propria idea in maniera istintiva e senza pensarci troppo. Una volta stabilito il tema da affrontare,
ogni partecipante è invitato, avendo a disposizione un tempo ridottissimo, a scrivere su un post-it
o su un foglietto la prima idea che gli viene in mente. Il gioco prosegue fino a quando non si
raccolgono tutti i fogliettini e si espongono, in modo da poter discutere e rielaborare le idee più
fantasiose, rendendole fattibili e realizzabili.
Tutte le tecniche succitate si basano su tre regole fondamentali che distinguono l’approccio di chi assume un atteggiamento di ascolto attivo nei confronti di coloro che partecipano ai processi inclusivi: la
prima72 consiste nello sforzarsi di guardare gli eventi e le cose dal punto di vista dell’altro osservatore
senza esprimere giudizi di merito; la seconda73 è quella di cercare di assumere un nuovo punto di vista, in
modo da riuscire a osservare dall’esterno il proprio e l’ultima regola74 consiste nel comprendere il valore
conoscitivo delle emozioni e il loro linguaggio.
6.2. Tecniche per l’interazione costruttiva
Tra le tecniche per favorire l’interazione costruttiva tra i partecipanti si distinguono quelle basate sulla
costruzione di scenari, quelle sulla simulazione, e infine quelle sulla spontaneità. Mentre le prime vengono
utilizzate per indurre le persone a ipotizzare possibili futuri, le seconde per invogliare tutti a partecipare,
anche quelli meno abituati a parlare in pubblico, cercando di semplificare i problemi e aiutando le persone
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
72
“Se vuoi comprendere quello che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e
gli eventi dalla sua prospettiva”. In L. Bobbio (a cura di), A più voci. Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini
nei processi decisionali inclusivi, cit., p. 64.
73
“Quello che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare il tuo punto di vista”. Ibidem.
74
“Le emozioni sono strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma
su come guardi”. In Ivi, pp. 64-65.
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Capitale sociale e progetto città
a scegliere tra soluzioni alternative, le tecniche basate sulla spontaneità consentono ai partecipanti di definire liberamente temi e soluzioni da adottare.
A. Tecniche basate sulla costruzione di scenari
! EASW (European Awareness Scenario Workshop): tecnica originaria della Danimarca, è stata
promossa come best practice dalla Direzione Ambientale dell’Unione Europea per risolvere problemi di ecologia urbana. Consiste in un workshop della durata di due giorni strutturato in due
fasi: nella prima, “elaborazione di visioni future”, i partecipanti, divisi in quattro categorie di attori
(circa trenta persone tra politici, operatori economici, tecnici e cittadini) e sottoposti a un tema
specifico, sono chiamati a formulare due ipotetici scenari possibili (l’uno catastrofico, in modo da
evidenziare i rischi più pericolosi, e l’altro idilliaco, per individuare gli obiettivi più ambiziosi);
nella seconda, “elaborazione delle idee”, l’assemblea sceglie tra le soluzioni avanzate i quattro
temi più interessanti, e a questo punto si individuano quattro nuovi gruppi a composizione mista
con il compito di occuparsi ciascuno di un tema specifico. Ogni gruppo seleziona cinque idee da
proporre nella sessione plenaria di chiusura durante la quale, a seguito di una votazione finale,
vengono individuate le cinque proposte più interessanti;
! Action Plannig: di origine anglosassone, è un metodo finalizzato a fare emergere bisogni e necessità
attraverso il coinvolgimento della comunità locale. Rappresenta una valida alternativa alla discussione assembleare e si dimostra più proficua perché consente agli abitanti di esprimere liberamente
la propria opinione in maniera anonima e semplice. La tecnica consiste nell’invitare i partecipanti
a scrivere le proprie opinioni su dei post-it da attaccare su grandi cartelloni. Individuati aspetti
positivi e negativi del quartiere, vengono avanzate previsioni sui possibili effetti (favorevoli o
svantaggiosi) dei cambiamenti. La fase conclusiva, raggiunta dopo 3-4 sessioni di lavoro, prevede
la definizione di linee guida per assicurare il raggiungimento degli effetti positivi scongiurando
quelli negativi;
! Search Conference: “conferenza di indagine”, è un metodo teorizzato dallo studioso di sistemi
complessi Fred Emery e consiste nell’individuare un futuro realizzabile. I partecipanti (circa 3540) sono impegnati per 2-3 giorni nell’identificare i futuri desiderabili e nel formulare strategie
creative per realizzarli.
B. Tecniche basate sulla simulazione
! Planning for Real: è un metodo di progettazione partecipata, sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta-Settanta dall’Università di Nottingham e oggi riproposto da un’associazione no profit, fondata
nel 1988 da Tony Gibson con sede a Teldford (Neighborhood Iniziative Foundation). È una tecnica
di partecipazione alternativa alla discussione pubblica, che consente di superare le timidezze dei
coinvolti nel dibattito progettuale, proponendo, attraverso un modellino tridimensionale generalmente realizzato dagli stessi abitanti, l’area oggetto di studio. Gli abitanti vengono invitati a indi-
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Giovanna Regalbuto
viduare su di esso gli interventi che ritengono necessari, attraverso l’utilizzo di apposite cartelle
preconfezionate recanti indicazioni in merito a interventi migliorativi (per esempio un parco giochi,
un campo da golf, un’aiuola, un parcheggio). Alla fine della giornata, il facilitatore raccoglie le
cartelle distribuite nei vari punti del plastico, oggetti delle preferenze dei cittadini, e rileva l’eventuale presenza di posizioni conflittuali. Il superamento delle discrepanze di opinioni, attraverso
delle tecniche scelte dal coordinatore, porta all’individuazione di un progetto condiviso descritto
dalle carte che rimangono all’interno del modellino. Il plastico ha lo scopo di accattivare l’interesse
dei partecipanti, fare in modo che i partecipanti acquistino una maggiore consapevolezza nella
percezione degli spazi urbani, e garantisce che tutti possano partecipare al processo progettuale,
esprimendo le loro opinioni liberamente e in maniera anonima senza essere condizionati dal giudizio degli altri. È proprio la centralità dell’azione rispetto alla parola, particolarità della tecnica,
a garantire il coinvolgimento anche di coloro che si inibiscono a parlare in pubblico.
C. Tecniche basate sulla spontaneità
! Open Space Technology: inventata dallo studioso americano di scienza delle organizzazioni
Harrison Owen, nella metà degli anni Ottanta, prende spunto dalla preferenza delle persone che
partecipano alle conferenze per i momenti dedicati al coffee break. I partecipanti, disposti a cerchio,
apprendono nella prima mezz’ora le modalità della conferenza. Basata sulla metodologia OST, i
seminari non prevedono relatori; chiunque dei partecipanti può proporre un tema, alzandosi in
piedi, e si assume il compito di fornire il resoconto della discussione. Una volta conclusa la fase
di proposta dei temi si aprono le sessioni di lavoro;
! Laboratorio di quartiere: teorizzato da Dioguardi negli anni Ottanta, più che una metodologia
rappresenta un luogo d’incontro di operatori pubblici, privati e attori locali con la mediazione di
un facilitatore. Sono pensati come “luoghi di riflessione e di costruzione di interessi comuni, non
come strumenti per definire scelte o decisioni a maggioranza”;$%
! Incontri di scala: l’obiettivo consiste nel conoscere le problematiche relative alle manutenzioni di
parti comuni, le difficoltà dell’abitare e della convivenza tra gli abitanti, ed è una pratica che costituisce uno strumento di ascolto attivo assieme a quello di simulazione progettuale.
6.3. Tecniche per la risoluzione dei conflitti
! Conflictum Spectrum: tecnica elaborata dal Berghof Center di Berlino, consente ai partecipanti di
capire il senso delle posizioni assunte dagli altri e di avere un’idea precisa su quanti condividono
le stesse opinioni. Riunite tutte le persone in una stanza, si invitano coloro che sostengono una
prima soluzione a occupare un preciso angolo della sala, così come quelli che sposano l’altra a
spostarsi in quello opposto. Il facilitatore precisa l’esistenza di varie posizioni intermedie tra quelle
estreme e divide i partecipanti in tre gruppi, in base alle posizioni assunte. Ogni gruppo è invitato
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
75
Ivi, p. 93.
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Capitale sociale e progetto città
a esplicitare, in venti minuti, punti di forza e di debolezza della propria posizione e a riferirli in
un momento successivo nella seduta plenaria. Conclusa la fase di discussione, viene chiesto ai
partecipanti di ricollocarsi lungo lo spettro e, nel caso in cui qualcuno avesse cambiato idea, lo si
invita a spiegarne le motivazioni. Si prosegue fino a quando tutti i partecipanti comprendono le
ragioni degli altri e possibilmente si raggiunge una soluzione condivisa.
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