emile durkheim el `indagine scientifico sociale prof .ssa simona

“EMILE DURKHEIM
E L’INDAGINE SCIENTIFICO SOCIALE”
PROF.SSA SIMONA IANNACCONE
Università telematica Pegaso
Emile Durkheim e l’indagine scientifico sociale
Indice
1
Integrazione della dimensione teorica con la ricerca empirica -------------------------------------------------------- 3
2
I “fatti sociali” ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5
3
Il “Suicidio”---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 7
Riferimenti bibliografici ------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 13
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Emile Durkheim e l’indagine scientifico sociale
1 Integrazione della dimensione teorica con la
ricerca empirica
L’opera di Èmile Durkheim (1858- 1917), sociologo francese
è stata cruciale nella
formazione della sociologia e dell’antropologia. Egli è considerato uno dei grandi classici del
pensiero sociologico per il suo notevole contributo allo sviluppo della nuova sociologia come
scienza autonoma.
L’apporto centrale del pensiero complessivo di Durkheim consiste nell’insistenza con cui
egli ha affermato che, nello studio della società, i fenomeni sociali vanno considerati come una
realtà sui generis e va pertanto evitata qualsiasi forma di riduzionismo: in tal senso, Durkheim
rifiutò ogni interpretazione di carattere biologico e psicologico per centrare la propria attenzione
sulle cause determinanti di carattere socio-strutturale dei problemi sociali dell’umanità. Non aveva
la vocazione del filosofo tradizionale; la filosofia, gli sembrava troppo lontana dai problemi della
vita del suo tempo. Egli voleva dedicarsi ad una disciplina che avrebbe dovuto contribuire a chiarire
le grandi questioni morali che travagliavano il suo tempo e a risolvere i problemi della società a lui
contemporanea. Decise di dedicarsi allo studio scientifico della società, con l’obiettivo, che
considerava imperativo, di costruire un sistema sociologico su basi scientifiche, non fine a se stesso,
ma mezzo per la guida morale della società. Da tale obiettivo Durkheim non si allontanò mai.
Per tutta la vita egli seguì con passione i problemi morali del proprio tempo; considerò
compito essenziale della sua esistenza il contribuire alla rigenerazione morale della nazione
francese a cui egli era così profondamente legato, ma per ottenere tali obiettivi, si rifiutò sempre di
ricorrere a compromessi. Quando si trattò di intervenire direttamente nella politica attiva, si impose
un principio di autolimitazione: secondo il suo austero codice morale, uno scienziato sociale poteva
arrogarsi il diritto di intervenire nei problemi della società soltanto se la sua ricerca scientifica
avesse prodotto risultati tali da ottenere la fiducia dell’opinione pubblica. Voleva edificare una
scienza sociale che potesse servire da fondamento all’azione pubblica ma non era convinto del fatto
che la ricerca sociologica avesse già compiuto progressi tali da poter consentire alle scoperte
realizzate in campo sociologico di essere la base per una specifica legislazione.
Fornendo i principi essenziali dell’analisi strutturale e funzionale nella sociologia e una
critica pienamente pertinente ai metodi psicologistici nello studio della società, introducendo
concetti fondamentali come quello di “anomia”, di “integrazione sociale” e di “solidarietà
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organica”, Durkheim ha reso alla moderna sociologia un contributo che può essere paragonato solo
a quello del suo contemporaneo tedesco, Max Weber.
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2 I “fatti sociali”
Se si vuole “fare sociologia” bisogna, secondo Durkheim, fissare anzitutto l’oggetto di tale
scienza e strutturarne in maniera rigorosa il metodo. Perciò posto che la sociologia abbia come
oggetto i “fatti sociali”, essi hanno caratteri e cause determinanti specificamente sociali e non sono,
pertanto, riconducibili a spiegazioni di livello biologico o psicologico: essi sono esterni agli
individui, considerati come entità biologiche e persistono nel tempo, mentre i singoli individui
muoiono e sono da altri sostituiti. La novità della sua impostazione metodologica consiste proprio
nel sottolineare la natura sovra individuale dei fatti sociali: la società è dotata di regole proprie, che
non possono essere indagate attraverso il metodo scientifico galileiano o newtoniano, ma vanno
studiate considerando la realtà sociale una realtà a sé. «Quando adempio ai miei compiti di fratello,
di coniuge o di cittadino, scrive Durkheim, quando onoro gli impegni che ho contratto, io eseguo
dei doveri che sono definiti fuori di me e dei miei atti, nel diritto e nei costumi. Proprio quando
sono d’accordo con i miei sentimenti più profondi e ne sento interiormente la realtà, questa non
cessa di essere oggettiva; poiché i miei doveri non sono io ad averli fatti, ma li ho ricevuti con
l’istruzione». «La caratteristica essenziale dei fatti sociali consiste nel potere che essi hanno di
esercitare dall’esterno una pressione sulle coscienze degli individui» e «un fatto sociale si riconosce
dal potere di coercizione esterno che esso esercita o è suscettibile di esercitare sull’individuo»1, è
dunque la coercizione o sanzione (contrainte) ai voleri dell’individuo che istituisce il fatto sociale.
D’altra parte, una società si manifesta come un “tutto”. Non è il risultato della somma di
individui o di gruppi: è un luogo in cui le norme sono funzione dell’interdipendenza delle sue
componenti (olismo). Si può così valutare la normalità o il carattere patologico di un fatto sociale
soltanto riportandolo al proprio contesto, alla tipicità esibita dalla società osservata in un periodo
dato della propria evoluzione strutturale. Di più: ogni società è un insieme di “fatti morali”, una
combinazione sui generis di istituzioni.
Pertanto, le due caratteristiche fondamentali del fatto sociale sono quelle della esteriorità e
della coercitività a fronte della sfera interna e di una sorta di libertà cristallina della coscienza
individuale, anche se la costrizione sociale non la esclude necessariamente. Da ciò deriva che i fatti
sociali per eccellenza sono per Durkheim quelle pratiche credenze costituite, cristallizzate, in
primis, perciò quei fenomeni istituzionalizzati alla cui base c’è una produzione e circolazione di
regole come i sistemi giuridici e morali, quelli religiosi, quelli di tipo organizzativo, politico,
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finanziario e così via. Le costrizioni, sia sotto forma di legge sia sotto quella di costume, entrano in
azione ogni qualvolta le esigenze sociali stiano per essere violate. Tali sanzioni si impongono agli
individui, orientandone e indirizzandone desideri ed inclinazioni. Un fatto sociale può
conseguentemente essere definito come «ogni modo di fare, più o meno fissato, capace di
esercitare sull’individuo una costruzione esterna»2.
I fatti sociali sono da considerare cose simili alla realtà naturale e in quanto tale:
1.
Hanno una propria realtà indipendente dall’osservatore.
2.
Hanno un’unità conoscibile solo a posteriori
3.
Esistono indipendentemente dalla volontà umana
4.
Si osservano solo dall’esterno
Sebbene nella sua prima opera Durkheim avesse definito i fatti sociali in base ai loro
caratteri di esteriorità e di coercitività, concentrando il proprio interesse principale sul
funzionamento del sistema giuridico, in seguito, fu indotto a mutare in modo considerevole il
proprio punto di vista. Nella maturità Durkheim sottolineò che i fatti sociali e, più in particolare, le
regole morali, riescono a svolgere un’effettiva funzione di guida e di controllo della condotta
soltanto nella misura in cui essi, pur continuando ad essere dotati di un’esistenza autonoma rispetto
agli individui, sono da questi interiorizzati nelle loro coscienze. Secondo tale formulazione, la
costrizione non é tanto un’imposizione di un controllo esterno sulle volontà individuali, quanto
l’obbligo morale di seguire una regola: in questo senso la società «oltrepassa le coscienze
individuali, è nello stesso tempo immanente»3. Durkheim tentò allora di studiare i fatti sociali non
soltanto come fenomeni esterni a noi, come «cose», ma anche come fatti che l’attore e lo scienziato
sociale possono arrivare a conoscere.
Durkheim sostenne che quando gli individui, interagendo tra loro, costituiscono una realtà
che non può essere spiegata in base ai fattori puramente psicologici dei singoli attori, si è in
presenza di fenomeni sociali. Egli si interessò ai modi di essere dei gruppi e alle loro strutture, non
alle caratteristiche specifiche dei loro componenti. Si concentrò su problemi quali la coesione o la
mancanza di coesione di specifici gruppi religiosi, non sui tratti individuali dei loro credenti.
Durkheim dimostrò che le proprietà di tali gruppi sono specifiche ed autonome rispetto alle
caratteristiche individuali e devono perciò essere studiate nel modo ad esse conveniente.
i E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, introduz. di C. A. Viano, Milano, Comunità, 2001
2
Ibid , p. 33
3
E. Durkheim, Sociologia e filosofia, in Le regole del metodo sociologico, cit. p. 182
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Il “Suicidio”
Certamente però con Durkheim la sociologia diventa veramente tale, cioè scienza sociale
empirica soprattutto nella sua ricerca sul “suicidio”. Nell’opera intitolata “Il Suicidio” (1897),
l’autore conduce uno studio su basi statistiche (metodo totalmente nuovo nel secolo XIX) sul
delicato e quanto mai individuale fenomeno dell’autosoppressione, sottolineando come la mancanza
d’integrazione degli individui nella società fosse una delle cause fondamentali del suicidio, che a
sua volta, da mero fatto individuale, diviene vero e proprio fatto sociale. Durkheim parte
dall’osservazione che la nozione di suicidio è difficile da definire perché esplicita un fenomeno le
cui cause possono essere molto diverse. Comparando l’evoluzione dei tassi di suicidio dei diversi
paesi, Durkheim stabilisce che essi dipendono dai gruppi sociali. Conclude che il suicidio è un fatto
sociale, indipendentemente da ogni decisione individuale.
Restavano ancora da individuare i fattori sociali causa del fenomeno. Dedicandosi ad analisi
che da allora si sono sempre più perfezionate e che oggi chiamiamo a più variabili, Durkheim isola
e considera separatamente tutti i diversi fattori: sesso, stato civile, religione, per misurarne
l’incidenza causale. È anche il primo ad aver utilizzato la “variabile interveniente”, cioè il fattore
non compreso in statistica, ma che si sospetta agisca nel fenomeno oggetto di studio, e di cui
occorre trovare un indice rivelatore misurabile. È il caso ad esempio della “coesione sociale”, che
non appare nei documenti ufficiali e che Durkheim ricerca attraverso i tassi di divorzio, ecc.
Per spiegare le costanti differenze esistenti tra i tassi dei suicidi in gruppi religiosi o
occupazionali diversi, Durkheim studiò il carattere di tali gruppi, il loro modo di realizzare al
proprio interno la coesione e la solidarietà. Egli giunse alla conclusione che il concetto di coesione
o di integrazione sociale poteva spiegare talune particolari differenze nelle percentuali dei suicidi
dei diversi contesti sociali. I gruppi differiscono tra loro nel grado di integrazione, nel senso che
mentre alcuni gruppi possono esercitare un saldo dominio sulle coscienze dei singoli membri,
integrandoli pienamente al loro interno, altri consentono una notevole libertà di azione. Durkheim
dimostrò che il suicidio varia in modo inversamente proporzionale al grado di integrazione, vale a
dire che in momenti di grande integrazione ci sono pochi suicidi e viceversa. Gli individui,
pienamente integrati in un gruppo, sono, in misura abbastanza consistente, preservati dal rischio di
incorrere in quelle frustrazioni e in quelle tragedie che sono proprie del destino umano, risultando
così meno probabile per essi il ricorso a quel comportamento estremo che è il suicidio.
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Per Durkheim, un fondamentale fattore di integrazione è il grado di interazione che i vari
componenti stabiliscono tra loro. Per esempio, è probabile che la partecipazione ai riti, comportando
per i membri dei gruppi religiosi il coinvolgimento in attività comuni, stabilisca tra loro un più
stretto legame; così, in un altro settore, l’attività lavorativa relativa a mansioni differenziate seppur
complementari, collega i lavoratori al gruppo di lavoro. Il grado di integrazione, cioè il grado di
accettazione da parte dei membri dei valori e delle credenze comuni, risulta dunque connesso con la
frequenza dei rapporti di interazione prestabiliti. Nelle comunità in cui esiste un alto grado di
consenso si ha un comportamento deviante inferiore a quello presente nei gruppi in cui il consenso
è attenuato.
Qualora si crei una frattura tra valori culturali, che rappresentano il collante
dell’integrazione sociale, e azioni sociali innovative che mettono in discussione quei valori
tradizionali, può presentarsi una situazione di anomia.
A Durkheim appartiene la prima compiuta definizione del concetto di anomia come
situazione di crisi del sistema di norme e valori capace di garantire la coesione di un aggregato
sociale. Utilizza questo termine nel suo libro sulle cause del suicidio per descrivere una condizione
di malessere negli individui, caratterizzato dall’assenza o diminuzione degli standard o valori e
associato al sentimento di alienazione e smarrimento. La crisi del sistema di norme soprattutto
religiose e delle norme di condotta in generale, conduce alla distruzione e alla diminuzione
dell’ordine sociale: l’assenza di regole e di leggi non può garantire l’integrazione sociale. Una crisi
a cui sarebbero particolarmente esposte proprio quelle società della modernità industriale
caratterizzate da un’accentuata divisione del lavoro e specializzazioni delle funzioni. Questo stato
conduce l’individuo ad avere paura e ad essere insoddisfatto, ciò che può condurlo fino al suicidio.
L’anomia è infatti molto diffusa quando la società circostante subisce dei cambiamenti
nell’economia, indifferente se in meglio o in peggio (ad esempio, il tasso di suicidio
tendenzialmente si alza in periodi di grave crisi economica e in periodi di grande prosperità
economica) e più generalmente quando si instaura uno scarto rilevante tra le teorie, le ideologie e i
valori comunemente diffusi da un lato e la pratica nella vita quotidiana nell’altro.
L’anomia non si riferisce ad uno stato mentale, ma ad una proprietà della struttura sociale; è
specifica di una condizione in cui i desideri individuali non trovano più una regolamentazione nelle
norme comuni e dove, pertanto, gli individui sono lasciati senza una guida morale nel
perseguimento dei loro obiettivi.
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Sebbene una situazione di completa anomia, o di totale assenza di norme, sia empiricamente
impossibile, le società possono essere caratterizzate da un grado maggiore o minore di
regolamentazione normativa. Inoltre, all’interno di qualsiasi specifica società, i gruppi possono
differire tra loro in relazione al grado di anomia che li contraddistingue. Il mutamento sociale può
produrre anomia sia nell’intera società sia in alcune parti di essa. Le crisi economiche, per esempio,
possono avere conseguenze più rilevanti su coloro che occupano gli strati più elevati della piramide
sociale che sulla popolazione sottostante. Quando un disastro economico spinge bruscamente certi
individui verso una situazione inferiore a quella occupata fino allora, quanti ne sono colpiti
sperimentano nella loro esistenza una perdita di quei parametri normativi, di quelle certezze morali
e di quelle aspettative abituali non più vivificate dal gruppo cui essi appartenevano. Analogamente,
un improvviso accrescimento di potenza e di fortuna, comportando per taluni individui un subitaneo
processo di mobilità ascensionale, li priva, nel loro nuovo stile di vita, del necessario sostegno
sociale. Qualsiasi rapido movimento nella struttura sociale, che sconvolga la precedente rete di
rapporti di cui gli stili di vita sono intessuti, porta con sé una possibilità di anomia.
Durkheim sosteneva che il benessere economico, eccitando i desideri umani, reca con sé il
pericolo di condizioni anomiche perché «ci dà l’illusione di far capo esclusivamente a noi stessi»,
mentre «la povertà protegge dal suicidio in quanto è di per sé un freno»4. Poiché la soddisfazione
dei desideri umani dipende dalle risorse di cui si dispone, i poveri, possedendo soltanto mezzi
limitati, sono costretti ad autoregolarsi e sono quindi meno soggetti all’anomia.
Durkheim, in tutto il suo programma di studio, in tutta la sua opera, ebbe come problema
dominante quello di ricercare le origini dell’ordine e del disordine sociale, di individuare le forze
che conducono, all’interno del corpo sociale, alla costruzione di una salda normativa o al venir
meno di essa.
Dopo aver scoperto che certi tipi di suicidio possono essere spiegati con il ricorso al
concetto di anomia, Durkheim fu in grado di utilizzare il suicidio anomico come indice del grado di
integrazione sociale, altrimenti non misurabile. Egli infatti ha così proceduto nel suo ragionamento:
non esistono società in cui il suicidio non si verifichi; inoltre molte società mostrano, nel lungo
periodo, tassi di suicidio sostanzialmente costanti. Ciò indica che i suicidi possono essere
considerati un fatto «normale», cioè un evento non patologico.
4
E. Durkheim,. Il suicidio: studio di sociologia, introd. di R. Guiducci; trad. e analisi degli studi successivi di R.
Scramaglia, Milano, 2002
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Durkheim, sulla base del rapporto tra il suicida e la società, distinse vari tipi di suicidio.
Quando gli uomini diventano «distaccati dalla società»5, quando essi sono abbandonati ai loro
impulsi e liberati dai vincoli per mezzo dei quali precedentemente erano legati ai loro simili,
tendono al suicidio egoistico (esempio: il suicidio d’amore) o individuale, è motivato da un eccesso
di individualismo: la persona si sente estranea al proprio gruppo, e il dislivello fra i propri desideri e
la loro possibilità di realizzazione nell’ambito della società diventa a poco a poco incolmabile; gli
unici obiettivi non vanno al di fuori di noi stessi. L’io prevale sulla vita collettiva, vi è uno
smisurato sviluppo dell’ego, il legame che unisce l’uomo alla vita si allenta proprio perché il
legame che lo unisce alla società si è a sua volta allentato.
Quando le regole sociali che guidano la condotta individuale si affievoliscono, non
riuscendo così a reprimere né a condizionare le inclinazioni umane si è esposti al suicidio anomico,
tipico delle società moderne, la cui frequenza tende ad aumentare in periodi di crisi economica o,
inaspettatamente, in fase di strema prosperità, a causa della mancanza di riferimenti, norme e valori
socialmente condivisi. Dal punto di vista psicologico, questo tipo di suicidio, è motivato
generalmente dalle delusioni e dalle frustrazioni causate dai rapporti sociali.
Ci troviamo di fronte ad un tipo di suicidio differente dagli altri, perché differente è,
appunto, il ruolo della società, la cui peculiarità sta nel disciplinare l’individuo.
Oltre al tipo di suicidio egoistico e di quello anomico, Durkheim tratta del suicidio
altruistico, tipico delle società a solidarietà meccanica, basato sul sacrificio di sé motivato da una
totale identificazione con i valori del gruppo (oggi noi potremmo ascrivere in questa categoria il
suicidio del kamikaze). Il suicidio altruistico si riferisce a quei casi in cui la spiegazione del suicidio
risiede in un eccesso di conformità agli imperativi sociali da parte dei singoli individui, cioè in una
situazione opposta a quella caratterizzata da una mancanza di conformità. Espressione di forte
coesione sociale dove l’io è completamente annullato; l’individuo non ha scelta, è soggiogato alla
sua società che lo tiene troppo legato a sé, e preme per condurlo a distruggersi.
Durkheim sostiene in effetti che il rapporto tra i tassi di suicidio e la normativa sociale è
curvilinea nel senso che i più elevati tassi di suicidio sono connessi sia ad un’eccessiva adesione
alle norme sociali. In quest’ultimo caso le richieste della società sono così importanti che il livello
dei suicidi varia in modo direttamente e non inversamente proporzionale al grado di integrazione.
Ad esempio, nel caso della normativa hindu, che impone alle vedove di suicidarsi, secondo
il rito, sulle pire funerarie dei loro mariti, l’individuo ha così fortemente interiorizzato le richieste
5
Ibid, p. 261
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della società che è disposto a togliersi la vita quando le norme lo richiedano. In ordine agli alti tassi
di suicidio che si verificano tra i militari nelle società moderne, Durkheim, sulla base di dati
statistici, dimostra che, poiché il tasso del suicidio risulta più elevato per gli ufficiali che per i
soldati semplici, essi, lungi dal poter essere spiegati in relazione alle privazioni proprie della vita
militare sopportate in maggior misura dai livelli inferiori, si spiegano, nel caso degli ufficiali, con il
fatto che questi ultimi seguono un codice di onore militare che impone loro un’abitudine passiva
all’ubbidienza, in base alla quale essi sono spinti a sottovalutare la propria vita. Durkheim è portato,
in tali casi, a far riferimento a gradi troppo deboli di individualizzazione, che egli contrappone agli
eccessi di individualizzazione o di mancanza di integrazione, che spiegano, nella sua concezione, le
altre forme principali di suicidio.
Egli è stato spesso accusato di avere una filosofia eccessivamente anti-individualistica, che,
come tale, è essenzialmente volta a frenare l’impulso individuale e ad indirizzare verso i fini della
società le energie dei singoli individui.
Sebbene non si possa negare la presenza di tali tendenze nell’opera di Durkheim, il modo di
condurre l’analisi sul suicidio altruistico mostra come egli stesse tentando non di reprimere le
tensioni individuali, ma piuttosto di stabilire un punto di equilibrio tra le esigenze degli individui e
quelle della società.
Al centro della teoria di Durkheim è, insomma, una visione complessa dell’evoluzione
sociale, fuori delle ingenuità e degli schematismi della vecchia sociologia positivistica che tende a
ricondurre al fatto sociale la stessa coscienza individuale. La società si presenta quindi,
nell’approccio di Durkheim, come un insieme superindividuale, a forte connotazione etica e in cui
la dimensione delle norme e delle istituzioni ha un ruolo centrale. Egli farà delle istituzioni il suo
oggetto primario di studio perché sono particolarmente obiettivabili, distinguono le società umane
dalle società animali e attestano l’unità del tipo umano.
Interrogandosi sui fondamenti del consenso sociale che stabilizzano le società, fin dalla sua
opera più famosa La Divisione del lavoro sociale (1893), Durkheim intende dimostrare che
l’anomia crescente nelle società moderne industriali non è una mera fatalità ma è da mettere in
stretta connessione con l’instaurazione, modifica e sviluppo di una morale corrente, di un sistema di
valori condiviso e con la loro degenerazione. A tale scopo Durkheim studia i tipi principali di
stratificazione sociale in funzione del loro modo di determinare la coesione sociale.
Fondamentale è a tal proposito la nozione di solidarietà, ovvero la coscienza sempre più
interiorizzata che gli individui hanno di convivere in società e di sposarne i valori fondativiAttenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
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aggregativi. Secondo Durkheim, con una legge di complessità strutturale crescente, sotto l’influenza
del fattore demografico, le società passano dalla prevalenza della solidarietà “meccanica” a quella
della solidarietà “organica”. Si ha una prevalenza della prima nella misura in cui «le idee e le
tendenze comuni a tutti i membri della società oltrepassano in numero e in intensità le idee e le
tendenze che appartengono personalmente a ciascuno di essi… Questa solidarietà può dunque
aumentare soltanto in ragione inversa alla personalità»6. In altri termini, la solidarietà meccanica
prevale dove le differenze individuali sono minime e i membri della società sono resi simili dalla
loro dedizione al bene comune. Ciò che teneva unita la società era la combinazione di un semplice
sistema di credenze religiose, leggi repressive e rituali comunitari. Le credenze comuni avevano il
compito di mantenere la solidarietà sociale. La solidarietà organica, al contrario, anziché
svilupparsi in funzione delle somiglianze, deriva dalle differenze esistenti tra gli individui: è il
prodotto della divisione del lavoro (tipica delle società industriali), poiché con l’accrescimento della
differenziazione nelle funzioni in una società si determinano differenze crescenti tra i suoi
componenti.
Simbolo evidente delle due forme di solidarietà è, per Durkheim, il diritto. Al primo tipo di
società (fondata sull’integrazione perfetta di tutti i membri partecipanti) caratterizzata dalla
solidarietà meccanica, corrisponde un tipo di diritto cosiddetto repressivo, che si esplica attraverso
un sistema di pene e di sanzioni pressoché meccanico; mentre, invece, nel secondo tipo di società
più complessa, caratterizzata dal libero scambio, la circolazione dei beni, prevale un diritto di tipo
“restituivo” (o privato). Più specificamente per diritto “restitutivo”, Durkheim intende un sistema
definito che comprende il diritto domestico, il diritto contrattuale, il diritto commerciale, il diritto
delle procedure, il diritto amministrativo e costituzionale.
Le relazioni regolate da tali diritti sono completamente diverse dalle precedenti: esse
esprimono un concorso positivo, una cooperazione che deriva essenzialmente dalla divisione del
lavoro. Durkheim riconosce alla divisione del lavoro soprattutto un carattere morale. Infatti in virtù
di essa l’individuo ridiventa consapevole del suo stato di dipendenza nei confronti della società e
del fatto che da questa provengono le forze che lo trattengono e lo frenano. In una parola,
diventando la fonte eminente della solidarietà sociale, la divisione del lavoro diventa anche la base
dell’ordine morale.
6
E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Einaudi, 1999
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