La comunicazione della fede è qualcosa di assolutamente semplice: mostrarsi e dirsi come si è. Allora nascono le domande dell’altro, alle quali forse non si è in grado di rispondere. Ma se in lui ci sarà l’interesse, potrà aprirsi alla grazia. di Severino Dianich ANSA / CLAUDIO PERI S ono rimasto assai sorpreso leggendo ciò che Jean-Luc Moens riferiva all’assemblea del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa, a proposito delle risposte a un questionario inviato agli episcopati europei: nell’impostare una “nuova evangelizzazione” si soffrirebbe della mancanza di una definizione del concetto (Il Regno 2011/17, pp. 547-551). Sarebbe incredibile che nella Chiesa non si sapesse cosa sia l’evangelizzazione! La difficoltà evidentemente viene da quell’aggettivo: “nuova”. E se rinunciassimo a parlare di vecchia e nuova evangelizzazione e ponessimo a tema semplicemente l’evangelizzazione? Cioè il compito fondamentale della Chiesa, che non è quello di curare se stessa (questa è l’attività pastorale), ma quello di proporre il Vangelo a chi non lo ha mai ricevuto o lo ha rifiutato. Bisogna, infatti, prendere atto che oggi l’Europa non ha più una popolazione totalmente cristiana e, probabilmente, fra qualche decennio non lo sarà più neppure la maggioranza dei suoi abitanti. È ovvio dire che anche i credenti hanno bisogno di essere continuamente evangelizzati, ma questo la Chiesa lo ha sempre fatto. Il “nuovo” vero e proprio è il fatto di avere oggi fra noi molti, uomini, donne e bambini, che non hanno la fede in Cristo. Dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Europa sta registrando il fenomeno massiccio delle immigrazioni di persone provenienti dai Paesi più diversi, che danno alla nostra società un volto multicolore, sia dal punto di vista culturale e linguistico, sia dal punto di vista religioso. «Nuestras Indias están aquí»: oggi è ben più vero di allora questo detto, con cui alcuni pastori illuminati ammonivano i cristiani della Spagna del Seicento, impegnati nelle conquiste di nuove terre. Oltre alla folta presenza di adulti di altra religione, sta avanzando una nuova generazione di europei che si preannuncia non più cristiana: nel 2008 su 100 bambini nati in Italia 29 non sono stati battezzati. Evangelizzazione senza aggettivi 16 - VITA PASTORALE N. 1/2012 Nessuno poi è in grado di esibire statistiche attendibili su coloro che non si sentono più appartenenti alla Chiesa e coloro che si professano esplicitamente non credenti. Il costume, infine, in pochi decenni, dall’uso della radio e della televisione di trasmettere, il Venerdì santo, solo musica sinfonica è passato alle contestazioni contro la costruzione del presepio, a Natale, nelle scuole pubbliche. Ben più impressionante è la valanga di trasformazioni nella concezione e nella pratica della vita familiare, con le convivenze che pare ormai superino il numero dei matrimoni e con il numero dei matrimoni civili che sta superando quello dei matrimoni celebrati in chiesa. Il nuovo dell’evangelizzazione Il “vecchio” dell’opera di evangelizzazione in Europa è la trasmissione della fede di generazione in generazione garantita dalle famiglie e sorretta dal costume civile, dalla legislazione e dalle strutture dello Stato. Ne conseguiva che le istituzioni ecclesiastiche non mettevano nei loro programmi, nei confronti dei non credenti, altro che complesse operazioni apologetiche, tese a difendere la fede e la Chiesa dalle loro contestazioni. Trasmettere la fede restava compito di papà e mamma. Il “nuovo”, quindi, non può essere pensato come la restaurazione del “vecchio” ma è l’impegno di riscoprire la bellezza del comunicare la fede a chi non crede in Cristo, cioè dell’evangelizzazione senza aggettivi, che è il compito originario e fondamentale della Chiesa. È quasi incomprensibile che nelle nostre chiese si continui a parlare di evangelizzazione senza avere davanti agli occhi la persona non credente in carne e ossa, invece della vaga figura dei cosiddetti “lontani”. In un convegno di preti, dove il vescovo aveva suggerito per i gruppi di lavoro di porsi il quesito sull’evangelizzazione, come problema distinto da quello della catechesi, ho sentito solo interventi sul tema della catechesi degli adulti. Non credo di andare lontano dal vero pensando che molti, fra gli stessi cattolici praticanti delle nostre parrocchie, potrebbero confessare di non aver mai parlato della propria fede con i colleghi di lavoro e neppure con gli amici più intimi. Gli stessi pastori della Chiesa occupano quasi la totalità del loro tempo nella cura dei credenti, quando non nella coltivazione dei rapporti con i devotissimi. Contro questa prassi sta, inascoltato, il dettato del Vaticano II: «Non basta però che il popolo cristiano [...] faccia dell’apostolato con l’esempio: esso è costituito ed è presente per annunziare il Cristo con la parola e con l’opera ai propri connazionali non cristiani e per aiutarli ad accoglierlo nella forma più piena» (Ad gentes 15). Non è meno categorico il Codice di diritto canonico, per il quale l’evangelizzazione è il «dovere fondamentale del popolo di Dio» (can. 781). Come comunicare la fede Si tratta di un’impresa prettamente individuale che si gioca sui rapporti interpersonali. I grandi eventi, così come l’attività dei media, raggiungono tutti e nessuno. Possono servire a suscitare una curiosità, a sollevare una domanda. Ma la fede è un fatto troppo intimo perché possa essere proposta efficacemen- te fuori di un rapporto interpersonale, nel quale si fa esperienza di una comunicazione di amore reciproco, nell’assoluto rispetto delle convinzioni e della libertà di ciascuno. Quando, a proposito dei non credenti, parliamo di nuova evangelizzazione – osserva Benedetto XVI in un discorso del 21 dicembre 2009 – «queste persone forse si spaventano». È che pesa sulla memoria dell’Europa la vecchia storia dell’intolleranza praticata dai cristiani, così come produce reazioni di difesa la percezione, oggi assai diffusa, che la Chiesa intenda riprendere una sua egemonia culturale ed etica sulla società. Solo la certezza che chi gli parla della sua fede in Gesù non intende fare altro che comunicare una propria esperienza, la più decisiva e la più esaltante, senza aspettarsi niente da lui, può aprire il non credente all’ascolto cordiale e interessato. Le istituzioni ecclesiastiche, come le diocesi e le parrocchie, le comunità religiose e le associazioni di laici non possono sostituire l’opera dei singoli, ma devono creare delle occasioni, che servano a dare ai fedeli entusiasmo e gioia per un’impresa che poi li impegnerà ogni giorno, nei loro rapporti quotidiani con i famigliari, gli amici, i compagni di scuola e di fabbrica, i colleghi di lavoro. Per evangelizzare non è necessario, come per chi fa catechesi, avere una buona istruzione dottrinale. Non è necessario essere dei perfetti cristiani, perché nessuno lo è. È necessario solo manifestarsi, negli atteggiamenti e nei rapporti, come cristiani e, quando se ne presenti l’opportunità, dire qualcosa della propria fede in Dio e di come lo si possa trovare nell’incontro con Gesù. La comunicazione della fede è qualcosa di assolutamente semplice: mostrarsi e dirsi come si è. Allora nascono le domande dell’altro, alle quali forse non si sarà in grado di rispondere. Ma se in lui si sarà acceso un interesse, egli potrà aprirsi alla grazia dello Spirito, perché è lo Spirito Santo, non siamo noi, a donare la fede. WIKIPEDIA.ORG Dire la fede a partire dalla propria esperienza Cristoforo Colombo tocca terra a San Salvador il 12.10.1492 con soldati e missionari. In alto: Benedetto XVI rende omaggio alla Madonna di piazza Mignanelli, Roma, 8.12.2011. Evangelizzare per amore Tre frati con una ventina di amici, nella mia città, ogni tanto si mettono sul sagrato di una chiesa centrale, dove ogni sera si radunano, fino a notte, migliaia di giovani, e poi si diramano a incontrarne personalmente alcuni e invitarli semplicemente a passare un momento in chiesa per un pensiero o, se vorranno, per una preghiera. A chi entra viene proposto di scrivere qualcosa su un foglietto. Nulla di più. Nessuna chiamata ad aggregarsi, a partecipare a questo o quell’incontro, a entrare in questa o quella associazione, a venire a messa o a confessarsi. Ebbene, in genere sono oltre quattrocento i ragazzi che accolgono l’invito. È solo indicazione di uno stile. L’evangelizzazione non è conquista o riconquista di adepti. La Chiesa non è un partito, non ha bisogno del consenso degli elettori per vincere una qualche sua battaglia. Solo semplicità, povertà e inermità sono capaci di ornarla della forma evangelii. Del resto solo da questo atteggiamento l’uomo scanzonato dei nostri tempi può restare affascinato. Non si comunica la fede per amore di sé stessi o della Chiesa, ma solo per amore dell’interlocutore. Non solo, ma se c’è un ostacolo che oggi rende infeconda l’evangelizzazione, è proprio la sensazione, per falsa che possa essere, che la Chiesa vi si impegnerebbe perché intende ripristinare la sua vecchia egemonia sulla società, determinarne le strutture e le leggi, dominarne il costume. Infatti, mai è stato questo lo stile di Gesù. l VITA PASTORALE N. 1/2012 - 17