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Il Margine 33 (2013), n. 4
Il grado di ricezione delle istanze della “Chiesa dei poveri” al Concilio
fu dunque parziale e sicuramente lasciò insoddisfatte molte richieste del
movimento “Chiesa dei poveri”. Tra quelle recepite, si possono indicare le
istanze teologiche sulla povertà di Cristo e della Chiesa, pur senza farle diventare il centro tematico del Concilio e senza arrivare a definire la povertà
come “nota” della Chiesa. Anche alcune proposte di rinnovamento per una
Chiesa evangelicamente “povera e serva” furono parzialmente recepite, ma
la prospettiva del Concilio sulla povertà della Chiesa rimase prevalentemente individuale-esortativa e non si tradusse chiaramente in decisioni di usare i
mezzi di Gesù povero, decisioni che avrebbero portato a deporre ogni vestigio di ricchezza e di potere e a considerare i propri beni come patrimonium
pauperum. I problemi dell’uso dei beni della Chiesa e dell’esercizio del potere – inteso anche come sostegno reciproco con poteri terreni e richiesta di
privilegi al potere politico – nonostante le affermazioni conciliari nette su
questo punto (cfr. Gaudium et Spes 76), rimasero e rimangono aperti. Sarebbero stati necessari più chiarezza e coraggio, forse si sarebbe potuta iniziare
allora una vera riforma della Chiesa evangelicamente informata allo spirito
di povertà. Ma il Concilio non seppe formulare in modo soddisfacente
quell’attenzione privilegiata e prioritaria ai poveri.
Del movimento per la “Chiesa dei poveri” rimangono testimonianze
importanti. In particolare un documento coraggioso, concreto, di alto valore
cristiano, intitolato Appunti sul tema della povertà nella Chiesa – Rapporto
al papa (sopra citato) del cardinal Lercaro, redatto con l’aiuto di Dossetti, di
cui si ritrova traccia nell’enciclica Populorum progressio di Paolo VI
(1967). Negli anni successivi al Concilio si videro però i frutti dell’impegno
del movimento per la “Chiesa dei poveri”: soprattutto nella Teologia della
Liberazione, che prese le mosse dal Concilio, sviluppandone intuizioni e valorizzando le idee del movimento, nei documenti di Medellin e Puebla degli
episcopati latinoamericani e nelle comunità di base. Importanti furono anche le affermazioni del terzo sinodo dei vescovi del 1971, che ebbe come
tema La giustizia nel mondo.
Lo spirito della povertà evangelica, pur sotterraneo, rimane vivo e riaffiora in mille modi nella Chiesa e nel mondo. Si spera ora che il nuovo papa
Francesco, consapevole delle tenacissime resistenze che incontrerà, riprenda
le istanze della “Chiesa dei poveri”, cercando di applicarne almeno qualcuna
sia sul piano della riforma istituzionale e pastorale della Chiesa sia sul piano
dell’opzione preferenziale per i poveri su scala planetaria.
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La Chiesa di Francesco
FULVIO DE GIORGI
R
ecentemente, com’è noto, l’Arcivescovo di Buenos Aires è stato traslato – dal Conclave – all’arcidiocesi di Roma.
Dopo l’esito del Conclave, qualcuno ha cominciato a parlare di Francesco “primo”, ma il p. Lombardi, della Sala stampa vaticana, ha precisato che
il nome del papa è Francesco: sarà considerato primo solo quando ci sarà, e
se ci sarà, un secondo papa Francesco. Non era tuttavia questione di prassi e
non era, dunque, scontato che fosse così: papa Luciani decise di chiamarsi
Giovanni Paolo “primo” (l’ordinale fu inserito, pare, per suggerimento del
card. Siri) e con questo nome, fin dall’inizio, fu annunziato al popolo.
La scelta non ovvia, allora, di papa Francesco ci induce a qualche riflessione. Vi è certo – in questa rinunzia – un’umiltà che consegna perfino il
proprio nome ‘definitivo’ ai successori a venire e perciò lo pone nelle mani
di Dio. Ma c’è anche dell’altro.
La storia moderna ricorda un potente re di Francia, Francesco I, che
contese l’egemonia europea all’imperatore Carlo V: così studiamo nei nostri
manuali di storia. Ma in Spagna non chiamano Carlo d’Absburgo Carlo V,
ma Carlo I, perché fu il primo re di Spagna con questo nome. Carlo insomma è V come imperatore e I come re spagnolo. Il numero ordinale deriva
dalla ‘lista’ nella quale si è inseriti (e dagli eventuali predecessori presenti in
tali liste).
Ora, se è chiaro che papa Francesco sarà, sul piano istituzionale, nella
cronotassi dei papi, Francesco I, tuttavia è pure esplicito che egli abbia comunque scelto il suo nome in riferimento a un grande battezzato del passato
(anche se non in riferimento ad un pontefice del passato). Anche Ratzinger
si era riferito a san Benedetto (alla radicalità della fede benedettina e alle
radici cristiane dell’Europa, della quale san Benedetto è patrono), ma aveva
pure ricordato l’ultimo papa con il nome di Benedetto: e cioè Giacomo Della Chiesa, Benedetto XV, che si era trovato di fronte alla Grande Guerra,
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pronunciando radicali parole di pace (ed era stato accusato di essere filotedesco).
Bergoglio non ha avuto due riferimenti, ma uno solo. Quello di un pontefice Francesco finora non c’era: il nome comincia con lui. E tuttavia il
precedente al quale ha guardato ce l’ha rivelato egli stesso: è Francesco
d’Assisi. Dunque, sul piano carismatico e della Grazia, il papa è Francesco
II.
Peraltro, papa Bergoglio non si è voluto riferire a san Francesco come a
un Fondatore di un Ordine e di una spiritualità: sappiamo che, sul piano personale, essendo egli un gesuita, il ‘suo Fondatore’ è sant’Ignazio di Loyola.
E ignaziana è la sua spiritualità (lo si evince bene dal suo stemma episcopale). Il riferimento a san Francesco d’Assisi è invece e propriamente sul piano
del ministero petrino in quanto tale. È una questione di contenuti, che il papa
Francesco privilegerà nella sua azione pastorale: pace, giustizia per i poveri,
salvaguardia del creato (e legame con l’Italia, di cui san Francesco è protettore).
Ma è anche una questione di forma: la forma francescana, minore, vera
forma Christi. Questo significa: Vangelo puro, senza attenuazioni mondane,
sine glossa; letizia gloriosa nella Croce; povertà come spogliazione, come
kenosi. E questo ci riporta a quello che scrive Paolo nella lettera ai Filippesi
e che è l’architrave – come insegna Dossetti – del magistero ecclesiologico
del Concilio Vaticano II. Dice infatti la Lumen Gentium (8):
«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i
frutti della salvezza. Gesù Cristo “sussistendo nella natura di Dio… spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo” (Fil 2, 6-7) e “per noi da ricco che Egli era si
fece povero” (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria sulla terra,
bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo
infatti è stato inviato dal Padre “a dare la buona novella ai poveri, a guarire quei che
hanno il cuore contrito” (Lc 4, 18), “a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,
10): così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana
debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore,
povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza e in loro intende di servire
a Cristo».
Ecco il programma che lo Spirito – attraverso il Concilio – ha dato alla
Chiesa e che papa Francesco ha ripreso. Qualche volta, in questo cammino
post-conciliare, la Chiesa è sembrata cercare altre strade, ma con risultati
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infelici. E Gesù rivolge, oggi, al secondo Francesco, quello che aveva detto
al primo: «Francesco, va’, racconcia la chiesa, ché vedi ch’ella si distrugge
tutta».
Papa Francesco, che si riconosce secondo, che dunque si mette –
nell’esercizio del ministero petrino, cioè come successore di Pietro – alla
sequela di Cristo, sulle tracce di Francesco d’Assisi, cioè di un laico (o, secondo alcuni, di un diacono permanente, comunque non di un prete), ricorda, ancora, il Vaticano II e quell’ordine che pone il Popolo di Dio prima della gerarchia che è a suo servizio: sì per un ‘magistero’ (da magis, dunque
maggiore), ma in quanto ‘ministero’ (da minus, dunque minore).
Il Sangue versato per voi e per tutti
Quest’anno il 24 marzo, giorno del ricordo del martirio di mons. Romero, è venuto durante l’inizio di pontificato del primo papa latinoamericano.
Che è poi anche il primo papa gesuita. Ma il martirio di Romero, peraltro,
richiama anche quello dei gesuiti salvadoregni: da padre Rutilio Grande a
padre Ellacuria e agli altri docenti, trucidati, dell’Università cattolica del
Salvador.
C’è chi si è chiesto quale sarà il primo santo canonizzato da papa Francesco: qualcuno ha parlato, appunto, di Romero, qualcuno ha ricordato padre Carlos de Dios Murias, torturato e ucciso dalla dittatura militare argentina. In queste richieste vi è un’intuizione evangelica profonda: l’autenticità
della testimonianza del Vangelo si misura dall’amare senza limiti e dal dare
la vita. Come Gesù sulla croce: è la misura dell’Amore Crocifisso. Il centro
è sempre il mistero di Cristo: il sangue versato per noi e per tutti.
Ancora una volta, occorre ricordare l’insegnamento del Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 21):
«Ciò si otterrà innanzi tutto con la testimonianza di una fede viva e matura, vale a
dire opportunamente educata alla capacità di guardare in faccia con lucidità alle difficoltà per superarle. Di una fede simile hanno dato e danno testimonianza sublime
moltissimi martiri. Questa fede deve manifestare la sua fecondità, col penetrare
l’intera vita dei credenti, anche quella profana, col muoverli alla giustizia e
all’amore specialmente verso i bisognosi».
Nella sua spiritualità gesuitica e ignaziana, papa Francesco avrà certo
tante volte pregato con le parole della preghiera Anima di Cristo, che dice
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tra l’altro: «Corpo di Cristo, salvami. Sangue di Cristo, inebriami. Acqua del
costato di Cristo, lavami. Passione di Cristo, fortificami». E aggiunge pure:
«Nelle tue piaghe, nascondimi». Questa preghiera è stata cantata, dopo la
comunione, nella messa con cui il vescovo Francesco ha preso possesso della sua cattedrale al Laterano. E, nell’omelia di quella messa, egli ha detto:
«Gesù invita Tommaso a mettere la mano nelle sue piaghe delle mani e dei piedi e
nella ferita del costato. Anche noi possiamo entrare nelle piaghe di Gesù, possiamo
toccarlo realmente; e questo accade ogni volta che riceviamo con fede i Sacramenti.
San Bernardo in una bella Omelia dice: “Attraverso … le ferite [di Gesù] io posso
succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia (cfr Dt 32,13), cioè gustare
e sperimentare quanto è buono il Signore” (Sul Cantico dei Cantici 61, 4). É proprio
nelle ferite di Gesù che noi siamo sicuri, lì si manifesta l’amore immenso del suo
cuore. (…) Questo è importante: il coraggio di affidarmi alla misericordia di Gesù,
di confidare nella sua pazienza, di rifugiarmi sempre nelle ferite del suo amore. San
Bernardo arriva ad affermare: “Ma che dire se la coscienza mi morde per i molti
peccati? ‘Dove è abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia’ (Rm 5,20)”
(ibid.)».
Certamente si tratta di un invito personale: di una risposta libera del
singolo credente. Ma essa ha pure dei riverberi comunitari decisivi, perché
risponde alla necessità di una spiritualità che possa sorreggere decisioni e
progetti di rinnovamento ecclesiale.
La devozione al sangue di Cristo e alle sue Piaghe, forte nella tradizione francescana, è giunta fino Bonaventura da Recanati, a Muratori, a Rosmini, a Roncalli. E, da cristologica, è diventata pure ecclesiologica, dando
la ‘forma cristica’ alla re-formatio Ecclesiae, alla riforma continua della
Chiesa: le piaghe di una Chiesa crocifissa, le Cinque Piaghe della Santa
Chiesa, da risanare.
Questa è la vera spiritualità della riforma ecclesiale. Nel suo primo discorso ai cardinali, papa Francesco ha affermato: “Io vorrei che tutti, dopo
questi giorni di grazia abbiamo il coraggio di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria: Cristo crocifisso.
E la Chiesa andrà avanti”.
Papa Francesco è stato eletto in Conclave il giorno del ricordo del martirio di Marianela Garcia Villas, luminosa figura di cristiana impegnata per
la difesa dei diritti umani, soprattutto dei poveri e degli umili, per più versi
legata alla memoria di mons. Romero. Ed ecco appunto che a Romero ritorniamo, per ricordare le parole della sua quarta lettera pastorale: «alla base di
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tutto il nostro lavoro vi è il mistero di Cristo che predichiamo. (…) Tanto
più saremo Chiesa e potremo offrire meglio il nostro contributo di Chiesa
per la liberazione del nostro popolo, quanto più ci identificheremo con Lui e
saremo docili strumenti della Sua verità e grazia». E proprio guardando al
mistero d’amore di Gesù Crocifisso e vedendolo ‘identificato’ nel martirio
di mons. Romero, il Popolo di Dio riconosce già santo il vescovo salvadoregno. Aspettiamo fiduciosi che papa Francesco lo canonizzi subito, come
martire della fede e come modello chiaro e forte per i cristiani del XXI secolo, sul passo degli ultimi.
Una Rosa Bianca per Francesco
Nell’incontro che il papa ha avuto con la Presidente argentina Cristina
Kirchner, in cui la ha anche fraternamente baciata (come – durante i riti pasquali – ha lavato e baciato i piedi di due donne, in carcere), Francesco le ha
regalato una rosa bianca, come simbolo di S. Teresa di Lisieux, Teresina del
Bambin Gesù, della quale – come le ha detto – è grande devoto.
Questa antica confidenza spirituale per la claustrale carmelitana, Dottore della Chiesa, è stata confermata dalla giornalista Stefania Falasca, che ha
conosciuto il card. Bergoglio e che ha scritto:
«Padre Bergoglio era ritornato a Roma alla fine di quell’anno 2007 per il Concistoro. E con lui aveva fatto ritorno anche la figura di santa Teresina: “Quando ho un
problema – ci disse – lo affido a lei. Non le chiedo che lo risolva, solo che lo tenga
nelle sue mani e mi aiuti; come segnale ricevo quasi sempre una rosa”. Raccontò
poi che una volta, dovendo prendere una decisione importante per una complessa
questione, la rimise nella sue mani. Qualche tempo dopo, sulla soglia della sacrestia
una donna sconosciuta gli aveva consegnato tre rose bianche. “Fu un gesuita – spiegò –, padre Putignan, a diffondere a partire dal 1925 questa particolare preghiera
d’intercessione”, e ripeté un brano della Oración para pedir la rosa: “Floresita de
Jesús, pedile hoy a Dios que me alcance la gracias que yo ahora pongo con confianza en tus manos”. Si percepiva dal suo parlare un pudore unito a naturalezza,
una sincera confidenza […]».
Mi piace pensare che papa Francesco ponga nelle mani di santa Teresina quello che mi pare il problema più importante della Chiesa di oggi e che
finora è stato congelato (impedendo la discussione). Non mi pare infatti che
i problemi più grandi siano la riforma della Curia e lo Ior: anche se non li
sottovaluto. Nella ‘agenda’ del papa ci sarà la collegialità da realizzare e
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l’ecumenismo da rilanciare. Ci sarà, pure, la necessità di un ripensamento
complessivo dell’approccio alla sessualità per riportarlo veramente all’etica
della tenerezza (tenerezza a cui papa Francesco si è già più volte richiamato): quell’etica che era stata formulata, tra gli altri, dal teologo Ambrogio
Valsecchi, il quale ne aveva ricevuto, in cambio, difficoltà ed emarginazione. E, da qui, tutte le questioni ad esso collegate: dal celibato ecclesiastico
alla comunione ai divorziati risposati (che, oggi, si possono comunicare se
tra loro ‘non fanno sesso’) alle coppie gay (che non sono considerate in peccato se ‘non fanno sesso’).
Ma il problema centrale, per la Chiesa, mi pare sia un altro, dalle conseguenze vastissime e complessive: quello di un ministero ordinato femminile. Speriamo che il papa lo metta nelle mani di Santa Teresina, la quale ha
scritto nel suo diario spirituale:
«Essere tua sposa, o Gesù, essere carmelitana, essere per la mia unione con te la
madre delle anime, tutto questo mi dovrebbe bastare… ma non è così… Certamente, questi tre privilegi sono proprio la mia vocazione, Carmelitana, Sposa e Madre,
tuttavia sento in me altre vocazioni, mi sento la vocazione di GUERRIERO, di PRETE,
d’APOSTOLO, di DOTTORE, di MARTIRE. (…)
Sento in me la vocazione di PRETE; con quale amore, o Gesù, ti porterei nelle mie
mani quando, alla mia voce, tu discendessi dal Cielo… Con quale amore ti darei alle
anime!... Ma ahimé, pur desiderando d’essere Prete, ammiro e invidio l’umiltà di
San Francesco d’Assisi e mi sento la vocazione d’imitarlo rifiutando la sublime dignità del Sacerdozio».
Che cosa vogliono dire queste righe di una santa che è Dottore della
Chiesa (nei cui scritti, cioè, la Chiesa riconosce una sovreminente portata
magisteriale)? Che cosa vuol dire questa vocazione al presbiterato? Si potrà
– infine – avere la possibilità di un approfondimento e di una discussione
libera e aperta? Si potrà discutere serenamente sulle forme più vere e adeguate di ministero ordinato femminile, necessarissime oggi alla Chiesa?
Ponga Francesco questo problema nelle mani della santa di Lisieux.
E la Rosa Bianca (non botanica, ma di uomini e donne in carne ed ossa)
gli giungerà. Anzi, potrei dire, gli sta giungendo appunto ora.
In uscita per la casa editrice il Margine
(http://www.il-margine.it/)
Maurizio Abbà, Paolo De Benedetti, Anche Dio ha i suoi guai. Dialogo sulla genesi
Dio e la Creazione, il Diluvio e la Torre di Babele, la chiamata di Abramo, la scala di
Giacobbe e la sua lotta con l’Altro: sono alcune delle pagine bibliche che il grande, acuto
esploratore delle Scritture Paolo De Benedetti – sul confine tra ebraismo e cristianesimo,
tra Antico e Nuovo Testamento – scandaglia in dialogo profondo e appassionato con il
pastore Maurizio Abbà, della Chiesa valdese.
Luigi Sandri, Dal Gerusalemme I al Vaticano III. Storia dei Concili tra
evangelo e potere
Un vaticanista che sogna il Vaticano Terzo, e una Chiesa finalmente libera dal potere e
appassionata del Vangelo, ripercorre in una grande narrazione – offerta per la prima volta
a un lettore non specialista – tutti i Concili ecumenici e/o generali celebrati prima in
Oriente dalla Chiesa indivisa e, poi, in Occidente. Un “manuale” dei Concili, storiograficamente rigoroso, ma scritto come una cronaca “dal vivo”, in modo chiaro e avvincente.
In meno di mille pagine, la bimillenaria avventura della Chiesa, santa e peccatrice.
Jean-Luc Egger, Dire il silenzio. La filosofia di Max Picard
Max Picard – singolare medico filosofo svizzero (1888-1965), ancora poco noto in Italia –
rappresentava il mondo del Novecento come minacciato dal rumore continuo, dalla chiacchiera vuota, da «parole corrotte», dall’inarrestabile alleggerimento della realtà e delle
relazioni. Secondo Picard occorre volgersi di nuovo alle cose e ai volti per imparare ad
ascoltarne il silenzio originario e a dirlo in parole integre e in immagini pregne.
Astrid Mazzola, Firme in cielo. Pensieri e parole nei libri di vetta
L’alpinismo del XX secolo rappresenta il culmine di questa relazione verticale, dello
slancio verso il cielo, della passione viscerale per quell’immensamente grande. Una testimonianza, talvolta toccante, del rapporto che lega l’uomo moderno alla montagna sono i
libri di vetta e di bivacco: sempre meno sono raccolte di firme con il compito di testimoniare un’ascesa e sempre più simili a un dialogo a tu per tu con le cime. Messaggi lirici,
estatici, dolorosi, commoventi, scritti su agende o quaderni, che danno voce alle persone
silenziose.
Paolo Ghezzi, La Rosa Bianca non vi darà pace. Abbecedario della giovane
resistenza
Settant’anni dopo il 1943, con il sacrificio di Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst,
Alexander Schmorell, Willi Graf e Kurt Huber – gli studenti antinazisti della Rosa bianca
e il loro professore, arrestati e decapitati dalla «giustizia» nazionalsocialista – le loro figure, i loro gesti e le loro parole rivivono nel primo «abbecedario» della Rosa bianca.
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