Shlomo Venezia, il combattente del Sonderkommando

Shalom.it
Shlomo Venezia, il combattente del Sonderkommando
Contributed by DONATELLA DI CESARE
Monday, 15 October 2012
Le sue parole contro la negazione
«Solo nel 1992, quarantasette anni dopo la mia liberazione, ho cominciato a parlarne. Il problema
dell’antisemitismo riprendeva a manifestarsi in Italia e sui muri si vedevano sempre più croci uncinate… Nel
dicembre 1992 sono tornato per la prima volta ad Auschwitz. Ho esitato a lungo prima di accompagnare una scuola che
mi aveva invitato; non mi sentivo pronto a tornare all’inferno». Così scrive Shlomo Venezia nelle ultime pagine del
suo libro Sonderkommando Auschwitz. E prosegue: «oggi, quando sto bene, sento il bisogno di testimoniare, ma è
difficile […]. Mi dà conforto sapere che non parlo nel vuoto, perché testimoniare rappresenta un enorme sacrificio.
Riporta in vita una sofferenza lancinante che non mi lascia mai».
La «malattia dei sopravvissuti», quell’angoscia tetra, quella disperazione sorda, aveva rischiato di logorarlo, di
togliergli le forze. Dopo il filo spinato del campo, il pericolo era l’angustia del silenzio in cui avrebbero potuto
spegnersi le sue parole.
Forse da quell’antimondo in cui era stato costretto a vivere parte della sua giovinezza non era mai davvero
tornato. «Non ho più avuto una vita normale. […] Tutto mi riporta al campo». Ne era consapevole; lo aveva detto e
scritto. «Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Eppure Shlomo ha continuato a lottare; non si è lasciato
rinchiudere nella prigione del silenzio. La mistica dell’«indicibile» e la retorica della «follia del nazismo» lo ferivano
profondamente. Non poteva sopportare che si giustificasse, anche solo indirettamente, quello che era accaduto o, ancor
peggio, che lo si etichettasse come inenarrabile. E quando vide i neonazisti, i nuovi hitleriani, a Viale Libia, pensò che,
malgrado le sofferenze a cui si sarebbe esposto, fosse venuto il momento di testimoniare.
Sapeva bene che la sua testimonianza era diversa da quella degli altri sopravvissuti. Shlomo era stato costretto a
lavorare nelle officine hitleriane della morte, tra le camere a gas e i forni crematori, in quel luogo che avrebbe dovuto
essere negato, che sarebbe stato negato, e dal quale nessuno perciò doveva uscire vivo. Così racconta quando fu scelto:
«mi disse che il comando al quale eravamo stati destinati si chiamava Sonderkommando. “Che cosa vuol dire
Sonderkommando?”. “Comando speciale”. “Speciale. Perché?”. “Perché
lavoriamo nel Crematorio… dove la gente viene bruciata. […]. Tuttavia non ci misi molto a capire che eravamo
stati integrati nel Sonderkommando al posto di altri prigionieri “selezionati” e uccisi».
Ma Shlomo è sopravvissuto per dire quello che mai nessuno avrebbe dovuto sapere, delle fabbriche di cadaveri, dello
Zyklon B e dei suoi effetti devastanti, dei corpi trascinati nei forni, dell’odore di carne bruciata, delle ceneri
passate al setaccio e gettate nel fiume.
Ha raccontato le fasi diverse dell’annientamento, fino alla incinerazione, senza tralasciare la negazione del
crimine che lo rendeva sin dall’inizio possibile. Ma la sua testimonianza non ha soltanto il significato della prova
schiacciante, dell’attestato contro la negazione. È anche questo; ma è molto di più.
Ormai sappiamo che prove tecniche e dimostrazioni scientifiche non mettono a tacere quelli che seminano dubbi
venefici. Chi pensa che la storia abbia un’oggettività, non ha la meglio sui negazionisti; finisce anzi per cadere in
una trappola, obbligato alla microanalisi del particolare: dalla quantità esatta di gas versato nelle camere al numero dei
cadaveri bruciati ogni giorno nei forni. In questa contabilità dell’orrore ogni minima inesattezza è fonte di rilievi. I
negazionisti costringono al controllo delle minuzie, all’esame del particolare, in un’indagine che si
smarrisce e si dissolve nel dettaglio.
Così si perde di vista, nella sua enormità, ciò di cui si parla. L’intento è quello di lasciare dietro di sé le grida
soffocate e fare in modo che non s’incontri l’occhio senza sguardo degli asfissiati. In questo macabro
esercizio le non-persone, rese numeri e oggetti, vengono di nuovo annientate. Al bivio ineludibile, tra l’attenzione
e l’indifferenza, la responsabilità e la spietatezza, i negazionisti ci spingono a ripercorrere l’itinerario della
gassazione con il loro atteggiamento, quello cioè dei carnefici.
La testimonianza di Shlomo Venezia è unica, e preziosa, anzitutto perché è prova diretta e oculare delle esecuzioni di
massa con il gas. Ma non è solo questo. Nella disumanizzazione estrema Shlomo ha narrato l’umano faccia a
faccia, ha restituito il volto agli asfissiati.
Era consapevole che la sua testimonianza sarebbe stata, proprio perciò, la più temuta – soprattutto da quelli che,
complici dei nazisti di ieri, negano oggi che mai ci fu l’annientamento. Che non venga consentito
l’oltraggio, che Shlomo non sia lasciato solo, che le sue parole possano risuonare nelle scuole, essere lette e
ripetute. È questo il compito che ci ha lasciato per il futuro.
DONATELLA DI CESARE
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