LA SCARICA ELETTRICA NEI GAS RAREFATTI
Lo studio del passaggio dell'elettricità in gas rarefatti iniziò verso la metà dell'800. Le
osservazioni vennero effettuate in tubi di vetro pieni d'aria o di altri gas, con due piastre
metalliche (elettrodi) fissate all'interno e collegate ad un generatore di corrente.
Quando il tubo è pieno d'aria, anche applicando agli elettrodi una differenza di
potenziale molto elevata non si osserva alcun fenomeno in quanto l'aria (e più in generale
i gas) a pressione normale, non conduce l'elettricità. (Se l’aria conducesse l’elettricità
basterebbe un fulmine per mandarci tutti all’altro mondo; la cosa diventa pericolosa
quando il fulmine cade in mare perché l'acqua di mare conduce l'elettricità.)
Il fisico inglese William Crookes, riuscì a fissare, saldando, vetro con metallo costruendo
un recipiente detto appunto “tubo di Crookes” in cui era possibile applicare una differenza
di potenziale e fare il vuoto con una pompa aspirante. Molti scienziati studiarono,
utilizzando tale tubo, il comportamento di gas ionizzati rarefatti, tra questi il fisico inglese
Thomson a cui si
deve la scoperta
dell’
elettrone.
Estraendo l'aria
dal tubo, per
mezzo di una
pompa
aspirante, fino a
ridurre la pressione a pochi
millimetri di mercurio, si nota il
passaggio della corrente elettrica,
prima sotto forma di una scintilla che procede a zigzag, poi sotto forma di una luminosità
diffusa che riempie il tubo fino a fargli assumere l'aspetto familiare di quelli al neon. Il
colore della luce dipende dal gas con il quale è stato riempito il tubo: rosso per il neon, blu
per l'azoto, rosa per l'idrogeno, e così via. Sottraendo ancora aria dall'interno del tubo,
fino a raggiungere pressioni dell'ordine del decimo di millimetro di mercurio, la luminosità
scompare del tutto, mentre diventa fluorescente la parete di vetro dirimpetto al catodo.
Se ora si volesse dare un'interpretazione a questo fenomeno, è evidente che debba
trattarsi di un "quid" che si sprigiona dal catodo eccitando prima la materia che si trova nel
tubo e poi, quando questa è stata praticamente eliminata, la zona del tubo posta di fronte
ad esso. Già nel 1876, il fisico tedesco Eugen Goldstein, nella convinzione di avere a che
fare con una qualche forma di energia, dette, alla
radiazione che partiva dal catodo, il nome di "raggi
catodici".
Alcuni anni più tardi, il fisico inglese William
Crookes, per indagare sulla natura della radiazione
catodica, apportò alcune modifiche ai tubi di scarica.
Spostando lateralmente l'anodo, egli osservò che la radiazione continuava a procedere in
linea retta dal catodo verso la parete di fronte (anticatodo):
i raggi si propagavano in linea retta
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Se nel tubo veniva introdotto un
leggerissimo mulinello, scorrevole su
un binario, si osservava che esso,
sotto
l'effetto della radiazione,
rotolava, dalla zona del catodo, verso
quella
opposta.
Inoltre,
interrompendo la radiazione catodica
con un ostacolo, si poteva osservare,
sulla parete di vetro posta di fronte, il
formarsi di un'ombra netta, priva di
aloni:
i raggi erano anche dei corpuscoli
dotati di una propria massa
Gli esperimenti mettevano in evidenza che la radiazione che usciva dal catodo non
poteva essere della stessa natura della luce, perché una forma di energia immateriale non
sarebbe stata in grado di spingere un mulinello a pale; essa inoltre, incontrando un
ostacolo, avrebbe dovuto generare, oltre all'ombra, un alone di penombra molto ben
visibile. Le evidenze sperimentali suggerivano che doveva trattarsi di uno sciame di
corpuscoli.
In seguito si dimostrò che i raggi catodici
venivano deviati da un campo magnetico e si
orientavano verso la polarità positiva del campo
magnetico; pertanto non solo questi raggi erano
delle particelle ma dovevano possedere anche una
carica elettrica, la quale, tenuto conto del senso
della deviazione, doveva essere di segno negativo.
Fu infine deciso di riservare a queste particelle, e non alle cariche elettriche, come si era
fatto in precedenza, il nome di elettroni.
Si scoprì successivamente il valore della carica e della massa dell’elettrone che diventava
così la più piccola particella di materia mai conosciuta. Esso pesa 1836 volte di meno del
peso dell'atomo di idrogeno, il più leggero che esista in natura.
I "RAGGI CANALE" E I "RAGGI X"
La materia, in condizioni normali, si presenta elettricamente neutra. Era quindi logico
pensare che se da essa si era riusciti ad estrarre corpuscoli carichi di elettricità negativa,
gli elettroni appunto, dovessero essere presenti residui carichi positivamente. Era
altrettanto naturale attendersi che tali frammenti di materia avrebbero dovuto seguire,
nell'interno del tubo di scarica, un percorso in senso contrario a quello degli elettroni.
Venne pertanto praticato un foro nel catodo in modo che le particelle, provenienti dalla
zona anodica, potessero attraversarlo. Fu così possibile rendere evidente una radiazione, a
cui fu assegnato, da Eugen Goldstein (1850-1930), il nome provvisorio di "raggi canale".
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Anche questa radiazione, sottoposta
all'azione del campo magnetico, deviava
dalla sua traiettoria, ma in direzione
opposta a quella dei raggi catodici. Si
trattava perciò di particelle cariche di
elettricità positiva, per le quali fu
possibile determinare il valore del
rapporto
carica/massa,
utilizzando
tecniche analoghe a quelle adottate per
l'elettrone.
Quando fu possibile
misurare la carica elettrica di questi
nuovi corpuscoli, e risultò essere dello stesso valore di quella trovata per l'elettrone (anche
se di segno opposto), fu possibile conoscere la massa di tali particelle: essa risultava
praticamente identica a quella degli atomi o delle molecole che riempivano il tubo di
scarica. Si pensò che i raggi canale, quindi, fossero ioni positivi. Sono i nuclei dei gas a cui
i raggi catodici hanno sottratto gli elettroni.
Se per riempire il tubo veniva impiegato l'idrogeno, la massa delle particelle positive
risultava la più piccola di tutte. Il fatto che l'idrogeno formasse uno ione di massa inferiore
a quella di qualsiasi altro elemento, fece pensare che lo ione idrogeno potesse essere una
particella fondamentale. A questa particella fu assegnato pertanto il nome di protone,
parola che in greco significa "di primaria importanza".
Negli stessi anni in cui venivano compiuti gli studi sui raggi catodici e sui raggi canale,
Wilhelm Röntgen (1845-1923) premio Nobel per la fisica nel 1901, scoprì un altro tipo di
radiazione: i raggi X. Egli notò che se i raggi catodici urtavano un corpo posto di fronte al
catodo, lasciavano fuoriuscire delle radiazioni invisibili, con stesse caratteristiche della luce
che rendevano fluorescenti alcuni cristalli di sale. Essi possiedono fra l'altro, la proprietà di
impressionare una lastra fotografica avvolta con carta nera. I raggi X assumeranno grande
rilevanza per le loro applicazioni in fisica, in chimica e soprattutto in medicina.
Oggi conosciamo il motivo per il quale gli elettroni, quando vanno ad urtare contro un
ostacolo emettono radiazioni. Gli elettroni veloci hanno una grande energia cinetica e,
quando colpiscono una parete che ne rallenta fortemente la corsa, perdono buona parte
della loro energia. Questa energia, però, non va dispersa nel nulla ma semplicemente
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tramutata in un'altra forma. Nel caso del bombardamento elettronico contro l'anticatodo,
l'energia riappare sotto forma di raggi X.
IL MODELLO ATOMICO DI THOMSON
Subito dopo la scoperta degli elettroni, quando ancora non si aveva un'idea precisa di
come fosse distribuita la carica positiva, vennero formulati i primi modelli di atomo. Il più
noto di questi fu proposto, nel 1904, da Joseph John Thomson.
Si tratta di un modello che potremmo definire pieno a cariche
diffuse. Secondo lo scienziato inglese l'atomo doveva essere
costituito da una sfera omogenea di elettricità positiva, ma senza
peso, nella quale si trovavano disseminati gli elettroni, come si
trattasse di uvetta nel panettone. Per questo motivo all'atomo di
Thomson venne anche assegnato il nome irriverente (ma efficace) di
"modello a panettone".
Il modello non era, come a volte si vuol far credere, una costruzione ingenua e banale:
si trattava, invece, di una struttura fisica perfettamente coerente e sostenuta da rigorosi
calcoli matematici. La situazione di equilibrio, all'interno dell'atomo, si realizzava, secondo
Thomson, perché le forze di repulsione degli elettroni con carica negativa venivano
bilanciate dall'attrazione esercitata dalla carica positiva, diffusa all'interno dell'atomo, sugli
elettroni stessi.
Fu tuttavia un fondamentale esperimento condotto dal fisico inglese Ernest Rutherford
(1871-1937) a dimostrare che il modello di Thomson era del tutto inadeguato.
LA RADIOATTIVITA'
Nel 1898 il fisico francese Henry Becquerel (1852-1908), impegnato nello studio del
fenomeno della fluorescenza aveva scoperto, quasi per caso, che l’uranio emetteva
radiazioni capaci di impressionare le lastre fotografiche.
Successivamente i coniugi Curie (Pierre e Marya Sklodowska, premi Nobel per la fisica
nel 1903) dedicarono tutta la loro vita allo studio di questo fenomeno, che da loro venne
chiamato "radioattività".
Alla fine di un lungo ed impegnativo lavoro, i Curie riuscirono ad estrarre da alcune
tonnellate di pechblenda pochi decigrammi di due elementi altamente radioattivi, a cui essi
stessi dettero il nome di polonio, per onorare la Polonia, terra natale di Marya Sklodowska,
e di radio, sostanza 400 volte più radioattiva dell'uranio.
Lo studio sulla natura di queste radiazioni venne condotto soprattutto dal fisico inglese
di origine neozelandese Ernest Rutherford, uno dei più grandi fisici sperimentali che il
mondo scientifico abbia mai conosciuto.
Egli pose un pezzetto di una sostanza radioattiva in una cavità ricavata all'interno di un
blocchetto di piombo, che aveva la funzione di trattenere la radiazione, ma che presentava
un canalicolo attraverso il quale la radiazione stessa poteva uscire. All'esterno venivano
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poste due piastre elettriche (o anche le espansioni di un magnete) in modo che la
radiazione venisse sottoposta all'azione di un campo elettrico (o magnetico).
Si poteva così osservare che la
radiazione proveniente dalla sostanza
radioattiva si divideva in tre parti: la
prima subiva una forte deviazione verso
il polo positivo del campo elettrico, la
seconda risultava deviata dalla parte
opposta, ma in minor misura; la terza,
infine, procedeva in linea retta senza
risentire
dell'effetto
del
campo.
Successivamente si chiarì che le
radiazioni deviate dal campo elettrico
erano di natura corpuscolare e
possedevano carica elettrica, mentre
quella che procedeva senza risentire
della presenza del campo elettrico era
una radiazione simile ai raggi X.
La prima radiazione venne chiamata "raggi ", ed identificata più tardi con un flusso di
elettroni; la seconda venne chiamata "raggi ", e riconosciuta in seguito come un flusso di
ioni elio (cioè atomi di elio privati dei due elettroni periferici); la terza venne chiamata
"raggi " (raggi gamma).
Il fenomeno della radioattività metteva in luce, fra l'altro, che l'atomo, oltre ad espellere
elettroni, emetteva anche particelle positive. In questo modo la struttura uniforme del
modello atomico di Thomson veniva ulteriormente messa in dubbio e il termine di "atomo"
(nel senso di struttura indivisibile) andava perdendo, con sempre maggiore evidenza, il
suo significato primitivo. Tuttavia, l'esperimento decisivo, quello che avrebbe cambiato
radicalmente il modello, doveva ancora essere eseguito.
MODELLO ATOMICO DI RUTHERFORD
Rutherford, nel 1911, in uno dei suoi
tanti esperimenti divenuti famosi per la
semplicità e la genialità dell'impostazione,
dimostrò che l'atomo non poteva avere una
struttura omogenea, come l'immaginava
Thomson, ma doveva possedere un nucleo
di dimensioni molto piccole e di carica
elettrica positiva, nel quale era concentrata
praticamente tutta la sua massa.
L'esperimento di Rutherford, nelle sue
linee essenziali, consistette nel lanciare,
contro una sottilissima fogliolina d'oro, le particelle  emesse spontaneamente dalle
sostanze radioattive ed osservare la loro deviazione (il cosiddetto scattering). Egli così
poté notare che la quasi totalità di queste particelle passava indisturbata attraverso la
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lamina d'oro, ma che una piccola percentuale di esse
subiva delle deviazioni. Si trattava normalmente di
deviazioni di minima entità ma, cosa sorprendente ed
imprevista,
alcune
particelle
deflettevano
notevolmente e a volte venivano addirittura respinte
all'indietro. "Era l'evento più incredibile che mi fosse
mai capitato di vedere; - commentò successivamente
lo stesso Rutherford - era come sparare un proiettile
contro un foglio di carta velina e vederselo tornare
indietro, a colpire chi l'aveva sparato".
Questa
osservazione
non poteva che avere
un’unica spiegazione: l'atomo, nel suo complesso, era un
edificio vuoto, con tutta la massa concentrata in un nucleo
centrale carico positivamente, molto piccolo e di conseguenza
anche molto denso. Gli elettroni, necessariamente, dovevano
muoversi su ampie orbite, intorno al nucleo, come i pianeti
ruotano intorno al Sole, grazie all’azione combinata di due forze:
quella di attrazione del nucleo quella centrifuga dovuta alla
velocità di rotazione. Per questo motivo, il modello atomico di
Rutherford, venne anche detto modello planetario.
I fatti sperimentali mostravano che il nucleo doveva possedere dimensioni di circa
10.000 volte minori di quelle dell'atomo intero. Per farci un'idea di queste dimensioni
possiamo immaginare di ingrandire un atomo fino a fargli assumere le dimensioni di un
ampio salone: il nucleo, al centro, non sarebbe più grande della capocchia di uno spillo.
Il periodo che precede il 1900 è quello classico, caratterizzato da teorie fisiche solide (in
particolare Meccanica ed Elettromagnetismo) ma dalla sostanziale separazione fra di esse.
Questo insieme di teorie non è in grado di spiegare quasi nulla al livello atomico sicché la
chimica e la nascente fisica atomica erano prive di una solida teoria di base. Quindi,
nonostante il modello di Rutherford fosse molto seducente, soprattutto per la descrizione
unitaria che dava della struttura del micro- e del macrocosmo, esso aveva il difetto di
essere assolutamente incompatibile con le leggi classiche della meccanica e
dell'elettrodinamica. Secondo queste leggi
infatti, un corpo carico di elettricità che si
muova con moto che non sia rettilineo ed
uniforme, irradia energia a scapito della
propria. L'elettrone pertanto, nel suo moto
circolare intorno al nucleo, poiché è
soggetto ad una continua accelerazione
centripeta, e cambia quindi velocità ad
ogni istante, dovrebbe irradiare e subire
una progressiva diminuzione della propria
energia. Ciò lo porterebbe a cadere,
seguendo una traiettoria a spirale, sul
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nucleo. Si ricordi a questo proposito ciò che accadeva agli elettroni quando, urtando
contro le pareti del tubo di scarica, emettevano radiazioni elettromagnetiche sotto forma di
raggi X, proprio a seguito della decelerazione che subivano penetrando nel vetro.
E' stato calcolato che l'atomo, se fosse costruito secondo il modello proposto da
Rutherford, sarebbe destinato a disintegrarsi in una frazione di secondo. L'atomo, invece,
per nostra fortuna, è stabile.
C'era, evidentemente, qualche cosa che non funzionava nel modello proposto da
Rutherford: non rimaneva che cambiare modello, a meno che non si volesse cambiare le
leggi della fisica.
LA SPETTROSCOPIA OTTICA
I fisici, caparbiamente impegnati nella ricerca di un modello atomico soddisfacente,
dopo averle tentate tutte, rivolsero alla fine la loro attenzione alla luce. La luce è una
forma di energia, la cui origine deve risiedere nell'atomo, visto che corpi eccitati
termicamente o elettricamente emettono luce (si pensi ad esempio al filamento
incandescente di una lampadina).
Vi è un fenomeno luminoso che già Newton, verso
la metà del '600, aveva osservato e descritto: quando
un raggio di luce solare attraversa un prisma di vetro,
si scompone in una fascia continua di colori diversi,
alla quale si è dato il nome di "spettro" Il fenomeno
prende il nome di dispersione della luce, e i colori
presenti nello spettro sono quelli dell'arcobaleno:
rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e viola.
La luce bianca è pertanto una mescolanza di luce di
diversi colori.
Nel 1814 il fisico tedesco Joseph Fraunhofer, osservando attentamente lo spettro solare,
ottenuto
facendo passare
la
luce
attraverso una
sottile
fessura
posta davanti al
prisma, notò che
era solcato da
numerose righe scure, delle quali però non seppe dare una giustificazione. Lo spettro
continuo della luce solare possiede circa 600 righe scure che Fraunhofer osservò (e che
ora hanno il nome di righe di Fraunhofer)
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Quello che si sapeva era che
gli elementi riscaldati emettono
uno spettro discreto di righe
colorate (spettro di emissione).
Fraunho-fer stava scoprendo
che c’é un altro modo in cui gli elementi possono produrre uno spettro.
Invece di un campione riscaldato, si consideri un gas freddo attraversato da un fascio di
luce bianca (che contiene luce
visibile di ogni lunghezza d’onda).
Tutte le frequenze attraversano
tranquillamente il gas, tranne
quelle
con una particolare
lunghezza d’onda che vengono
invece assorbite. lo spettro con
queste frequenze mancanti è detto spettro di assorbimento. Confrontando spettro di
emissione e spettro di assorbimento per uno stesso elemento si nota che: le righe scure di
uno spettro di assorbimento appaiono alle stesse lunghezze d’onda alle quali si trovano le
righe luminose del corrispondente spettro di emissione.
Nessuno fu in grado di spiegare il significato delle righe spettrali per decine di anni...
Le ricerche pionieristiche di FRAUNHOFER e quelle sistematiche di altri studiosi portarono
a formulare le basi dell'analisi spettrale, che possiamo riassumere brevemente nei tre
punti seguenti.
1. Un corpo incandescente, solido o liquido oppure gas ad alta pressione, presenta uno
spettro continuo. E quello che si potrebbe osservare, per esempio, con una comune
lampada ad incandescenza.
2. Un gas incandescente ma a bassa pressione produce uno spettro discontinuo
formato da una serie di brillanti righe di emissione, corrispondenti a varie lunghezze
d'onda; ogni elemento chimico presenta alcune righe di emissione che gli sono
caratteristiche, per cui dall'esame dello spettro di emissione di un gas è possibile dedurne
la composizione.
3. Se la luce proveniente da un corpo che emette uno spettro continuo passa attraverso
un gas a bassa pressione, questo "sottrae" alcune lunghezze d'onda. Si produce così uno
spettro continuo interrotto da righe oscure, le righe di assorbimento (o di Fraunhofer), che
corrispondono esattamente alle lunghezze d'onda delle righe luminose che quello stesso
gas emetterebbe in stato di eccitazione.
Come si può comprendere, gli spettri sono
una specie di impronte digitali dei vari
elementi chimici
In sintesi: uno spettro a righe
luminose è detto spettro di emissione.
Viceversa, è detto spettro di assorbimento
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lo spettro che si forma quando un gas freddo viene attraversato da un fascio di luce
bianca: al di là del prisma si vedrà apparire uno spettro luminoso continuo (cioè
comprendente tutti i colori) solcato da alcune righe nere.
Per uno stesso gas si osserva che le righe nere dello spettro di assorbimento
corrispondono esattamente alle righe luminose dello spettro di emissione. Tutte le
sostanze assorbono infatti le stesse radiazioni che sono in grado di emettere.
Quanti .
Alla fine del 1800 i fisici ritenevano di aver compreso tutto quello che succedeva in natura
Proprio in quel periodo alcuni di loro volevano capire le caratteristiche della luce emessa
da un oggetto ad una certa temperatura. O meglio, della radiazione emessa: non era
necessariamente luce visibile, o perlomeno non lo era a tutte le temperature.
Questi fisici notarono che il “tipo” di luce emessa da un corpo caldo – il suo colore dipende
dalla sua temperatura. Ad una certa temperatura, un corpo emette luce (o meglio
radiazione) di più “tipi” (di più colori, o, più precisamente di diverse lunghezze d’onda); ed
emette ogni tipo di luce con una diversa intensità. La somma di questi “tipi” di luce a
diverse intensità ne determina il colore.
Per esempio il sole ci appare giallo,
ed il colore che vediamo dipende
proprio dalla sua temperatura, e dal
particolare miscuglio di radiazioni di
diversa lunghezza d’onda (con
diverse intensità) che emette. Nel
grafico che segue in ascissa viene
rappresentato il “tipo” di luce – il suo
colore, in ordinata l’intensità della
luce emessa per quel particolare
“colore”
(ovvero,
per
quella
lunghezza d’onda).
Il problema è che nessuna delle equazioni della fisica di fine 1800, quelle sembravano
descrivere così bene tutti meccanismi naturali conosciuti, riusciva a descrivere questa
curva e si cercava quindi una legge che governasse le differenti radiazioni
elettromagnetiche emesse da un corpo surriscaldato.
Gli strumenti teorici che avevano a disposizione consistevano essenzialmente nelle
equazioni di uno scienziato scozzese di nome Maxwell, che aveva messo insieme elettricità
e magnetismo in un quadro eccezionalmente coerente ed elegante. Il problema era che,
partendo da questi presupposi “classici”, i fisici arrivavano a conclusioni che andavano
bene per descrivere soltanto una parte della curva a campana.
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Due inglesi, Rayleigh e Jeans,
avevano trovato una formula che
permetteva di descrivere la curva
nella regione delle grandi lunghezze
d’onda, ovvero nell’infrarosso. Peccato che non poteva essere sfruttata
nella regione dell’ultravioletto, in
quanto dava valori inconcepibili, in
quanto lì l’intensità della luce diventava infinita. I fisici di allora chiamarono questo fenomeno (inesistente) la
catastrofe ultravioletta.
Nella vita reale l’intensità della luce raggiunge un massimo e poi ridiscende a valori più
bassi mano a mano che ci spostiamo verso lunghezze d’onda più corte. La legge di
Rayleight-Jeans è semplicemente sbagliata.
Nel 1900, il fisico tedesco Max Planck (1858-1947), considerato a ragione uno dei padri
della fisica moderna, propose un artifizio matematico attraverso il quale era possibile
elaborare una formula in grado di spiegare i dati sperimentali. Planck non aveva idea del
perché la legge di R. e J. non funzionasse, né di come risolvere il problema. Utilizzò la
formula di R. e J. e la corresse con un termine matematico che non portava la curva
all’infinito. Cominciò dopo a preoccuparsi di capire quale significato nascosto contenesse la
sua formula, e se questa potesse dirci qualcosa di più sulla natura della luce.
La formula di Planck implica che la luce sia formata da granelli; ci rivela che l’energia
proveniente dalle molecole del corpo che abbiamo scaldato viene emessa in pacchettini,
ognuno dei quali è multiplo di un pacchettino minimo proporzionale alla frequenza della
luce emessa (dunque in qualche modo al suo “colore”) e a una costante universale che,
guarda caso, chiamiamo la costante di Planck. L'energia radiante che esce dal corpo
riscaldato, non è quindi emessa in modo continuo, come fosse un fluido, ma per quantità
discrete, come si trattasse di corpuscoli energetici che escono, uno per volta, ad intervalli
regolari di tempo.
Il fisico tedesco dette il nome di quantum (“quanto”), al minimo pacchetto di energia che
può uscire da un corpo incandescente. L'energia elettromagnetica esce ed entra nella
materia a "pacchetti", cioè in quantità discrete, come si trattasse di corpuscoli.
Tutti gli scienziati pensavano che la luce fosse un’onda: questa era l’assunzione di base di
Maxwell ora Planck, per trovare una soluzione a qualcosa che non quadra, afferma: “la
luce è sì un’onda, ma si comporta anche come fosse composta da particelle”.
Successivamente Einstein, spiegò l’effetto fotoelettrico – usando l’ipotesi dei granelli di
luce di Planck. Era nata la meccanica quantistica, da quantum, che in latino vuol dire
proprio pezzettino, granello. Il termine quanto fu sostituito da fotone
Con Planck nasce quindi la domanda sfruttata dalla chimica: se la luce è un’onda, e
abbiamo anche scoperto che si comporta come una particella, non è per caso che la
materia – che è fatta di particelle – si comporta anche come un’onda?“.
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L'ATOMO DI BOHR
Applicando, come già si è detto, le leggi dell'elettromagnetismo al modello planetario di
Rutherford, l'elettrone, muovendosi di moto non rettilineo ed uniforme, avrebbe dovuto
irradiare energia e, seguendo un percorso a spirale, cadere sul nucleo. L'atomo quindi, in
teoria, non solo avrebbe dovuto essere instabile, ma anche emettere radiazioni di tutte le
lunghezze d'onda (quindi formare uno spettro continuo), corrispondenti alle infinite
posizioni occupate dall'elettrone nella sua traiettoria a spirale verso il nucleo.
L'atomo invece, nella realtà, è stabile ed emette solo alcune radiazioni di determinate
lunghezze d'onda, come si può osservare dallo spettro di emissione a righe. Il modello di
Rutherford era quindi in contrasto sia con le leggi della fisica note a quel tempo (quelle
che in seguito verranno chiamate "classiche"), sia con i dati sperimentali.
Nel 1913 il fisico danese Niels Bohr si prefisse l'obiettivo di modificare il modello
atomico di Rutherford per eliminarne l'aspetto contraddittorio. Egli inizialmente accettò per
buona l'idea del nucleo centrale con gli elettroni esterni, proposto da Rutherford, anche
perché quel modello era il risultato di un fatto sperimentale inconfutabile. Poi però vi
apportò delle modifiche sostanziali avvalendosi della teoria dei quanti di Planck.
Bohr affrontò il problema nella sua forma più elementare: la costruzione del modello
dell'atomo dell'idrogeno. Scelse l'idrogeno sia perché si trattava dell'atomo più semplice di
tutti (un nucleo centrale con carica positiva con un unico elettrone che gli gira intorno), sia
perché lo spettro di quell'elemento si presentava anch'esso in forma molto semplice, con
pochissime righe ben distanziate fra loro.
Bohr ragionò nel modo seguente: se la materia assorbe ed emette energia in modo
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discontinuo significa che l'atomo, che è il suo costituente fondamentale, può esistere solo
in determinate configurazioni ciascuna con un proprio contenuto energetico. Quando
l'atomo passa da una configurazione con un certo contenuto energetico ad un'altra con
contenuto energetico diverso, esso assorbe o emette energia sotto forma di fotoni e per
tale motivo lo spettro appare con una linea scura o con una linea colorata in
corrispondenza di quel determinato valore dell'energia. Lo spettro dell'idrogeno pertanto,
non è altro che la rappresentazione visiva del passaggio da atomi con un certo contenuto
energetico ad altri con diverso contenuto energetico.
La conseguenza dell'ipotesi avanzata da Bohr era che l'elettrone dell'atomo di idrogeno
poteva muoversi solo su orbite preferenziali, dette orbite stazionarie, e che movendosi su
tali orbite non emetteva energia. Questa limitazione corrispondeva, in un certo senso, a
considerare l'elettrone come qualche cosa di speciale e comunque qualche cosa di diverso
da un corpo carico di elettricità che, girando su un'orbita circolare, è tenuto a rispettare le
leggi dell'elettromagnetismo.
L'elettrone emetteva energia solo quando passava spontaneamente da un'orbita più
esterna verso una più interna. Viceversa l'elettrone poteva passare da un'orbita più interna
(a minore contenuto energetico) ad una più esterna solo se assorbiva dall'ambiente
l'energia necessaria.
L'elettrone poteva quindi venirsi a trovare solo a determinate distanze dal nucleo (fra
l'altro mai al di sotto di una distanza minima rappresentata da quella che viene chiamata
“orbita fondamentale”), e poteva inoltre assumere solo determinati valori dell'energia, il
cui minimo era, per l'appunto, quello relativo all'orbita fondamentale.
Senza entrare nei dettagli della teoria, ed evitando i calcoli che comunque esulerebbero
dalla nostra trattazione, possiamo farci un'idea del modello atomico di Bohr ricorrendo ad
un esempio macroscopico. Consideriamo allora un piano inclinato perfettamente liscio, con
a fianco un altro simile, ma a
gradini. Immaginiamo ora di
far rotolare sul piano inclinato
liscio una pallina. Essa, nel
suo moto, potrà assumere
tutte le posizioni possibili
lungo il piano e quindi anche
tutti i valori possibili di
energia potenziale. Se invece
facessimo rotolare la pallina
lungo il piano a scale, questa
non potrebbe fermarsi in
tutte le possibili quote
rispetto al livello di riferimento (livello 0), ma solo in corrispondenza dei vari scalini; anche
l'energia potenziale che la pallina potrà assumere lungo la strada avrà solo determinati
valori e precisamente quelli corrispondenti all'altezza dei diversi scalini.
Il modello atomico di Bohr permette di dare un'interpretazione chiara e convincente
dello spettro a righe dell'idrogeno. Possiamo infatti immaginare che quando all'idrogeno
viene fornita energia, ad esempio all'interno di un tubo di scarica, gli elettroni, dal livello
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fondamentale, passino ai livelli energetici più esterni; dalle orbite più elevate gli elettroni
ritornano quindi immediatamente (e spontaneamente) a quelle più basse.
Nella caduta spontanea degli elettroni vengono emessi fotoni. L'energia posseduta da
questi fotoni corrisponde alla differenza energetica degli stati stazionari tra i quali è
avvenuta la transizione. Quando gli elettroni, dalle orbite più elevate, ritornano a quella
fondamentale (la più bassa di tutte), si ha emissione di fotoni molto energetici,
corrispondenti alle righe dell'ultravioletto (serie di Lyman). Quando gli elettroni ricadono,
dalle orbite periferiche, sulla seconda orbita stazionaria, si ha emissione di fotoni la cui
energia corrisponde alle righe dello spettro visibile (serie di Balmer). Un discorso analogo
vale per gli spostamenti sulla terza, sulla quarta orbita, e così via. Gli spettri che si
ottengono in questi casi sono spettri di emissione.
Gli spettri di assorbimento si ottengono invece quando gli atomi di idrogeno vengono
illuminati con luce di tutte le lunghezze d'onda. Tutti i fotoni in questo caso passano
indisturbati, tranne alcuni. Non passano quei fotoni che, possedendo una quantità di
energia esattamente uguale a quella necessaria per far saltare l'elettrone su un'orbita più
esterna, vengono utilizzati per questa operazione. Questi fotoni scompaiono quindi dalla
scena e pertanto avremo uno spettro continuo di
luce di tutti i colori, solcato da alcune linee
scure.
Con questo modello atomico Bohr ipotizzò livelli
energetici distanti dal nucleo, che indicò con
numeri che andavano da 1 a 7. Nasce così il
primo numero quantico fondamentale n.
L'ATOMO DI SOMMERFELD
Con l'aiuto di spettroscopi molto perfezionati, si
era potuto osservare che molte delle righe dello
spettro dell'idrogeno erano in realtà costituite da
un certo numero di altre righe molto vicine fra
loro, corrispondenti a piccolissime variazioni
dell'energia. Il modello di Bohr non era in grado di giustificare questa struttura fine dello
spettro dell'idrogeno. Aveva finora spiegato bene il comportamento spettroscopico
dell'idrogeno e, in parte, quello di alcuni metalli alcalini come il litio ed il sodio ma era del
tutto inadeguato per l'interpretazione degli spettri di altri elementi. Lo spettro dell'elio, per
esempio, non si accorda con le previsioni del modello di Bohr in quanto presenta delle
righe non previste.
D'altra parte, anche il fatto di prendere in considerazione, per il moto dell'elettrone, solo
orbite circolari, veniva considerata una limitazione artificiosa. L'orbita circolare di un corpo
che si muove intorno ad un altro è infatti un caso particolare delle più generali orbite
ellittiche (si pensi ad esempio ai pianeti che girano intorno al Sole). L'elettrone quindi,
girando intorno al nucleo, avrebbe dovuto percorrere, oltre all'orbita circolare, un'infinità di
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altre orbite ellittiche. Inoltre, l’atomo di Bohr andava bene per atomi con pochi elettroni,
ma non per atomi più grandi, non si poteva generalizzare.
Nel 1916, il fisico tedesco Arnold Sommerfeld, tentò di dare un significato alla struttura
fine dell'idrogeno introducendo anche le traiettorie ellittiche per il moto degli elettroni.
Innanzitutto egli ipotizzò che, poiché i fatti sperimentali mostravano che le righe della
struttura fine erano in numero limitato, anche il numero delle orbite possibili sarebbe
dovuto essere limitato: l'obiettivo di limitare questo numero poteva essere raggiunto
applicando le stesse condizioni di quantizzazione
introdotte da Bohr.
Sommerfeld dimostrò che per ciascun valore del
numero quantico n doveva esistere un numero
determinato di orbite ellittiche (oltre a quella
circolare), di eccentricità variabile (cioè più o meno
schiacciate) individuate da un secondo numero
quantico l (numero quantico angolare o secondario).
Il numero quantico l assume valori interi da 0 fino a
n-1. Quanto minore è il valore di l, tanto più schiacciata è l'orbita dell'elettrone.
Numero
Quantico
principale
Numero
Quantico
angolare
n=1
l=0
n=2
l=0
l=1
n=3
l=0
l=1
l=2
Se ora noi ammettiamo che per un certo valore del numero
quantico principale n
possano esistere, oltre all'orbita circolare, anche alcune orbite
ellittiche più o meno eccentriche, l'elettrone che le percorre,
cambia anche contenuto energetico. Pertanto gli elettroni che
percorrono l'una o l'altra orbita avranno energia diversa (ma non
di molto), e il passaggio da un'orbita all'altra comporterà
l'apparire di una serie di righe, anche se molto vicine fra loro, e
non di una sola. In questo modo veniva spiegato il fatto che una
riga dello spettro era in realtà composta da un insieme di altre
righe.
Frattanto, un nuovo fatto sperimentale metteva in evidenza
un'ulteriore possibilità di alterazione energetica in seno alle varie orbite. Si era osservato
infatti che sottoponendo alcuni elementi all'azione di un campo magnetico, si verificava lo
sdoppiamento di alcune righe spettrali. Il fenomeno è detto, dal nome del suo scopritore,
“effetto Zeeman” dal nome dello scienziato danese che lo scoprì nel 1896.
Per comprendere il meccanismo di questo fenomeno, dobbiamo considerare che
l'elettrone, oltre ad una massa, possiede anche una carica elettrica. Ora, secondo le leggi
dell'elettromagnetismo, una carica elettrica che percorre un circuito chiuso, genera un
campo magnetico, come qualsiasi corrente elettrica che percorre una spira. Si viene così a
creare, all'interno dell'atomo, per effetto del moto dell'elettrone, un minuscolo magnete, il
quale, tuttavia, non produce alcun effetto, così come un ago magnetico, da solo, non
subisce alcuna forza.
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Quando però si applica un campo magnetico all'esterno, questo interagisce con il
"magnetino" (elettrone in rotazione) presente nell'atomo costringendolo a sistemarsi
secondo determinate posizioni, così come un ago calamitato subisce uno spostamento per
l'azione di una calamita.
Si rese quindi necessario imporre,
anche in questo caso, delle limitazioni
alle posizioni che l'orbita percorsa
dall'elettrone poteva assumere nello
spazio. Si introdusse infatti un terzo
numero
quantico,
detto
numero
quantico magnetico e simboleggiato con
la lettera m. Il numero m può assumere
tutti i valori interi compresi fra -l e +l,
incluso lo zero. Pertanto, quando l vale
zero, m può assumere solo il valore
zero; quando l vale 1, i possibili valori di
m sono -1, 0, +1: sul secondo livello
energetico esistono quindi tre orbite
ellittiche possibili con la stessa energia,
ma orientate diversamente nello spazio.
Quando l vale 2 i possibili valori di m sono 5, rispondenti a cinque posizioni diverse nello
spazio delle cinque orbite ellittiche con la stessa energia; e quando l vale 3 i possibili valori
di m sono 7.
Nel 1926 due fisici statunitensi di origine olandese, George Eugene Uhlenbeck e Samuel
Abraham Goudsmit seppero dare una spiegazione teorica anche alle nuove righe spettrali.
Essi immaginarono che l'elettrone, oltre che girare intorno al nucleo, potesse girare anche
su sé stesso come fosse una trottola. In questo modo l'elettrone, dotato di carica,
creerebbe un suo proprio campo magnetico del tutto distinto da
quello che lo stesso produce girando intorno al nucleo.
Anche in questo caso fu necessario quantizzare la rotazione
attraverso l'introduzione di un quarto numero quantico, s (o
ms), detto numero quantico (magnetico) di spin ("to spin", in
inglese, significa girare). Poiché possiamo immaginare
l'elettrone girare su sé stesso, o in senso orario, o in senso
antiorario, i valori che s può assumere sono solo due: +½ e ½.
L'IPOTESI DI de BROGLIE DELLE ONDE ASSOCIATE AI CORPUSCOLI
Il modello di atomo costruito da Bohr e poi perfezionato ed arricchito da Sommerfeld e
da altri, nonostante fosse in grado di spiegare alcuni fatti sperimentali, e in particolare gli
spettri atomici, lasciava tuttavia i fisici perplessi e sostanzialmente insoddisfatti. Il motivo
di tale disagio andava ricercato nel fatto che il modello non poteva rispecchiare la realtà
oggettiva perché era stato ottenuto manipolando arbitrariamente le leggi della fisica.
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Era come trovarsi di fronte ad un problema con lo svolgimento
impreciso, ma con il risultato finale esatto. Com'è possibile che un
problema, elaborato con procedimento sostanzialmente errato,
possa poi presentare la soluzione esatta? Semplice, basta
conoscere in anticipo il risultato finale e condizionare il
procedimento, attraverso una serie di operazioni arbitrarie, fino a
pervenire alla soluzione desiderata. Allo stesso modo si era
proceduto nella costruzione del modello atomico.
Alla fine ci si rese conto che le lacune e le incongruenze
presenti nel modello non derivavano tanto da un formalismo
incompleto, quanto piuttosto dalla insufficienza delle stesse basi
teoriche su cui era stato impostato e sviluppato. Il problema non era quindi quello di
apportare qualche superficiale modifica al modello esistente, ma piuttosto di rivedere
radicalmente i concetti fondamentali della fisica. Ci si convinse cioè che per descrivere il
comportamento delle piccole particelle di cui sono fatti gli atomi non potevano essere
usate le stesse leggi valide per descrivere il comportamento degli oggetti di grandi
dimensioni.
Si trattava, in altre parole, di costruire una nuova meccanica che fosse in grado di
descrivere il comportamento degli oggetti di piccolissime dimensioni, come quelli presenti
negli atomi, ma che poi si avvicinasse a quella classica, se applicata agli oggetti più grandi.
Si abbandona la fisica classica per introdurre la meccanica quantistica.
Il punto di partenza della nuova meccanica atomica è rappresentato da un'audace
intuizione di un giovane aristocratico francese di lontane origini italiane, Louis Victor de
Broglie (1892-1987). Egli, nel 1923, convinto che dovesse esistere un principio unitario
che lega fra loro tutti i fenomeni naturali, con l'entusiasmo e la spregiudicatezza che
caratterizza molti giovani, avanzò l'ipotesi che le particelle materiali potessero presentare
anche le proprietà delle onde.
Come si era dimostrato che la luce, che normalmente viene interpretata come un
fenomeno di natura ondulatoria, a volte si comporta come se fosse composta di particelle,
così, secondo de Broglie, le particelle, in condizioni adatte, avrebbero dovuto presentare
anche proprietà ondulatorie: teoria dualistica dell’elettrone. Si trattava, in realtà, di
un'ipotesi molto azzardata, anche perché non esisteva, a quel tempo, alcun dato
sperimentale che facesse sospettare che i corpi materiali avessero una natura diversa da
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quella che ognuno poteva osservare direttamente.
Quando de Broglie espose la sua idea, molti fisici la trovarono completamente assurda
ed alcuni scienziati stranieri la definirono addirittura una "comédie française". I fatti però
daranno loro gravemente torto.
Solo alcuni anni più tardi, dopo il 1927, ci si convinse che un qualsiasi corpo in
movimento (elettrone, protone, atomo, o anche palla da tennis), oltre all'aspetto
corpuscolare, doveva presentare quello ondulatorio. In pratica però, quando la massa di
un corpo materiale è molto grande, la lunghezza dell'onda ad essa associata diventa
estremamente piccola e difficilmente evidenziabile. Quando invece un elettrone si muove
intorno al nucleo di un atomo, esso si trova nelle condizioni di mostrare il suo aspetto
ondulatorio.
Trattando quindi l'elettrone come fosse un'onda, si perviene al risultato che ad esso
sono permesse, intorno al nucleo, solo quelle orbite che sono in grado di contenere un
numero intero (n) di lunghezze d'onda ().
Ora si comprende perfettamente il motivo per il quale un elettrone può viaggiare solo
su orbite nettamente separate fra loro. L'elettrone, infatti, quando viaggia intorno al
nucleo, non deve essere considerato una particella, ma un'onda e, visto sotto questo
aspetto, lo si deve immaginare distribuito in tutte le parti dell'orbita su cui, in quel
momento, staziona.
Le orbite permesse all'elettrone sono quindi solo quelle la cui lunghezza è tale da poter
contenere un numero intero di onde. Il modello atomico di de Broglie , pur derivando da
quello di Bohr-Sommerfeld, non conservava più nulla della
struttura planetaria originaria: esso ora assomigliava piuttosto
ad una serie di corde concentriche vibranti (appunto le onde
stazionarie) di diametro via via crescente a mano a mano che
ci si allontanava dal nucleo. La lunghezza della prima orbita
percorribile dall'elettrone era dunque pari alla lunghezza di
un'onda di de Broglie, la lunghezza della seconda orbita era
pari alla lunghezza di due onde di de Broglie, e così di seguito
per le altre.
IL DUALISMO ONDA-PARTICELLA
Alcuni fenomeni luminosi potevano essere interpretati solo considerando la luce come
una forma di energia che si propaga per onde, mentre altri fenomeni potevano essere
spiegati solo immaginando la luce come uno sciame di corpuscoli in movimento. D'altra
parte abbiamo anche visto che gli elettroni, che erano stati sempre considerati particelle
materiali, presentavano, in determinate circostanze, proprietà ondulatorie.
Si faceva quindi strada l'idea che tutti i fenomeni, sia quelli di natura energetica, come
la luce, sia quelli di natura materiale, come gli elettroni e i protoni, potevano mostrare sia
le caratteristiche tipiche delle particelle, sia quelle delle onde. Che cosa erano, in realtà,
queste strane entità?
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Nella fisica classica, onde e particelle esibiscono proprietà sostanzialmente diverse. Una
particella, come è facile verificare nell'esperienza quotidiana, è un oggetto solido,
tangibile, ben localizzato in un punto e che scambia energia bruscamente, per pacchetti.
Un'onda invece è una cosa completamente diversa: essa non ha massa, è intangibile, e la
sua energia non è concentrata in un punto, ma diffusa lungo tutta l'onda.
Nella fisica classica quindi, i concetti di onda e di particella, si escludono a vicenda: se
una cosa è una particella, non è un'onda, e se è un'onda, non è una particella. Come è
possibile allora che i fatti sperimentali mostrino che una particella, seppure di piccole
dimensioni come è ad esempio un elettrone, possa presentare anche il comportamento
tipico delle onde?
Indipendentemente da ciò che elettroni, fotoni o protoni sono in realtà, poiché
esistono fatti sperimentali che ci fanno apparire questi "oggetti", a volte come fossero
particelle e a volta come fossero onde, ci sembra di poter affermare che i concetti di onda
e di particella, visti in senso classico, non sono idonei a descrivere in maniera
soddisfacente i fenomeni tipici dell'infinitamente piccolo.
Che cosa è allora in realtà un elettrone? La risposta potrebbe essere la seguente:
l'elettrone è un'entità estremamente piccola che non siamo in grado di osservare
direttamente, pertanto di esso possiamo affermare solo che, quando interagisce con uno
strumento rilevatore di un certo tipo, appare come un'onda e quando interagisce con uno
strumento rilevatore di altro tipo, appare come una particella. Quindi l'elettrone (ma
anche il protone, il fotone ed altre entità di piccole dimensioni), appare onda o particella a
seconda del modo in cui viene condotto l'esperimento atto a metterlo in evidenza.
Dobbiamo quindi concludere che l'elettrone è un oggetto strano che si comporta in
modo contraddittorio quando si tenta di interpretarlo secondo gli schemi classici, cioè
facendo uso di quelle leggi che normalmente si applicano alle strutture di grandi
dimensioni. Secondo EINSTEIN e DE BROGLIE le particelle sono onde e corpuscoli
insieme. Un elettrone, ad esempio, è un corpuscolo materiale dotato di attributi fisici ben
definiti (massa, energia, impulso, ecc.) che viaggia nello spazio associato ad un'onda che
lo guida nel suo movimento. Una deformazione dell'onda dovuta ad una causa qualsiasi fa
si che un'azione venga esercitata sull'elettrone, la cui traiettoria devierà. Secondo BOHR,
ogni particella (inosservata) "vive" in uno stato sovrapposto, "vive" come un miscuglio
indistinto di onda e corpuscolo. Nel momento in cui si sottopone (si decide di sottoporre)
ad esperimento detto miscuglio esso si manifesterà o come onda o come corpuscolo -MAI
COME ONDA E CORPUSCOLO INSIEME. Questa affermazione del 1927 va sotto il nome di
"principio di complementarità".
Quindi, già il semplice fatto che l'elettrone appaia a volte come un'onda e a volte
come un corpuscolo sta a significare che esso è qualche cosa di speciale che non può
essere descritto con le leggi della meccanica classica. Queste leggi descrivono infatti con la
massima precisione il comportamento ad esempio di un'onda del mare o quello di una
palla da tennis in movimento. Per descrivere le proprietà di elettroni, protoni e fotoni
devono esistere leggi speciali che non sono le stesse che descrivono il mondo
macroscopico.
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Queste leggi in realtà sono state scoperte e risiedono all'interno di una nuova teoria,
detta "meccanica quantistica". Per la Meccanica Quantistica la materia allo stato "naturale"
presenta sempre caratteristiche di sovrapposizione : caratteristiche di sovrapposizione che
scompaiono al momento della misura, dell'osservazione ... Essa è in grado, come
vedremo, di conciliare l'aspetto ondulatorio e quello particellare delle entità di piccole
dimensioni e quindi di rappresentare finalmente in modo coerente i fenomeni riguardanti il
mondo microscopico degli atomi. Si tratta, tuttavia, di una teoria prettamente matematica
che non è in grado di produrre modelli concreti.
IL PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE
Il principio di indeterminazione è un principio fisico che impone delle regole e dei limiti
nei processi di misurazione di grandezze di piccole dimensioni, e fu enunciato, nel 1927,
dal fisico tedesco Werner Heisenberg.
Prima di chiarire il contenuto di questo principio è indispensabile una premessa di
carattere generale: "La scienza si occupa esclusivamente di quei fenomeni sui quali è
possibile effettuare delle misurazioni; ciò che non è misurabile esula dal campo
dell'indagine scientifica". Questo è un concetto di fondamentale rilevanza nell'ambito della
ricerca scientifica ed era stato introdotto già da Einstein nella sua teoria della relatività.
Se si volesse determinare simultaneamente con la massima precisione la posizione di un
elettrone e la sua velocità, ciò risulterebbe impossibile in quanto, la misura accurata di una
grandezza porterebbe ad una valutazione imprecisa dell'altra; anzi, l'aumento
dell'accuratezza di una delle due misure, renderebbe sempre più imprecisa l'altra.
Cerchiamo di chiarire meglio questo concetto.
Immaginiamo di voler localizzare nello spazio un elettrone. Per farlo, sarebbe
indispensabile quanto meno illuminarlo, altrimenti non lo si vedrebbe, e di esso non si
potrebbe dire niente. Per illuminare un elettrone è necessario, però, lanciargli contro
almeno un fotone. Ora, il fotone è anch'esso un'entità fisica delle dimensioni più o meno
dell'elettrone, e quando va ad interagire con questo, lo sposta dalla sua posizione.
Nel momento in cui il fotone urta l'elettrone, lo sposta dalla sua posizione perché gli
trasferisce una parte della sua quantità di moto (proprio come quando due biglie più o
meno della stessa grandezza si scontrano), modificando velocità e direzione del suo
movimento. Per evitare che il fotone sposti l'elettrone nel momento in cui lo urta, si
potrebbe utilizzare un fotone con piccola energia, ossia con piccolo valore della quantità di
moto. Un tale fotone, però, avrebbe un'onda associata molto lunga (la lunghezza dell'onda
associata alla particella è infatti, come si ricorderà, inversamente proporzionale alla sua
quantità di moto); ma un'onda molto lunga passerebbe sull'elettrone senza rilevarne la
presenza, come fa un'onda del mare molto lunga quando incontra un piccolo galleggiante:
"non se ne accorge nemmeno".
Ci si trova quindi di fronte ad una situazione senza soluzione: volendo determinare con
la massima precisione la posizione di una particella in movimento non è poi più possibile
conoscere, nello stesso momento, e con la stessa precisione, la sua quantità di moto, e
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quindi non è possibile sapere in che direzione la particella si sposterà. D'altra parte,
pretendere di conoscere con esattezza la quantità di moto di una particella per poter
sapere dove andrà, impedisce di conoscere, con altrettanta precisione, la posizione che la
particella occupa nello spazio, in quel preciso istante.
Quello che abbiamo esposto rappresenta il contenuto del principio di indeterminazione
di Heisenberg
Il principio di indeterminazione sarebbe valido, in teoria, per qualsiasi oggetto
materiale, ma in pratica ha conseguenze importanti solo se applicato a particelle di
dimensioni atomiche o subatomiche
Ora è chiaro il motivo per il quale non è possibile,
nemmeno in linea di principio, verificare sperimentalmente il percorso seguito
dall'elettrone in movimento intorno al nucleo: esiste un ostacolo, in natura, che ce lo
impedisce.
LA MECCANICA QUANTISTICA
La meccanica quantistica, come abbiamo già accennato, è una nuova meccanica che è
finalizzata a descrivere il moto dei corpuscoli di dimensioni atomiche e subatomiche. Essa
non fa più uso delle leggi di Newton, ma di leggi probabilistiche, cioè di leggi tipicamente
matematiche. Con la meccanica quantistica si viene quindi a separare nettamente la
macrofisica dalla microfisica, riservando all'una e all'altra leggi, modi di operare e
competenze specifiche.
Nel 1927, il fisico tedesco Max Born dette, alla funzione d'onda, un significato di tipo
probabilistico. Egli introdusse il concetto di probabilità affrontando in modo del tutto
originale il problema relativo alla posizione dell'elettrone intorno al nucleo atomico .
La forma attuale della meccanica quantistica è dovuta all'inglese P.A. Maurice Dirac
(1902-1984). Essa si fonda direttamente sul principio di indeterminazione e trae le
conseguenze di tale principio attraverso una struttura logica e matematica. La meccanica
ondulatoria si colloca, all'interno della meccanica quantistica, come un suo aspetto
particolare.
IL CONCETTO DI ORBITALE
Se fossimo in grado di cogliere alcune posizioni occupate dall'elettrone attorno al nucleo
e di determinare contemporaneamente la velocità con cui si sposta, potremmo costruire
un modello di atomo perfettamente aderente alla realtà. Sappiamo invece che ciò non è
possibile e quindi non sapremo mai dove si trovano effettivamente gli elettroni che
stazionano intorno al nucleo degli atomi.
Abbiamo però scoperto che la meccanica quantistica è in grado di fornire alcune
informazioni relativamente all'elettrone che si muove intorno al nucleo. Queste
informazioni sono di carattere statistico e si riferiscono alla possibilità che l'elettrone possa
trovarsi in un punto o in un altro dello spazio intorno al nucleo. La meccanica quantistica,
in altre parole, non fornisce informazioni relativamente al percorso seguito dall'elettrone
nel suo movimento, ma solo una descrizione probabilistica della sua posizione.
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Come abbiamo già detto, l'equazione d'onda ammette infinite soluzioni ma, quando
viene applicata ad un determinato atomo, fornisce soluzioni accettabili, solo se si utilizzano
i valori dell'energia che l'elettrone effettivamente può assumere spostandosi attorno al
nucleo. Tali soluzioni rappresentano le posizioni possibili dell'elettrone nello spazio
circostante il nucleo e corrispondono agli stati stazionari individuati da Bohr per altra via.
Se un elettrone ha una determinata energia, esso transita con maggior frequenza ad
una certa distanza dal nucleo, se ha un'altra energia transita con maggior frequenza in
un'altra zona circostante il nucleo. In altri termini, ponendo dei valori a caso dell'energia,
si troverebbero, per la funzione d'onda, delle soluzioni prive di significato fisico, mentre
ponendo i valori dell'energia ricavati dalle misure sperimentali, si ottengono funzioni
d'onda con senso fisico reale.
Le funzioni d'onda, relative agli elettroni che si trovano all'interno degli atomi, sono
dette funzioni d'onda orbitali, o semplicemente “orbitali”. L'orbitale quindi non è altro che
l'insieme dei valori che assume la funzione d'onda di un determinato elettrone in tutti i
punti dello spazio intorno al nucleo.
Ora siamo in grado di definire con maggiore precisione le caratteristiche dell'elettrone.
L'elettrone è un'entità fisica con proprietà del tutto particolari che non trovano riscontro in
nulla di tutto ciò che esiste nel mondo macroscopico: esso pertanto può essere descritto
solo in termini matematici. In altre parole possiamo anche dire che l'elettrone è un'entità
quantomeccanica.
Poiché l'onda associata ad un corpuscolo, è un'onda tridimensionale, ogni orbitale
elettronico viene definito dai valori di una terna di numeri interi detti numeri quantici: ad
ogni terna di valori corrisponde un'unica funzione, cioè un unico orbitale. I numeri
quantici, che si designano con le lettere n, l e m, sono gli stessi che abbiamo già
incontrato nel modello di Bohr e Sommerfeld.
L'orbitale, come abbiamo detto in precedenza, ha un preciso significato matematico, ma
non ha un altrettanto preciso significato fisico. Tuttavia, il quadrato di questa funzione,
rappresenta qualche cosa di fisicamente osservabile: esso fornisce infatti la probabilità di
trovare l'elettrone in un certo punto dello spazio.
Il termine di orbitale deriva da quello di orbita, ma non ha nulla a che vedere con esso.
Anzi, i due concetti sono opposti e si escludono a vicenda: orbita racchiude infatti un
concetto deterministico, mentre orbitale ne racchiude uno probabilistico.
Per definire la forma dell'orbitale si possono calcolare, per mezzo dell'equazione d'onda,
le probabilità di presenza dell'elettrone per migliaia di punti dello spazio intorno al nucleo.
Si viene così ad individuare una struttura tridimensionale con punti in cui è maggiore la
probabilità di trovarvi l'elettrone e punti in cui tale probabilità è minore: a mano a mano
che ci si allontana dal nucleo, si nota che questa probabilità diminuisce, ma non diventa
mai zero.
Se ora immaginiamo di limitare una regione di spazio intorno al nucleo in cui è molto
alta la probabilità di incontrare l'elettrone (per esempio una regione in cui la probabilità sia
del 90 o del 95 per cento) abbiamo individuato la forma dell'orbitale. Si è potuto così
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accertare che le forme possibili di orbitale sono svariate. Poiché l'elettrone è portatore di
carica elettrica, la distribuzione della densità di probabilità di trovare l'elettrone intorno al
nucleo corrisponde ad una specie di nuvola di elettricità che viene anche detta "nuvola di
carica elettronica".
E' interessante osservare che la soluzione dell'equazione d'onda mostra che l'elettrone
potrebbe in teoria trovarsi in un punto qualsiasi dello spazio intorno al nucleo (anche se
poi in pratica la probabilità di trovarlo in punti molto lontani è quasi nulla). Questo fatto, è
in netto contrasto con quanto veniva asserito da Bohr e Sommerfeld secondo i quali la
posizione dell'elettrone era determinata con precisione assoluta in quanto l'elettrone
stesso non poteva percorrere un'orbita qualsiasi intorno al nucleo, ma solo quella che si
trovava ad una ben precisa distanza da esso.
La soluzione dell'equazione d'onda, relativa all'elettrone dell'atomo di idrogeno che
staziona sul livello energetico più basso, cioè nello stato fondamentale, fa vedere che la
più elevata probabilità di presenza dell'elettrone, o per meglio dire, la maggiore
concentrazione di esso all'interno dell'orbitale, si riscontra proprio ad una distanza dal
nucleo pari al raggio dell'orbita di Bohr (0,53 Å) (v. fig. 25).
Gli orbitali, come abbiamo detto, possono assumere varie forme: ve ne sono di sferici,
di bilobati e di forme anche più complesse. La forma, le dimensioni e l'orientamento nello
spazio degli orbitali stessi, sono definite dai numeri quantici: n, l e m. Questi tre numeri
nel modello di atomo di Bohr e Sommerfeld si riferivano al moto dell'elettrone e definivano
gli assi delle orbite ellittiche, cioè la forma e l'orientazione nello spazio di queste orbite.
Il quarto numero quantico, s (numero di spin), non ha nulla a che vedere con la legge
probabilistica, in quanto esso riguarda lo stato intrinseco dell'elettrone che ovviamente è
indipendente dalla posizione che assume nello spazio.
Il numero quantico principale, n, è legato all'energia dell'elettrone e determina, in un
certo senso, le dimensioni dell'orbitale: più aumenta il valore di n più aumenta il volume
entro il quale è grande la probabilità di trovarvi l'elettrone.
Il numero quantico secondario, l, determina la forma dell'orbitale: per l=0, l'orbitale
assume forma sferica (esso è detto anche orbitale di tipo s), per l=1 l'orbitale assume
forma bilobata (esso è detto anche orbitale di tipo p). Gli orbitali di forma più complessa
(l=2, l=3,...) possono essere chiamati anche orbitali di tipo d, orbitali di tipo f, e così via,
facendo uso della stessa simbologia incontrata nel modello di Bohr-Sommerfeld.
Il numero magnetico, m, determina l'orientamento nello spazio dell'orbitale. L'orbitale di
tipo s è di forma sferica e, poiché per la sfera non è possibile distinguere fra posizioni
diverse nello spazio, il numero magnetico in questo caso vale zero. Per gli orbitali di tipo p,
m può assumere tre valori distinti, che fissano le tre posizioni possibili nello spazio di quel
tipo di orbitale. Gli orbitali di tipo d e di tipo f si possono orientare nello spazio
rispettivamente in 5 posizioni diverse e in 7 posizioni diverse (v. fig. 26).
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