disturbi di ansia - Istituto di Psicologia Scolastica

annuncio pubblicitario
Firera e Liuzzo Publishing è un marchio di Firera & Liuzzo Group
© 2008 - Firera & Liuzzo Group
Via Boezio, 6 - 00193 Roma
www.fireraliuzzo.com
Firera & Liuzzo Group è un membro di
Vincenzo Poerio e Maria Teresa Merenda
LA PSICOTERAPIA COGNITIVO
COMPORTAMENTALE NELLA
PRATICA CLINICA
InDICE
Presentazione
Prefazione
PRIMA PARTE - I disturbi depressivi
9
13
1 - Disturbi depressivi
19
1.1
1.2
1.3
1.4 19
22
31
36
Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Modelli comportamentali e cognitivi
Trattamento
Casi clinici
SECONDA PARTE - I disturbi d’ANSIA
2 - Disturbi d’ansia
53
2.1 Introduzione
2.2 Modelli comportamentali e cognitivi
2.3 Trattamento
53
54
57
3 - Disturbo da panico
63
3.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
3.2 Modelli comportamentali e cognitivi
63
65
4 - Agorafobia
71
4.1
4.2
4.3
4.4 71
72
73
79
Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Modelli comportamentali e cognitivi
Trattamento
Casi clinici
5 - Fobia specifica
87
5.1
5.2
5.3
5.4 87
88
90
94
Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Modelli comportamentali e cognitivi
Trattamento
Casi clinici
6 - Fobia sociale
6.1
6.2
6.3
6.4 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Modelli comportamentali e cognitivi
Trattamento
Casi clinici
99
99
100
103
109
7 - Disturbo ossessivo compulsivo
117
7.1
7.2
7.3
7.4 117
120
124
130
Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Modelli comportamentali e cognitivi
Trattamento
Casi clinici
8 - Disturbo d’ansia generalizzato
133
8.1
8.2
8.3
8.4 133
136
137
138
Introduzione
Modelli comportamentali e cognitivi
Trattamento
Casi clinici
TERZA PARTE - I disturbi dELLA CONDOTTA ALIMENTARE
9 - Disturbi della condotta alimentare
145
9.1 Introduzione
9.2 Modelli comportamentali e cognitivi
9.3 Trattamento
145
146
148
10 - Bulimia nervosa
151
10.1
10.2
10.3
10.4 151
152
154
159
Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Modelli comportamentali e cognitivi
Trattamento
Casi clinici
11 - Disturbo da alimentazione incontrollata
163
10.1
10.2
10.3
10.4 163
164
165
166
Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Modelli comportamentali e cognitivi
Trattamento
Caso clinico
quarta PARTE - I disturbi di personalità
12 - Disturbi di personalità
171
12.1 Introduzione
12.2 Modelli comportamentali e cognitivi
12.3 Trattamento
171
177
181
13 - Disturbo borderline
183
13.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
13.2 Trattamento
13.3 Caso clinico
183
185
189
14 - Disturbo istrionico
193
14.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
14.2 Trattamento
14.3 Caso clinico
193
194
197
15 - Disturbo narcisistico
199
15.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
15.2 Trattamento
15.3 Caso clinico
199
201
205
16 - Disturbo evitante
207
16.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
16.2 Trattamento
16.3 Caso clinico
207
209
213
17 - Distrubo dipendente
217
17.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
17.2 Trattamento
17.3 Caso clinico
217
218
221
7
Indirizzi utili
Bibliografia ragionata
Elenco di letture specialistiche di approfondimento
223
225
237
PRESENTAZIONE
L’anno che si è appena concluso (2007) è stato un po’ speciale per gli studiosi di
psicoterapia cognitivo-comportamentale che sono anche cultori dei numeri : infatti, in
primo luogo, sono trascorsi trentuno anni dalla pubblicazione del libro di A.T. Beck
“Cognitive therapy and the emotional disorders” (1976), pietra miliare per la nascita della
terapia cognitiva. Dal mio punto di vista, tale lavoro costituisce anche un punto di riferimento affettivo, avendone curato l’edizione italiana (“Principi di terapia cognitiva” ),
caricandomi così gli oneri e gli onori di portare al più vasto pubblico italiano il lavoro
di Beck, aggiungendo a tale pubblicazione quella successiva dell’edizione italiana di
“Anxiety disorders and phobias” (1985) (“L’ansia e le fobie” ).
In secondo luogo, ricorre il trentennale dalla pubblicazione del libro “Cognitivebehavior modification” di Donald Meichenbaum (1977), dal quale si è andato affermando l’uso del termine “cognitivo-comportamentale” per designare un approccio che
andava ad integrare le acquisizioni clinico-teoriche di area comportamentale, combinandole con quelle provenienti dalla neonata “rivoluzione cognitiva” esplosa negli anni
’60 del secolo scorso.
Come ha successivamente notato M. Mahoney (1988), da allora, si sono differenziate almeno una ventina di modalità differenti nell’ambito dell’approccio cognitivocomportamentale che sono state recentemente suddivise in 2 macroareee principali: gli
approcci cognitivi standard e gli approcci costruttivisti.
Senza entrare nel merito di tali questioni classificatorie che da un lato semplificano
ma dall’altra fanno, a volte, perdere di vista la complessità delle problematiche, possiamo sinteticamente affermare che gli approcci clinici cognitivi standard avendo un’”anzianità di servizio” maggiore di quelli costruttivisti, si presentano allo stato attuale più
definiti, delineati e supportati da evidenze; mentre quelli costruttivisti, essendo più
recenti, si trovano nella fase di definizione e verifica di alcuni dei loro assunti teoricoclinici.
Naturalmente, numerosi assunti costruttivisti nascono da alcune problematiche
lasciate irrisolte o risolte in modo insoddisfacente dagli approcci “standard”, per cui,
allo stato attuale delle cose, a nostro avviso, l’atteggiamento più corretto da mantenere
nei confronti del dibattito in corso, non è certamente quello tipicamente italiano di
porsi “a favore” o “contro” qualcuno o qualcosa come in una disputa da “bar dello
sport”, bensì quello di considerare in modo serio ed equilibrato le problematiche e i
punti di debolezza dei modelli e della pratica clinica e considerare i diversi punti di
vista e contributi utili alle soluzioni che a volte possono venire da un versante, a volte
da un altro.
9
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Infatti, tematiche come, per esempio, il rapporto tra processi cognitivi, emozioni e
comportamento, o la tematica attuale del peso specifico della relazione terapeutica come
fattore di cambiamento, oppure le difficoltà di trattamento condivise da tutti gli approcci dei cosiddetti disturbi di personalità, costituiscono problematiche troppo complesse
da pretendere di essere affrontate e risolte da un solo modello o unico approccio, e a
maggior ragione, aggiungiamo noi, da una sola disciplina come la psicoterapia.
Alla luce della presa di coscienza di una sempre maggiore complessità delle problematiche inerenti la psicoterapia e il lavoro clinico quotidiano diventa importante
porsi in una prospettiva ampia e articolata che non dovrebbe tradursi in facili e improvvisati eclettismi superficiali, bensì in una visione complessa e profonda delle problematiche fondamentali della psicoterapia e con una mentalità “aperta” al confronto
costruttivo.
Ma la condizione sine qua non per favorire questo processo negli allievi è quella di
aiutarli a formarsi una precisa identità clinica di base, assimilando e metabolizzando un
modello di base che fornisca loro delle coordinate teoriche e degli strumenti operativi
utili alla professione.
Ed è proprio in tale prospettiva che, a nostro avviso, si colloca il corposo lavoro
di Poerio e Merenda che con il loro taglio teorico-applicativo, illustrano una serie di
modelli teorici di riferimento corredati dall’esposizione di numerosi esempi clinici dei
disturbi che si incontrano maggiormente nella pratica clinica, fornendo un utile ed
originale manuale sulla teoria e sulla clinica applicativa che potrà essere un agile strumento di consultazione, di guida e di stimolo per l’allievo in formazione.
Infatti, prima di ogni altra eventuale operazione di confronto o di integrazione
rigorosa e funzionale è assolutamente necessario che ogni allievo conosca e pratichi
almeno uno dei principali approcci classici cognitivo-comportamentali che nel lavoro
degli autori vengono descritti teoricamente e praticamente, con ordine, chiarezza e
sistematicità.
Tali caratteristiche sono certamente tra quelle che di solito vengono maggiormente
apprezzate dagli allievi nell’iter di formazione e che li aiutano a crescere e prepararsi nel
difficile e delicato compito della professione di psicoterapeuta.
Giuseppe Sacco
Università degli Studi di Siena
Bibliografia
Beck, A.T. (1967).Cognitive therapy and the emotional disorders. New York. International University Press. Trad. It. Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio, 1984.
Beck, A.T., & Emery, G. (1985). Anxiety disorders and phobias: a cognitive perspective.
New York: Basic Books. Trad. It. L’ansia e le fobie: una prospettiva cognitive. Roma:
Astrolabio, 1988.
10
Presentazione
Mahoney, M. J. & Lyddon (1988). Recent development in cognitive approach to conseling and psychotherapy. Counseling Psychotherapy, 16, 190-234.
Meichenbaum, D. (1977). Cognitive-behavior modification. New York: Plenum Press.
Reda, M. & Sacco, G. (2001).La terapia cognitivo-comportamentale nei disturbi d’ansia.
In P. Pancheri (Ed.). Il Punto su: Ansia e non ansia. Diagnosi e terapia di un continuum psicopatologico in evoluzione. Firenze: Scientific Press.
Sacco, G. (2003). Psicoterapia e sistemi dinamici. Milano: MCGraw-Hill.
11
Prefazione
Ci siamo chiesti: perché scrivere un altro libro che tratta della psicoterapia cognitivo comportamentale se, nel panorama editoriale italiano ed internazionale, i testi che
affrontano questo tema sono ormai innumerevoli ed autorevoli?
Infatti sia Beck che Ellis che Meichenbaum, per citare alcuni degli autori più famosi, hanno già ampiamente divulgato, con i loro testi, i principi, i modelli, le strategie
e le tecniche cognitivo comportamentali. Allora, perché scriverne un altro?
Sia come docenti nelle scuole di specializzazione in psicoterapia che in qualità di
supervisori clinici, abbiamo avuto modo di sentirci chiedere continuamente di poter
consultare dei testi che illustrassero in modo chiaro, lineare ed esauriente la pratica del
clinico nel “fare” la terapia cognitivo comportamentale. Oggi gli allievi si iscrivono e
partecipano ai corsi di formazione con un atteggiamento diverso da quello tenuto dai
colleghi di una generazione fa: sono impazienti di fare pratica, sono “affamati” di conoscenze riguardo cosa e come fare, per placare la propria impazienza e per soddisfare
le richieste dei pazienti.
Nella certezza che il presente testo contribuirà ad arricchire la già nutrita biblioteca
di terapia cognitivo comportamentale, ci aspettiamo che esso aiuti gli studenti, psicoterapeuti in formazione, ed i terapeuti junior ad apprendere e ad applicare il metodo
clinico così come si svolge ed articola nella sua esperienza quotidiana reale.
In questo lavoro ci siamo prefissi di descrivere il trattamento dei disturbi clinici che più frequentemente incontriamo nella pratica psicoterapeutica. Il contributo è
organizzato in quattro parti. Ogni parte si riferisce ad una famiglia di Disturbi psicologici, secondo i criteri indicati dal DSM – IV R. Ogni singolo Disturbo viene presentato nelle sue caratteristiche cliniche specifiche; vengono introdotti i modelli clinici di
riferimento; sono presentati nel dettaglio, per mezzo di “finestre dedicate”, le tecniche
e i metodi di trattamento più diffusi e funzionali; infine sono illustrati uno o più casi
clinici completi di presentazione, assessment, concettualizzazione, trattamento ed esiti
terapeutici.
La prima parte è dedicata ai Disturbi Depressivi e approfondisce casi di Depressione Maggiore e di Disturbo Distimico.
La seconda parte si interessa di Disturbi di Ansia ed in particolare tratta casi di
Disturbo di Panico con o senza Agorafobia, di Fobia Specifica, di Fobia Sociale, di Disturbo Ossessivo Compulsivo e infine di Disturbo di Ansia Generalizzato.
La terza parte è dedicata ai Disturbi della Condotta Alimentare e approfondisce
casi di Bulimia Nervosa e di Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Binge Eating
Disorder).
13
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
La quarta ed ultima parte si interessa di Disturbi della Personalità e approfondisce
casi di Disturbo Borderline, Disturbo Istrionico, Disturbo Narcisistico, Disturbo Evitante e Disturbo Dipendente.
Con il presente contributo non pretendiamo di aver offerto una panoramica esauriente, né in termini di casistica clinica né in termini di possibilità di intervento procedurale e strategico e non abbiamo presentato tutti i modelli applicativi che sono alla
base di una psicoterapia cognitivo comportamentale, in quanto ciò esula dalla finalità
di questo libro. Vorremmo ricordare, peraltro, che non esiste un’unica modalità di
psicoterapia cognitivo comportamentale e poiché questo modello clinico è flessibile
e lascia molto spazio alla creatività individuale, non ci aspettiamo che la nostra esperienza sia necessariamente condivisa da altri colleghi. Siamo certi, invece, che il lettore
individuerà degli spunti di riflessione sui processi terapeutici e gli stimoli necessari per
una concreta e funzionale operatività clinica.
Infine, vorremmo concludere sottolineando che con questo testo abbiamo voluto
fornire un utile contributo al lettore italiano particolarmente interessato alla pratica
clinica privata.
Ai casi clinici descritti sono state apportate modifiche allo scopo di renderli irriconoscibili. Sono state comunque rispettate e mantenute fedelmente le caratteristiche
di personalità dei pazienti, i loro problemi e le situazioni di vita.
14
“La psicoterapia non si pone come obiettivo primario
di far luce sul passato, che è immutabile, ma è mossa
piuttosto dall’insoddisfazione per lo stato in cui attualmente
versano le cose e dal desiderio di offrire un futuro migliore”
Watzlawick, Weakland e Fish
“Gli uomini non sono spinti ad agire dalle cose in se stesse
ma dalle idee che per loro esse rappresentano”
Epitteto
“Il nevrotico non ha soltanto una vita emotiva disturbata –
ma anche un livello cognitivo distorto”
Abraham Maslow
“Se vogliamo cambiare i sentimenti è necessario prima di
tutto modificare l’idea che li ha prodotti, e riconoscere o che
non è corretta in sé, o che non incide sui nostri interessi”
Paul Dubois
“...In ogni frammento di una storia si trova la forma dell’ intera storia...”
C. Pincola Estés
PARTE PRIMA
I DISTURBI DEPRESSIVI
“Io non lotto contro il mondo, io lotto contro una forza più grande,
contro la mia stanchezza del mondo”
E.M. Cioran
“Giacere svegli, programmando il futuro, cercando di sbrogliare,
districare, dipanare e far quadrare il passato e il futuro,
tra mezzanotte e l’alba, quando il passato è ormai solo inganno,
il futuro senza futuro…”
T.S. Eliot
CAPITOLO 1
DISTURBI DEPRESSIVI
1.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
(American Psychiatric Association – APA, 1994)
Disturbo depressivo maggiore
A. Presenza di un Episodio Depressivo Maggiore
B. L’Episodio Depressivo Maggiore non può essere meglio inquadrabile come Disturbo Schizoaffettivo e non sovrapponibile a Schizofrenia, Disturbo Schizofreniforme,
Disturbo Delirante o Disturbo Psicotico N.A.S.
C. Non è mai stato presente un Episodio Maniacale, un Episodio Misto o un Episodio
Ipomaniacale.
Episodio Depressivo Maggiore
A. Cinque (o più) dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo di 2 settimane e presentano un cambiamento rispetto al precedente
livello di funzionamento: almeno uno dei sintomi è costituito da (1) umore depresso
o (2) perdita di interesse o piacere.
Nota: non includere sintomi chiaramente dovuti ad una condizione medica generale
o a deliri e allucinazioni incongruenti con l’umore.
1. umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto (p. es. si sente triste o vuoto) o come osservato da altri (p.
es. appare incline al pianto). Nota: nei bambini e negli adolescenti l’umore può
essere irritabile
2. marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività
per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (come riportato dal soggetto
o come osservato da altri)
3. significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento
19
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
B. C. D. E. di peso (p. es. un cambiamento di più del 5% del peso corporeo in un mese), oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno. Nota: nei
bambini considerare l’incapacità di raggiungere i livelli ponderali attesi
4. insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno
5. agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservabile dagli
altri, non semplicemente sensazioni soggettive di irrequietezza o rallentamento)
6. faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno
7. sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di
colpa (che possono essere deliranti) quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o sentimenti di colpa per il fatto di essere ammalato)
8. diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere
decisioni, quasi ogni giorno (come impressione soggettiva o osservazione di
altri)
9. ricorrenti pensieri di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione
suicida senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o
l’elaborazione di un piano specifico per commettere suicidio
I sintomi non soddisfano i criteri per un episodio misto.
I sintomi causano disagio clinicamente significativo o un’alterazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre importanti aree.
I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (p. es. l’abuso
di una sostanza o un farmaco) o a condizione medica generale (p. es. ipotiroidismo).
I sintomi non sono meglio giustificati da lutto, cioè dopo la perdita di una persona
cara i sintomi persistono per più di 2 mesi o sono caratterizzati da una compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi
psicotici o rallentamento psicomotorio.
DISTURBO DISTIMICO
A. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, come riferito
dal soggetto ed osservato dagli altri, per almeno 2 anni
B. Presenza, quando depresso, di due (o più) dei seguenti sintomi:
1. scarso appetito o iperfagia;
2. insonnia o ipersonnia;
3. scarsa energia o astenia;
4. bassa autostima;
5. difficoltà di concentrazione o nel prendere decisioni;
6. sentimenti di disperazione.
C. Durante i due anni di malattia la persona non è mai stata priva di sintomi di cui ai
Criteri A e B per più di due mesi alla volta
D. Durante i primi due anni di malattia non è stato presente un Episodio Depressivo
Maggiore; cioè il disturbo non è meglio inquadrabile come Disturbo Depressivo
Maggiore Cronico, o Disturbo Depressivo Maggiore, in Remissione Parziale
Nota: Prima dell’insorgere del Disturbo Distimico può esserci stato un Episodio Depressivo Maggiore, purché seguito da una totale remissione (nessun segno o sintomo
per due mesi). Inoltre, dopo i primi due anni di Disturbo Distimico possono esserci
episodi sovrapposti di Disturbo Depressivo Maggiore; in questo caso vengono poste
entrambe le diagnosi se risultano soddisfatti i criteri per l’Episodio Depressivo Maggiore.
20
I Disturbi depressivi
E. Non è mai stato presente un Episodio Maniacale, Misto o Ipomaniacale, né sono
stati mai risultati soddisfatti i criteri per il Disturbo Ciclotimico
F. La malattia non si manifesta esclusivamente durante il corso di un Disturbo Psicotico cronico, come Schizofrenia o Disturbo Delirante
G. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. abuso
di sostanza, un farmaco) o di una condizione medica generale (per es. ipotiroidismo)
H. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti
Tabella 1.1 - Aspetti clinici della Depressione (da Cassano, 1990)
Disturbo dell’umore
depressione, irritabilità, ansia, anedonia
Sintomi vegetativi
modificazioni: libido
appetito
sonno
Sintomi psicomotori
astenia
riduzione movimenti spontanei (mimica …)
riduzione linguaggio (fluidità, contenuti)
alterazione memoria e concentrazione
Sintomi cognitivi
riduzione autostima
autorimprovero, colpa
pessimismo
temi di rovina
idee di morte, di suicidio
Il Disturbo dell’Umore si caratterizza per la profonda tristezza e la disperazione;
l’incapacità di provare piacere (anedonia) può portare all’indifferenza anche verso ciò
che prima arrecava soddisfazione.
I sintomi vegetativi riguardano: la sfera sex, con diminuzione del desiderio; il rapporto con il cibo, con inappetenza o iperfagia; l’area del sonno, con insonnia caratterizzata frequentemente da risvegli precoci al mattino.
Si ha rallentamento psicomotorio che si manifesta con riduzione di movimenti
spontanei e con amimicità del volto, fissata su un’espressione di sofferenza.
Nel linguaggio si ha una riduzione della fluidità, della varietà dei contenuti e della
terminologia impiegata.
Le funzioni psichiche sono rallentate e si possono avere disturbi della memoria e
difficoltà di concentrazione.
Il soggetto depresso nutre nei propri confronti sentimenti di disistima, indegnità
e colpa. Ha una visione della realtà improntata al pessimismo che, unitamente alla
convinzione dell’impossibilità di essere aiutato ed alla mancanza di speranza, può portare a ritenere il suicidio come unica soluzione per la liberazione dalla sofferenza e per
l’espiazione delle proprie colpe (Cassano e Cecconi, 1995; Saggino, 2004).
21
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
1.2 Modelli comportamentali e cognitivi
Le teorie comportamentali basate sul condizionamento rilevano la centralità del
ruolo dei rinforzi ricevuti dai comportamenti emessi. La riproposizione di un determinato comportamento è subordinata alla presenza di rinforzi positivi, in assenza dei
quali l’azione tende ad estinguersi.
Secondo questo orientamento la condizione depressiva è conseguente alla mancanza di ricompense delle proprie attività, motivo per il quale la persona riduce l’attivazione comportamentale (Lazarus, 1968) e sperimenta un vissuto di perdita di controllo
sugli effetti del proprio comportamento.
Questa condizione di “sospensione” o ritiro dall’interazione con l’ambiente coinvolge sia le attività, finalizzate a soddisfare i bisogni e raggiungere obiettivi, sia i rapporti interpersonali, limitando sempre di più le opportunità di ricevere rinforzi positivi
e di alimentare la fiducia nelle proprie capacità.
Secondo Ferster (1973) il comportamento depressivo è il risultato di una riduzione prolungata della quantità di rinforzi positivi provenienti dall’ambiente e del contemporaneo aumento delle punizioni. La riduzione o cessazione delle contingenze di
rinforzo positivo può essere determinata tanto da cambiamenti nell’ambiente (lutto,
separazione, pensionamento …) quanto da comportamenti del soggetto.
Ferster ritiene che la persona depressa, indipendentemente dall’effettiva presenza
di un rinforzo o dalla possibilità concreta di ottenerlo, manifesti una ridotta capacità di
riconoscere sia l’opportunità di accedervi sia le caratteristiche di ricompensa possedute
da uno stimolo.
Il ruolo primario del rinforzo nella genesi e nel mantenimento del Disturbo è sottolineata da Costello (1972): nella Depressione risulta significativa la perdita di efficacia dei rinforzi. In presenza di un insieme di ricompense collegate tra loro, la perdita di
efficacia di quella più rilevante coinvolge a catena tutte le altre, a prescindere dal fatto
che queste ultime possano essere ancora presenti e raggiungibili dal soggetto. L’Autore
ha applicato tale teoria nella spiegazione della Depressione reattiva alla separazione.
Ferster (1974) enfatizza la necessità di rinforzare positivamente condotte incompatibili con quelle depressive, intervenendo sulla famiglia e sull’ambiente. Il soggetto
depresso, infatti, è molto abile nel sollecitare negli altri sentimenti di commiserazione
e pietà che contribuiscono a mantenere il Disturbo.
Lewinsohn (1974, 1985) integra le precedenti teorie, enfatizzando il ruolo dei
rinforzi sociali nell’origine e nel mantenimento della Depressione. Il soggetto depresso
possiede un basso livello di competenza sociale e, in conseguenza della riduzione delle
proprie attività, riceve un minor numero di rinforzi positivi e ciò aumenta la limitazione dell’attivazione comportamentale. Inoltre, i comportamenti disforici vengono
rinforzati da una limitata cerchia di persone con le quali il depresso conserva i rapporti:
coloro che gli prestano attenzione, lo confortano e lo supportano nel mantenimento
del Disturbo.
Gray (1987) attribuisce rilievo alla modificazione del ruolo di determinati stimoli
che, essendo stati inizialmente fonte di gratificazione e ricompensa, successivamente
diventano motivo di frustrazione. Ad esempio, una persona particolarmente significativa per il soggetto è, con la sua presenza, fonte di gratificazione ma, nel momento in
22
I Disturbi depressivi
cui viene a mancare, la stessa diventa motivo di frustrazione perché non soddisfa più
le sue aspettative.
Il soggetto depresso non riconosce nel suo comportamento le cause della condizione negativa nella quale si trova (locus of control interno) ma si ritiene “vittima” della
situazione determinata da fattori incontrollabili (locus of control esterno).
Rehm (1975) propone un modello della Depressione che rileva il ruolo attivo della
persona nel suo rapporto con l’ambiente, mediante un processo di autoregolazione. In
particolare, l’autocontrollo del proprio comportamento si realizza attraverso tre fasi:
auto-osservazione dell’azione (self monitoring); auto-valutazione, come verifica secondo i propri standard di riferimento (self evaluating); auto-rinforzamento (self reinforcement), come ricompensa per i risultati raggiunti (self rewarding).
Il soggetto depresso effettua osservazioni e valutazioni selettive e distorte, focalizzando l’attenzione sugli aspetti negativi del proprio comportamento, sulla valutazione
negativa di sé e della realtà esterna a conferma della propria incapacità e dell’impossibilità di ricevere ricompense.
Sulla base di questo modello Fuchs e Rehm (1977) hanno proposto un programma terapeutico di self management con l’obiettivo di far acquisire un autocontrollo
funzionale, nel quale hanno rilievo le strategie di auto-rinforzo sia overt (come ad
esempio attività piacevoli) sia covert (quali autoaffermazioni positive).
Con il proprio modello, Seligman (1974, 1979) integra le teorie comportamentali
del rinforzo con l’orientamento cognitivo, nel quale l’auto-valutazione dell’individuo
assume un ruolo centrale, ed identifica una condizione psicologica nel depresso che
chiama “learned helplessness”. Si tratta di una convinzione, traducibile in un senso
di impotenza/incapacità di reazione appresa che comporta mancanza di iniziativa in
presenza di eventi negativi vissuti come incontrollabili e di fronte ai quali il soggetto
non dispone di possibilità di evitamento o fuga. Il depresso percepisce la mancanza di
controllo sul proprio comportamento e sulle sue conseguenze e pertanto, non ritenendosi capace di affrontare un ostacolo, rinuncia ad agire.
In sintesi, per il depresso il fattore critico non è rappresentato dall’esposizione allo
stimolo avversivo ma dalla mancata percezione del legame tra quest’ultimo, il proprio
comportamento e la risposta dell’ambiente. Il soggetto si sente impotente e sviluppa
una considerazione negativa di sé e delle proprie caratteristiche personali che ritiene
essere la causa dei suoi insuccessi. Inoltre, la mancanza di consapevolezza della correlazione tra il comportamento e la risposta dell’ambiente si generalizza anche alla visione
degli altri che appaiono di conseguenza difficilmente prevedibili e controllabili.
Abramson e coll. nel 1978, rifacendosi alla teoria di Seligman, individuarono un
sottotipo di Depressione definita “Hopelessness Depression”. Questa si caratterizza per
la presenza di aspettative circa il verificarsi di eventi molto dannosi e/o il non verificarsi
di eventi molto desiderati, da parte di un soggetto che percepisce se stesso incapace di
possedere risorse utili per fronteggiare gli ostacoli. Il verificarsi di situazioni negative
significative per la persona comporta emozioni negative e, di conseguenza, favorisce lo
sviluppo di uno stile di attribuzione che comporta scarsa autostima e crea le condizioni
per lo sviluppo della Hopelessness Depression. Pertanto, l’attribuzione causale per il
depresso risulta di questo tipo: le sue caratteristiche interne, globali e stabili, all’origine
del fallimento e fattori esterni, specifici ed instabili, all’origine del successo.
23
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
STILE DI ATTRIBUZIONE E RIATTRIBUZIONE
Alcune persone prendono su di loro tutta la responsabilità degli eventi accaduti e di specifici errori o disgrazie che si sono verificate nella loro vita, altri invece non si curano affatto di
analizzare la minima possibilità che in qualche circostanza possano aver influito fortemente
in senso causale sulle sorti di un qualche accadimento. Questa differenza tra gli individui è
dovuta al diverso stile di attribuzione delle cause degli eventi, processo molto noto e molto
importante nell’esame delle funzioni di ragionamento e dell’assunzione di responsabilità.
Alcuni pazienti si lamentano profondamente sentendosi colpevoli di eventi apparentemente lontani e distanti da loro (senza un evidente legame causale ad occhio esterno), altri si lamentano per aver subito danni per colpa di altri o “del caso”, senza alcuna attribuzione a sé
di una qualche responsabilità. In questi casi il terapista può aiutare il paziente a distribuire
la responsabilità in modo realistico tra le diverse parti in gioco. C’è da rilevare l’importanza
del ruolo che il terapista assume in questa procedura: se di eccessivo supporto, il paziente
può classificarlo come un amico o un familiare che come tale non può essergli di aiuto perché “non può capirlo in ciò che prova”; se invece il terapista tende a caricare eccessivamente
il paziente di responsabilità egli si potrà sentire attaccato o criticato troppo duramente e
di conseguenza abbandonare il rapporto terapeutico, agire contro il terapeuta, commettere
un atto di protesta, o agire contro se stesso sentendosi senza speranza. L’atteggiamento più
funzionale del terapeuta consiste nell’assumere una posizione mediana, aiutando il paziente a riattribuirsi le proprie responsabilità ragionevolmente, senza prendersi tutte le critiche
sia provenienti dagli altri sia da sé. Il principio sul quale si basa questa tecnica è il seguente:
l’individuo è responsabile tanto delle proprie attività mentali (desideri, credenze, scelte,
errori, ...) quanto delle proprie emozioni e della propria condotta.
Beck (1978,1984,1987) e Clark et al. (2001) sono gli esponenti più rappresentativi della teoria cognitiva della Depressione, uno degli approcci maggiormente sperimentati con successo sui pazienti.
Beck, impiegando la tecnica delle associazioni libere nella terapia psicoanalitica,
osservò come i pensieri espressi dal paziente avessero “un grande impatto sui suoi sentimenti e sul comportamento”. Inoltre verificò che molti dei pensieri non fossero rilevati dal paziente soltanto perché egli “non era stato allenato” a prestarvi attenzione e
riconoscerli.
Queste osservazioni, secondo le quali il vissuto emotivo ed i comportamenti sono
influenzati dal modo di interpretare ed organizzare gli stimoli nelle proprie strutture
mentali, hanno costituito la premessa per l’elaborazione del modello cognitivo della
Depressione.
Attraverso l’analisi degli schemi cognitivi si arriva a spiegare l’origine ed il mantenimento della Depressione.
Gli schemi sono definiti come: “strutture interne, relativamente permanenti di caratteristiche generiche o peculiari di stimoli, di idee o di esperienze che vengono immagazzinate ed utilizzate per organizzare nuove informazioni dotandole di significato, determinando così il modo in cui i fenomeni vengono percepiti e concettualizzati” (Clark et al,
2001, pp. 79-80).
24
I Disturbi depressivi
In questo modo esse permettono di costruire il significato degli eventi interni ed
esterni che accadono alla persona, suddividendoli ed organizzandoli in aspetti psicologicamente rilevanti.
Sono stati ipotizzati diversi tipi di schemi che corrispondono a differenti funzioni
dei sistemi biopsicosociali dell’organismo (Clark, Beck e Alford, 2001):
a. gli schemi cognitivo-concettuali che hanno la funzione di selezionare, organizzare,
reperire ed interpretare le informazioni;
b. gli schemi affettivi che sono coinvolti nella percezione delle sensazioni e della loro combinazione;
c. gli schemi fisiologici che costituiscono la struttura cognitiva che descrive le funzioni e i
processi somatici;
d. gli schemi comportamentali che permettono l’esecuzione coordinata e automatica delle
risposte motorie implicate nel comportamento espressivo complesso;
e. gli schemi motivazionali che sono di tre tipi: quelli primari legati all’orientamento
biologico, quelli secondari che sono appresi attraverso il processo di socializzazione e
quelli terziari che rappresentano obiettivi, valori ed aspettative più personali.
Beck considera e descrive gli schemi di tipo cognitivo-concettuali che hanno un
ruolo fondamentale nel suo modello, poiché è proprio a questo livello che avviene la
rappresentazione interna del Sé e perché rivestono un ruolo cruciale nella determinazione del tipo e dell’intensità della risposta emozionale, normale o patologica (Clark,
Beck e Alford, 2001).
Sempre secondo l’Autore il contenuto di questi schemi è costituito da credenze,
convinzioni, conoscenze e scopi. In questi termini il contenuto degli schemi può essere
diviso in base a diversi gradi di specificità e generalità.
Avremo pertanto:
• gli schemi semplici che contengono rappresentazioni di oggetti e idee molto specifici presenti nel mondo fisico e sociale;
• gli schemi di classe intermedia che contengono convinzioni e regole che la persona
utilizza per valutare se stesso, le proprie esperienze, gli altri e l’ambiente che lo circondano e proprio per questo svolgono un ruolo molto importante nello sviluppo
del disturbo depressivo. A questo livello si trovano tre categorie di convinzioni
molto importanti che sono le regole condizionali “Se...allora” (Beck et al., 1987),
le regole imperative con espressioni tipo “Devo” o “Dovrei” (Beck, 1984) e le convinzioni compensatorie che sono costituite da credenze riguardanti strategie che
la persona ritiene utili in risposta alle convinzioni di base o a quelle intermedie
negative;
• gli schemi dell’ultimo livello contengono le convinzioni di base o nucleari che
riguardano le caratteristiche del Sé e pertanto sono più generali, astratte e globali
rispetto a quelle del livello intermedio. Esse si formano precocemente durante
lo sviluppo e sono strettamente legate a vicende di attaccamento del bambino,
svolgendo un ruolo importante nello sviluppo della vulnerabilità alla Depressione
nonché al suo mantenimento.
25
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Nella Depressione, a seguito di uno stress specifico (come una separazione) o non
specifico (come una successione di eventi stressanti), vengono attivati schemi negativi
formatisi in origine in presenza di stimoli con analogo significato (perdita, rifiuto, ecc.)
che portano ad una interpretazione negativa dell’esperienza vissuta, con conseguenze
sulla sfera emotiva e comportamentale.
Per poter spiegare le differenze individuali nella vulnerabilità al Disturbo depressivo Beck ipotizza l’esistenza di due suborganizzazioni schematiche di personalità pre-depressiva: sociotropica e autonoma. Entrambe queste sub-personalità rendono il soggetto
più sensibile ad una specifica categoria di eventi (Beck, 1996).
La personalità sociotropica è caratterizzata dal fatto che l’individuo considera il proprio valore in relazione ai rapporti intimi che intrattiene, valutandosi sulla base delle
manifestazioni di affetto e di accettazione da parte delle altre persone.
L’individuo con personalità autonoma invece è orientato all’ indipendenza e al
successo e pertanto le valutazioni circa il proprio valore sono legate alla propria abilità
e al proprio successo.
In quest’ottica pertanto gli eventi in grado di scatenare la Depressione sono diversi
in base alla personalità: perdite sociali e interpersonali per quella sociotropica e perdite
di ruolo per la personalità autonoma.
Ma la presenza di un’organizzazione cognitiva caratterizzata da schemi depressogeni non indica l’esistenza del Disturbo depressivo, piuttosto costituisce un importante
fattore di rischio. Le convinzioni depressogene si possono infatti attivare in situazioni specifiche; un particolare evento è in grado di scatenare depressione solo se viene
vissuto come perdita, poiché l’individuo deve valutare l’evento in termini di perdita
irreversibile e inaccettabile e riguardante le proprie risorse e poteri.
Molti eventi di perdita d’altronde non causano la Depressione, poiché la maggior
parte degli individui risponde con sentimenti di frustrazione ma è capace di mantenere
interesse negli aspetti non frustranti della propria vita.
Arieti e Bemporad (1978) hanno osservato che i tre più comuni fattori precipitanti
della Depressione sono la rottura di una relazione (generalmente sentimentale) centrale, la morte di una persona amata e il fallimento nel perseguire un obiettivo che definirebbe la persona. Oatley e Bolton (1985) ritengono che le perdite di risorse centrali e
di autostima siano i maggiori predittori dell’insorgenza del Disturbo.
Un altro concetto chiave del modello di Beck è quello di “distorsione cognitiva”:
una modalità negativa di valutazione irrealistica che si basa su errori sistematici nell’attribuzione di significato alle informazioni che vengono adeguate agli schemi disfunzionali, alimentandoli ulteriormente. Le distorsioni logiche più frequentemente
riscontrabili nella Depressione sono individuate in: catastrofizzazione, inferenza arbitraria, astrazione selettiva, ipergeneralizzazione, pensiero dicotomico, personalizzazione,
esagerazione e minimizzazione.
- Catastrofizzazione: tendenza a prevedere nel futuro solo eventi negativi, ignorando
possibili esiti contrari.
- Inferenza arbitraria: si trae una conclusione, di solito negativa, da un evento o
situazione, in assenza di prove a sostegno ed anche di fronte ad elementi che la
contraddicono.
26
I Disturbi depressivi
- Astrazione selettiva: si estrapola un unico dato o alcuni elementi da una situazione
e la si interpreta sulla base di questi, senza tenere conto delle altre informazioni
disponibili o delle evidenze contrarie.
- Ipergeneralizzazione: le caratteristiche proprie di un evento o di un’esperienza vengono arbitrariamente estese nell’interpretazione di altre simili.
- Pensiero dicotomico: nell’interpretazione di un’esperienza o di un evento, vengono
utilizzate categorie nettamente contrapposte, tipo “tutto o niente”, “bianco o nero”.
- Personalizzazione: tendenza a riferire a sé ed alla propria persona eventi esterni
anche senza nessuna evidenza al riguardo.
- Esagerazione e minimizzazione: enfatizzare gli aspetti negativi di sé e degli eventi e
sottovalutare quelli positivi.
La presenza di tali distorsioni logiche, definibili come processi di ideazione depressiva, si manifesta attraverso un tipo di pensiero involontario che compare automaticamente, in forma breve e che viene alimentato dagli schemi cognitivi. Un esempio di
pensiero automatico originato da uno schema di sé negativo e che esprime una personalizzazione è il seguente: “è colpa mia se le cose vanno male”.
Secondo Beck la condizione depressiva è mantenuta dalla triade cognitiva, caratterizzata da convinzioni negative su di sé, sulla realtà esterna e sul futuro.
La triade cognitiva funziona come uno schema che guida l’elaborazione delle informazioni e costituisce il contenuto tematico cognitivo specifico e distintivo del Disturbo depressivo.
Per quanto riguarda il primo elemento della triade, il paziente vede se stesso come
inadeguato e difettoso, e questi suoi presunti difetti lo portano a sentirsi indesiderabile
e inutile, a sottovalutarsi e a criticare ogni cosa che fa.
Il secondo elemento della triade si riferisce al fatto che la persona che soffre di
Depressione interpreta negativamente le sue interazioni con l’ambiente circostante,
descrivendole come fossero delle sconfitte o delle privazioni e spesso fraintendendole.
Il terzo elemento, infine, ruota attorno alla visione negativa del futuro e cioè al
pessimismo. Il paziente depresso ha infatti la tendenza a prevedere frustrazioni e difficoltà future come il naturale prolungamento di quelle attuali, con la nefasta previsione
che queste continueranno indefinitamente.
In una fase successiva (1997) l’Autore, in collaborazione con Clark, propone la
nozione di mode che si differenzia dal precedente schema in quanto si tratta di “un cluster specifico di schemi intercorrelati cognitivo-concettuali, affettivi, fisiologici, comportamentali e motivazionali organizzati per soddisfare particolari richieste poste nei
confronti dell’organismo”. Beck ha individuato le seguenti categorie di mode: mode
primari, ciascuno dei quali rappresenta una delle quattro emozioni principali; mode
costruttivi, che favoriscono le attività produttive della vita e sono acquisiti attraverso
l’esperienza; mode minori che comprendono le informazioni che consentono di vivere in
modo adattivo nell’ambiente. I soggetti inclini alla depressione presentano ipervalenza
ed ipergeneralizzazione del mode primario di perdita ed una inattività dei mode costruttivi di pensiero. Il mode primario di perdita nel depresso è caratterizzato da schemi:
- cognitivo concettuali: valutazione di perdita e di fallimento;
- affettivi: tristezza;
27
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
- motivazionali: perdita di piacere, di interesse e mancanza di obiettivi;
- fisiologici: affaticabilità;
- comportamentali: passività e ritiro sociale.
Un evento scatenante può attivare il mode di perdita e quindi tutti gli schemi che
lo formano, determinando la sintomatologia depressiva.
I modelli di D’Zurilla e Goldfried (1971, 1990) e di Nezu (1987) definiscono
lo stato depressivo come un deficit di competenza per la risoluzione di problemi. La
persona valuta che le richieste ambientali (percezione del problema) sono superiori
rispetto alle capacità che egli possiede per soddisfarle (soluzione del problema).
Le ricerche di Pyszczynski e Greenberg (1987), che hanno portato alla formulazione della teoria della perseverazione autoregolatoria, evidenziano che quando un individuo sperimenta la perdita di un elemento molto importante per la propria autostima,
vi è un aumento dell’attenzione focalizzata su di sé da cui può nascere un processo di
autosvalutazione. Le persone che perseverano in questo processo sviluppano uno stile
di attenzione centrato su se stessi che va ad influire negativamente sulla performance.
Le persone depresse pertanto continuano a concentrare l’attenzione su di sé con lo
scopo di trovare una soluzione per uscire dallo stato depressivo ma, paradossalmente,
ciò produce l’effetto opposto. Infatti, questo tentativo di soluzione abbassa l’autostima
e aumenta i deficit di performance (Pyszczynski, Holt e Greenberg, 1987). Questa
perseveranza nel concentrare l’attenzione su di sé porta all’aumento di effetti negativi
come l’autocriticismo, l’auto-accusa e l’adozione di un unico stile depressivo autofocalizzato nel quale l’individuo cerca la concentrazione su se stesso dopo esiti negativi,
evitando invece di tenere il medesimo comportamento dopo esiti positivi (Pyszczynski
e Greenberg, 1986).
Secondo la teoria dell’auto-perseverazione molte delle caratteristiche cognitive,
affettive e comportamentali presenti nei depressi sono il risultato della loro incapacità di uscire dal circolo auto-regolatorio. In questo modo pertanto la percezione
negativa degli eventi e il loro forte pessimismo alimentano ulteriormente lo schema
cognitivo, portando, di conseguenza, ad un aumento della Depressione (Beck, Rush
e al. 1987).
La teoria della depressione sugli stili di risposta di Nolen-Hoeksema (1987,1991) suggerisce che il modo in cui le persone rispondono all’umore depresso influenza sia la durata
che la gravità della loro Depressione. L’Autrice individua un primo modo di reagire che
definisce “stile di risposta ruminante”, caratterizzato da un insieme di “pensieri e comportamenti che mettono a fuoco l’attenzione dell’individuo depresso sui suoi sintomi,
sulle cause possibili e le conseguenze di quei sintomi”; tale atteggiamento gli impedisce
di attivare piani o progettare azioni nell’ottica di alleviare il proprio distress, favorendo
così l’umore depresso. Le risposte ruminative focalizzano l’attenzione della persona sul
suo stato emozionale inibendo così ogni azione che potrebbe distrarla dal suo umore
depresso. I pensieri negativi, ad esempio “sono un fallito”, possono pertanto aumentare
come risultato di questo stile attentivo-comportamentale (Nolen-Hoeksema, 1991).
In contrasto vi è uno “stile di risposta distrattivo” che caratterizza individui che si
focalizzano non sui propri sintomi depressivi bensì sul cercare di intraprendere attività
piacevoli o neutrali che hanno quindi una funzione distrattiva.
28
I Disturbi depressivi
È evidente che l’attenzione auto-focalizzata da sola non è un fattore causale della
Depressione, bensì un forte fattore di mantenimento e di cronicizzazione. Pyszczynski
e Greenberg (1987) sostengono che un aumento di questo tipo di attenzione possa
governare il processo depressogeno, ma solo una volta che esso sia iniziato.
Figura 1
Raffigurazione schematica della perseverazione auto-regolatoria e dello sviluppo e mantenimento della Depressione
Investimento in un oggetto come risorsa di identità/auto stima
Perdita dell’oggetto
Effetto negativo estremo e interruzione della normale routine
Circolo auto-regolatorio:
a) Inabilità a rimpiazzare l’oggetto perso
b) Fallimento nell’interrompere il ciclo auto-regolatorio
Eccessiva auto-focalizzazione riguardo la perdita
Effetti negativi intensificati Attribuzioni interne Auto-criticismo
Diminuita auto-stima
Deficit nelle performance
Auto-focalizzazione depressiva
Stile (auto-focalizzazione
persistente dopo esiti negativi
ed evitamento di autofocalizzazione
dopo esiti positivi
Adozione e mantenimento di un’immagine negativa di se stessi
Così come mostra questo schema, quando le persone sono preoccupate per la
perdita di una fonte centrale di autostima, non sono necessariamente altamente autofocalizzate.
Ciò che viene perso in questi casi non è l'oggetto in sé ma la base dell'autostima
e della sicurezza emozionale che era garantita dall'oggetto. Infatti, dopo una tale privazione l'individuo non pensa prettamente alla perdita quanto piuttosto al significato
che questa rappresenta per lui. Le conseguenze affettive e cognitive potrebbero essere
quasi adattive se risposte strumentali capaci di sostituire l'oggetto perso fossero disponibili poiché darebbero impeto e direzione per il comportamento di riduzione della
discrepanza.
Quando però queste risposte non sono disponibili, l'auto-focalizzazione favorisce
un processo a spirale che influenza l'adattamento cognitivo, emozionale e comporta29
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
mentale alla perdita e culmina in uno stato di depressione (Pyszczynski e Greenberg,
1987). Le conseguenze dell'attenzione auto-focalizzata si possono rilevare in diversi
ambiti della persona:
1. Affetti. Le ricerche di Gibbons et al. (1985) hanno mostrato che l’auto-focalizzazione aumenta effetti negativi nelle persone clinicamente depresse. L’adozione di
uno stile auto-focalizzato infatti esacerba questo problema portando le persone
depresse a provare più affetti negativi dopo altri risultati negativi e affetti meno
positivi dopo altri risultati positivi rispetto ai non depressi.
2. Attribuzioni. L’auto-focalizzazione aumenta la tendenza a fare attribuzioni interne
per il proprio comportamento o suo esito. Infatti se le persone depresse persistono
nell’auto-focalizzazione dopo una grossa perdita, ne consegue che nel tempo tenderanno a colpevolizzarsi per ciò che è accaduto. Questa auto-focalizzazione cronica potrebbe aiutare a spiegare l’irrazionale tendenza dei depressi a colpevolizzarsi
per eventi negativi che sono chiaramente al di fuori del loro controllo (Abramson
e Sackheim, 1977).
3. Schema negativo di sé e bassa autostima. Molti Autori, tra cui lo stesso Beck
(1978), ritengono che la bassa autostima, uno schema negativo di sé e un elevato auto-criticismo siano aspetti importanti degli stati depressivi. Esistono dei
meccanismi attraverso i quali la perseverazione auto-regolatoria e lo stile autofocalizzante possono diminuire l’autostima. Infatti se la tendenza ad uno stile auto
focalizzato tipico delle persone depresse incoraggia attribuzioni individuali per la
perdita iniziale e altri esiti negativi e attribuzioni situazionali per gli esiti positivi,
è evidente che la bassa autostima ne sarà il risultato.
4. Performance. Spesso è stato notato come le persone depresse abbiano una scarsa
motivazione (Beck, 1978; Seligman, 1975) e basse performance in compiti cognitivi e in interazioni sociali (Lewinsohn, Mischel, Chaplin e Barton, 1980). È altresì importante tenere presente che una variabile motivazionale rilevante che contribuisce a deficit nella performance è l’aspettativa di successo. Le ricerche mettono
in luce il fatto che le persone depresse tendano ad avere aspettative pessimistiche
(Beck, 1978; Pyszczynski, Holt e Greenberg, 1987).
In conclusione si può affermare che la perseverazione auto-regolatoria e lo stile
depressivo auto-focalizzato possono aiutare a spiegare la presenza di determinate attribuzioni e aspettative. Similarmente la stessa teoria cognitiva di Beck vede la Depressione come caratterizzata da uno schema di sé negativo che ha come base la persona con
aumentate visioni negative di sé e del mondo. Così come descritto precedentemente
la perseverazione auto-regolatoria e l’emergere di uno stile auto-focalizzato depressivo
possono contribuire allo sviluppo e al mantenimento di uno schema personale negativo
e di un generale pessimismo.
Infine è da tenere presente che esiste un punto cruciale sul quale la teoria della perseverazione auto-regolatoria differisce dalle altre teorie contemporanee della Depressione. Il Disturbo è infatti concettualizzato come un fenomeno all’interno del quale
l’individuo abbandona obiettivi irraggiungibili e quindi generalizza questa perdita di
motivazione agli altri ambiti. Viene suggerito invece di considerare che la Depressione
30
I Disturbi depressivi
si presenti come risultato dell’incapacità di abbandonare/lasciar perdere quando sarebbe invece adattivo farlo. Le persone depresse appaiono essere passive e immotivate, ma
invece di considerare questa passività come un lasciar perdere generalizzato dopo un’incapacità a mantenere un impegno centrale motivazionale, si ritiene che la passività in
altri domini sia la conseguenza di una preoccupazione auto-regolatoria con una perdita
significativa (Pyszczynski e Greenberg, 1987).
Oltre all’attenzione auto-focalizzata, Pyszczynski, Greenberg et al. (2004), negli
anni successivi hanno studiato l’autostima, la sua funzione psicologica e, di conseguenza, il perché le persone ne abbiano bisogno. Il concetto di autostima si riferisce alla
valutazione che una persona fa di sé e si rileva come gli individui siano generalmente
motivati a mantenere alti livelli di autostima e a difenderla quando sotto minaccia. Da
questi studi é nata la teoria della gestione del terrore (TMT = Terror Management Theory). In sintesi l’autostima è una difesa protettiva designata per controllare il potenziale
terrore che risulta dalla preoccupazione dell’orribile possibilità che noi umani siamo
semplicemente animali che brancolano per sopravvivere in un universo senza senso,
destinati solo alla morte.
Modelli orientati in senso costruttivista e sistemico processuale (Reda, 1986; Guidano, 1988, 1991; Bara, 1996) e modelli cognitivo evolutivi (Bowlby, 1988; Liotti,
1991, 2001; Semerari, 1996) rilevano la centralità della relazione terapeuta – paziente
all’interno del processo psicoterapeutico.
Lo sviluppo di un’organizzazione depressiva è caratterizzato dal vissuto predominante della perdita che diventa lo schema di riferimento per la percezione di sé e degli
altri e la base sulla quale l’individuo costruisce la propria identità. Il processo di conoscenza e costruzione di questa identità è caratterizzato da un costante tentativo di
mantenere un equilibrio ed una coerenza interna, sulla base delle sensazioni primarie
innescate dall’esperienza di perdita come la rabbia e la disperazione.
1.3 Trattamento
Per definire la natura della relazione terapeutica, Beck fa riferimento all’”empirismo collaborativo” che indica il ruolo attivo e diretto del clinico nella terapia
cognitiva. Questi fornisce al paziente informazioni sulla natura del suo problema,
spiegandone segni e sintomi, e gli consiglia la lettura di libri e di articoli specifici.
Successivamente progetta un intervento strutturato, concordando con lui gli obiettivi
terapeutici che rende espliciti e flessibili, cioè soggetti a possibili modificazioni nel
corso del trattamento.
Nell’assessment della Depressione la valutazione iniziale deve considerare il rischio
di suicidio e, qualora siano presenti concrete possibilità che si possa verificare, deve
prevedere nel contratto terapeutico precise condizioni per ridurne la probabilità.
Durgoni (1987), riferendosi al comportamento manifesto del depresso, accanto al
rischio reale di suicidio formula le seguenti considerazioni:
-
-
tale comportamento si differenzia da quello “normale” per il numero e la frequenza dei sintomi piuttosto che per i loro aspetti qualitativi;
è necessario identificare i fattori covert che lo accompagnano.
31
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Come ausilio strumentale si possono impiegare le Scale della Depressione del Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI), l’Inventario della Depressione di Beck,
il Questionario delle Distorsioni Cognitive di Hammen e Krantz, il Self Rating Depression
Scale di Zung.
La terapia si avvale di tecniche comportamentali che consentono di: modificare lo
stile relazionale, orientato alla passività, e superare le difficoltà comunicative (Training
Assertivo e delle Abilità Sociali); migliorare la produttività attraverso la programmazione di attività giornaliere che aumentino le probabilità di ricevere rinforzi positivi e di
favorire l’autostima; individuare attività piacevoli da svolgere regolarmente per sperimentare la possibilità di trarre soddisfazioni dal proprio comportamento e modificare
la previsione negativa su tutto ciò che si fa.
ADDESTRAMENTO ALL’ASSERTIVITà
Il termine assertività deriva dall’inglese ed indica la capacità di un individuo di conoscere le proprie esigenze e di riuscire ad esprimerle nel proprio ambiente sociale.
E´ naturale che ogni individuo possieda un proprio bagaglio di esperienze personali che concorrono nell’offrire tratti di personalità unici ed irripetibili. Quello che è assolutamente importante è riuscire ad affermare la propria personalità senza prevaricare
le relazioni con gli altri, ma piuttosto potenziandole in maniera positiva. In altre parole, “essere assertivi” significa possedere una “buona immagine di sé”, essere sciolti, privi di inibizioni che potrebbero ostacolare la libera espressione e la critica costruttiva.
Alcune persone sono estroverse nei rapporti con familiari ed amici mentre sul lavoro (o in pubblico) divengono introversi. L’assertivo è invece sempre se stesso in qualsiasi situazione, ed è per questo una persona dalla natura creativa.
In genere si fa riferimento ad una analisi del comportamento nei rapporti interpersonali
che si basa sull’estrapolazione di tre tipologie di comportamento: il comportamento passivo, quello aggressivo e quello assertivo.
Nel caso del comportamento passivo, l’individuo agisce in maniera rinunciataria che spesso viene scambiata per indifferenza mentre in realtà è conseguenza di cause interferenti. Si
tratta di una persona che non è soggetta ad apertura e falsa il rapporto con gli altri.
L´aggressivo, particolarmente quello verbale, blocca ogni azione da parte di chi ascolta: ne
consegue imbarazzo, spesso offesa, ansia e senso di colpa verso gli altri. L´interlocutore,
bloccato a sua volta, non riesce ad intervenire.
Nel comportamento assertivo (ottimale) la persona utilizza delle modalità verbali e non
verbali (atteggiamento del viso e del corpo); presta attenzione alle libere informazioni
dell´altro; sfrutta le occasioni offerte al dialogo, le facoltà di autoapertura. Si esprime in
modo operativo e suscita interesse. Va sottolineato che una persona non può essere sempre uguale a se stessa, quindi è impossibile reagire sempre in maniera assertiva.
La competenza sociale di un individuo può essere valutata sulla base dei comportamenti
emessi sul totale delle sue interazioni. Chi è più allenato ad agire secondo un modello
ottimale, in quanto l´allenamento non è altro che esperienza programmata, impara a
valutare obiettivamente sia gli stimoli interni sia gli stimoli che provengono dall’esterno.
Riuscirà ad esprimersi in modo socialmente adeguato, mantenendo “una buona immagine di sé”, anche se non raggiunge i propri obiettivi.
Intervento sull’affermatività intende migliorare la capacità dell’individuo di esprimere
pensieri, sentimenti e credenze in modo diretto, onesto e rispettoso dei diritti altrui. Più
in particolare, concerne la capacità di “dire di no”, di fare richieste, di esprimere sentimen-
32
I Disturbi depressivi
ti positivi e negativi e di iniziare, mantenere e porre termine ad una conversazione. Un
comportamento non assertivo è tipicamente legato ad una carenza di abilità sociali, ma a
volte è causato dall’interferenza provocata da particolari reazioni emotive o pensieri.
Il training assertivo si articola nel modo seguente.
Il clinico opera inizialmente un assessment approfondito riguardo alle situazioni che
preoccupano il paziente, alle sue abilità sociali, alla presenza di ostacoli ambientali e personali, quali una limitata vita sociale o la presenza di relazioni problematiche, e alle risorse
sociali e ambientali disponibili.
In secondo luogo, il terapeuta formula un piano di intervento. Se il paziente dispone dei
comportamenti appropriati ma non li mette in atto a causa dell’ansia, il punto centrale dell’intervento può consistere nell’aumento delle capacità di gestione dell’ansia. Se il
paziente mette in atto dei comportamenti inappropriati al contesto é necessario che egli
impari a discriminare tra le varie situazioni e a scegliere le condotte più idonee. Se infine
sono presenti dei deficit di abilità, occorrerà un training finalizzato all’ insegnamento
delle abilità stesse.
Nella terza fase viene introdotto l’intervento vero e proprio. Lo psicoterapeuta insegna al
paziente le specifiche abilità sociali tramite modellamento, istruzioni specifiche (suggerimenti) e feedback, ripetizioni comportamentali (behavioral rehearsal) e compiti da svolgere al di fuori delle sedute (homework). Modellare un comportamento efficace per situazioni specifiche richiede l’uso di uno o più dei seguenti metodi: dimostrazione “in vivo” del
comportamento da parte del terapeuta, istruzioni scritte, audio e/o video-registrazioni o
filmati. La ripetizione comportamentale (behavioral rehearsal) consiste nell’esercizio delle
abilità nello studio del terapeuta o nel setting clinico.
Nella quarta fase il clinico rinforza positivamente tutti quei comportamenti verbali e
non verbali che dimostrano un miglioramento delle abilità sociali, suggerendo contemporaneamente le modifiche più opportune. I compiti a casa, concordati con il paziente,
servono per esercitare queste abilità in contesti di vita reale.
La durata del training assertivo dipende dal numero di abilità sociali da sviluppare e dal
tipo di ostacoli ambientali e sociali presenti nella vita del paziente. Se vi sono poche abilità
da sviluppare e una relativa assenza di ostacoli sono sufficienti poche sedute mentre in
presenza di numerosi deficit comportamentali sono richiesti tempi più lunghi.
Il training di assertività può essere condotto nel formato individuale o di gruppo.
L’intervento cognitivo si pone l’obiettivo di modificare le strutture cognitive disfunzionali.
La Ristrutturazione Cognitiva inizia dall’identificazione dei pensieri automatici,
alla quale il paziente viene addestrato, per poi individuare e modificare le distorsioni
logiche e gli schemi disadattivi sui quali si organizza il suo sistema di conoscenze. L’acquisizione della consapevolezza del legame tra pensiero, emozione e comportamento
precede l’intervento sulla modificazione e sostituzione degli schemi di pensiero disfunzionali.
LA RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA
Un momento significativo della psicoterapia cognitivo comportamentale consiste nell’analisi e nella modifica dei fattori cognitivi che accompagnano il Disturbo (ristrutturazione cognitiva). La terapia cognitiva infatti non interviene direttamente sul controllo
e l’eliminazione dei sintomi o comportamenti disadattivi, ma piuttosto ha lo scopo di
33
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
rendere la persona meno vulnerabile agli effetti di eventi che inducono stress, cercando
di identificare gli schemi cognitivi di base che regolano la relazione con gli eventi di vita
e quindi di modificarli.
In una prima fase l’intervento si concentra sul sintomo e sulle componenti cognitive di
mantenimento dello stesso. Il paziente viene istruito al riconoscimento dei “pensieri automatici”, che ad esempio nel caso dei disturbi depressivi sono solitamente inconsapevoli
e ruotano intorno a tematiche di sconfitta e perdita. L’individuazione di tali pensieri risulta
fondamentale poiché ad essi sono strettamente connessi i comportamenti di ritiro e rinuncia. L’individuazione dei pensieri automatici avviene attraverso l’impiego di precise tecniche, come le domande dirette (es., “Cosa pensava in quell’occasione?”, “Quale era il suo
pensiero dominante in quella particolare situazione?”) o il dialogo socratico (es., “Cosa,
secondo lei, potrebbe pensare una persona in quelle circostanze?”). Altre tecniche consistono nell’indagare sulle aspettative catastrofiche del paziente con domande del tipo “Quale
è la cosa peggiore che potrebbe accadere se…?” oppure nel concentrarsi sui cambiamenti
d’umore da considerare come indicativi dell’attivazione di pensieri automatici negativi.
Un utile strumento in questa fase della terapia è la scheda di registrazione dei pensieri
disfunzionali che segue lo schema ABC (A = evento attivante; B = sistema di convinzioni;
C = conseguenze emotive e comportamentali), elaborato da Ellis e ripreso da Beck (Beck,
1984; Wells, 1997; Greenberger, 1995). Le schede per la registrazione dei pensieri disfunzionali devono essere compilate fra una seduta e la successiva. Questo tipo di compito aiuta
il paziente ad acquisire una maggiore consapevolezza del legame esistente tra i pensieri e le
emozioni che prova. La scheda utilizzata prevede la presenza di colonne per la descrizione
della situazione, delle emozioni per le quali viene espressa anche una valutazione quantitativa di intensità, dei pensieri e delle conseguenze in termini comportamentali ed emotivi.
Dopo che il paziente ha imparato a riconoscere i pensieri disfunzionali si procede alla
strutturazione di un modo di pensare più adattivo. Le tecniche utili allo scopo mirano
fondamentalmente alla confutazione dei pensieri automatici negativi per sostituirli con
altri più realistici e funzionali. Fra queste la più comune è la ricerca delle prove a supporto
delle convinzioni del paziente, attraverso la formulazione di interpretazioni alternative secondo la tecnica del Problem Solving. In assenza di elementi a favore del pensiero negativo,
il suo grado di credibilità può essere attenuato. Qualora il paziente dovesse riportare prove a sostegno delle proprie convinzioni è necessario procedere ad una rivalutazione della
qualità di tali prove, con l’obiettivo di individuare eventuali errori logici. Il fine ultimo di
tale intervento è favorire la costruzione di interpretazioni alternative e l’individuazione di
punti di vista differenti dal proprio. In questo caso, il metodo consiste nel porre nel corso
delle sedute una serie di domande che guidino il paziente nella valutazione delle proprie
credenze. Allo stesso tempo, per consolidare l’apprendimento della procedura di confutazione, vengono usate le schede del Diario dei pensieri disfunzionali nelle quali egli deve
trascrivere, in apposite colonne, oltre al pensiero negativo i possibili pensieri alternativi,
specificando in entrambi i casi il grado di convinzione attribuitogli (Burns, 1980; Wells,
1997). Vengono dunque identificate alcune classi di distorsioni cognitive come la personalizzazione, il pensiero dicotomico, l’attenzione selettiva, l’etichettatura, il ragionamento
emotivo, l’esagerazione e l’ipergeneralizzazione che il paziente impara a riconoscere.
Una volta che è stata portata a compimento l’analisi del sintomo l’intervento si sposta
verso l’individuazione di schemi disfunzionali di base. L’abitudine all’individuazione
dei pensieri automatici disfunzionali deve portare il paziente a comprendere il filo che li
lega ed a risalire alle assunzioni implicite e agli schemi di base che costituiscono le regole
che egli applica alla sua condotta e a quella degli altri. In questa fase dell’intervento la
tecnica più efficace è quella della Freccia Discendente in cui il significato di un pensiero
automatico viene indagato fino all’individuazione del punto finale o “bottom line” in cui
34
I Disturbi depressivi
si riscontra lo schema di base (Wells, 1997). Le assunzioni disadattive così individuate
vengono a loro volta sottoposte a confutazione per essere riformulate. Il paziente, dopo
aver identificato gli schemi e le convinzioni di base, impara a valutare i vantaggi e gli svantaggi, ad esaminare le prove a favore e contro, ad analizzare ogni argomentazione della
procedura della Freccia Discendente e produrre, infine, nuovi schemi alternativi.
Klosko e Sanderson (2001) hanno proposto un trattamento cognitivo-comportamentale della Depressione in otto sedute, che offre le linee guida per la terapia:
1. fornire informazioni sulla Depressione; valutare il rischio di suicidio, pianificare attività piacevoli; strutturare un programma base giornaliero;
2. introdurre il modello cognitivo della Depressione; insegnare I’automonitoraggio dei
pensieri automatici;
3. esaminare le prove, considerare spiegazioni alternative;
4. affrontare le distorsioni cognitive; introdurre tecniche comportamentali adeguate;
5. verificare le ipotesi; insegnare il problem solving; proseguire con le tecniche comportamentali;
6. identificare e valutare gli assunti sottostanti agli schemi; proseguire con tecniche comportamentali;
7. riassumere le fasi di cui si compone la terapia cognitiva, prevenire le ricadute e continuare con tecniche comportamentali;
8. programmare la generalizzazione ed il mantenimento dei risultati ottenuti.
La terapia orientata secondo modelli strutturalisti-costruttivisti si propone un primo intervento teso a modificare l’atteggiamento del paziente rispetto ai propri disturbi
ed a ridurre l’intensità dello scompenso emotivo. A livello più profondo, il percorso è
orientato verso la ricostruzione della storia evolutiva e delle modalità di attaccamento,
determinanti nello sviluppo e nel mantenimento del sistema di conoscenza di sé e della
realtà.
INTERVENTI COGNITIVI STRUTTURALISTI-COSTRUTTIVISTI
Organizzazione cognitiva depressiva
Nel caso di scompenso di una struttura cognitivo-emotiva depressiva, il cosiddetto cambiamento superficiale mira all’identificazione e alla messa in discussione dei pensieri automatici negativi che sono in rapporto con l’aggravarsi dell’umore depressivo. Si affrontano,
così, i concetti negativi del sé, del mondo e del futuro che caratterizzano la fase di scompenso.
Nei piani di cambiamento terapeutico profondo si mira a modificare atteggiamenti di
base come quello di doversi sforzare, di fronte ad un mondo in salita, senza chiedere
aiuto a nessuno; o la tendenza all’isolamento e l’implicita sensazione di inferiorità che il
paziente sembra dimenticare quando sta meglio ma che caratterizzano intrinsecamente la
sua identità personale.
35
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Per ridurre il rischio di ricadute alcuni autori hanno sottolineato la necessità di
prevedere incontri di richiamo ad intervalli mensili mentre secondo Dobson (2002),
al termine di una terapia intensiva bisettimanale per il trattamento della Depressione
acuta, risultano efficaci sedute di controllo meno frequenti.
1.4 Casi clinici
Il caso di Franz - “Mi sto ritirando dalla vita”
Diagnosi: Disturbo Depressivo Maggiore.
Nell’assessment sono stati impiegati: Cognitive Behavioural Assessment (CBA)
2.0 scale primarie (Sanavio e al., 1987), Beck Depression Inventory (BDI).
Dal CBA: elevate ansia di tratto e di stato, significativo il punteggio alla scala della
Depressione.
Nella dimensione introversione – estroversione si colloca decisamente nella direzione estroversione, è una persona socievole che ama la compagnia.
Dal BDI: significativo il punteggio per la presenza di Disturbo Depressivo.
Franz è un uomo di 53 anni che si presenta in terapia affermando “Credo di avere
qualche problema. Gli altri mi dicono che sono depresso … Io non lo so ma a
volte ho il desiderio di farla finita”.
Lamenta una serie di sintomi fisici: mal di testa, disturbi gastrici e disturbi del
sonno.
Riferisce di non avere più energia né interesse verso le attività che normalmente
svolgeva, tra le quali anche svariati hobby che lo appassionavano e lo gratificavano
molto: “… mi sto ritirando dalla vita”.
Anticipa il proprio futuro in termini di solitudine, miseria e malattia e teme l’avvicinarsi di una vecchiaia accompagnata da sciagure inevitabili.
Idee relative alla morte si presentano con frequenza sempre maggiore.
Storia del caso
Franz ha il diploma di maturità ed è dirigente presso una grossa azienda commerciale.
Separato da due anni, padre di tre figli, attualmente ha una storia sentimentale con
una donna molto più giovane e vive da solo.
All’età di venti anni perde il fratello, di due anni più giovane, a causa di un incidente.
La famiglia di Franz era piuttosto agiata e disponeva di un discreto patrimonio ma
questa condizione, invece di gratificarlo, gli pesava molto perché lo stile di vita era al
contrario improntato alla parsimonia ed al rigido risparmio.
Descrive la madre come persona dinamica ed il padre come un uomo piuttosto
riservato e poco incline a manifestazioni di coinvolgimento emotivo.
36
I Disturbi depressivi
Franz riferisce che il primo episodio di “crisi” risale a dieci anni fa: inaspettatamente si era trovato a dover accettare un cambiamento professionale, impostogli da un
superiore, subìto con un profondo senso di impotenza.
Nello stesso periodo, problemi di salute lo costringono a ripetuti ricoveri in ospedale e ad una penosa convivenza con la sofferenza fisica che si protrae per oltre sei mesi.
Nel 2000 perde la madre e vive l’evento con forti sensi di colpa perché ne aveva
voluto il ricovero in una casa di riposo benché lei si fosse opposta.
Dopo pochi mesi la moglie lo lascia ed inizia per lui un periodo di battaglie legali
che si è protratto per due anni: “… è stata una separazione violentissima”.
Per un periodo vive da solo in una condizione di profonda prostrazione e con il
pensiero costante di voler morire. Dopo qualche mese inizia una relazione con una
donna molto più giovane con la quale sembra ritrovare un po’ di serenità: “Mi sento
compreso … con lei provo una sensazione di benessere …”. Ma questa condizione, la
prima positiva dopo un lungo periodo di negatività, sembra contribuire ad aggravare
la sua condizione depressiva: “Ho sempre sbagliato tutto … non so se mi posso fidare
… sono stanco”.
Concettualizzazione e trattamento
Nel Disturbo Depressivo di Franz sono presenti quasi tutti i criteri diagnostici
previsti per l’Episodio Depressivo Maggiore, ad eccezione di significativi cambiamenti
nel peso o nell’appetito e di agitazione o rallentamento psicomotorio osservabile.
La sintomatologia è schematizzata come segue.
Sintomi affettivi
Tristezza
Apatia
Angoscia
Sintomi vegetativi
Disturbi del sonno
Disturbi gastrici
Mal di testa
Sintomi psicomotori
Astenia
Isolamento
Indecisione
Sintomi cognitivi
Riduzione dell’autostima
Autorimprovero e colpa
Pessimismo
Temi di rovina
Ricorrenti idee di morte e di suicidio
Pertanto il trattamento è stato finalizzato a raggiungere i seguenti obiettivi.
1. Riduzione della sintomatologia depressiva.
2. Eliminazione dell’ideazione suicidaria.
37
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
3. Riduzione della sintomatologia psicofisiologica (mal di testa, disturbi gastrici e
disturbi del sonno).
4. Miglioramento della produttività.
5. Incremento delle capacità di fronteggiamento delle situazioni difficili e di problem
solving.
Dall’approfondimento della tematica del suicidio è emerso che l’idea della morte
ricorreva quando Franz si trovava in situazioni nelle quali si percepiva impotente o incapace di affrontarle positivamente. Benché ricorrente, quel pensiero non era stato finora
accompagnato da alcuna pianificazione prevalentemente per la preoccupazione di arrecare dolore ai figli. Tuttavia, poiché il paziente considerava la morte come soluzione ma
soprattutto come liberazione dalle sofferenze, si è stabilito di procedere come segue:
- qualora il pensiero si fosse ripresentato, Franz doveva parlarne al terapeuta prima
di prendere qualsiasi decisione;
- qualora il terapeuta avesse ritenuto necessario un ricovero in ospedale per la salvaguardia della sua incolumità fisica, egli avrebbe dovuto accettarlo.
Nel caso in cui non fosse riuscito a contattare il terapeuta, avrebbe dovuto:
-
-
-
-
-
telefonare ad una delle persone individuate come referenti;
scrivere i pensieri associati all’idea suicida;
utilizzare una tecnica di rilassamento appresa;
leggere la lista sui buoni motivi per continuare a vivere, elaborata in precedenza;
allontanarsi da casa e recarsi in un luogo pubblico.
L’analisi dell’ideazione depressiva – la percezione di sé come inutile, della realtà
come schiacciante ed il futuro senza speranza – ha aiutato Franz a concettualizzare il
proprio Disturbo in termini di elaborazione cognitiva distorta e disfunzionale dei fatti
e delle informazioni sui fatti.
La familiarizzazione con il modello cognitivo gli ha consentito di comprendere la
relazione tra pensiero, emozione e comportamento conseguente.
Attraverso la Ristrutturazione Cognitiva, sono stati individuati i pensieri negativi e
le distorsioni logiche che caratterizzavano il suo stile cognitivo e Franz ha imparato a
formulare alternative più funzionali ed adattive.
Alcuni esempi di pensieri automatici con le relative distorsioni cognitive:
- “O si è giovani ed attivi o vecchi e rimbecilliti” Pensiero dicotomico;
- “Morirò presto, solo e malato” Catastrofizzazione;
- “Mia moglie mi ha lasciato: nessuna donna starà a lungo con me” Ipergeneralizzazione.
Gli schemi disadattivi sottostanti sono stati identificati nell’“essere inutile” e
nell’“essere inadeguato a stabilire dei confini”, come descritto da Young (1990 cit. in
Klosko e Sanderson, 2002).
38
I Disturbi depressivi
SCHEMA PRECOCE DISADATTIVO RIGUARDO LO
STABILIRE CONFINI ADEGUATI
Consiste in una carenza nel definire e rispettare limiti e confini, nell’insufficiente senso di
responsabilità verso gli altri o di orientamento circa obiettivi personali a lungo termine.
Comporta difficoltà a riconoscere e salvaguardare i diritti degli altri, a cooperare, ad
assumersi degli impegni o a stabilire e raggiungere obiettivi personali realistici. In genere,
è tipico che la famiglia d’origine invece di insegnare l’esistenza di limiti, educare alla disciplina e favorire dei confronti adeguati con le proprie responsabilità, favorire uno stile
di cooperazione reciproca e la ricerca di mete, sia caratterizzata da permissività, eccessiva
indulgenza, mancanza di fini ed obiettivi o da senso di superiorità.
La famiglia aveva trasmesso a Franz un senso di superiorità legato alla disponibilità economica e la convinzione che l’amore si dimostrasse con il denaro. Infatti,
egli non ricorda gesti d’affetto o doni di giocattoli ma solo sacrifici e privazioni per
mantenere integro il patrimonio da trasmettere a lui ed al fratello, per amore nei loro
confronti.
Franz ha applicato lo stesso schema nel rapporto con la moglie e con i figli: ha dato
tanto, tutto quello che voleva lui ma non ha mai chiesto cosa volessero loro.
Per incrementare la produttività del paziente, si è proceduto alla programmazione
delle sue attività.
1. Esame del livello di attività.
Negli ultimi mesi, Franz trascorre la maggior parte del tempo libero in casa da
solo. Non vuole vedere nessun amico, non pratica più lo sport e trascura tutti gli
interessi che precedentemente lo appassionavano.
2. Pianificazione e ripresa delle attività.
3. Pianificazione delle attività piacevoli.
Franz individua alcune attività che vengono ordinate secondo una gerarchia di
difficoltà crescente e gli viene chiesto, iniziando dalla meno impegnativa, di dedicarvisi
quotidianamente anche solo per pochi minuti. Su una scala 0 - 10 doveva poi indicare
il grado di piacere e la padronanza percepiti.
Attraverso questa tecnica, il paziente ha contrastato la sensazione di inutilità e di
incapacità che lo caratterizzavano ed ha verificato l’efficacia dell’attivazione nel miglioramento dell’umore.
Durante gli episodi depressivi Franz trovava difficoltà nel risolvere anche piccoli
problemi quotidiani che viveva come insuperabili ed irrisolvibili. Con la tecnica del
Problem Solving ha imparato ad affrontare le situazioni con maggiore senso di efficacia.
39
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
PROBLEM SOLVING
I problemi sono o situazioni nuove che richiedono comportamenti nuovi o situazioni
per cui non si hanno soluzioni soddisfacenti. Quando non possiamo rispondere ad una
domanda usando la nostra informazione contenuta nella memoria o quando non possiamo comportarci in una situazione come abbiamo fatto l’ultima volta o di solito, allora siamo di fronte ad un problema. Alcuni problemi sono difficili da risolvere perché
“ci mettono”, o ci mettiamo da soli, su una pista sbagliata. Quando ciò succede si dice
comunemente che vi è una impostazione negativa. Altri problemi, invece, sono difficili
perché richiedono una impostazione molto poco probabile nella media dei ragionatori,
per cui è necessario comporre i dati in modo insolito e creativo (vedremo più avanti). La
capacità degli esseri umani di risolvere i problemi che incontrano e che si oppongono al
raggiungimento dei propri scopi è una caratteristica specifica e basilare; senza di essa non
saremmo sopravvissuti. La specifica abilità nella risoluzione di problemi è una caratteristica molto individuale e può variare da soggetto a soggetto. Non possiamo affermare che
le persone risolvano i problemi tutte nello stesso modo né che tutti i problemi siano della
stessa natura. Tuttavia, possiamo indicare una traccia generale che è una direzione logica
della nostra mente, una sequenza naturale, una esigenza specificamente determinata del
funzionamento mentale. Naturalmente, non tutti gli individui hanno lo stesso grado di
abilità nello sviluppo della funzione di analisi, organizzazione e risoluzione di problemi.
Il problem solving è definito come “un processo comportamentale sia di natura overt che
covert (cognitiva) che rende disponibile una varietà di potenziali risposte alternative per
affrontare le situazioni problematiche ed incrementare le probabilità di scegliere la risposta più efficace tra le diverse alternative”.
Il problem solving ha il duplice scopo di portare il soggetto da un tipo di intelligenza
teorico – astratta ad una pratico – concreta.
La tecnica prevede le seguenti fasi:
1.
2.
3.
4.
5.
fase introduttiva: ha lo scopo di evidenziare l’importanza del riconoscimento e dell’osservazione delle situazioni problematiche dove le risposte del paziente risultano
automatiche ed affrettate;
definizione del problema: consente di imparare a discriminare il problema in modo
specifico, analizzando anche gli eventi interni (pensieri e sensazioni);
formulazione delle alternative: ha lo scopo di produrre tutte le soluzioni possibili,
distinguendo tra strategie (campo d’azione generale) e tattiche (rendere i piani operativi);
fase decisionale (decision making): in questa fase si analizzano e si valutano le alternative prodotte in precedenza, considerando anche i vantaggi e gli svantaggi (conseguenze sociali e personali);
fasi di verifica: assegnazione di compiti per verificare le soluzioni prodotte nella fase
precedente e se necessario prevede un’applicazione “in vivo” per valutare l’efficacia
dei nuovi comportamenti ed acquisizioni.
Per la gestione della sintomatologia psicofisiologica, è stata impiegata la tecnica di
Rilassamento Muscolare Progressivo nella forma ridotta di Wolpe.
40
I Disturbi depressivi
RILASSAMENTO MUSCOLARE PROGRESSIVO
Ideato da E. Jacobson (1952), è un metodo di rilassamento basato sull’apprendimento
della decontrazione muscolare volontaria. È incentrato sulla presa di coscienza da parte della persona dello stato di contrazione o di distensione di ciascun gruppo muscolare,
passando man mano in rassegna tutto il corpo, concentrandosi su un solo muscolo per
seduta, fino a raggiungere la decontrazione totale.
Il metodo è molto semplice ed efficace e, agendo sui muscoli ossia partendo dall’effetto
sul corpo delle emozioni, mira a riportare la mente in uno stato di calma. Si pone l’obiettivo di riprendere contatto con il corpo e approfondirne la conoscenza. Questo si ottiene
in maniera analitica agendo sui vari segmenti e regioni muscolari con alternanza di tensione e rilassamento. Tendere al massimo un muscolo e immediatamente rilassarlo rende
coscienti delle tensioni di cui normalmente non si è coscienti.
Secondo E. Jacobson la presenza di tensione delle varie regioni del corpo è collegata a
diversi stati d’animo:
-
-
-
-
la testa al timore di non controllare le situazioni e incapacità di prendere decisioni;
il petto alla paura di esprimere emozioni affettive, amore;
il bacino al timore di esprimere la propria sessualità;
gli arti inferiori alla paura della staticità, dell’attesa, del silenzio.
Gli esercizi vengono eseguiti dopo aver effettuato alcune profonde respirazioni e possono
essere svolti in due diverse posizioni:
a) Posizione seduta: indicata per chi avverte la necessità di un pronto impiego del
metodo in particolari ambienti e situazioni:
-
-
-
-
-
-
-
-
premere a terra col piede sinistro per 3-4 secondi;
rilasciare i muscoli e cercare di percepire la differenza tra tensione iniziale e rilassamento conseguente;
ripetere per 2-3 volte;
fare la stessa cosa col piede destro;
Poi passare alle braccia, poggiate sui braccioli della poltrona, su un tavolo o sulle
cosce:
premere con la mano sinistra verso il basso sempre per 3-4 secondi;
rilasciarla e cercare di percepire, ancora una volta, la differenza tra tensione e rilassamento;
ripetere per 2-3 volte;
proseguire nello stesso modo con la mano destra.
La durata totale di una seduta si aggira intorno ai 4-5 minuti.
b) Posizione supina: comprende 8 diverse fasi di passaggio, ciascuna relativa a varie
regioni del corpo.
Il tempo di durata della tensione muscolare in ogni fase è di circa 3-4 atti respiratori,
mentre il rilasciamento dura un solo atto respiratorio. Ogni singola fase va ripetuta
2-3 volte:
-
-
estendere le punte dei piedi in avanti con forza;
sollevare le gambe tese di circa 10-15 cm. (chi soffre di dolori lombari può eseguire
con una gamba per volta);
41
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
-
-
-
-
-
-
mantenendo poggiati solo i gomiti, i piedi e le spalle sollevare il bacino di qualche
cm.;
mantenendo poggiati, oltre al bacino e agli arti inferiori, la nuca e i gomiti sollevare
il petto;
flettere il capo fino a fare pressione sullo sterno col mento;
stringere i pugni con forza;
serrare la mascella e portare le guance indietro;
corrugare la fronte portando le sopracciglia verso l’alto.
La durata di una seduta si aggira intorno ai 5-6 minuti.
Il generale, l’apprendimento della tecnica di Jacobson è piuttosto complesso e di lunga
durata, potendo durare anche un anno o più. Per questa ragione nella psicoterapia viene
spesso utilizzata la versione abbreviata, elaborata da Wolpe. La tecnica si articola in sette
sedute, nel corso delle quali il paziente apprende a rilassare la muscolatura di tutto il
corpo, partendo dalla testa fino ad arrivare alle gambe. Contemporaneamente, gli esercizi
effettuati in seduta vengono ripetuti a casa, in modo tale da favorire l’apprendimento ed
al termine delle sette sedute di training il paziente dovrebbe essere in grado di indurre
attivamente uno stato di rilassamento generalizzato.
La terapia si è conclusa dopo nove mesi ed il paziente ha presentato un miglioramento clinicamente significativo della sintomatologia depressiva e l’eliminazione
dell’ideazione suicidaria.
Il sonno si è regolarizzato ed i sintomi fisici lamentati in precedenza si sono sensibilmente ridotti.
Il caso di Isidora - “Non riesco a trovare più interesse per niente”
Diagnosi: Disturbo Depressivo Maggiore.
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Beck Depression
Inventory (BDI), Rathus Assertiveness Schedule (RAS).
Dal CBA: ansia di tratto elevata, significativo il punteggio alla scala della Depressione.
Dal BDI: significativo il punteggio per la presenza di Disturbo Depressivo.
Dal RAS: rilevata notevole anassertività.
Isidora è una giovane di 21 anni che si trova in un momento di particolare difficoltà esistenziale. Dopo due anni di fidanzamento è stata lasciata dal ragazzo ed ha perso
la nonna da pochi mesi. Questi eventi sono stati preceduti da altre due traumatiche
perdite, quella di una zia alla quale era profondamente legata e quella di un carissimo
amico, entrambi morti alcuni mesi prima.
Ha frequenti crisi di pianto, difficoltà ad iniziare ed a mantenere il sonno, tachicardia ed episodi di dispnea con senso di soffocamento. A causa della sua inappetenza si
sente debole. Non prova più interesse per l’attività sportiva che in passato l’appassionava.
Si sente triste ed abbattuta per la maggior parte della giornata, è sempre stanca e senza
42
I Disturbi depressivi
forze. È anche preoccupata di perdere il lavoro, è contabile presso un’azienda privata, a
causa dei frequenti errori e distrazioni che si trova a compiere sempre più spesso.
“Non riesco a trovare più interesse per niente … mi sento vuota … non riesco a
prendere più una decisione, un’iniziativa … sto sempre male… sono sola”.
Storia del caso
Isidora ha un diploma di ragioniera e lavora come impiegata presso una ditta di
computer.
Vive con i genitori, madre commerciante e padre operaio, e con una sorella più
giovane. Descrive l’ambiente familiare come poco affettuoso, con frequenti contrasti
e litigi tra i genitori. Non ha mai avuto molto dialogo con loro ma ritiene comunque
di aver ricevuto una discreta educazione. Il padre è definito ipercritico, autoritario,
scontroso e piuttosto freddo dal punto di vista affettivo. La sua tendenza ad imporsi
sulle figlie e sulla moglie lo portava a volte ad essere manesco con entrambe. La madre
è descritta come fragile e sottomessa al marito. Dopo la nascita della seconda figlia ha
sofferto di depressione. Isidora ritiene la sorella più fortunata perché avrebbe avuto più
libertà ed è più determinata di lei.
Riconosce di essere stata una bambina sensibile, tranquilla, ubbidiente e sempre disponibile. Ha sempre aiutato la mamma nella gestione della casa e nell’accudimento della
sorella, spesso sacrificando anche parte del proprio tempo e facendo rinunce personali.
All’età di quindici anni ha iniziato un rapporto con un ragazzo di venticinque
che frequentava solo nei fine settimana per motivi di distanza. Il legame è durato due
anni, contrastato dai genitori a causa della differenza di età, durante i quali Isidora si
è sentita “fortunata, importante e grande”. Poi lei lo lascia mantenendo però un rapporto di amicizia. Dopo un anno avvia una nuova relazione con un giovane poco più
che coetaneo, titolare di un’attività commerciale presso la quale lei si reca a lavorare.
Quando il fidanzato la lascia, Isidora si trova costretta ad abbandonare il lavoro su sollecitazione dei genitori di lui. Reagisce con un atteggiamento di profondo sconforto e
si isola socialmente.
Concettualizzazione e trattamento
Il Disturbo Depressivo si presenta in associazione con un problema d’ansia in
soggetto decisamente anassertivo. Pertanto, il progetto di trattamento è stato orientato
ai seguenti obiettivi.
1. Modificazione delle distorsioni cognitive, con particolare attenzione alle aspettative sul futuro e sui rapporti con gli altri, attraverso un intervento di Ristrutturazione
Cognitiva.
2. Riduzione delle risposte psicofisiologiche connesse all’ansia, mediante apprendimento del Rilassamento Muscolare (Wolpe, forma abbreviata).
3. Miglioramento della qualità del sonno, con l’acquisizione di informazioni di
Igiene del Sonno e modificazioni nelle abitudini personali scorrette connesse al
problema.
43
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
NORME IGIENICHE E DIETETICHE PER L’INSONNIA
Regole di comportamento da applicare nei casi insonnia o quando si voglia ristabilizzare
il ciclo sonno – veglia.
1. Coricarsi ad ore regolari la sera ed alzarsi sempre alla stessa ora la mattina, anche nei
periodi di vacanza.
2. Non recuperare il sonno perso con sonnellini pomeridiani.
3. Svolgere attività fisica durante il giorno, evitando esercizi fisici faticosi ed attività
mentali troppo impegnative nelle ore precedenti il sonno.
4. Dormire in un ambiente silenzioso, poco illuminato e fresco.
5. Evitare di addormentarsi davanti al televisore o in poltrona.
6. Non assumere la sera caffè o sostanze contenenti caffeina, non fumare prima di coricarsi ed assumere alcol in quantità moderate perché può causare frammentazione
del sonno.
7. Favorire dei comportamenti abitudinari prima di andare a letto (un bagno caldo,
una tisana o latte caldo) allo scopo di creare condizionamenti positivi.
8. Usare il letto solo per dormire, evitando di utilizzarlo per mangiare, guardare la
televisione, telefonare o leggere.
9. Evitare l’assunzione eccessiva di liquidi la sera, per ridurre la necessità di alzarsi di
notte per andare in bagno.
10. Andare a letto solo se si ha sonno.
11. Se non si riesce a prendere sonno, alzarsi e cercare di rilassarsi in altro modo.
(Sanavio, 1991)
Hauri e Linde (1992) comprendono questo intervento informativo/educativo nell’ambito delle strategie cognitive in quanto contribuirebbe ad aumentare il senso di autoefficacia
nel controllo sul sonno.
4. Acquisizione di uno stile relazionale affermativo, attraverso un Training all’Assertività.
Isidora ha iniziato a compilare un Diario nel quale riportava di trascorrere la maggior parte del tempo in casa, a piangere e ad autocommiserarsi, o al lavoro, con
ansia e preoccupazioni. Attribuiva le proprie difficoltà ad incapacità e scarsa intelligenza.
Dall’analisi dei pensieri emergevano distorsioni cognitive di Personalizzazione (colpa), Svalutazione del Positivo (non riconosceva i propri meriti), Inferenza Arbitraria
(di fronte ad una distrazione o un errore sul lavoro o in casa, si valutava incompetente ed incapace di ottenere risultati positivi).
Situazione
Pensiero
automatico
Distorsione
cognitiva
mamma si lamenta
per la stanchezza
non l’aiuto abbastanza nei
lavori di casa
personalizzazione
colpa
ho sbagliato alcuni
conteggi al lavoro
sono incapace, se ne accorgeranno e perderò il posto
inferenza arbitraria
depressione
ansia
44
Emozione
I Disturbi depressivi
Attraverso la Ristrutturazione Cognitiva Isidora è riuscita a sostituire i pensieri disfunzionali, che ha imparato a riconoscere ed analizzare, con un’ideazione che le ha
consentito di auto-regolare i propri stati emotivi.
Dopo aver appreso la tecnica del Rilassamento Muscolare e praticato le norme di
Igiene del Sonno, ha migliorato la qualità del suo riposo ed ha ridotto l’attivazione fisiologica.
Durante l’Addestramento all’Affermatività, Isidora ha riconosciuto che i suoi comportamenti erano per lo più motivati dalla necessità di compiacere gli altri ed evitare
conflitti interpersonali, piuttosto che soddisfare se stessa e le proprie esigenze. Ha rilevato che il suo stile anassertivo era responsabile di stati d’animo negativi come ansia,
solitudine e rabbia inespressa verso gli altri, oltre ad alimentare la propria insicurezza.
La sua vulnerabilità alle critiche è stata decisamente ridimensionata attraverso l’addestramento alla gestione delle critiche manipolative, anche mediante tecniche verbali
di difesa.
L’orientamento verso uno stile relazionale affermativo le ha consentito di migliorare la comunicazione con il padre, nei confronti del quale sperimentava le difficoltà
maggiori, ed ha avuto ripercussioni positive anche nel rapporto con la madre e con gli
amici che ha gradualmente iniziato a rifrequentare.
Inoltre Isidora ha ripreso a praticare con soddisfazione l’attività sportiva e a dedicarsi ad alcuni dei suoi passatempi preferiti.
Al termine del trattamento, durato un anno, sono stati raggiunti significativi risultati nel miglioramento del tono dell’umore, nel controllo della risposta emozionale
e nell’adattamento sociale.
Nei confronti dell’ex fidanzato si sentiva più serena e consapevole delle condizioni
che avevano portato alla fine del rapporto.
Il caso di Minerva - “Cosa poteva sperare di più una come me?”
Diagnosi: Disturbo Distimico.
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Beck Depression
Inventory (BDI), Rathus Assertiveness Schedule (RAS).
Dal CBA: ansia di stato elevata, significativo il punteggio indicatore di instabilità
emotiva. Nella dimensione introversione - estroversione si colloca decisamente nella
direzione introversione e può essere descritta come una persona tranquilla, schiva e
riservata nel rapporto con gli altri.
Dal BDI: significativo il punteggio per ipotizzare un quadro disforico.
Dal RAS: rilevata difficoltà a far valere i propri diritti e stile relazionale improntato
all’anassertività di tipo passivo.
Minerva è una donna di 40 anni che da circa tre anni vive in una condizione di
profonda tristezza ed apatia.
Sostiene di non avere progetti per il futuro e di essersi progressivamente disinteressata ai rapporti sociali. Attribuisce la causa del suo stato al fallimento del matrimonio e
prova forti sensi di colpa nei confronti dell’ex marito tossicodipendente, per non essere
45
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
riuscita ad allontanarlo dalla droga. Si sente colpevole anche nei confronti delle due
figlie, in quanto si ritiene responsabile di averle fatte vivere con genitori separati.
La storia di Minerva è una storia difficile fin dall’infanzia ed è stata caratterizzata
da una ridotta stima e scarsa accettazione di se stessa: “cosa poteva sperare di più una
come me?”.
Attualmente segue un trattamento farmacologico a base di antidepressivi e, al bisogno, fa uso di ansiolitici.
Storia del caso
Proviene da una famiglia numerosa ma lei è stata concepita al di fuori del matrimonio, a seguito di una relazione extraconiugale della madre. Ha saputo di essere illegittima dalle confidenze di una conoscente all’età di dieci anni e non ha mai conosciuto
il padre.
Ha trascorso due anni in collegio durante le scuole elementari ed al secondo anno
delle superiori ha abbandonato gli studi. Ha svolto lavori saltuari fino a ventidue anni
quando ha iniziato a lavorare stabilmente con soddisfazione presso una struttura di
assistenza.
A venti anni conosce il futuro marito, persona che le appare tranquilla e profonda
d’animo. Durante il periodo del fidanzamento Minerva scopre che il ragazzo fa uso di
droghe leggere e, nella speranza di un suo cambiamento, dopo cinque anni lo sposa.
“Scopre” un marito apatico, disinteressato nei confronti della famiglia, molto propenso
a ricevere e poco a dare. Dopo tre anni di matrimonio nasce la prima figlia e quello
successivo la donna affronta una nuova gravidanza, non voluta.
Passano alcuni anni e Minerva si accorge che il marito fa uso di eroina: il loro rapporto precipita fino alla separazione.
Durante il periodo di crisi matrimoniale lei conosce un uomo, a sua volta padre
separato, e dopo la fine del rapporto con il marito inizia una convivenza con lui. Il
nuovo compagno è alcolista, non ha un’occupazione stabile e non è in grado di contribuire alla gestione familiare sotto nessun profilo. Dopo un anno, Minerva è incinta
e, su insistenza del partner, acconsente ad abortire contro la sua volontà. A seguito di
questo episodio il rapporto si interrompe.
Il fallimento anche di questa seconda storia viene vissuto dalla donna come ulteriore prova di incapacità e si rafforza il lei la convinzione della propria responsabilità
nel non essere riuscita a dare un padre alle sue figlie.
Concettualizazione e trattamento
Minerva presenta una compromissione dell’affettività, dove tristezza e malinconia
sembrano prevalere nettamente rispetto ad altri stati d’animo. Ha contenuti di pensiero
improntati al senso di colpa ed all’auto-accusa e convinzioni di inettitudine. Lo stile
relazionale è anassertivo passivo.
In questo quadro diagnostico si individuano i seguenti obiettivi di trattamento.
1. Riduzione dei vissuti disforici, attraverso un incremento delle attività “piacevoli”
per lei.
46
I Disturbi depressivi
2. Gestione adeguata dei problemi pratici, sia familiari sia economici, mediante attività di Problem Solving.
3. Acquisizione di uno stile affermativo per migliorare la qualità delle relazioni interpersonali, in particolare in campo sentimentale, mediante un Training all’Assertività.
4. Analisi dei sensi di colpa.
5. Ristrutturazione di convinzioni irrazionali.
Minerva ha manifestato interesse per la natura e le passeggiate all’aria aperta, per
la lettura e per l’attività ginnica. Parallelamente ha però indicato diversi ostacoli alla
pratica delle attività piacevoli individuate, primo tra tutti il senso del dovere che le ha
fatto anteporre gli obblighi allo svago. Si è concordato un programma comportamentale che prevedeva il tempo da dedicare a queste attività, non meno di trenta minuti al
giorno, ed alcune condizioni “vincolanti” per la loro realizzazione, di tipo economico
come l’iscrizione in palestra e di tipo relazionale come il coinvolgimento di un’amica.
Minerva riesce a rispettare questo programma tre/quattro volte alla settimana.
Per l’Addestramento Affermativo vengono preliminarmente esaminati i suoi rapporti con i partner e con i familiari. Attraverso il Role Playing, si rileva che Minerva
possiede abilità comunicative adeguate ma ha difficoltà a riconoscere alcuni diritti. In
particolare il diritto di “commettere errori ed esserne responsabile” e quello di “non
essere perfetta”.
Minerva associa i propri errori al senso di colpa mentre è indulgente nei confronti
delle mancanze, anche gravi, degli altri.
In merito ai sensi di colpa, è riuscita a riconoscere la natura fallace delle sue colpe
“malsane” ed il loro effetto negativo sulla propria valutazione di sé e sulla possibilità di
attuare dei cambiamenti e migliorare.
Oltre al sollievo emotivo, Minerva ha sperimentato una maggiore motivazione ad
agire per cambiare ed una più positiva considerazione di sé.
Attraverso la tecnica del Problem Solving, apprende a riconoscere la natura situazionale dei problemi ed emotivamente non si sente più “schiacciata” dagli eventi critici.
Dall’analisi dei pensieri, sono emerse delle convinzioni associate con le emozioni
di tristezza e colpa che sono state modificate con l’intervento di Ristrutturazione Cognitiva. Poiché la donna ha mostrato particolare resistenza all’ipotesi di rinviare alcune
incombenze familiari e lavorative per soddisfare esigenze di svago, le è stato proposto di
considerarle come una necessità, quasi un dovere verso se stessa che, essendo più serena,
avrebbe potuto svolgere ancor più adeguatamente i propri compiti. “Chi non fa prima
il proprio dovere non può permettersi il piacere” viene trasformato da Minerva in “dedicare del tempo a noi stessi ci aiuta ad essere più efficienti perché siamo più sereni”.
In questo caso l’obiettivo non era intervenire sul senso del dovere bensì motivarla verso
una maggiore attenzione e cura per se stessa.
Ha sostituito il pensiero “sono una mamma cattiva perché non ho saputo dare un
padre alla mie figlie” con la consapevolezza che lei svolge al meglio il proprio ruolo di
madre e che non ha alcuna responsabilità in merito alla condotta dei partner.
Questa nuova convinzione permette di contrastare un’altra idea distorta. Dopo
aver analizzato il comportamento del marito, Minerva è consapevole che è stato lui a
47
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
rifiutare sistematicamente qualsiasi possibilità di ricorrere all’aiuto di esperti, come lei
molto spesso gli proponeva, e non lei stessa incapace di risolvere un problema per il
quale non aveva e non può avere nessuna competenza. Ha sostituito la convinzione “se
mi fossi impegnata di più avrei aiutato mio marito” con “molte cose non sono in nostro
potere, ho comunque fatto del mio meglio”.
Infine è stato affrontato il pensiero “per valere devo essere utile agli altri”. In
quest’idea è presente anche la Doverizzazione che viene modificata in “essere utile agli
altri mi rende felice ma il mio valore personale rimane immutato anche nelle situazioni
in cui non lo faccio”.
Al termine del trattamento, protrattosi per diciotto mesi, il tono dell’umore è decisamente migliorato e Minerva manifesta una maggiore intraprendenza verso le attività
piacevoli e di svago. Di fronte ai problemi che si presentano nella situazione familiare e
lavorativa, mostra una nuova capacità di fronteggiamento e di gestione.
Il caso di Vale - “Cosa c’è che non va in me? O è il mondo che non funziona?”
Diagnosi: Disturbo Distimico.
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Beck Depression
Inventory (BDI), Questionario sui Pensieri Automatici di Kendall e Hollon.
Dal CBA: ansia di stato elevata, significativo il punteggio alla scala della Depressione.
Dal BDI: significativo il punteggio per ipotizzare un quadro disforico.
Dal Questionario sui Pensieri Automatici:
-
-
-
-
-
-
-
“Perché io non posso mai avere successo?”
“La mia vita non sta andando avanti come voglio io”
“Sono molto delusa di me stessa”
“Che cosa è sbagliato in me?”
“Che cosa c’è che non va in me?”
“Qualcosa deve cambiare”
“Ci deve essere qualcosa di sbagliato in me”
Si evidenzia un’ideazione caratterizzata da autosvalutazione e disistima, mentre
non risultano presenti pensieri catastrofici e valutazione fallimentare di sé.
Vale ha 23 anni. Riferisce di sentirsi spesso triste e demotivata e lamenta solitudine affettiva e confusione nelle scelte. Si descrive nel complesso “in buona salute”
ad eccezione del sonno e dell’appetito che non sono regolari ma presentano notevole
variabilità. Ha facilità al pianto di fronte a minime frustrazioni e ciò contribuisce ad
accrescere il suo stato disforico. Ritiene di essere “perseguitata dal destino” al quale attribuisce, insieme alla sfortuna, la causa delle proprie difficoltà esistenziali. “Forse non
sono portata per lo studio … esco con qualcuno, ma con chi? Sono sola … sono stanca,
sono triste, sono stufa … perché le cose non funzionano?”.
48
I Disturbi depressivi
Storia del caso
Vale è studentessa universitaria con un rendimento nello studio discontinuo, soggetto ad oscillazioni. Vive con i genitori, commercianti, e con una sorella di venticinque anni. Descrive il rapporto con i genitori: “loro sono una coppia felice, anche se
mamma è un po’ succube di papà. Io ho un rapporto molto stretto con lei. Mi ha sempre preferito rispetto a mia sorella. È brava, dolce, ha sempre cercato di mettersi dalla
mia parte. Però è lunatica: un giorno è particolarmente nervosa, un giorno è molto
tranquilla. Parla poco. Mio padre mi vuole bene ma è un problema di carattere ... non
riesce ad essere emotivo, coinvolgente con me. Non mi ha mai abbracciato o coccolato. È molto razionale. È buono ma quando gli prende l’attacco d’ira diventa furente,
allucinante, può anche arrivare a rompere qualcosa. Il problema è il rapporto affettivo
con mio padre che mi ha sempre considerato una sua rivale. Non riesco a parlare con
lui. Io cerco di evitare le discussioni ma quando lui decide di avere ragione, impone il
suo modo di pensare.” Ha vissuto un’infanzia serena e da bambina giocava spesso da
sola e fantasticava molto, creandosi amici immaginari. Fino all’età di diciassette anni ha
avuto un’amica che definisce “molto più forte di me e che mi influenzava molto. Penso
di essere stata anche sfruttata da lei”. Con questa affermazione si riferisce al fatto che
l’amica prendeva quasi sempre decisioni alle quali lei sottostava, anche per incapacità di
opporsi e proporre ciò che le sarebbe piaciuto fare. Dopo la maturità vive una relazione
platonica con un coetaneo che abita in un’altra città e che sente solo telefonicamente:
ne è innamorata e fantastica molto su di lui. Tuttavia, poiché riteneva “logorante” questa situazione di distanza, lei interrompe la relazione.
Ha avuto il primo rapporto affettivo e sessuale a venti anni con un ragazzo che piaceva ai genitori. Il rapporto non andava bene perché lui la accusava di avere problemi e
di essere frigida. Dopo pochi mesi lui la lascia. La delusione e la rabbia conseguenti furono tali che cominciò a frequentare più ragazzi contemporaneamente: insoddisfazione
e delusione aumentavano. Iniziò un’altra storia con entusiasmo, ma anche in questo
caso non sapeva, era confusa ... lo lascia: “sono rimasta sola”.
A questa solitudine sentimentale continua ad affiancarsi la difficoltà comunicativa
con il padre.
Non riesce più a studiare, perde la concentrazione, si affatica con estrema facilità.
Si sente spesso molto triste e piange in solitudine. Inizia a non riposare bene la notte
ma spesso ha voglia di dormire di giorno.
Manifesta una serie di incertezze decisionali che avverte come sempre più “schiaccianti”.
Attualmente Vale ha una vita di relazione limitata e non ha legami sentimentali.
Concettualizzazione e trattamento
La strategia terapeutica è stata orientata al conseguimento dei seguenti obiettivi.
1. 2. 3. 4. Identificazione delle cognizioni negative relative al problema.
Acquisizione di strategie di coping per la gestione dei problemi quotidiani.
Facilitare la distensione psicofisica per favorire anche il riposo notturno.
Migliorare le capacità relazionali e comunicative.
49
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Attraverso l’intervento di Ristrutturazione Cognitiva, Vale ha rilevato che lo schema disfunzionale prevalente era quello relativo al valore di sé espresso nei termini: “io
valgo se sono accettata, quindi devo ottenere l’approvazione degli altri”. La visione di sé
e del mondo esterno è risultata più negativa rispetto a quella relativa al futuro che non
era connotata in maniera altrettanto pessimistica.
La paziente ha compreso come l’attivazione dei modelli cognitivi disfunzionali
la portasse a sperimentare una sorta di inermità accompagnata da emozioni negative
(solitudine, tristezza, sconforto ...) e da inibizione del comportamento (confusione,
incapacità ad operare scelte ...).
L’addestramento al Problem Solving le ha consentito di acquisire abilità di fronteggiamento delle situazioni problematiche, dopo aver appreso ad identificare i problemi
e le condizioni vissute in termini di stress negativo.
Per facilitare la distensione psicofisica è stata impiegata la tecnica di Rilassamento
Muscolare Progressivo nella forma ridotta di Wolpe.
Attraverso il Training delle Abilità Sociali, sono state incrementate le capacità relazionali nelle quali la paziente risultava maggiormente carente con riferimento in particolare all’analisi della comunicazione, alla gestione dello stress ed all’opposizione/accettazione del rifiuto.
La terapia è durata dieci mesi, al termine dei quali Vale ha ripreso gli studi con
continuità, inizialmente con fatica, ma con soddisfazione. Ha avviato un dialogo con
il padre e, di fronte ai suoi atteggiamenti di intransigenza e di chiusura, è riuscita ad
esprimere le proprie emozioni. Ha imparato a non rapportare la “diversità” del padre,
così come quella delle altre persone, a se stessa in termini di valore/accettazione/rifiuto
ma a riconoscerla come altro da sé: “se lui è fatto così io gli dico quello che penso. Certo
mi piacerebbe che fosse più affettuoso ma mi ha detto che mi vuole bene ...”.
Nei rapporti sociali si definisce più soddisfatta perché “mi sembra di capire di più
anche gli altri”.
50
PARTE SECONDA
I DISTURBI DI ANSIA
“Mi rendevo conto che tutte le cose di cui avevo paura, e che mi
spaventavano, non erano buone o cattive di per sé, ma lo divenivano
quando eran percepite dalla mente”
Spinoza
“I nostri dubbi sono traditori e, spesso, con la paura di provare,
ci fanno perdere quanto di buono potremmo ottenere”
W. Shakespeare
“Mio Dio…sono libero. Liberatemi dalla libertà”
P. Claudel
CAPITOLO 2
DISTURBI Di ansia
2.1 Introduzione
L’ansia è un’emozione caratteristica dell’essere umano.
Il termine ansia deriva dal sostantivo latino anxia, condizione di agitazione e di
preoccupazione, da angere che significa stringere, soffocare. È definita come uno “stato
di tensione emotiva” caratterizzato da sintomi quali tensione muscolare, sudorazione
ed aumento della frequenza cardiaca.
Nel corso dei secoli le emozioni sono state considerate secondo orientamenti diversi. Nel XVIII secolo venivano indicate come condizione di disturbo della condotta
improntata alla razionalità. Ma con Darwin assunsero un ruolo adattivo determinante
per la sopravvivenza della specie. Le teorie comportamentiste ne fecero oggetto di osservazione in numerosi studi e la neurofisiologia si è interessata della loro relazione con
il sistema nervoso.
Oggi l’ansia viene considerata condizione, presente in ogni essere umano, che si manifesta lungo un continuum i cui estremi sono indicati in “normale” cioè adattiva e “patologica”, disadattiva. Si differenzia: dalla paura, in quanto relativa ad un pericolo reale e
specifico; dalla fobia, paura esagerata e spesso invalidante; dal panico, esperienza di paura
improvvisa o stato di terrore con vissuto di perdita di controllo o di morte imminente.
L’ansia rappresenta un complesso schema multidimensionale che si manifesta attraverso tre sistemi o canali di risposta:
- sistema fisiologico, con sintomatologia fisica come sudorazione, tachicardia…;
- sistema comportamentale, osservabile oggettivamente;
- sistema cognitivo, con pensieri di pericolo, preoccupazioni, aspettative negative…
Questi canali non sono necessariamente correlati tra loro e tale fenomeno è noto
come asincronia o risposta frazionata (Sanavio, 1991).
Spielberg (1989) fa riferimento alla polarizzazione su due estremi: lo stato, condizione situazionale verosimilmente conseguente a determinate circostanze, ed il tratto,
condizione stabile nel tempo che caratterizza la tendenza alla risposta d’ansia in più
situazioni di vita.
53
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
2.2 Modelli comportamentali e cognitivi
I modelli eziologici basati sul condizionamento si fondano sul presupposto che il
soggetto fobico sia stato esposto ad uno stimolo paurogeno ed abbia imparato a temere
e poi ad evitare determinate situazioni. A questo modello fa riferimento il programma
terapeutico dell’esposizione allo stimolo fobico.
Il tale contesto si colloca la teoria bifattoriale di Mowrer (1950), secondo il quale la
paura si acquisisce mediante un condizionamento classico (primo fattore), quando un
evento ansiogeno accidentale si manifesta in un contesto considerato fino a quel momento non pericoloso. Poiché lo stesso stimolo provocherà in seguito una risposta condizionata di paura, il soggetto tenderà ad evitare le situazioni temute (secondo fattore).
Secondo l’orientamento cognitivo, i Disturbi d’Ansia sono riconducibili ad una
distorsione nell’interpretazione personale degli eventi. I comportamenti disfunzionali,
conseguenti a tale interpretazione, mantengono il Disturbo.
Ellis (1989, 1993) attribuisce un ruolo determinante al sistema di convinzioni nelle
manifestazioni emotive e comportamentali del soggetto di fronte ad uno stimolo. In
particolare, all’origine dei disturbi emozionali identifica le convinzioni, idee irrazionali,
di doverizzazione, catastrofizzazione, intollerabilità, indispensabilità o bisogni assoluti e
giudizi globali su di sé. Nei Disturbi d’Ansia rileva: autosvalutazione di sé (“non valgo”),
indispensabilità e bisogni assoluti (“non posso fare a meno di…”), catastrofizzazione
(“è terribile che…”), immutabilità della condizione negativa (“non c’è niente da fare
per…”).
CATEGORIE PRINCIPALI DI PENSIERI IRRAZIONALI
Doverizzazioni o uso assolutistico del verbo dovere
Consistono nel ritenere che “le cose devono assolutamente andare così”, che “gli altri
devono assolutamente comportarsi in un certo modo”, che “io devo assolutamente avere quello che voglio”. L’errore sta appunto nel considerare un’esigenza assoluta ciò che
nella maggior parte dei casi sarebbe solo obiettivamente preferibile.
Espressioni di insopportabilità, intolleranza
Consistono in pensieri del tipo “non lo sopporto”, “non tollero che …”, “è insopportabile”. Sono forme di esagerazione attraverso le quali l’aspetto sgradevole di un evento
o di una persona viene ingigantito, determinando un atteggiamento di rabbia o di
evitamento.
Valutazioni globali su se stessi e sugli altri
In questo caso l’irrazionalità consiste nel giudicare una persona nella sua globalità partendo da uno solo o da pochi comportamenti osservati. Inoltre, il comportamento di
una persona viene spesso erroneamente equiparato alla persona stessa (“hai fatto una
cosa stupida, quindi sei uno stupido”). Questo errore nel modo di pensare porta a
far uso di etichette che esprimono valutazioni globali tipo “incapace”, “stupido”, “carogna”. Tali attributi possono essere pensati riguardo agli altri oppure possono essere
rivolti a se stessi. Quando sono riferiti agli altri questi pensieri fanno nascere nei loro
confronti un atteggiamento di ostilità o di rifiuto; se riferiti a se stessi determinano
disistima e sconforto.
54
I Disturbi d’ansia
Pensieri catastrofizzanti
Consistono nel considerare il verificarsi di certe cose come un evento “terribile”, “orrendo” quando obiettivamente sarebbe solo spiacevole o fastidioso. Spesso si tratta di
pensieri che anticipano in modo esageratamente negativo eventi futuri, provocando
quindi reazioni di intensa ansia.
Indispensabilità, bisogni assoluti
Consistono in affermazioni che trasformano in bisogno assoluto ciò che obiettivamente sarebbe solo preferibile. Prendono spesso forma di pensieri del tipo “non posso rinunciare a …”, “ho assolutamente bisogno di …”, “non posso fare a meno di …”. Le
conseguenze emotive di questo modo di pensare possono essere ansia, depressione,
ostilità.
(da Di Pietro, 1992)
Secondo Beck (1967, 1984), all’origine dei Disturbi d’Ansia ci sono distorsioni
logiche nell’interpretazione degli eventi che si esprimono attraverso pensieri automatici, a loro volta derivati da convinzioni che l’individuo ha nei confronti di se stesso e
della realtà. Le convinzioni e le assunzioni di base sono rappresentazioni relativamente
stabili della conoscenza, organizzate in schemi, che influenzano il processo di elaborazione delle informazioni, modellano l’interpretazione dell’esperienza e condizionano il
comportamento.
Nel Disturbo d’Ansia l’elaborazione delle informazioni è guidata dall’ipervalutazione del concetto di pericolo e di minaccia e dalla sottovalutazione delle capacità personali di fronteggiamento (Beck, Emery e Greenberg, 1985). In questo modo vengono
attivati gli schemi di pericolo che rinforzano le manifestazioni d’ansia e le risposte comportamentali conseguenti ed a loro volta contribuiscono a mantenere le convinzioni erronee nelle valutazioni di pericolo e nelle assunzioni (Salkovskis, 1991; Wells, 1999).
La teoria dell’apprendimento sociale di Bandura si basa sul principio del determinismo reciproco, secondo il quale i comportamenti, i processi cognitivi ed i fattori ambientali si influenzano reciprocamente. L’Autore (1977, 1996) concettualizza i Disturbi
d’Ansia con la teoria dell’autoefficacia. Le convinzioni sulle proprie capacità di operare
efficacemente in determinati contesti influenzano il comportamento, le emozioni ed i
pensieri relativi a quelle situazioni. Il senso di efficacia è il risultato di processi cognitivi
che consentono di elaborare le informazioni acquisite attraverso esperienze dirette o
vicarie di successo e da persuasioni verbali.
L’acquisizione del senso di efficacia è subordinato alla presenza di capacità personali di base che consentono di apprendere e sviluppare abilità e competenze, di imparare attraverso l’interazione con l’ambiente, di operare riflessioni e valutazioni su di sé
e di orientare e motivare il proprio comportamento.
L’assessment di questi disturbi comprende una valutazione distinta dei tre diversi
sistemi che caratterizzano la risposta d’ansia, attraverso indici:
- soggettivi, che vengono riferiti dall’individuo attraverso il colloquio clinico ed attraverso strumenti quali questionari ed inventari;
55
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
- motori e comportamentali, osservabili direttamente nell’interazione con il soggetto;
- fisiologici (frequenza cardiaca, attività elettrodermica …), rilevabili mediante apposita strumentazione.
Un ulteriore contributo alla comprensione della configurazione dei Disturbi
d’Ansia è stato fornito da studiosi cognitivisti che hanno riscontrato, nell’anamnesi di
pazienti affetti da queste patologie, stili di “attaccamento insicuro” (Guidano, Liotti,
1983). Ci si riferisce a modalità relazionali con le figure genitoriali che segnalano la
possibilità del verificarsi di un imminente pericolo. In particolare: nel Disturbo Fobico
si individuano risposte emotive e comportamentali dello stile di attaccamento di tipo
“ansioso – resistente” (Parker e coll.,1979), in cui l’individuo ha un concetto di sé
negativo (non meritevole di cure e di affetto) e vive le relazioni significative con preoccupazione; nel Disturbo da Attacchi di Panico si individuano manifestazioni dello stile
“evitante spaventato” (Bartholomew, 1990), nel quale la ricerca di relazioni si alterna al
desiderio di isolamento (Lorenzini, Sassaroli, 1998).
Tabella 2.1 Modello di attaccamento a quattro categorie o prototipi di Barthlomew
(1990)
Schema di SÈ
Schema di SÈ
Schema degli
ALTRI
POSITIVO
NEGATIVO
POSITIVO
SICURO
PREOCCUPATO
Per me è facile coinvolgermi emotivamente
cogli altri.
Mi sento a mio agio in un rapporto di dipendenza reciproca.
Non mi preoccupa un’eventuale solitudine
o non essere accettato
Io voglio essere totalmente coinvolto con
altri, ma spesso questi non entrano in intimità come vorrei. Mi sento a disagio senza
una relazione coinvolgente, anche se poi mi
preoccuperei di essere controllato o soggetto a giudizio negativo
EVITANTE DISTACCATO
EVITANTE SPAVENTATO
Mi sento a mio agio anche senza relazioni
affettivamente intime. È molto importante
per me sentirmi indipendente e auto-sufficiente, e quindi preferisco non instaurare
rapporti di reciproca dipendenza
Ci sono volte in cui mi sento a disagio nel
vivere rapporti emotivi intimi.
Io desidero tali rapporti, ma ho notato che
per me è difficile dare completa fiducia agli
altri, o dipendere da essi.Alcune volte penso che le relazioni intime potranno mettermi in crisi
NEGATIVO
Inoltre, nel quadro clinico generale dei soggetti con Disturbi d’Ansia, si rilevano:
un’interpretazione fatalistica della propria sofferenza, con conseguente atteggiamento
di passività e di attesa di un cambiamento “miracoloso” che non richiede impegno e
56
I Disturbi d’ansia
partecipazione alla terapia; uno stile di conoscenza caratterizzato dall’evitamento di
situazioni nuove; un’attività mentale continua (rimuginio), finalizzata all’essere preparati all’arrivo di eventuali pericoli; una storia evolutiva caratterizzata dall’inibizione di
comportamenti esplorativi, che ha comportato un’incapacità di esplorare le emozioni
proprie ed altrui (Lorenzini, Sassaroli, 2000). Sassaroli e Ruggiero (2002) hanno focalizzato le cognizioni disfunzionali che accomunano tutti i Disturbi d’Ansia:
- timore sproporzionato del danno e pensiero catastrofico, che inducono il soggetto
ansioso a prevedere un’ampia gamma di conseguenze negative ed a considerare il
pericolo come inevitabile;
- timore dell’errore e perfezionismo patologico, con la tendenza a considerare gli errori
inaccettabili e causa di conseguenze fortemente negative;
- intolleranza dell’incertezza, a seguito della quale si ritiene inaccettabile non conoscere e prevedere tutte le eventualità future con il dubbio che potrebbero anche
essere negative;
- valutazione negativa di sé, con autoattribuzione di responsabilità per il verificarsi
di un evento negativo a causa di incapacità prestazionali o di carenze nel controllo
emotivo (debolezza, fragilità);
- necessità di controllo della realtà interna ed esterna, che induce alla ricerca della certezza assoluta nell’illusione di poter in tal modo prevenire il verificarsi di qualsiasi
evento negativo.
2.3 Trattamento
Nei Disturbi d’Ansia, le procedure terapeutiche cognitive e comportamentali
costituiscono un trattamento di provata efficacia sperimentale in quanto consentono
maggiori probabilità di successo rispetto ad altre terapie psicologiche (Sanavio, 1991;
Lyddon e Jones, 2002; Rachman, 2004).
Gli obiettivi generali sono rivolti alla riduzione della sintomatologia ansiosa e della
condotta di evitamento e protezione ed al miglioramento del funzionamento cognitivo
globale del paziente.
L’Intervento Psicoeducativo consente al paziente di acquisire le corrette informazioni
sulla natura dell’ansia e sul proprio specifico Disturbo, al fine di correggere errate convinzioni sul problema ed aumentare la consapevolezza e la collaborazione al trattamento.
INTERVENTO PSICOEDUCATIVO
Fortemente radicata nella cultura pragmatica, comportamentista e cognitivista, la Psicoeducazione si avvale di contenuti di tutto rispetto, in quanto derivano dalla ricerca clinica
e dunque dagli approcci che hanno dimostrato la maggiore efficacia: dalla cosiddetta
clinical evidence.
La Psicoeducazione (detta anche educazione alla salute mentale), fa parte della più generale attività di educazione alla salute. È dunque un’attività socio-sanitaria che consiste
nell’esporre in modo chiaro, semplice, didattico, possibilmente interattivo, e soprattutto
57
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
concretamente utile, le informazioni e le istruzioni per prevenire ed affrontare appropriatamente disturbi mentali e disagi di natura psicologica ed interpersonale. È pertanto una
componente fondamentale di qualsiasi progetto di prevenzione, sostegno, aiuto, assistenza e/o trattamento.
La Psicoeducazione si rivolge ad una ideale équipe di sostegno/aiuto e/o trattamento composta innanzitutto da chi soffre o può soffrire di un problema, dai suoi familiari, amici e
conviventi e, naturalmente, dagli operatori.
La Psicoeducazione può essere paragonata ad un corso pratico alla salute mentale in cui c’è
un insegnante e ci sono degli allievi. L’insegnante è attento a fornire tutte le notizie e le
istruzioni di cui gli allievi hanno bisogno per affrontare nel modo migliore il problema.
Come in tutti i corsi che si rispettino, la Psicoeducazione ha un suo obiettivo formativo,
un programma, degli esercizi e dei libri di testo.
Il suo diffuso impiego è legato a due fattori fondamentali.
Innanzitutto alla dimostrata efficacia nel trattamento di un gran numero di disturbi e
problemi.
In secondo luogo perché è molto ben accettata e richiesta dagli utenti in quanto si avverte
già dal primo approccio la sua utilità e l’adesione ai concreti problemi quotidiani che si
incontrano o perché si soffre personalmente di uno specifico problema o disturbo o perché in qualche modo ci si ha a fare, sia perché si convive con chi soffre di quel disturbo
sia perché si è coinvolti nel sostegno/trattamento.
Una seduta psicoeducazionale si svolge come una lezione. Si esaminano i “compiti a casa”
(le esercitazioni pratiche nella vita reale), si affrontano le difficoltà eventualmente intervenute nelle esercitazioni, si introducono i nuovi argomenti, si effettua una esercitazione
“in classe”, si assegnano i nuovi compiti.
Alla base dell’approccio psicoeducazionale vi è il concetto di coping (dall’inglese to cope:
fronteggiare, affrontare). Si ritiene infatti che molti problemi siano peggiorati da modalità
inadeguate di fronteggiamento. Quando è presente un problema, infatti, spesso si insinuano dei circoli viziosi legati alla scarsa conoscenza del problema di base ed a derivanti
comportamenti inadeguati che invece di migliorare la situazione la rendono ancora più
grave.
Questo intervento può essere integrato con la Biblioterapia, che prevede la lettura
di testi informativi sulla problematica presentata.
BIBLIOTERAPIA
La Biblioterapia, cioè la terapia attraverso la lettura, non si affaccia solo oggi nel novero
delle oltre cinquecento forme di psicoterapia esistenti. Il termine biblioterapia viene attualmente impiegato con tre diverse accezioni:
 1. Autoterapia involontaria attraverso la lettura. A tutti è capitato di essere “illuminati” da un libro, da una frase, o addirittura da una parola utilizzata da un autore che tutto si proponeva tranne che il compito di illuminare qualcuno. Molta buona letteratura contiene, dentro e tra le righe, infinita saggezza, straordinario acume,
profonda riflessione sulla natura dell’individuo e sulla sua vita di relazione. È naturale che noi possiamo incontrare in questo mare, per caso e per fortuna, qualche imbarcazione, qualche isola o persino qualche relitto di grande utilità nella nostra
vita. Più si legge e più è probabile che ciò accada. Questo tipo di esperienza è simile alla fortuna di incontrare un amico che ci dice le parole giuste al momento giusto.
58
I Disturbi d’ansia
Tutto ciò è naturalmente molto gratificante ed utile ma non è prevedibile e, soprattutto,
non è prescrivibile.
 2. Letteratura di autoaiuto. Si tratta di un gran numero di libri scritti espressamente con l’intento di aiutare le persone a risolvere un determinato problema. La caratteristica generale dei libri di autoaiuto è che si tratta di libri teorico-pratici, dal
tono accattivante e ottimistico, che consigliano specifici comportamenti, specifici percorsi e specifiche esercitazioni. L’autore ha l’intento preciso di proporsi come
mentore-terapeuta e si esprime coerentemente con questo intento. Per definizione
la letteratura di autoaiuto non prevede intermediari. Il lettore si auto-cura attraverso
la lettura di un testo. Come si fa a distinguere i buoni dai cattivi libri di autoaiuto?
Sebbene non sia possibile definire a priori tutti i requisiti dei rari buoni libri prodotti in
questo settore, esistono alcune caratteristiche che possono aiutare il lettore nella scelta.
Esistono infatti dei buoni ed anche ottimi libri di autoaiuto. Si tratta per lo più di libri
scritti da chi ha sofferto di quel particolare problema trattato, ne ha attraversato gli aspetti
più dolorosi e ne è uscito. Chi ha percorso una strada con successo va sempre ascoltato.
Potrebbe dirci qualcosa di prezioso.
Infine ci sono dei manuali scritti da professionisti con l’intento di proporre con onestà
elementi molto utili per affrontare il problema. Spesso si tratta di testi redatti da medici
che hanno una particolare esperienza nello specifico argomento affrontato. Il gran numero di persone visitate e curate, la continua riflessione sul tema possono aver indotto il professionista ad individuare alcuni passaggi fondamentali sulla via del cambiamento. Questi
libri sono per lo più onesti e realistici. Non è detto che facciano uscire dal problema ma
certamente possono suggerire spunti di grande utilità.
 3. Letteratura psicoeducazionale e sussidiaria. Si tratta di veri e propri strumenti terapeutici espressamente studiati da professionisti del settore allo scopo di coadiuvare il lavoro
terapeutico. Questo tipo di letteratura, per certi versi assimilabile alla buona letteratura
divulgativa, è piuttosto recente e si avvale di ottimi testi che spiegano in modo realistico,
affidabile scientificamente, preciso e semplice le nozioni fondamentali per affrontare un
determinato problema. Oppure si tratta di promemoria, schede o altro materiale da compilare. Questi stampati possono essere molto utili durante un percorso terapeutico.
Di stampo comportamentista, il Flooding abbinato alla Prevenzione della Risposta si è rivelato una tecnica efficace nel trattamento delle Fobie monosintomatiche
(Emmelkamp e al., 1978), consentendo al paziente di acquisire nuove capacità di controllo sulla sintomatologia ansiosa, affrontandola in vivo.
FLOODING E TECNICA IMPLOSIVA
Il Flooding e la Tecnica Implosiva sono impiegate soprattutto nel trattamento delle Fobie
monosintomatiche e dei Disturbi Ossessivo Compulsivi. Entrambe queste tecniche sono
finalizzate ad eliminare il comportamento di evitamento e l’ansia che lo evoca, attraverso
una procedura base di estinzione: inducendo ansia ma prevenendo ogni comportamento di fuga o di evitamento si impedisce che tali condotte possano essere rinforzate dal
sollievo da una situazione temuta. In sintesi, l’obiettivo è quello di estinguere la risposta
d’ansia impedendo i comportamenti di evitamento o di fuga dallo stimolo ansiogeno, in
modo che venga meno il rinforzo determinato dal sollievo che essi procurano. Allo stesso
tempo la permanenza nella situazione ansiogena può disconfermare l’aspettativa di eventi
terribili (Solomon e al., 1954; Stern e al., 1973).
59
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Sebbene entrambe le tecniche abbiano la stessa finalità e condividano alcune assunzioni
o ipotesi di lavoro, vi sono delle nette differenze che le distinguono. Infatti, mentre la
Tecnica Implosiva si basa su concetti mutuati dalla tradizione psicodinamica e consiste
fondamentalmente nell’esposizione in immaginazione e nella drammatizzazione di stimoli ansiogeni (presentati in modo gerarchico, cominciando con gli item che provocano
meno ansia) al fine di risolvere eventuali conflitti repressi ad essi associati, il Flooding si
rivolge ai comportamenti visibili e tende ad utilizzare l’Esposizione in vivo (senza l’uso di
una gerarchia e con tempi di presentazione molto lunghi). L’efficacia di questa metodologia è stata ampiamente documentata (Emmelkamp e al., 1978) e il vantaggio che se
ne ricava è quello di consentire al paziente di acquisire nuove capacità di controllo sulla
sintomatologia ansiosa affrontandola sul campo.
Nel trattamento comportamentale dei Disturbi d’Ansia, il principio di base è il
meccanismo dell’abituazione che si applica attraverso un’esposizione graduale alle situazioni temute.
Le tecniche comportamentali più efficaci nella terapia di questi Disturbi sono:
- Training di Rilassamento, per il controllo delle manifestazioni fisiologiche, delle
tensioni muscolari e della respirazione (Goldwrum, 1986; Rolla, 1989; Brenner,
1991);
- Controllo dell’Iperventilazione, per combattere lo stato di iperattivazione;
- Distrazione ;
- Desensibilizzazione Sistematica, in immaginazione ed in vivo, per affrontare gli stimoli e le situazioni temute, eliminare le condotte di evitamento e ridurre il livello
di disabilità;
- Training Assertivo e Social Skills Training, per la riduzione dell’ansia sociale e l’incremento delle abilità sociali;
- Biblioterapia.
TECNICHE DI DISTRAZIONE
La Distrazione è una potente tecnica non farmacologica di applicazione semplice e
immediata che non richiede un precedente insegnamento e fornisce ottimi risultati.
La Distrazione prevede l’uso di oggetti e attività quotidiane della persona che catturino
la sua attenzione e, di volta in volta, possano contribuire ad allontanare il disagio, la
paura e l’ansia. Nei disturbi ansiosi, in genere, si incoraggia l’esposizione a situazioni
nelle quali in precedenza si sono verificati attacchi di ansia e/o di panico. L’esposizione
immediata e più o meno graduata alla situazione temuta è molto efficace ma può in
alcuni casi sembrare impossibile per il forte disagio che comporta: è utile allora provare, solo inizialmente, ad utilizzare tecniche di distrazione che aiutino ad affrontarla
(es. fare un cruciverba, leggere, ascoltare la musica, fare calcoli matematici, osservare e
contare tutte le persone che hanno un indumento rosso, ecc…). L’operatore può applicare in prima persona la distrazione o istruire il paziente affinché si auto somministri
la tecnica.
60
I Disturbi d’ansia
DESENSIBILIZZAZIONE SISTEMATICA
Storicamente una delle prime tecniche d’intervento di ispirazione comportamentista è
la Desensibilizzazione Sistematica (DS) una tecnica sviluppata da J. Wolpe (1958, 1984)
che mira in modo specifico all’eliminazione dell’ansia disadattiva e che spesso si è rivelata utile nel combattere i disturbi a componente fobica. La DS si basa sull’associazione
di tecniche di rilassamento con situazioni (immaginate o in vivo) che il paziente ha
indicato come causa della propria ansia. Nella DS si assume che un individuo in stato
di rilassamento non possa esperire contemporaneamente l’ansia. Se il paziente, posto
di fronte a stimoli fobici, esperisce rilassamento piuttosto che ansia avvertirà molto
meno disagio. In seguito la nuova associazione (rilassamento–situazione stimolo) appresa in terapia andrà generalizzata in tutte le situazioni quotidiane. La DS si basa sul
principio del controcondizionamento che è costituito da procedure di apprendimento
per sostituzione: una risposta appresa in precedenza è sostituita per inibizione reciproca da un’altra. Con la DS si tenta di sostituire l’ansia con il rilassamento, in altre
parole il rilassamento va a inibire l’ansia. In base al principio dell’inibizione reciproca,
l’associazione tra lo stimolo ansiogeno e una risposta adattiva (il rilassamento) agisce
eliminando il precedente condizionamento tra lo stesso stimolo e la risposta d’ansia
(Wolpe, 1958, 1984, 1985).
Nella terapia dei Disturbi d’Ansia, il trattamento cognitivo aumenta l’efficacia
dell’intervento e la stabilità dei risultati (Rachman, 2004).
Le tecniche cognitive maggiormente impiegate per il trattamento di queste patologie sono:
- Psicoeducazione, che consente al paziente di ridefinire le proprie considerazioni sul
disturbo attraverso l’acquisizione di informazioni sulla natura dell’ansia e sui suoi
correlati fisiologici e psicologici;
- Ristrutturazione Cognitiva, per modificare le percezioni distorte, relative prevalentemente a temi di minaccia e pericolo, la cui individuazione è di particolare importanza perché esse sono strettamente connesse alle condotte di evitamento;
- Prevenzione delle Ricadute, con l’obiettivo di rinforzare le competenze acquisite e
di rilevare la presenza di eventuali credenze residue che, in particolari condizioni
di stress, potrebbero provocare la ricomparsa della sintomatologia.
PREVENZIONE DELLE RICADUTE
Questa particolare modalità di trattamento riguarda il modo in cui possono essere veicolati gli strumenti terapeutici di intervento attivo sui processi psicologici del soggetto, con
la funzione di prevenire possibili ricadute (relapse) dopo un trattamento psicologico, ad
esempio dopo una psicoterapia.
Tale forma di prevenzione psicologica è concepibile come una più generale psicoeducazione alla salute mentale e al benessere psicofisico. Infatti, vari protocolli di Prevenzione delle Ricadute sono stati progettati come interventi tesi allo sviluppo di abilità
61
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
di ragionamento o problem solving, al fine di potenziare le capacità del soggetto nel
fronteggiare le difficoltà, adattarsi con più successo e raggiungere più facilmente i propri scopi.
Il punto cruciale è il seguente: gli interventi preventivi in psicoterapia sono informazioni che l’individuo elabora ed in base a tale elaborazione egli attiva o modifica una
certa condotta. In sostanza, questi interventi si occupano di fornire conoscenze, utili e
pratiche, mirate al potenziamento della capacità di adattamento del soggetto e del raggiungimento dei suoi scopi. Tutti questi interventi di tipo preventivo possono riguardare alcuni punti chiave nella organizzazione mentale della persona ed in particolare
riguardano la organizzazione di alcuni concetti, di alcune assunzioni e credenze in generale, ed alcune teorie del senso comune, alcune abitudini nell’affrontare, fronteggiare
e giudicare aspetti della realtà, del rapporto con gli altri, e anche delle relazioni riguardo
se stessi. In breve, queste abilità possono essere denominate come “abilità metacognitive”; volendo indicare con tale termine quelle abilità di sviluppo ed uso del nostro essere
coscienti, del nostro essere consapevoli del fatto che in dati momenti funzioniamo in
un certo modo, cioè dell’essere consapevoli del nostro stesso funzionamento mentale
(e di alcuni importanti contenuti e processi). Queste abilità metacognitive permettono
all’individuo di autoregolarsi, di autocorreggersi e così assumere degli atteggiamenti e
strategie di fronteggiamento (coping) e risoluzione dei problemi della vita, in particolare della vita quotidiana.
Nell’ambito della terapia cognitiva c.d “post-razionalista”, orientata secondo modelli strutturalisti-costruttivisti, si propone un intervento articolato su di un duplice
livello che prevede un cambiamento superficiale ed uno profondo.
INTERVENTI COGNITIVO-STRUTTURALISTI
Organizzazione cognitiva ansioso fobica
Nel caso di scompenso di una struttura cognitivo emotiva ansioso fobica, i progetti di
cambiamenti superficiali possono, ad esempio, interessare il timore di perdere il controllo
e di sentirsi male all’improvviso quando si è soli. Con l’aiuto delle tecniche cognitivo
comportamentali si può incoraggiare il paziente ad esplorare, riconoscere e controllare i
propri (temuti) sintomi neurovegetativi e fargli considerare come la solitudine non comporta, di per sé, un pericolo per una persona adulta.
Nei piani di intervento a livello profondo, si considerano teorie più basilari, come
quelle collegate al concetto di particolare vulnerabilità personale ed alla necessità di
avere sotto controllo tutte le situazioni importanti, che si manifestano implicitamente
con un atteggiamento verso se stessi e il mondo basato sulle sospettosità, sulla paura di
non essere accettati e sul controllo automatico del proprio stato fisico e delle relazioni
interpersonali.
62
CAPITOLO 3
Disturbo di panico
3.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
Attacco di Panico
Nota: un attacco di panico non è un disturbo codificabile. Codificare la diagnosi specifica
nell’ambito della quale si manifesta l’attacco di panico (ad esempio disturbo di panico
con agorafobia).
Un periodo definito di intensa paura o disagio, durante il quale quattro (o più) dei seguenti sintomi si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nell’arco
di dieci minuti
1. palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia;
2. sudorazione;
3. tremori o scosse;
4. dispnea o sensazione di oppressione;
5. sensazione di soffocamento;
6. dolore o fastidio al petto;
7. nausea o disturbi addominali;
8. sensazione di sbandamento, instabilità, stordimento o svenimento;
9. derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere staccati a se stessi);
10. paura di perdere il controllo o di impazzire;
11. paura di morire;
12. parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio);
13. brividi o vampate di calore.
Disturbo di panico senza agorafobia
A. Entrambi 1) e 2):
1. Attacchi di Panico inaspettati e ricorrenti;
2. Almeno uno degli attacchi è stato seguito da 1 mese (o più) di uno (o più) dei
seguenti sintomi:
a) preoccupazione persistente di avere altri attacchi;
63
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
b) preoccupazione per le implicazioni dell’attacco o delle sue conseguenze (es. perdere il controllo, avere un attacco cardiaco, impazzire);
c) significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi.
B. Assenza di Agorafobia.
C. Gli attacchi di Panico non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza
(per es. una droga o un farmaco) o di una condizione medica generale (per es. ipertiroidismo).
D. Gli Attacchi di Panico non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale, come Fobia Sociale (per es. si manifestano in seguito all’esposizione a situazioni sociali
temute), Fobia Specifica (per es. in seguito all’esposizione ad una specifica situazione fobica), Disturbo Ossessivo Compulsivo (per es. in seguito all’esposizione allo
sporco in qualcuno con ossessioni di contaminazione), Disturbo Post-traumatico
da Stress(per es. in risposta a stimoli associati con un grave evento stressante), o
Disturbo d’Ansia di Separazione (per es. in risposta all’essere fuori casa o lontano da
congiunti stretti).
Le caratteristiche del Disturbo di Panico senza Agorafobia sono simili a quelle del
Disturbo di Panico con Agorafobia ad eccezione della presenza dell’Agorafobia stessa
(criterio diagnostico B).
Anche se si rilevano in aumento casi di manifestazione in età adolescenziale, il
Disturbo da Attacchi di Panico (DAP) esordisce generalmente verso i 25 – 30 anni, in
prevalenza nelle donne e può cronicizzarsi (Lorenzini, Sassaroli, 1987). La maggiore
frequenza nel sesso femminile può in parte ricondursi alla più marcata tendenza, sia innata sia socialmente appresa, a focalizzare l’attenzione sulle emozioni e sulle sensazioni
corporee, accompagnata dalla manifestazione di comportamenti protettivi che possono essere messi in relazione con la genesi ed il mantenimento del Disturbo (Rovetto,
2003).
Per la diagnosi di DAP è richiesta la manifestazione di attacchi inaspettati e ricorrenti, seguiti da un periodo di almeno un mese in cui è presente il timore persistente
che si ripresentino o la preoccupazione per sue conseguenze, oppure il soggetto adotti
dei significativi cambiamenti rispetto alle proprie condotte abituali. Inoltre va esclusa
la presenza di effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale o di un altro disturbo mentale.
La crisi di panico regredisce spontaneamente e può lasciare nel soggetto uno stato
di spossatezza, di affaticamento, sensazione di “testa vuota” o di derealizzazione che a
volte possono permanere per alcuni giorni (fase post critica) (Cassano, 1990; Giberti
e Rossi, 1996).
Il grado di sofferenza, di compromissione della libertà e delle capacità di funzionamento psicosociale del soggetto con DAP, che prima dell’episodio di panico conduceva
un’esistenza normale, lo inducono a ricorrere all’aiuto sanitario al presentarsi di ogni
attacco, in particolare quando la sintomatologia fa sospettare un disturbo cardiaco.
L’esordio del Disturbo avviene all’improvviso durante lo svolgimento delle abituali
attività quotidiane: i sintomi fisici sono accompagnati da ansia acuta e grave, senso
di forte apprensione e di intensa paura, a volte con sensazione di morte imminente e
desiderio impellente di allontanarsi dal luogo nel quale ci si trova. Questa esperienza
penosa e sconvolgente rimarrà impressa nella memoria tanto da permettere al soggetto
di rievocarla e descriverla con estrema precisione anche a distanza di molto tempo.
64
I Disturbi d’ansia
Secondo Fava e Mangelli (1995) la comparsa del Disturbo si colloca al culmine
di una catena di eventi stressanti, quando le circostanze di vita non consentono più il
ricorso all’evitamento.
Tra le condizioni predisponenti, alcuni Autori (McCarthy e Shean, 1996) individuano anche situazioni di separazione precoce, come la morte di un genitore o una
separazione traumatica, condizioni che inibiscono il comportamento di esplorazione
ed aumentano la sensazione di precarietà, favorendo la percezione di un profondo
senso di insicurezza.
Marks (2002) riporta che nel 92% dei casi il primo Attacco di Panico si sperimenta in luogo pubblico. Favarelli e al. (1985) motivano tale fenomeno con la presenza di
una forma di agorafobia non conclamata che preesiste all’esordio clinico con il primo
episodio di panico.
Sebbene la crisi di panico sia descritta come inaspettata e spontanea, il soggetto
che l’ha sperimentata attiva il proprio “sistema d’allarme” e vive in uno stato di apprensione, ipervigilanza ed ipersensibilità nei confronti degli stimoli enterocettivi e
delle sensazioni somatiche e nel timore che un nuovo episodio possa accadere. Questa
esperienza è definita ansia anticipatoria ed è spesso accompagnata da sintomi prodotti
dall’attivazione del sistema nervoso autonomo (Beck, 1988).
Gli Attacchi di Panico possono essere classificati sulla base delle condizioni in cui
si verificano:
-
-
-
inaspettati (non provocati), si manifestano spontaneamente inattesi in assenza di
una causa scatenante immediatamente evidente;
causati dalla situazione (provocati), si verificano prima o durante l’esposizione alla
situazione scatenante;
sensibili alla situazione, possono manifestarsi a seguito dell’esposizione al fattore
scatenante ma non sono invariabilmente associati ad essa.
3.2 Modelli comportamentali e cognitivi
Barlow e coll. (1997) è tra gli studiosi che sostengono l’ipotesi di una predisposizione all’ansia che si riscontrerebbe nei pazienti con DAP e con Agorafobia. La conseguente maggiore vulnerabilità di questi soggetti determinerebbe le loro risposte di
attacco o fuga, tanto in presenza di situazioni realmente pericolose (“vero allarme”)
quanto in assenza di un effettivo pericolo ma come risposta ad una percezione negativa
di eventi di vita stressanti (“falso allarme”).
Secondo la teoria psicofisiologica elaborata da Jacob, Rapport (1984), Clark e Salkovskis (1985) il panico è prodotto da modalità respiratorie disfunzionali che generano il
fenomeno dell’iperventilazione, una ventilazione polmonare che modifica l’equilibrio
di ossigenazione del sangue. Questo fenomeno induce vasocostrizione, con maggiore
difficoltà di ossigenazione dei vari organi, ed a livello cerebrale si sperimentano senso di
stordimento, vertigini e sensazioni di svenimento. A livello periferico, le conseguenze
dell’iperventilazione si manifestano con intorpidimento degli arti, spasmi e crampi mu65
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
scolari fino a fenomeni di aritmie cardiache. La sovrapposizione della sintomatologia
prodotta dall’iperventilazione con quella degli Attacchi di Panico ha indotto gli Autori
a considerare questi ultimi come conseguenza di un’alterazione nella respirazione che,
sperimentata anche episodicamente, può allarmare la persona e renderla maggiormente
sensibile ed attenta ai segnali che provengono dal corpo.
La teoria del comportamento, nel considerare il DAP, fa riferimento ai principi di
apprendimento per condizionamento classico (detto anche rispondente o pavloviano),
operante e sociale (modellamento).
Secondo il condizionamento classico, l’associazione tra uno stimolo neutro ed uno
incondizionato, elicitante una determinata risposta, fa si che lo stimolo neutro assuma le
stesse caratteristiche di quello incondizionato e viene definito condizionato (Meazzini,
Galeazzi, 1978). Nel caso del panico, la situazione - stimolo neutra (es. tachicardia) associata con la situazione avversiva (crisi di panico) in grado di elicitare una risposta incondizionata di paura, diventa in grado di suscitare da sola la medesima reazione di paura.
Le sensazioni fisiche diventano stimoli condizionati di risposte condizionate di panico.
Con la definizione di “paura della paura” ci si riferisce alla condizione per cui un
individuo che abbia sperimentato un Attacco di Panico può sensibilizzarsi agli stimoli
interni, inizialmente neutri, ed innescare una spirale di ansia anticipatoria e di paura
che amplifica i sintomi rendendo emotivamente drammatica una reazione oggettivamente banale (Sanavio, 1991).
Una tecnica utile per estinguere la “paura della paura” è l’esposizione sistematica a
sensazioni interne (esposizione enterocettiva).
Secondo i principi del condizionamento operante, il comportamento è regolato dalle conseguenze che produce: l’individuo tenderà a ripetere le azioni seguite da effetti
piacevoli e ad evitare quelle che producono conseguenze spiacevoli (Meazzini, Galeazzi,
1978).
Nel caso di ripetuti Attacchi di Panico, in presenza di una situazione – stimolo che
produce un aumento della risposta di paura o di ansia, il soggetto mette in atto una
serie di azioni che, nel passato, hanno avuto come conseguenza la sua riduzione: ricerca
di aiuto, fuga o evitamento delle situazioni collegate con la crisi.
Il modello cognitivo individua i fattori cognitivi coinvolti nell’eziologia e nel mantenimento del DAP: particolarmente significativa è l’interpretazione catastrofizzante di
eventi fisici e mentali (specie quelli associati all’ansia), erroneamente considerati premonitori di un imminente disastro, come avere una crisi di panico, svenire, impazzire o morire (Beck, 1985). L’Autore opera una distinzione tra fattori predisponenti
e precipitanti. I primi includono: l’ereditarietà, i disturbi fisici che producono effetti
somatici simili a quelli dell’ansia, le esperienze traumatiche, le inabilità sociali. I fattori
precipitanti comprendono: malattie fisiche, esposizione a sostanze tossiche e vari tipi
di stress esterni. Il ruolo negativo della cognizione nei disturbi ansiosi consiste nella
tendenza del paziente ad interpretare erroneamente determinati eventi, considerandoli
pericolosi, ed a sottovalutare le proprie risorse disponibili per farvi fronte.
Clark nel 1986 descrive gli Attacchi di Panico come il risultato di una “interpretazione catastrofica” di alcune sensazioni corporee. Le sensazioni fisiche normalmente
associate all’ansia quali palpitazioni, vertigini, iperventilazione … vengono “lette” dal
paziente come segnali di un pericolo incombente (possibilità di un attacco cardiaco,
66
I Disturbi d’ansia
di un’emorragia cerebrale …). Gli Attacchi di Panico possono presentarsi anche a seguito dell’assunzione di alcune sostanze farmacologiche ma la causa delle crisi è, anche
in questi casi, comunque attribuibile all’interpretazione catastrofica delle sensazioni
somatiche esperite.
Figura 1
Modello cognitivo del DAP con l’aggiunta del ciclo di mantenimento (Wells,
1999)
fattori scatenanti
interni / esterni
minaccia percepita
ansia
interpretazione erronea
sintomi
somatici / cognitivi
evitamento e comportamenti protettivi
(attenzione selettiva compresa)
L’errata interpretazione delle reazioni fisiche produce un incremento dell’ansia fino all’instaurarsi del ciclo “paura della paura”.
In sintesi:
-
-
-
il soggetto dispone di schemi cognitivi catastrofizzanti per l’analisi di eventi fisici
o mentali;
gli stimoli enterocettivi neutri vengono trasformati in sensazioni somatiche terrorizzanti, come risultato delle distorsioni presenti in tale analisi;
il Disturbo viene mantenuto da un eccesso di apprensione ed ipervigilanza nei
confronti degli eventi fisici o mentali.
Poiché gli stimoli enterocettivi sono parte integrante dell’organismo e si manifestano nelle più svariate condizioni della vita quotidiana, qualsiasi situazione esterna può
acquisire una connotazione ansiogena.
Partendo dal modello di Clark, Wells (1999) identifica il ciclo del mantenimento
del circolo vizioso rilevando il ruolo di tre fattori:
- attenzione selettiva sulle sensazioni corporee;
- comportamenti protettivi associati alla situazione;
- evitamento.
67
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Il controllo continuo del proprio corpo alimenta la preoccupazione connessa ai
supposti segnali e sintomi di malattia.
L’attuazione di una serie di comportamenti protettivi e di evitamento delle situazioni ansiogene comporta una mancata disconferma delle interpretazioni erronee
perché riduce la possibilità di confronto con esperienze che possono falsificare l’errata
interpretazione.
La teoria di Clark ed il suo ampliamento ad opera di Wells lasciano insoluti alcuni
quesiti che possono schematizzarsi in: perché gli individui comincerebbero a “catastrofizzare” nella prima età adulta? Perché sono pochi gli anziani che sviluppano crisi di
panico, dal momento che avrebbero più motivo rispetto ai giovani di preoccuparsi delle
loro sensazioni corporee? Perché le donne hanno una probabilità di “catastrofizzare” da
due a quattro volte superiore rispetto agli uomini? (Rachman, 2004).
Nel suo modello eziologico Stampler (1978) ha integrato gli aspetti psicofisiologici, biochimici e clinici del Disturbo da Attacchi di Panico. Egli ha sottolineato che,
sebbene l’attacco iniziale posa essere preceduto da ansietà “liberamente fluttuante”,
il DAP e l’ansia generalizzata sono fenomeni distinti. Un evento stressante, quale ad
esempio un conflitto coniugale, per un soggetto con deficit nelle capacità relazionali può costituire la premessa per l’insorgenza del Disturbo. Il primo sintomo può
essere riconducibile sia ad eventi psicologici sia somatici ma, indipendentemente
dalle cause iniziali, una volta sperimentati una serie di attacchi la patologia può
cronicizzare.
Stampler ritiene che la terapia efficace debba operare su tre livelli. Con un approccio psicodinamico, cognitivo comportamentale o familiare per l’azione sugli stressor e
sui conflitti, mediante un intervento farmacologico o comportamentale per la riduzione dell’iperattività fisiologica, e con una procedura di ristrutturazione cognitiva al fine
di incrementare l’autostima e le aspettative di autoefficacia.
Basandosi sul principio del condizionamento interocettivo (Razran, 1972), secondo il quale le sensazioni corporee diventano stimoli condizionati di risposte condizionate, e sulla teoria dell’apprendimento, Goldstein e Chambless (1978) rilevano che
i sintomi somatici fungono da stimolo condizionato per una risposta condizionata
di panico.
Alcuni Autori affermano che l’individuo che ha sperimentato un Attacco di Panico
presta maggiore attenzione alle sensazioni fisiche percepite, in particolare quelle associate all’ansia, che interpreta come segnale anticipatorio di un successivo attacco.
Barlow e coll. (1989) concludono che dal momento che ciascun individuo interpreta il significato degli eventi in maniera diversa, uno stressor esterno può portare o
meno all’inizio della crisi di panico in una persona vulnerabile dal punto di vista neurofisiologico. Ciò suggerisce che esiste una variabile psicologica discriminante in grado
di mediare tra eventi esterni e l’inizio dell’Attacco di Panico.
Il ruolo di questa variabile può essere individuato in una predisposizione a reagire
con elevata attivazione allo stress, definita “vulnerabilità allo stress” (Andrews e coll.,
2003).
Il modello cognitivo comportamentale nel trattamento del DAP opera sulla modificazione dell’interpretazione erronea e catastrofizzante delle manifestazioni somatiche
sperimentate con i sintomi. Attraverso la compilazione del Diario delle crisi di panico,
68
I Disturbi d’ansia
le tecniche di Esposizione che possono indurre i sintomi e la Ristrutturazione Cognitiva
è possibile identificare e modificare le convinzioni e le credenze relative alle interpretazioni distorte.
69
CAPITOLO 4
Agorafobia
4.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
Agorafobia
Nota: l’Agorafobia non è un disturbo codificabile. Codificare la diagnosi specifica nell’ambio della quale si manifesta l’Agorafobia.
A. Ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso di un
Attacco di Panico inaspettato o sensibile alla situazione o di sintomi tipo panico. I
timori agorafobici riguardano tipicamente situazioni caratteristiche che includono
l’essere fuori casa da soli; l’essere in mezzo alla folla o in coda; l’essere su un ponte ed
il viaggiare in autobus, treno o automobile.
Nota: prendere in considerazione la diagnosi di Fobia Specifica se l’evitamento è
limitato ad una o solo a poche situazioni specifiche o la Fobia Sociale se l’evitamento
è limitato alle situazioni sociali.
B. Le situazioni vengono evitate (per esempio gli spostamenti vengono ridotti) oppure
sopportate con molto disagio o con l’ansia di avere un Attacco di Panico o sintomi
tipo panico o viene richiesta la presenza di un compagno.
C. L’ansia o l’evitamento fobico non sono meglio giustificabili da un disturbo mentale
di altro tipo, come Fobia Sociale, Fobia Specifica, Disturbo Ossessivo Compulsivo,
Disturbo Post traumatico da Stress o Disturbo d’Ansia di Separazione.
L’agorafobia senza anamnesi di disturbo di panico
A. Presenza di Agorafobia, correlata alla paura della comparsa di sintomi tipo panico
(per es. vertigini o diarrea).
B. Non sono mai risultati soddisfatti i criteri per il Disturbo di Panico.
C. Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. abuso
di droga, un farmaco) o di una condizione medica generale.
D. Se è presente una condizione medica generale, la paura descritta nel criterio A è
chiaramente in eccesso rispetto a quella abitualmente associata con la condizione.
71
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
L’Agorafobia è, tra i disturbi fobici, la forma più diffusa ed invalidante e ad esserne
maggiormente colpite sono le donne.
L’età di esordio si colloca generalmente tra i 18 ed i 35 anni ed è raro che si manifesti durante l’infanzia (Marks, 2002).
Viene definita come un “cluster” di fobie (Sanavio, 1991), nel quale l’elemento
caratteristico distintivo è costituito dalla forte limitazione dell’autonomia personale.
Tale limitazione tende a generalizzarsi ai vari ambiti ai quali il soggetto estende i propri
evitamenti.
Le persone con questo Disturbo presentano un elevato livello di ansia e di paura
di trovarsi in luoghi affollati o in situazioni dalle quali sarebbe difficile o imbarazzante
allontanarsi (essere intrappolati nel traffico, abbandonare una riunione…) o ricevere
immediato soccorso in caso di malore (trovarsi da soli fuori di casa).
Le principali paure per questi soggetti sono: svenire e cadere per terra; avere un
attacco di cuore; perdere il controllo.
L’agorafobico si difende da queste paure evitando attivamente le situazioni temute, riducendo gli spostamenti dalla zona ritenuta sicura (come la propria casa) o
chiedendo la presenza di una persona che lo accompagni e sopporta con intenso disagio le risposte d’ansia conseguenti all’esposizione alla situazione temuta. Tali risposte
possono includere sintomi tipo panico, quali: tachicardia, sudorazione, tremori, senso
di soffocamento, nausea o dolori addominali, senso di sbandamento, derealizzazione
o depersonalizzazione.
Tra gli eventi scatenanti più comuni figurano: la perdita di un persona cara, una
malattia, un trasferimento o relazioni familiari conflittuali.
Secondo Barlow (1997) i pazienti con Agorafobia e con DAP, in conseguenza della
loro maggiore vulnerabilità come predisposizione alle reazioni d’ansia, apprendono ad
aspettarsi che determinate situazioni scatenino allarme. Uno dei maggiori fattori predittivi di evitamento agorafobico è l’aspettativa che, in una determinata situazione, si
verifichi un attacco di panico (“falso allarme”).
4.2 Modelli comportamentali e cognitivi
L’acquisizione da parte del soggetto agorafobico di comportamenti di evitamento
della vasta gamma di situazioni, segue i principi dell’apprendimento rispondente, operante e sociale, tutti strettamente interconnessi (Meazzini, Galeazzi 1978).
In base ai principi del condizionamento operante, di fronte ad uno stimolo che induce un incremento del livello di ansia, il soggetto agorafobico produce una risposta di
fuga o di evitamento che ha come conseguenza un’immediata riduzione dell’attivazione
psicofisiologica. La probabilità che tale risposta venga ulteriormente emessa aumenta
perché l’individuo sperimenta che l’allontanamento dalla situazione fonte di disagio
riduce o elimina la sofferenza.
Nel 1978 Goldstein e Chambless distinsero l’Agorafobia in “semplice” e “complessa”.
La prima si manifesta come risposta d’ansia di fronte ad eventi specifici quali assunzione di droga, disturbi fisici o eventi traumatici. In tali casi la terapia consiste in
72
I Disturbi d’ansia
una graduale Esposizione in vivo ed ha come obiettivo il trattamento della paura situazionale specifica.
L’Agorafobia complessa si caratterizza per la presenza di quattro elementi:
-
-
-
-
la paura della paura, che è l’elemento fobico principale. Il soggetto anticipa con
paura i sintomi che potrebbe provare, focalizzando l’attenzione selettiva sulla sintomatologia e sul suo incremento ed innescando un circolo vizioso che rende la
risposta di paura sempre più elevata;
una scarsa autosufficienza, dovuta all’ansia e/o alla carenza di abilità;
il mancato riconoscimento degli antecedenti causali delle sensazioni spiacevoli. Non
percepire lo stimolo collegato al sintomo che crea disagio non consente di effettuare corrette attribuzioni cognitive che permetterebbero di fronteggiare la paura;
comparsa della sintomatologia in situazioni conflittuali. Il conflitto è generalmente,
ma non necessariamente, di natura interpersonale.
Il soggetto agorafobico è combattuto tra tendenze e progetti di vita conflittuali;
combatte tra autonomia personale ed indipendenza e tra la ricerca/conferma di un ambiente familiare che gli assicuri protezione e supporto. Gli episodi di ansia rinforzano la
percezione di sé come persona che necessita dell’accudimento da parte di qualcun altro.
Per spiegare l’origine ed il mantenimento dell’Agorafobia, Brehony e Geller (1981)
proposero un modello basato sull’analisi funzionale del comportamento e sull’influenza
del fattori fisiologici, cognitivi, comportamentali ed interpersonali. Tensione ed ansia
sono correlate alla bassa tolleranza allo stress e determinano un elevato livello di attivazione psicofisiologica, condizione favorevole per l’insorgenza di Attacchi di Panico.
L’esperienza del panico induce la paura di sperimentare ulteriori attacchi e ciò
incrementa il livello di stress. Di conseguenza, i soggetti tendono ad evitare determinate situazioni, quali rimanere da soli, trovarsi in contesti nei quali possono sentirsi
intrappolati o affrontare situazioni sconosciute. I comportamenti di evitamento riducono la mobilità della persona che può contare su un sostegno sociale sempre più
limitato ed inizia a sviluppare convinzioni di malattia, con conseguenti sentimenti
depressivi.
Questo modello eziologico sottolinea la centralità dei fattori cognitivi e della mancanza di assertività e propone, come terapia elettiva, il Training Assertivo e la Ristrutturazione Cognitiva.
Mathews, Gelder e Johnston (1981), in un importante lavoro sull’Agorafobia,
hanno sottoposto ad analisi tutte le precedenti teorie eziologiche ed hanno proposto
un nuovo modello integrato che si basa sui seguenti presupposti:
A. i soggetti con Agorafobia possono manifestare tratti ereditabili di ansietà;
B. l’Agorafobia spesso si sviluppa in un contesto generale di stress;
C. ha molti elementi in comune con il Disturbo d’Ansia Generalizzato;
D. gli agorafobici evitano situazioni specifiche, dipendono da altre persone e tendono
ad attribuire la causa del loro Disturbo esclusivamente a fattori esterni;
E. i comportamenti di evitamento persistono ma variano secondo l’umore del soggetto.
73
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Gli Autori individuano una possibile predisposizione familiare: l’iper protezione o
la sua carenza da parte dei genitori e l’instabilità familiare possono favorire l’instaurarsi
di un comportamento dipendente. La presenza del comportamento dipendente, quale
caratteristica ricorrente nell’Agorafobia, era già stato rilevato da Ellis (1989) come possibile spiegazione della maggiore prevalenza nelle donne, nelle quali più frequentemente si riscontrava tale atteggiamento.
Il modello di Mathews presenta degli elementi comuni con quello di Goldstein
e Chambless: sviluppo del Disturbo in un contesto di stress e comportamento sociale
dipendente.
Il modello ispirato alle teorie dell’attaccamento illustrato da Liotti e Reda (1981)
e Liotti (1995) individua nell’Agorafobia:
a) frustrazioni precoci nel comportamento esplorativo che portano alla formazione
di schemi cognitivi nei quali l’ambiente esterno alla famiglia rappresenta un pericolo ed una oscura minaccia mentre quello familiare è un luogo sicuro;
b) organizzazione disfunzionale dell’attaccamento, per cui la separazione dalle figure
di attaccamento è rappresentata come intollerabile;
c) esordio della sintomatologia in concomitanza con variazioni importanti nei legami
con le figure di attaccamento;
d) reazioni d’ansia in situazioni di solitudine e di isolamento;
e) convinzioni di debolezza o malattia che ostacolano la ricerca di soluzioni alternative di fronte ai problemi;
f ) ricerca e scelta di figure di accompagnatori di fiducia, a causa della convinzione
della propria fragilità.
4.3 Trattamento
Sanavio (1991) rileva come le procedure psicoterapeutiche cognitive e comportamentali costituiscano il trattamento, di provata efficacia sperimentale, che consente
maggiori probabilità di successo per i Disturbi fobici e per i Disturbi d’Ansia. In particolare, individua l’Esposizione in vivo come la tecnica più diffusa e più efficace nel
trattamento comportamentale dell’Agorafobia.
ESPOSIZIONE IN VIVO
La tecnica della Esposizione è notoriamente efficace nella riduzione dell’ansia associata
a situazioni ben identificate come Fobie specifiche, Agorafobia, Ansia Sociale (Salkovskis e Clark, 1996; Sanavio, 1991). La procedura di Esposizione si pone l’obiettivo
di permettere al paziente di percepire e valutare in modo “controllato” l’oggetto della
propria paura. Questo metodo, se applicato con gradualità, consente al paziente di riappropriarsi di quelle funzionalità sociali e quotidiane che ha perso a causa dei rilevanti
evitamenti dovuti ai sintomi acuti dell’ansia ed alla sindrome di ansia anticipatoria.
Se ben disegnata, la modalità di Esposizione permette una rapida ripresa ed impiego
di abilità che sono state sospese, ed in qualche caso dimenticate. Nel progettare ed
74
I Disturbi d’ansia
effettuare le esposizioni è necessario illustrare compiutamente il significato di tali procedure e quindi ricercare la piena collaborazione del paziente ed eventualmente di un
suo familiare.
Il trattamento a lungo termine dei pazienti affetti da DAP con Agorafobia è finalizzato ai seguenti obiettivi:
- riduzione, fino alla scomparsa, degli Attacchi di Panico e della loro interferenza
con la vita quotidiana;
- estinzione degli evitamenti agorafobici connessi con il panico;
- modificazione della percezione della propria vulnerabilità.
Le tecniche di Controllo della Respirazione, inserite in un più ampio ed articolato
programma terapeutico basato sull’Esposizione, alleviano i sintomi del panico ed aiutano il paziente nella loro gestione (Clark e coll, 1985).
IL CONTROLLO DELLA RESPIRAZIONE
Il Controllo della Respirazione è una tecnica di rilassamento basata sul presupposto che
respirazione e tensione muscolare sono direttamente collegate: è ben noto infatti che la
tensione nervosa tende ad alterare il ritmo e la profondità del respiro, con conseguente
diminuzione dell’ossigenazione del sangue. La respirazione addominale (diaframmatica
profonda) è un metodo di rilassamento naturale; noi tutti fin da piccoli respiriamo in
questo modo ma, col passare degli anni, ce ne dimentichiamo, usando per lo più una respirazione di tipo toracico. Il training consiste in una serie di esercizi volti a riapprendere
volontariamente la modalità di respirazione diaframmatica. Il soggetto deve imparare con
l’esercizio a respirare inspirando col naso fin nell’addome, espirare e aspettare l’impulso
istintivo di inspirare prima di procedere ad inspirare di nuovo col naso. Per assicurarsi
della correttezza della respirazione l’individuo può poggiare una mano all’altezza dell’ombelico e sentire l’alzarsi e l’abbassarsi dell’addome.
Beta Jenks (1990) ha evidenziato diversi modi per rilassare il respiro e per renderlo profondo e diaframmatico. Ecco alcuni esempi di esercizi che possono essere insegnati ad un
paziente.
•
•
•
•
Respiro Lungo. Tenendo ferme le spalle, immaginate di inalare attraverso le punte
delle dita, su per le braccia e dentro le spalle, quindi espirate lungo il tronco verso
l’addome, le gambe e fuori dagli alluci. Ripetete.
Respirare attraverso la pelle. Immaginate di inspirare e di espirare attraverso la pelle
o una parte qualsiasi del corpo. Ad ogni inspirazione lasciate che la pelle si senta
rinfrescata e rinvigorita. A ogni espirazione lasciate che la pelle si rilassi.
Respirare attraverso l’addome. Mettete le mani sopra la zona che circonda il vostro
ombelico e concentratevi su questo punto. Iniziate a inspirare profondamente, cercando di espandere lo stomaco il più possibile mentre le vostre mani si sollevano
lentamente. Adesso, espirate ad una lentezza raddoppiata rispetto all’inspirazione,
facendo rientrare i muscoli addominali mentre le mani scendono. Ripetete.
Riempire e svuotare una bottiglia. Quando viene versato del liquido in una bottiglia,
la prima cosa che si riempie è il fondo. Quando il liquido viene rovesciato, il fondo
si svuota prima della parte superiore. Immaginate che il tronco del vostro corpo sia
75
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
•
•
•
una bottiglia e riempitelo inspirando dell’aria dal basso verso l’alto. Quindi, svuotatelo allo stesso modo, prima l’addome inferiore, quindi quello superiore e infine
il petto. Ripetete per non più di tre volte prima di ricominciare a respirare normalmente.
Farmaco immaginario. Mentre respirate, immaginate di inalare un farmaco broncodilatatore che ha lo scopo di rilassare e allargare le vie di passaggio dell’aria nei
bronchi e nei polmoni, facendo fluire l’aria più facilmente. Mentre espirate sentite il
leggero allentamento di queste vie. Ripetete.
Sasso nel pozzo. Immaginate che nel vostro addome ci sia un pozzo profondo. Mentre respirate, immaginate di inseguire un sasso che sta cadendo nel pozzo, durante
ogni espirazione.
Onde o maree. Sdraiati sulla schiena, immaginate che il vostro respiro, per due o tre
cicli, scorra insieme alle onde del mare o alle maree. Sentite il flusso passivo che entra
e esce.
Anche le tecniche di Rilassamento possono supportare il soggetto nella gestione
delle manifestazioni fisiologiche dell’ansia, ed in particolare il Rilassamento Muscolare Progressivo di Jacobson è una tecnica utilmente adottata nell’applicazione della
Desensibilizzazione Sistematica (per questa ultima tecnica vedi il capitolo sulla Fobia
Specifica).
Secondo il modello dell’autoefficacia (Bandura, 1977), alla base del Disturbo agorafobico vi è la percezione della carenza di abilità di fronteggiamento: la convinzione
di non saper affrontare con padronanza situazioni potenzialmente pericolose innesca
reazioni di ansia e panico. Il trattamento definito “guided mastery therapy” (terapia
della padronanza guidata) è finalizzato all’acquisizione del senso di padronanza. La
situazione temuta viene suddivisa in attività brevi ed ordinate secondo una gradualità
di difficoltà che il paziente deve eseguire con l’aiuto attivo del terapeuta. Quest’ultimo
viene poi progressivamente ridotto per facilitare la capacità di fronteggiamento autonomo della situazione fobica. Tale tipo di intervento, sebbene si articoli in un trattamento prevalentemente comportamentale, determina un cambiamento anche a livello
cognitivo secondo il principio per cui gli individui acquisiscono la percezione del senso
di efficacia personale attraverso le esperienze di successo nell’esecuzione di determinati
compiti (Aquilar, Del Castello, 1998).
Per il trattamento degli Attacchi di Panico alcuni autori, come Barlow (1991) e
Clark (1986), proposero un protocollo che prevedeva l’Esposizione Graduata in immaginazione, l’Autoesposizione in vivo, il Rilassamento Respiratorio, la Ristrutturazione
Cognitiva e l’Esposizione Enterocettiva. Questa ultima fa riferimento all’estinzione della
paura, concettualizzando l’Attacco di Panico come risposta d’allarme condizionata di
fronte a particolari stimoli fisici. Poiché il DAP secondo il modello cognitivo è una
“fobia degli stimoli corporei interni”, l’obiettivo consiste nel modificare l’associazione
tra sensazioni fisiche e reazioni di panico. La tecnica prevede l’induzione di sensazioni
simili ai sintomi del panico attraverso l’iperventilazione o l’esercizio fisico che produca
sensibili modificazioni nell’apparato cardiovascolare. Di fronte alla sperimentazione dei
sintomi fisici conseguenti, il soggetto viene addestrato a modificare gli errori cognitivi
che ne determinano l’interpretazione catastrofica. Questa tecnica utilizza il colloquio
basato sullo stile socratico.
76
I Disturbi d’ansia
TECNICHE DI ESPOSIZIONE A STIMOLI ENTEROCETTIVI
Una persona che presenta un DAP, non riuscendo comprendere le reazioni fisiologiche
legate alle condizioni d’ansia, cerca di evitarle e tende a drammatizzare. Un buon numero di queste sensazioni viene sperimentato spontaneamente dalle persone quando sono
arrabbiate, eccitate o affaticate. Invece, le persone con un Disturbo di Panico valutano
come minacciose queste reazioni normalissime. La paura basilare è quella di stare male
e ognuno mostra di temere soprattutto alcuni sintomi specifici. Pur di non stare male,
una persona con Attacchi di Panico escogita una serie di meccanismi di evitamento e di
difesa, che gli permettono di evitare ogni emozione. Probabilmente, se un paziente riesce
a non manifestare alcun tipo di emozione, può anche non presentare nessuna crisi, ma il
timore che ogni evento possa suscitare emozioni, lo porterà a impoverire sempre più la sue
esistenza. Inoltre, la paura evitata a lungo non può essere superata ed estinta, anzi tende
ad aumentare sempre più fino a innescare il circolo vizioso della “paura della paura”.
Per spezzare questo circolo, alimentato dall’interpretazione erronea di sensazioni fisiologiche normalissime, si propongono al paziente gli esercizi di Esposizione Enterocettiva.
Questi servono a suscitare reazioni corporee simili a quelle che si manifestano spontaneamente in caso d’ansia. L’intento di tali “esperimenti” è di contraddire l’abitudine a sfuggirli o evitarli, quindi di imparare gradualmente a non drammatizzarli, e di costatare che
le aspettative catastrofiche tanto temute non si avverano. Cioè si può avere un momento
di tachicardia senza per questo morire o rischiare un infarto. In questo modo si aiuta il
paziente a cambiare il proprio stile di comportamento, gli atteggiamenti e le aspettative.
Questi esercizi possono essere appresi nello studio del terapeuta e proposti come compito
a casa e quindi eseguiti nelle situazioni di vita reale. Gli esercizi proposti nelle diverse ambientazioni spesso hanno caratteristiche diverse, ma si dimostrano molto utili come strategia di assessment, dato che permettono un’esposizione dal vivo alle situazioni temute.
Con questo tipo di esposizione si possono mettere in luce i pensieri, le emozioni e le
aspettative, che si manifestano in modo molto più preciso di quanto non avverrebbe con
una semplice verbalizzazione.
Le tecniche di Esposizione Enterocettiva sono utilizzate spesso perché costituiscono un
valido esperimento comportamentale per mettere alla prova le idee disfunzionali o per
consentire al paziente di adottare nuove convinzioni più adattive.
Nell’utilizzare le esposizioni a scopo terapeutico, si sceglie l’esercizio prendendo come
spunto le sensazioni temute particolarmente dal paziente. Gli esercizi che suscitano una
particolare sensazione, come ad esempio il capogiro, possono essere utilizzati per mettere
alla prova le convinzioni che riguardano tale sensazione.
Può capitare che durante un assessment un paziente possa avere una crisi di panico e se
interpreta in modo catastrofico le proprie sensazioni potrà interrompere precocemente la
prova di induzione. Se l’attacco di panico comprare in presenza del terapeuta, è possibile
osservare direttamente l’esacerbarsi della crisi ed in questo contesto protetto il paziente ha
la possibilità di apprendere come gestire l’attacco per poi analizzarne le caratteristiche. Se,
al contrario, l’attacco non compare, le convinzioni del paziente in merito alla pericolosità
di certi stimoli enterocettivi certamente si indeboliscono.
Molti pazienti, dopo aver sperimentato in prima persona che le sensazioni tanto temute
possono essere provocate volontariamente e interrotte senza grosse difficoltà, ne ricavano
un senso di sicurezza e una spinta ad affrontare situazioni a lungo evitate.
Per far si che le tecniche menzionate siano efficaci è necessario scegliere quegli esercizi in
grado di indurre sensazioni simili a quelle che il paziente associa agli Attacchi di Panico.
L’obiettivo non è di far stare male il paziente ma di mettere alla prova le sue convinzioni
catastrofiche. In pratica lo si mette in grado di affrontare un episodio di vertigine o di
77
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
derealizzazione senza ricorrere all’evitamento o alla fuga, giungendo, così a costatare che
si tratta di episodi forse sgradevoli ma sicuramente non pericolosi. In tal modo, il paziente
deve poter affermare e comprendere che anche se si sta male non si muore, non si impazzisce, non si perde il controllo.
La Ristrutturazione Cognitiva rappresenta la conseguenza più diretta di questi interventi,
che hanno anche una funzione di decondizionamento e quindi indeboliscono il collegamento, quasi automatico, tra sintomi e sviluppo dell’Attacco di Panico.
È utile, prima di proseguire con le esposizioni, affrontare e discutere con il paziente delle
sensazioni che potrebbero essere indotte dall’esercizio e dei pensieri catastrofici che potrebbero derivarne. Inoltre, utilizzando una scala da 0 a 100, dove zero equivale a “non
credo assolutamente che un episodio di tachicardia sia pericoloso” e cento indica la profonda convinzione che tale sintomo sia associato a un estremo pericolo, si valuta anche
l’intensità delle cognizioni catastrofiche e delle alternative non catastrofiche.
In un primo momento l’ esercizio scelto viene eseguito nello studio del terapeuta ed è di
breve durata, alcuni minuti, il terapeuta funge da modello e poi descrive le sensazioni che
vengono provate.
DIALOGO CON METODO SOCRATICO
L’oggetto del “sapere umano” , il sapere più importante , è anche il più difficile da raggiungersi in quanto non può essere definito una volta per tutte e per tutti ma può essere
solamente trovato individualmente da ciascuno, e ogni volta di nuovo, attraverso la
ricerca personale che ognuno deve condurre per tutta la vita. La ricerca da intraprendere per conoscere l’essere umano è eminentemente pratica; il conoscere è, infatti, una
pratica che, conoscendolo, costituisce il suo oggetto, un oggetto che non può essere,
dunque, posseduto ma solo cercato per tutta la vita. Ciò che meglio dimostra il significato costitutivo e pratico del sapere umano è il metodo di cui esso deve servirsi. Il
cosiddetto Metodo Socratico, che si utilizza per la ricerca della conoscenza, consiste nel
dialogare con l’interlocutore mettendo in evidenza le contraddizioni e le distorsioni delle
sue affermazioni, spesso superficiali, e facendo venire alla luce le conseguenze disfunzionali
delle sue più profonde convinzioni. In tal modo l’esito della ricerca, in siffatta maniera,
non è il raggiungimento di una nuova conoscenza che lascia immutata l’identità di chi
la possiede. Il metodo mette in atto una trasformazione profonda della persona che ha
intrapreso, la ricerca.
Attraverso la Ristrutturazione Cognitiva si interviene per ridurre sia l’ipervigilanza
verso i sintomi fisici sia l’ansia anticipatoria rispetto al verificarsi degli attacchi.
Il trattamento cognitivo comportamentale del DAP insegna ai pazienti a valutare
le sensazioni corporee sperimentate come naturali, adattive e non dannose e ad assumere il controllo delle proprie reazioni emotive.
Andrews e coll. (2003) hanno elaborato un programma intensivo della durata di
tre settimane, le prime due con un addestramento quotidiano e la successiva in cui il
paziente si impegna in attività di Esposizione autodiretta. Il training si articola in un
Intervento Psicoeducativo, con l’acquisizione di tutte le informazioni su panico e agorafobia (cause, manifestazioni…), seguita dall’apprendimento del Controllo dell’Iperventilazione. Si passa poi all’addestramento al Rilassamento che prepara il paziente ad
78
I Disturbi d’ansia
affrontare la successiva Esposizione Graduale alle situazioni scatenanti. Di particolare
efficacia risultano quindi l’apprendimento a “pensare in modo funzionale” e la fase di
“riproduzioni delle sensazioni di panico” che insegna ad utilizzare efficacemente le tecniche acquisite.
4.4 Casi clinici
Il caso di Aida - “Cosa mi sta succedendo, sto male, adesso svengo…”
Diagnosi: Disturbo di Panico.
Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di stato elevata, ansia di tratto prossima alla
significatività. Significativo il punteggio indicatore di instabilità emotiva e quello relativo alla presenza di paure, prevalentemente riferite a preoccupazioni circa la propria
incolumità ed alle situazioni che evocano malattie.
Aida è una ragazza di 26 anni che lamenta un problema d’ansia. Ha avuto di recente una crisi di panico con tremore, tachicardia e paura di svenire. Si trovava in un
negozio dove avvertiva molto caldo e le mancava l’aria. È stata soccorsa dai familiari e
condotta al pronto soccorso. I controlli medici hanno escluso cause organiche, le viene
diagnosticato un problema d’ansia e le vengono prescritti un farmaco ansiolitico ed un
antidepressivo.
Dopo quell’episodio non ha più avuto crisi ma vive in uno stato di perenne tensione che spesso sfocia in forti attacchi di ansia acuta.
Storia del caso
Vive con il padre ed il fratello, commercianti. La madre è deceduta per malattia
da circa un anno.
Ha un diploma in ragioneria ed è titolare di un’attività commerciale.
Definisce “normale” il suo ambente familiare, con la madre come punto di riferimento per tutti. Riferisce di essere stata “affettuosa, viziata e coccolata” e di nutrire
una gelosia nei confronti del fratello più grande perché “ha avuto più di me e mamma
aveva un debole per lui”.
Il clima familiare è stato caratterizzato da forti apprensioni a causa di problemi di
salute del padre e del fratello: “io non capivo bene, c’era molta preoccupazione ed io di
nascosto cercavo di sapere ma nessuno mi diceva niente”.
Anche la lunga malattia della madre è stata protetta agli occhi della figlia che si
teneva emotivamente distante dal problema, continuando a fare completamente riferimento a lei per tutto, in una condizione di totale dipendenza affettiva e di non autonomia personale. Anche di fronte all’aggravarsi delle condizioni della mamma, Aida non
riesce a comprenderne la reale dimensione “non chiedevo ma leggevo i risultati delle
analisi di nascosto… non riuscivo a darle conforto, lo desideravo ma non ci riuscivo,
ero in imbarazzo”. Sente molto la mancanza della madre sia dal punto di vista affettivo
79
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
sia per il suo ruolo di gestione e di organizzazione della quotidianità. Oggi in famiglia
ha assunto lei quel ruolo, e sente il peso della responsabilità che comporta, con senso
di colpa e sentimenti di rabbia “perché queste cose le devo fare io, è scontato che ci
devo pensare io…”.
Il rapporto con il padre è sempre stato conflittuale, come riflesso delle tensioni tra
i genitori: ”lui ha fatto soffrire la mamma, è un dongiovanni … l’ho odiato … non so
cosa provo per lui”. Ricorda con rabbia l’atteggiamento impotente della madre perché
avrebbe potuto lasciarlo ma le diceva: “non sono nelle condizioni per farlo, tu cerca di
essere indipendente”.
Attualmente tra lei ed il padre non c’è accordo e litigano spesso.
Da circa sei mesi si è concluso un rapporto sentimentale durato otto anni e nello
stesso periodo perde un amico al quale era molto legata.
Pur avendo molti amici Aida si sente “sola, infelice e piena di responsabilità”.
Concettualizzazione e trattamento
Il Disturbo di Panico si manifesta in un soggetto con problematiche relative alle
aree della dipendenza affettiva e dell’autonomia personale. Anche se dal punto di vista
pratico Aida è autosufficiente, nella dimensione emotiva questa crescita non è avvenuta
in quanto ha legato la propria sicurezza al rapporto con le figure di riferimento, madre
e fidanzato, ed alla loro presenza.
Aida ha appreso la risposta d’ansia nell’ambito della famiglia quando, di fronte ai
problemi di salute dei suoi familiari, si originava uno stato di incertezza e di allarme
che lei non riusciva a decodificare e comprendere. La presenza della madre con il suo
atteggiamento protettivo la supportava in questo clima e l’ansia non si è mai manifestata fino alla sua scomparsa.
Seguendo il modello cognitivo, è stato costruito il Circolo del Panico e gli antecedenti sono stati individuati in situazioni dalle quali è difficile allontanarsi (per es. stare
con gli amici e non avere la propria macchina o trovarsi in un locale chiuso lontano
dalla porta) ed in condizioni di aumento della temperatura ambientale. In queste situazioni l’attivazione del circolo vizioso è determinata da una sensazione fisica inusuale
o da una contrarietà o contrattempo. La componente cognitiva è stata riconosciuta nel
pensiero automatico “cosa mi sta succedendo, sto male, adesso svengo…”.
L’attivazione fisiologica si manifestava con palpitazioni, sudorazione e difficoltà
respiratorie.
I comportamenti protettivi consistevano nella ricerca attiva dei familiari o degli
amici.
Dopo aver ricostruito il Circolo del Panico, Aida lo fa proprio e per modificare il
pensiero d’allarme di fronte ai sintomi si dà l’autoistruzione “so che è una reazione non
pericolosa del mio organismo, se non ci penso mi passa”. La ragazza ha personalizzato
la consapevolezza di poter indirizzare i propri comportamenti in maniera efficace con
la frase: “è proprio vero. Se uno pensa, pensa e non fa niente poi si trova male. Se invece
fa magari poi si accorge che sta meglio”.
Successivamente è stato praticato con successo un Training sull’Assertività.
Al termine del trattamento, durato un anno, Aida non ha più manifestazioni di
ansia disturbante.
80
I Disturbi d’ansia
Ha acquisito uno stile relazionale improntato all’affermatività che le ha consentito
di rivedere anche il proprio ruolo all’interno della famiglia e di gestire adeguatamente
le doverizzazioni ed i sensi di colpa.
Il caso di Tania - “… si può diventare pazzi?”
Diagnosi: Disturbo di Panico con Agorafobia.
Dal CBA 2.0 scale primarie: significativo il punteggio relativo alla presenza di paure, prevalentemente riferite a preoccupazioni circa la possibilità di perdere il controllo
ed a situazioni di allontanamento da casa, viaggi e spostamenti.
Tania ha 44 anni e da circa tre soffre di improvvisi capogiri con sensazioni di
perdita dell’equilibrio, specialmente quando è fuori casa. Ciò la porta a non poter più
uscire da sola perché ha bisogno di potersi appoggiare al braccio di qualcuno in caso
di malore.
Il primo episodio è stato improvviso, durante un concerto all’aperto, nel quale ha
sperimentato un violento capogiro che l’ha indotta a chiedere di essere accompagnata
a casa.
Segue una terapia farmacologia con un ansiolitico ed un antidepressivo.
Storia del caso
Tania è sposata da venti anni ed ha due figli. I rapporti con il marito sono condizionati dal suo problema, in particolare dalla sue paure e dai continui cambiamenti di
umore conseguenti alle preoccupazioni.
Descrive i rapporti con la famiglia d’origine come buoni ed il padre, deceduto
da qualche anno, come autoritario e poco presente in famiglia per motivi di lavoro.
Nei confronti di una sorella minore riferisce di aver vissuto sentimenti di forte gelosia
perché privata del ruolo di centralità che aveva avuto in famiglia fino a quel momento.
Attualmente i loro rapporti sono definiti conflittuali.
La donna lamenta, tra le conseguenze più pesanti del disturbo, la difficoltà a “…
dover dipendere dagli altri. Non lo sopporto. Io ho sempre fatto tutto da sola, non ho
chiesto aiuto neanche in situazioni difficili”.
Concettualizazione e trattamento
L’obiettivo generale della terapia è stato l’aumento della consapevolezza della paziente dei propri processi di costruzione della realtà che contribuivano al mantenimento del Disturbo, al fine di modificarne gli aspetti disfunzionali e consentire modalità
più flessibili di adattamento agli eventi stressanti.
In particolare, la Ristrutturazione Cognitiva ha rappresentato l’intervento principale, con l’Addestramento al Rilassamento per il controllo della sintomatologia fisiologica.
Sono state inoltre impiegate la Desensibilizzazione Sistematica in vivo ed il Training
Assertivo.
81
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
1. Intervento Psicoeducativo.
L’impiego di questa tecnica si è reso necessario in quanto la paziente aveva sviluppato nel tempo una serie di convinzioni errate ed irrealistiche sui sintomi che
sperimentava. Soprattutto, Tania temeva fortemente di impazzire o di essere posseduta da uno spirito maligno. A tali convinzioni si aggiungeva un basso livello di
autoefficacia circa la possibilità di poter raggiungere un controllo sulla sintomatologia ansiosa e contribuire attivamente al superamento del Disturbo.
Particolarmente utile è stato per Tania riuscire a percepire e riconoscere i primi
segnali fisiologici indicatori della presenza di un leggero stato di attivazione che,
se trascurati, potevano condurre alla crisi di ansia acuta e successivamente al panico.
2. Training di Rilassamento Muscolare (Wolpe, forma abbreviata).
3. Ristrutturazione Cognitiva.
Attraverso l’analisi delle situazioni nelle quali si scatenavano i sintomi, la paziente
ha evidenziato un forte timore del giudizio altrui. La preoccupazione di essere
osservata e valutata negativamente le faceva sperimentare un’ansia anticipatoria:
“Se mi vedono barcollare pensano che non sono normale, forse che sono ubriaca e
rideranno di me”. La consapevolezza dell’influenza che questi pensieri avevano sul
suo stato emotivo, l’ha indotta a metterli in discussione ed a sostituirli attraverso
un autodialogo più funzionale: “Come faccio a sapere che stanno valutando il mio
modo di camminare? Che prove ho che si siano accorti dei miei sintomi? È più
probabile che stiano pensando ai fatti loro”.
Un’ulteriore acquisizione circa la comprensione del suo problema è stato per Tania verificare, attraverso la compilazione delle schede di automonitoraggio, che le
capitava di sperimentare ansia forte quando si trovava in luoghi nei quali le era già
capitato di sentirsi male. Questo ricordo attivava automaticamente gli stessi sintomi avvertiti in precedenza ed il desiderio di allontanarsi aumentava in proporzione
alla paura che stesse per sentirsi male di nuovo. Riconosciuti questi pensieri come
fattori scatenanti delle crisi d’ansia, la paziente è riuscita a confutarne la validità
ed a sostituirli con più adattive ipotesi di possibilità: “… potrebbe accadere o non
accadere in questo luogo come in qualsiasi altro”.
4. Desensibilizzazione Sistematica in vivo.
Tania ha ordinato gerarchicamente, in ordine crescente di difficoltà, i luoghi e le
situazioni che aveva fino a quel momento evitato o che temeva fortemente di dover
affrontare. Ha cominciato ad affrontarle con gradualità, inizialmente con l’aiuto di
uno dei figli che l’ha affiancata nelle prime fasi della sperimentazione. Progressivamente, è stato ridotto l’ausilio esterno, si è aumentato il tempo di esposizione ed è
stata ampliata la gamma delle situazioni temute, fino alla completa autonomizzazione della paziente.
5. Training Assertivo.
Questo intervento è stato finalizzato all’elaborazione ed alla gestione di alcune
conflittualità che riguardavano il rapporto con la sorella minore dalla quale non si
sente rispettata: “… non mi fa finire di parlare, mi interrompe per dire la sua, non
mi ascolta … Io sto zitta per evitare il peggio. Non c’è rispetto per me. Ho paura
che se comincio a tirare fuori quello che penso si potrebbe arrivare alla rottura”.
82
I Disturbi d’ansia
Attraverso la tecnica del Role Playing, Tania ha verificato come la propria condotta
anassertiva aumentava il suo stato di disagio ed il suo malessere. “Essendo assertiva
sicuramente mi sentirei meglio … e forse riuscirei a farmi ascoltare e a farmi capire
da mia sorella”.
La terapia si è conclusa dopo un anno e la paziente ha raggiunto un soddisfacente
livello di adattamento alla realtà quotidiana con la scomparsa della sintomatologia
agorafobica.
A conclusione del trattamento, Tania si è espressa in questi termini: “La mia maggiore soddisfazione, oltre al fatto di stare meglio, è di aver recuperato la fiducia nelle
mie capacità che avevo perso in questi ultimi anni”.
Il caso di Irina - “…la morte arriva all’improvviso”
Diagnosi: Disturbo di Panico con Agorafobia.
Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di stato e di tratto elevate. Elevato punteggio
alle scale delle paure relative in particolare alla possibilità di attacco cardiaco, di svenire,
di perdere il controllo, di diventare pazza, del cancro, di usare i mezzi pubblici e del
terremoto.
Irina ha 35 anni. Riferisce di soffrire di frequenti malori, quasi quotidianamente,
che si manifestano con: vampate di calore, tachicardia, sudorazione, affaticamento,
dolore al petto, sensazioni di svenimento. In quei momenti teme un infarto, un ictus
e la morte imminente e per questo chiede ad un familiare di essere portata al pronto
soccorso. Lì viene visitata, sottoposta ad elettrocardiogramma e dimessa con diagnosi
di attacco di panico e somministrazione di un ansiolitico.
Avverte che il suo problema la condiziona pesantemente e rischia di compromettere la serenità dei rapporti con i familiari. È stanca di ricorrere continuamente
a visite mediche e accertamenti che riconosce eccessivi e conseguenza di paure irragionevoli.
Irina lamenta anche problemi relativi al peso, obesità, e talvolta si procura il vomito.
Storia del caso
È sposata da nove anni e vive con il marito, di poco più giovane, con il quale ha
un rapporto sereno ed affettuoso.
Lavora presso una ditta come ragioniera.
Il padre è deceduto da circa sette anni a causa di un ictus. Ha un fratello di 28 anni
con il quale riferisce un buon rapporto. Il clima familiare è sempre stato caratterizzato
da calore e comprensione.
Dopo un anno di matrimonio il marito si sottopone, con esito favorevole, ad alcuni mesi di cura farmacologia per un “esaurimento nervoso”, a seguito del quale perde
anche il lavoro. L’anno successivo Irina perde il padre.
83
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Concettualizzazione e trattamento
Dall’analisi del Diario del panico, che Irina ha compilato con cura e precisione, è
emerso che gli attacchi insorgevano nei momenti nei quali non era impegnata in attività che richiedevano attenzione e concentrazione. In tali circostanze si presentavano
pensieri negativi relativi alla paura di un attacco cardiaco e di morire: “in quei momenti
mi sembra di impazzire”, “… la morte arriva all’improvviso”, “questi sintomi mi avvisano che c’è qualcosa che non va”.
Seguendo i modelli di Barlow e di Clark il caso è stato concettualizzato come “interpretazione catastrofica di eventi fisici e mentali, erroneamente considerati segni di
un imminente disastro, come svenire o morire”. In particolare, nel caso di Irina il verificarsi di alcuni eventi traumatici (evento critico) – morte del padre, problemi di salute
e successivo periodo di disoccupazione del marito – hanno determinato una condizione di stress psicofisico con un aumento dell’ansia e successive crisi di panico. Questa
situazione ha originato una modificazione nei processi attentivi (attenzione selettiva)
che si sono focalizzati su reazioni fisiologiche (frequenza cardiaca, respirazione, mal di
testa …) con conseguente interpretazione catastrofica (fattore cognitivo). Le rimuginazioni relative a morte imminente hanno mantenuto l’attenzione selettiva sul corpo,
amplificando la frequenza e l’intensità di alcuni sintomi ed incrementando i livelli
d’ansia (fattore affettivo). I comportamenti di controllo e di evitamento (componente
agorafobica) e la continua ricerca di rassicurazioni (fattore comportamentale) hanno
ulteriormente rafforzato sia le preoccupazioni relative allo stato di salute sia l’intensità
e la frequenza degli attacchi d’ansia.
Alla paziente è stata insegnata una tecnica di Controllo della Respirazione che avrebbe poi impiegato durante gli esperimenti di induzione del sintomo di iperventilazione
attraverso l’Esposizione Interocettiva. Irina doveva respirare rapidamente per circa un minuto e segnalare il momento in cui iniziava a percepire sensazioni simili a quelle provate
durante gli attacchi. In un primo momento le è stato chiesto di utilizzare la tecnica di
Controllo della Respirazione precedentemente appresa. Successivamente, mentre sperimentava i sintomi, doveva descrivere dettagliatamente gli oggetti presenti nella stanza.
In questo modo Irina poteva comprendere il ruolo dell’attenzione focalizzata sul corpo
durante le crisi di panico ed effettuare esercizi finalizzati a decentrare l’attenzione da sé.
Seguendo il modello del Circolo del Panico, la paziente viene motivata a ridurre
gradualmente i comportamenti protettivi e di evitamento.
Dopo aver modificato anche le convinzioni erronee relative al panico, si procede
all’Autoesposizione Graduale in vivo.
La terapia si è conclusa dopo sette mesi di trattamento.
Il caso di Pedro - “Non posso uscire da solo … e se svengo?”
Diagnosi: Agorafobia senza anamnesi di Disturbo di Panico.
Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto molto elevata. Si rileva labilità emozionale con tendenza a somatizzare in situazioni di particolare stress. Sono riferite ac84
I Disturbi d’ansia
centuate risposte psicofisiologiche come dolori addominali, nodo alla gola, vertigini,
tremori e sudorazione. Significativi i punteggi relativi alle paure di luoghi affollati e di
allontanamento da luoghi ritenuti sicuri.
Pedro ha 44 anni e da circa un anno ha disturbi che lo condizionano nella sua vita
di relazione: ansia, paura di uscire da solo e paura di sostare in luoghi affollati perché
teme gli possa accadere qualcosa, disturbi gastrici ed insonnia. Nelle situazioni di maggiore disagio avverte i seguenti sintomi: tachicardia, sudorazione, tremore alle gambe,
disturbi allo stomaco, difficoltà a respirare.
Identifica l’origine dei suoi problemi d’ansia con il dissesto economico subito in
conseguenza del fallimento di un’attività commerciale della quale era titolare. Da allora
ha iniziato a sentirsi a disagio con persone estranee alla famiglia, delle quali temeva il
giudizio per sue presunte debolezze. Ha cominciato a limitare le uscite e selezionare
le amicizie: “… erano freddi nei miei confronti, a volte cattivi quando facevano certe
battute su di me”. Solo in casa ha trovato tranquillità e sicurezza e quando è costretto
ad allontanarsene teme che gli altri si possano accorgere dei suoi malesseri e giudicarlo.
Evita supermercati, banche, ospedali, ristoranti ed altri luoghi affollati ed evita il treno.
Da qualche mese si sposta in macchina da solo nei pressi dell’abitazione mentre per
spostamenti maggiori chiede sempre di essere accompagnato.
Storia del caso
Sposato da ventiquattro anni, ha un sereno rapporto con la moglie. Ha due figlie
nei confronti delle quali ha un atteggiamento iperprotettivo, preoccupandosi eccessivamente della loro salute e limitandole molto nelle uscite.
Lavora nel campo della ristorazione ma senza particolare soddisfazione specialmente per difficoltà di rapporto interpersonale. Alcuni anni prima ha avuto gravi problemi economici. Rimasto orfano di madre all’età di otto anni, ha studiato in collegio
dove ha conseguito la licenza media inferiore. Ricorda quel periodo come un’esperienza
molto triste nella quale si sentiva solo e lontano dagli affetti familiari.
Concettualizzazione e trattamento
Al fine di ridurre le risposte psicofisiologiche connesse all’ansia, sono state impiegate la tecnica di Rilassamento Muscolare Progressivo nella forma ridotta di Wolpe e la
Respirazione Diaframmatica.
Attraverso la Desensibilizzazione Sistematica, unitamente alla modificazione dei
pensieri disfunzionali relativi alle manifestazioni ansiose ed alle temute conseguenze
catastrofiche, Pedro è riuscito a superare gli evitamenti comportamentali, prima in
immaginazione e successivamente in vivo.
La gerarchia costruita dal paziente prevedeva 12 item, dei quali 10 riferiti a situazioni ansiogene ma comunque affrontate e 2 assolutamente evitate:
- andare da solo in macchina per recarsi al lavoro (SUD 90);
- spostarsi da solo in macchina, per lavoro, verso una località distante oltre 50 chilometri da casa (SUD 100).
85
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Per affrontare la prima è stata richiesta la collaborazione della moglie secondo il
seguente schema:
-
-
-
-
lunedì, Pedro siede accanto alla moglie che guida;
martedì, lui guida e la moglie gli siede accanto;
mercoledì, lui guida la sua auto e la moglie lo segue con la propria;
giovedì, Pedro guida da solo e raggiunge il posto di lavoro.
Durante l’Esposizione in vivo, il paziente ha continuato a monitorare i pensieri
prima, durante ed al termine della prova.
Per affrontare l’allontanamento di oltre 50 chilometri da casa, è stata approntata
un’ulteriore gerarchia di stimoli ansiogeni relativi alla paura di sentirsi male in macchina (14 item) che è stata affrontata prima in immaginazione e poi in vivo.
Gerarchia di situazioni costruita dal paziente
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Ascoltare musica rilassante sul divano in casa
La sera prima della partenza per Napoli
Al risveglio la mattina della partenza
Mentre mi preparo per uscire di casa
Esco dalla porta di casa da solo
Apro il garage
Entro in macchina
Sono per strada e lascio la mia casa alle spalle
Sono per strada ormai lontano da casa
Arrivo al casello dell’autostrada
Ho preso il biglietto al casello
Prendo l’autostrada
Ho fatto già alcuni chilometri di autostrada
Ho fatto molti chilometri, c’è traffico e
nessuna possibilità d’uscita
livello d’ansia
0
5
10
15
25
30
40
55
60
65
70
80
90
100
Item
Dopo la conclusione del trattamento, durato un anno, Pedro ha migliorato sensibilmente la qualità della propria vita, con effetti positivi sulla considerazione di sé e
sull’autoefficacia.
86
CAPITOLO 5
Fobia specifica
5.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
A. Paura marcata e persistente, eccessiva o irragionevole provocata dalla presenza o
dall’attesa di un oggetto o situazione specifici (ad esempio: volare, altezze, animali,
essere sottoposti ad iniezione, vedere il sangue).
B. L’esposizione allo stimolo fobico provoca quasi inevitabilmente una risposta ansiosa
immediata che può prendere forma di un attacco di panico legato a, o predisposto
da, una situazione.
Nota: nei bambini l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi d’ira, irrigidendosi o aggrappandosi a qualcuno.
C. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole.
Nota: nei bambini questa caratteristica può essere assente.
D. La situazione fobica viene evitata oppure sopportata con ansia e disagio intensi.
E. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella situazione temuta interferiscono
in modo significativo con le normali abitudini della persona, con il funzionamento
lavorativo (o scolastico), con le attività sociali o le relazioni con gli altri, oppure è
presente un disagio marcato per il fatto di avere la fobia.
F. Nei soggetti con meno di 18 anni, la durata è di almeno 6 mesi.
G. L’ansia, gli attacchi di panico o l’evitamento fobico associati all’oggetto o alla situazione specifici non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale, come il
Disturbo Ossessivo Compulsivo (ad esempio, paura dello sporco in una persona con
ossessioni di contaminazione), il Disturbo Post Traumatico da Stress (ad esempio,
evitamento di stimoli associati ad un grave evento stressante), il Disturbo d’Ansia
di Separazione (ad esempio, evitamento della scuola), la Fobia Sociale (ad esempio,
evitamento di situazioni sociali per paura di rimanere imbarazzati), il Disturbo di
Panico con Agorafobia o l’Agorafobia senza anamnesi di Disturbo di Panico.
Specificare il tipo:
tipo animali
tipo ambiente naturale (ad esempio, altezze, temporali, acqua)
87
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
tipo sangue, iniezioni, ferite
tipo situazionale (ad esempio, aerei ascensori, luoghi chiusi)
altro tipo (ad esempio, evitamento fobico di situazioni che possono portare a soffocarsi,
vomitare o contrarre una malattia; nei bambini evitamento di rumori forti o di personaggi mascherati)
Si riconoscono i seguenti tipi di fobie:
-
-
-
-
tipo animali, con esordio generalmente durante l’infanzia;
tipo ambiente naturale, come temporali, altezza o acqua;
tipo sangue, iniezioni o ferite, con elevata familiarità;
tipo situazionale, come luoghi chiusi, ascensori, trasporti pubblici, volare…, le più
frequenti in ambito clinico.
I contenuti non differiscono da quelli delle paure comunemente rilevabili nella
popolazione non fobica nella quale essi sono presenti a livelli quantitativamente minori, senza compromissione del normale funzionamento dell’individuo.
La fobia si differenzia pertanto, rispetto alla paura, per le seguenti caratteristiche:
- è sproporzionata rispetto alla situazione;
- non può essere controllata da pensieri razionali;
- produce l’evitamento sistematico della situazione temuta.
5.2 Modelli comportamentali e cognitivi
Marks (2002) rileva che mentre i contenuti delle fobie sono cambiati nel corso
degli anni, le caratteristiche dei soggetti fobici non hanno subito analoghe modificazioni. Con il progresso scientifico sono comparse nuove paure, come quella relativa alle
radiazioni, ma se ne sono estinte altre, come la demonofobia o la satanofobia presenti
nel sedicesimo secolo.
Si distinguono paure “focali”, reazioni a specifiche situazioni stimolo in genere
poco numerose, e “diffuse”, riferite ad una condizione di reattività ad un elevato numero di situazioni stimolo. Pertanto, le prime sarebbero più facilmente eliminabili
(Rachman, 2004).
L’acquisizione delle fobie è riconducibile ad un apprendimento per condizionamento classico: uno stimolo inizialmente neutro, associato successivamente ad uno stimolo
avversivo, assume valenza fobica (Mowrer, 1947). Qualsiasi stimolo può acquisire tale
caratteristica, anche se alcuni hanno maggiori probabilità di altri, e per il principio
della generalizzazione la gamma degli stimoli fobici può estendersi.
Per effetto del condizionamento operante, il comportamento di evitamento dell’oggetto fobico viene mantenuto perché rinforzato dalla riduzione dell’ansia.
Seligman ha individuato alcuni punti deboli in relazione al semplice condizionamento: le fobie non erano uniformemente distribuite fra tutti i possibili stimoli, ma le
88
I Disturbi d’ansia
paure fobiche erano soprattutto quelle del buio, dell’acqua, dell’altezza, degli insetti o
degli animali piccoli. Poiché quindi le fobie tendevano a raggrupparsi più facilmente
intorno ad alcuni oggetti o situazioni temuti, Seligman ricercò un denominatore comune e suggerì che certi stimoli fobici potevano aver rappresentato una minaccia biologica significativa durante il processo evolutivo della nostra specie. Egli ha ipotizzato
che per alcune associazioni vi fosse una predisposizione, cioè che fossero più facilmente
acquisibili di altre (Seligman, 1971).
Tuttavia gli studi più recenti non sono riusciti a dimostrare l’aumento della velocità
di acquisizione della paura per stimoli “predisposti” che Seligman aveva prospettato.
Una difficoltà con i dati relativi al condizíonamento precoce è l’incompatibilità
con i resoconti retrospettivi di acquisizione della paura. Di Nardo et al. (1988) hanno
riferito che mentre quasi i due terzi dei pazienti con paura dei cani riportavano un
evento condizionante, un numero equivalente di non fobici riportava in maniera analoga un’associazione fra cani ed eventi avversi.
Un altro problema dei resoconti dei condizionamenti da trauma diretto riguarda
i dati sull’acquisizione indiretta delle fobie. Ad esempio quando si osserva qualcuno
reagire con panico alla presenza di un oggetto, si può acquisire la stessa reazione di
paura (Mineka, 1988). Rescorla (1968) ha proposto che nel condizionamento classico
delle fobie, piuttosto che una contiguità fra gli stimoli, vi debba essere una contingenza
tra lo stimolo condizionato (SC) e lo stimolo incondizionato (SI), in modo da poter
considerare il primo un segnale dell’esistenza dello SI.
Una risposta a questi limiti è l’ipotesi che esistano diversi percorsi che portano a
paure fobiche. Rachman (1991) ne ha identificati tre: il condizionamento, la trasmissione indiretta e l’acquisizione verbale. Il percorso comune finale di ognuno di essi è
l’acquisizione di una rappresentazione che collega lo stimolo ad un risultato temuto o
ad un evento avverso.
Per estrapolazione, le tre strade che portano alla paura possono essere concettualizzate come modi diversi di acquisire convinzioni sulle relazioni contingenti. Primo,
l’organismo può acquisire conoscenza di una relazione contingente attraverso l’esperienza diretta.
Secondo, nell’acquisizione indiretta l’organismo si rende conto che il modello osservato ha una reazione di paura e apprende che dovrà temere ed evitare lo stimolo.
Terzo, la trasmissione verbale può essere considerata ugualmente un mezzo per
trasferire da un organismo ad un altro relazioni contingenti.
Pertanto, un punto di vista più cognitivo sul condizionamento (Rapee, 1991 a)
permette di ipotizzare che ognuno dei diversi percorsi verso la paura condivida con gli
altri la caratteristica di permettere di farsi una convinzione sull’esistenza di situazioni
rilevanti per la paura.
Sulla base delle ricerche finora svolte, le Fobie Specifiche possono essere concettualizzate come esempi di reazioni di fuga o attacco innescate in modo inappropriato
o eccessivo dalla presenza di oggetti o situazioni specifici. La paura può avere origine
dalla giusta valutazione di un evento pericoloso del passato (es: un incidente automobilistico) o da una stima inaccurata, ma minacciosa, di un evento innocuo (es: un attacco
di panico). I percorsi diretti (es: condizionamento) e indiretti implicano una rappresentazione cognitiva della consapevolezza che certi stimoli probabilmente determinano
o predicono conseguenze avverse e temute (Andrews, et al., 2003).
89
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
La più recente concettualizzazione delle Fobie Specifiche come una funzione della
tendenza ad avere falsi allarmi indica che una componente dell’eziologia possa risiedere
nella soglia per l’ansia (es., nevroticismo elevato).
Secondo la teoria dell’apprendimento sociale, le fobie vengono acquisite anche per
osservazione e modeling. Al riguardo, circa le madri di bambini fobici è stato rilevato
che: sono mediamente più ansiose; esiste una relazione tra il contenuto delle loro paure
e quelle dei figli; il trattamento di questi ultimi è più efficace se precedentemente anche
loro sono state trattate.
Secondo Bandura (1977), nell’acquisizione e nel mantenimento delle fobie è determinante il ruolo dell’autoefficacia: la convinzione che una persona ha circa le proprie
capacità di adottare un comportamento adeguato in un determinato contesto. Il fobico
sarebbe caratterizzato da uno scarso senso di “self efficacy” relativamente all’oggetto
temuto, verosimilmente mantenuto da precedenti comportamenti fallimentari.
Il ruolo determinante della percezione di sé nel disturbo fobico è sostenuto anche
da Beck che evidenzia la centralità del concetto di vulnerabilità: il soggetto si percepisce
in una condizione di debolezza rispetto ai pericoli interni ed esterni sui quali ha poco o
addirittura nessun controllo. Inoltre alcuni errori cognitivi contribuiscono ad alimentare la patologia: la minimizzazione delle proprie risorse personali con enfatizzazione
dei limiti e la catastrofizzazione delle conseguenze.
5.3 Trattamento
Obiettivi di un trattamento cognitivo-comportamentale efficace della Fobia Specifica:
1. ridurre il livello d’ansia scatenata dall’esposizione agli oggetti temuti;
2. ridurre il livello dell’ansia anticipatoria;
3. ridurre il grado di evitamento (Andrews, et al., 2003).
Trattamenti comportamentali
Un modello eziologico basato sull’apprendimento, suggerisce che il trattamento
dovrebbe comprendere l’estinzione o l’esposizione allo stimolo che suscita paura in
assenza delle conseguenze temute. È stato ampiamente dimostrato che l’Esposizione,
ripetuta il più frequentemente possibile, è un trattamento rapido ed efficace delle Fobie
Specifiche (Emmelkamp, 1978).
La letteratura suggerisce inoltre che gli esercizi di esposizione devono essere specificati in modo chiaro e durare un tempo sufficiente affinché l’ansia decresca in modo
sostanziale.
L’Esposizione in vivo è più efficace di quella immaginativa (Marks, 2002), ma entrambe possono ridurre preoccupazioni di tipo fobico (Mathews et al., 1981).
Risulta inoltre preferibile usare esercizi di esposizione organizzati in una gerarchia
di difficoltà crescente: sebbene l’esito degli studi che hanno confrontato l’esposizione
90
I Disturbi d’ansia
graduale con il Flooding (o esposizione intensiva) abbiano riscontrato un’efficacia simile, i pazienti sembrano più a loro agio con l’esposizione graduale e sono più disposti a
completare il trattamento.
Sono varie le tecniche comportamentali disponibili che possono essere impiegate
per il trattamento della Fobia Specifica: il Flooding che comporta l’affrontare l’oggetto
o la situazione temuta di solito in presenza del terapeuta, la Terapia Implosiva, simile
al flooding tranne per il fatto che l’esposizione intensiva avviene in immaginazione,
il Modeling Partecipativo in cui il terapeuta dà una dimostrazione di approccio con
l’oggetto fobico e poi incoraggia il paziente a fare lo stesso e la Desensibilizzazione
Sistematica in cui il paziente si espone gradualmente nell’immaginazione a situazioni
ansiogene organizzate in una gerarchia, usando il rilassamento per mantenere l’ansia a
livelli minimi.
La maggior parte delle Fobie Specifiche risponde alle terapie basate sul confronto
con lo stimolo fobico e sembra che sull’esito influisca più la durata dell’esposizione che
la tecnica utilizzata.
ESPOSIZIONE GRADUATA
L’Esposizione Graduata è una procedura simile alla Desensibilizzazione Sistematica ma
senza l’impiego del rilassamento. La gradualità con cui i vari stimoli vengono affrontati
è minore rispetto a quanto avviene nella DS e ciò permette una maggiore velocità di
trattamento. In concreto, insieme al paziente si elabora una gerarchia di situazioni ansiogene, iniziando dalla più lieve fino a quella di massima intensità, misurata attraverso
una valutazione soggettiva (Unità Soggettiva di Disagio, SUD) su una scala di intensità
da 0 a 100. Si formano solitamente gerarchie di 10 item, impiegando pertanto intervalli
di 10 SUD. Si possono anche costruire due gerarchie (Dettore, 1998), una per il setting
terapeutico in studio e l’altra come homework per il paziente, in modo da tenerlo impegnato e occupato durante la settimana e facilitare la generalizzazione dei risultati. Questa
seconda gerarchia viene assegnata dopo la seconda o terza seduta di esposizione in studio.
Si induce, quindi il paziente ad affrontare il primo item della gerarchia in immaginazione per il tempo necessario alla diminuzione dell’ansia (in genere 5-10 minuti), senza
attendere, differentemente dalla Desensibilizzazione Sistematica, che l’ansia sia scomparsa
completamente. È importante durante queste fasi incoraggiare il paziente, sottolineando
il suo ruolo decisionale, in modo che possa attribuire a se stesso i progressi terapeutici e
rafforzare, pertanto, le proprie abilità di coping. Naturalmente, la validità della procedura
richiede che il paziente non effettui nell’immaginazione o concretamente alcun cerimoniale o rituale con lo scopo di ridurre il disagio, perché ciò ostacolerebbe il processo di
assuefazione. Il passaggio da un item al successivo della gerarchia avviene solo quando si è
potuta verificare la riduzione dell’ansia conseguente all’esposizione alla situazione temuta.
Nella seduta successiva si riparte dall’ultimo item affrontato precedentemente. L’Esposizione Graduata può applicarsi in vivo e/o in immaginazione: nel primo caso le diverse
situazioni della gerarchia vengono affrontate concretamente con la presenza del terapeuta,
nel secondo caso le stesse situazioni vengono vissute mentalmente. L’applicazione ottimale della tecnica richiederebbe l’utilizzo di entrambe le forme di esposizione, in vivo ed in
immaginazione, anche se quest’ultima risulta di più facile e pratico impiego ed in alcuni
casi lavorare esclusivamente in immaginazione si rende necessario, come in presenza di ri-
91
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
cordi molto forti di una particolare esperienza traumatica o quando, per ragioni pratiche,
risulti quasi impossibile procedere in vivo. D’altra parte, possono esserci delle situazioni
in cui è d’obbligo l’esercizio concreto: ad es., quando si lavora con pazienti che presentano
una limitata capacità immaginativa o addirittura non hanno alcuna attivazione emotiva
nell’immaginare le situazioni ansiogene.
Trattamenti cognitivi
Con l’introduzione di spiegazioni cognitive nella psicologia clinica, le terapie cognitive sono state considerate trattamenti efficaci per le fobie, soprattutto se combinate con tecniche di esposizione (Oakley e Padesky, 1990). Nell’ottica cognitiva del
condizionamento, risulta necessario modificare qualunque convinzione che porti alla
percezione di possibili eventualità che aumentino l’ansia. Marshall (1985) ha riscontrato che la ripetizione di frasi di adattamento migliora l’efficacia dei programmi basati
sull’esposizione.
Recentemente sono state messe a punto tecniche di terapia cognitiva specificamente finalizzate a modificare le convinzioni ed i pensieri automatici associati alla percezione dello stimolo fobico, attraverso l’uso di schede strutturate e/o di diari (conosciute con la definizione di schede di auto-monitoraggio), ed a rendere più controllabile
la risposta, per esempio aiutando il paziente a individuare ed etichettare le distorsioni
cognitive. Queste tecniche si sono dimostrate particolarmente utili associate alle tecniche comportamentali.
COMPILAZIONE DI UNA SCHEDA O UN DIARIO (SELF-MONITORING)
Molto spesso il terapista chiede al paziente di porre la propria attenzione su specifici
comportamenti, sintomi clinici ed azioni o pensieri neutrali; questa attività di osservazione è una parte importante della terapia cognitiva in quanto mira sia alla raccolta di
dati empirici sia cerca di modificare l’atteggiamento del paziente che frequentemente
è rigidamente bloccato in una posizione pregiudiziale (top-down) riguardo ai propri
malesseri e problemi. Il compito di raccogliere dei dati è, anche di per sé, benefico in
quanto introduce un elemento di operatività che alcune volte è assente nella situazione
problematica del paziente; si dice spesso che lo stesso monitoraggio della depressione ne determina la riduzione. Pur non corrispondendo completamente al vero, questa
affermazione contiene elementi di verità in quanto il soggetto inizia a differenziare
la propria situazione, anche solo relativa al sintomo-bersaglio, passando da una valutazione assolutistica, globalizzata, generalizzata e dicotomica ad una valutazione più
moderata, differenziata, articolata e graduata. Le Schede di Auto Monitoraggio possono
essere costruite insieme al paziente e calibrate sullo specifico compito; alcune schede
possono contenere due colonne, una per le date di ciascuna osservazione, l’altra per il
tipo di dato. Il dato raccolto può essere un punteggio di intensità di quel sintomo o di
quella emozione oppure può essere un punteggio medio di una giornata o ancora un
punteggio relativo alla frequenza di un comportamento. La scheda può avere più colonne, ciascuna per una informazione diversa che è utile raccogliere: ad esempio, data,
situazione, intensità del sintomo, intervento del paziente, nuova intensità del sintomo.
92
I Disturbi d’ansia
La tipologia delle schede è varia, e viene modificata dai diversi autori in riferimento allo
specifico obiettivo. È importante tenere presente che essa è uno strumento operativo
indirizzato alla raccolta di informazioni e quindi l’obiettivo sono queste ultime e non
la mera compilazione di una qualsiasi scheda. Anche i Diari sono utili se concepiti
come resoconti del paziente in risposta a specifici stimoli o situazioni concordate con il
terapista. Spesso, inizialmente, il paziente produce resoconti non pertinenti a situazioni
concordate o dove non è facile capire il nesso tra un A ed un C, o tra un B ed un C (nel
modello ABC). In questo caso il terapeuta deve ridiscutere con il paziente le modalità
di raccolta delle informazioni al fine di accordarsi su obiettivi specifici e su situazioni
mirate utili per il lavoro psicoterapeutico (non tutta la vita del paziente è utile, né tutte
le sue osservazioni casuali, né tantomeno le lunghe descrizioni di qualche situazione,
sebbene tutto questo sia sempre e comunque interessante e prezioso ad altri livelli). Le
schede, inoltre, sono parte integrante di interventi di modificazione di processi cognitivi
e di ristrutturazione. Uno degli aspetti più evidenti del carattere cognitivo del monitoraggio e dell’uso delle schede è quello relativo al resoconto sulle attività piacevoli. Il
soggetto descrive l’andamento di attività piacevoli nella giornata, la loro frequenza ed il
grado di gradevolezza. Questo compito non ha soltanto, come è evidente, un valore di
produzione di informazioni ma la stessa raccolta di tali informazioni, l’essere cioè “sotto
osservazione”, tende ad incrementare la pratica di quelle attività e ad elevare il grado di
piacevolezza. Tale effetto si spiega perché il soggetto una volta centrato il focus su tali
attività le nota di più e prestandovi maggiore attenzione le discrimina in rapporto ad
altre che svolge nella giornata; egli quindi articola e differenzia in modo più adeguato le
proprie azioni e le proprie valutazioni sulle attività che intraprende.
INDIVIDUARE ED ETICHETTARE LE DISTORSIONI COGNITIVE
La paura dell’ignoto è frequentemente uno degli aspetti salienti nei resoconti dei pazienti ansiosi. Il terapista allora può aiutare il soggetto ad identificare ed etichettare i
meccanismi del fenomeno, come le proprie distorsioni cognitive, e spesso a seguito di
questa pratica l’ansia associata diminuisce. Uno dei primi passi verso l’auto conoscenza
è una identificazione degli errori del proprio pensiero. In terapia, i pazienti possono trovare utile etichettare le particolari distorsioni cognitive che essi notano ed identificano
nel proprio pensiero automatico e nell’analisi delle proprie valutazioni. Può essere spesso utile fornire al paziente una lista di riferimento delle comuni distorsioni cognitive,
oppure discuterla in seduta anticipatamente. Una volta apprese le comuni distorsioni,
il paziente è in grado di riconoscerle per modificarle autonomamente o potervi eventualmente lavorare in seduta. In tal modo familiarizza con la terminologia che condivide con il terapeuta ed inizia a “vedere” gli eventi in un ottica cognitivista, essendo
le etichette non meramente componenti del vocabolario del clinico ma strumenti di
lettura dei meccanismi cognitivi impiegati dalle persone. Per quanto attiene alle etichette delle emozioni, è sempre necessario chiarire non soltanto i termini associati ai
singoli stati emotivi espressi (in vario modo) dal paziente ma anche fornire informazioni
sulla natura delle emozioni di base, sul loro radicamento evolutivo e sul significato che
ciascuna ha per l’individuo. Questa fase informativa non deve ovviamente assumere le
caratteristiche di una “lezione” ma svolgersi in forma dialettica con il coinvolgimento
attivo del paziente.
93
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
5.4 Casi clinici
Il caso di Malu - “I cani sono imprevedibili”
Diagnosi: Fobia Specifica (tipo animali).
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Schede di Automonitoraggio.
Dal CBA: elevata ansia di tratto.
Dalle Schede di Automonitoraggio: l’oggetto fobico, i cani indipendentemente
dalla taglia, viene prevalentemente evitato o “affrontato” con l’aiuto di altre persone
presso le quali cerca difesa e protezione.
Malu ha 30 anni ed è afflitta da fobia per i cani da quando era bambina. L’incontro
con questi animali le suscita una risposta d’ansia di elevata intensità che si manifesta a
livello fisiologico, con tachicardia e copiosa sudorazione, ed a livello comportamentale,
con movimenti scoordinati ed incontrollati.
Il progressivo aggravarsi della sintomatologia l’ha indotta a limitare sempre di più
le occasioni di spostamenti a piedi nei quali non viene accompagnata da qualcuno.
La donna riconosce che la sua paura è eccessiva ed irragionevole ed avverte la necessità di superarla anche in considerazione della progressiva limitazione della propria
libertà personale, che avverte ormai come intollerabile.
Storia del caso
Malu svolge attività di impiegata presso un’azienda ed il lavoro la soddisfa e la
gratifica.
Ugualmente soddisfacente definisce il suo rapporto coniugale, con un uomo che
stima ed apprezza anche se, rispetto al problema della sua fobia lamenta un comportamento ambivalente da parte del marito: “a volte è comprensivo e mi incoraggia, altre
volte è infastidito e quasi non mi sopporta”.
Ha un figlio al quale dedica molte attenzioni e vorrebbe evitare di “trasmettergli”
il suo problema.
Descrive la propria infanzia come serena e caratterizzata da rapporti affettuosi tra
i componenti della famiglia. Le relazioni con i coetanei sono sempre state positive nonostante la sua accentuata timidezza della quale soffriva “in silenzio” e che si sforzava
di mascherare agli altri.
Concettualizzazione e trattamento
La fobia di Malu si caratterizza per:
- anticipazione ansiosa di eventi traumatici in occasione di spostamenti a piedi;
- tendenza all’evitamento e/o al ricorso a comportamenti protettivi con la richiesta
di compagnia in occasione degli spostamenti;
- presenza di alcune idee irrazionali relative all’emozione della paura.
94
I Disturbi d’ansia
Da una Scheda di Automonitoraggio compilata dalla paziente si riportano due
episodi che esemplificano il suo vissuto rispetto al problema.
Situazione
Pensiero
Emozione
Comportamento
esco dal negozio e sen- sarà sciolto ed io non paura e rabbia
to abbaiare un cane mi posso muovere
ma non lo vedo
aspetto sulla porta fino
a che non lo sento più
abbaiare
a piedi vado verso casa mi potrebbe aggredire paura
e vedo un cane al guin- non ce la faccio a camzaglio che abbaia
minare
telefono a mio marito
e gli chiedo di passare
a prendermi
Il trattamento terapeutico è stato finalizzato ai seguenti obiettivi.
1. Riduzione dei correlati fisiologici della sintomatologia ansiosa mediante Rilassamento Progressivo.
2. Superamento della fobia attraverso una Desensibilizzazione Sistematica.
3. Modifica di alcune convinzioni disfunzionali connesse con il vissuto fobico, mediante un intervento di Ristrutturazione Cognitiva.
La Desensibilizzazione è stata eseguita inizialmente in immaginazione con la seguente gerarchia di dodici situazioni ansiogene, organizzata in ordine decrescente di
SUD (Unità Soggettiva di Disturbo).
Situazioni
1. Dalla machina vedo un cane al guinzaglio.
2. Dalla macchina vedo un cane libero.
3. A piedi vedo un cane tranquillo al guinzaglio lontano da me.
4. A piedi vedo un cane tranquillo al guinzaglio che abbaia lontano da me.
5. A piedi passo vicino ad un cane tranquillo al guinzaglio.
6. A piedi passo vicino ad un cane che abbaia al guinzaglio.
7. A piedi vedo un cane tranquillo libero lontano da me.
8. A piedi vedo un cane che abbaia libero lontano da me.
9. A piedi un cane tranquillo cammina nella mia direzione.
10. A piedi un cane tranquillo mi passa vicino.
11. A piedi un cane tranquillo mi si avvicina a pochi centimetri.
12.A piedi un cane mi passa vicino abbaiando.
La successiva esposizione in vivo è stata realizzata secondo una sequenza di spostamenti che Malu ha progettato nel modo seguente.
95
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Spostamenti
1. Passo davanti ad un cancello chiuso dove c’è un cane legato, tenendomi fuori dal marciapiede.
2. Passo davanti ad un cancello chiuso dove c’è un cane sciolto, tenendomi fuori dal marciapiede.
3. Passo davanti ad un cancello chiuso dove c’è un cane sciolto camminando sul marciapiede.
4. Passo più vicino ad un cancello chiuso dove c’è un cane sciolto.
5. Passo davanti ad un cancello aperto dove c’è un cane legato.
6. Passo più vicino ad un cancello aperto dove c’è un cane legato.
7. Chiedo alla mia amica che ha un cane di lasciarlo sciolto.
8. Accarezzo il cane mentre lei lo tiene in braccio.
9. Porto a spasso il cane della mia amica.
L’intervento di Ristrutturazione Cognitiva ha consentito di modificare alcune idee
irrazionali che contribuivano a mantenere il disturbo emotivo. In particolare la paziente ha modificato i pensieri elaborando convinzioni più funzionali.
Idee irrazionali
Convinzioni funzionali
la mia paura è innata
la mia paura è un’emozione appresa e perciò
può essere modificata
se non si capisce l’origine della paura non si può capire può essere utile ma la paura si supera solo
superare
con azioni di confronto con essa
la paura impedisce di affrontare le situazioni la paura è un’emozione naturale ed è un’ostimotemute
lo per affrontare le situazioni
il comportamento dei cani è completamente il comportamento dei cani può essere anche
imprevedibile e non possiamo evitarel’aggres- prevedibile ed il nostro può ridurre i rischi di
sione
un’aggressione
non devo più avere paura dei cani, se ho paura avere paura di un cane minaccioso è naturale ed
sono malata
è una reazione comune alle persone
La fobia per i cani rappresenta l’estremo patologico di una paura che può manifestarsi anche nella popolazione normale. Pertanto il suo superamento deve mirare anche all’acquisizione della capacità di discriminare tra il pericolo reale, che può
rappresentare l’incontro con un cane aggressivo che possa sentirsi minacciato da un
comportamento della persona, ed il vissuto soggettivo di pericolo connesso con elaborazioni cognitive distorte.
Al termine della terapia, Malu ha raggiunto un livello di consapevolezza circa il
proprio vissuto e relativamente a ciò che realmente può configurarsi come minaccia
che le consentono di affrontare con maggiore obbiettività gli “incontri” con i cani.
Ha mantenuto un atteggiamento di particolare cautela nelle situazioni nelle quali può
imbattersi in cani sconosciuti ma ha superato la fobia ed ha riconquistato la propria
autonomia di movimento.
96
I Disturbi d’ansia
Il caso di Diadora - “L’ago potrebbe rimanere in vena”
Diagnosi: Fobia Specifica (tipo sangue, iniezioni, ferite).
Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto elevata, particolarmente significativi i
punteggi relativi alle schede delle ossessioni e delle paure riferite a sangue e medici.
Diadora ha 26 anni ed ha la fobia dei prelievi di sangue. Nel caso in cui debba
sottoporsi ad un’analisi, l’ansia anticipatoria si manifesta con tachicardia, tensione muscolare, crampi addominali e difficoltà nel respiro. Il problema è relativo soltanto ai
prelievi e non riguarda anche le iniezioni “perché sono nel muscolo e non nella vena.
L’ago potrebbe rimanere in vena o spezzarsi e risalire lungo il braccio”. Descrive così
un recente episodio: “Sono andata al laboratorio per un prelievo facendomi coraggio
e dicendomi che dovevo farcela ma quando sono arrivata ho sentito l’odore dell’alcol
nell’aria e mi sono bloccata, ho iniziato a tremare e il cuore mi batteva fortissimo, non
ce l’ho fatta e sono andata via”.
Storia del caso
Diadora lavora come assistente preso uno studio medico. Vive con i genitori ed
ha con loro un rapporto sereno. Fidanzata da alcuni anni, progetta un imminente
matrimonio.
Il suo problema risale all’infanzia e, nonostante svolga un’attività in ambiente sanitario, non è riuscita ad affrontare la sua paura “dell’ago in vena”.
Concettualizzazione e trattamento
La Fobia di Diadora è stata trattata con tecniche di Rilassamento, Desensibilizzazione Sistematica e Ristrutturazione Cognitiva.
Dopo aver raggiunto una buona capacità di rilassarsi con la tecnica appresa, la
paziente ha elaborato una gerarchia di situazioni ansiogene che potevano precedere il
confronto con l’oggetto fobico, elencandole in ordine crescente di disagio.
Situazioni
1. La sera precedente il prelievo.
2. La mattina appena mi sveglio.
3. Esco di casa per andare al laboratorio di analisi.
4. Arrivo davanti al portone del laboratorio.
5. Arrivo davanti alla porta d’ingresso del laboratorio.
6. In sala d’attesa, aspetto il mio turno.
7. Si apre la porta della stanza e il dottore mi chiama.
8. Mi siedo sulla poltrona e stendo il braccio.
9. Il dottore mi mette il laccio al braccio.
10. Il dottore strofina il batuffolo di cotone sul braccio.
11.Il dottore avvicina la siringa al braccio e infila l’ago nella vena.
97
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Si è proceduto quindi con la tecnica della Desensibilizzazione Sistematica in immaginazione, a seguito della quale la paziente ha voluto affrontare subito in vivo la situazione fobica. Non ha eliminato l’ansia ma è riuscita a ridurla al punto da consentirle
di effettuare il prelievo con un livello di attivazione fisiologica che ha potuto gestire
ricorrendo alla visualizzazione di una scena rilassante precedentemente concordata in
terapia.
Particolarmente disturbanti risultavano per Diadora alcune idee distorte circa la
possibilità di avere conseguenze pericolose a seguito di un prelievo, che l’ago potesse
spezzarsi o risalire lungo la vena. Con un intervento di Ristrutturazione Cognitiva ne
ha verificato l’irrazionalità e l’infondatezza: “Ho capito che non può succedere ma so
che ancora a volte ci penserò e allora mi dirò che non mi succederà niente di brutto o
pericoloso e farò il rilassamento”.
La terapia si è conclusa dopo sei mesi con una gestione del problema che la paziente ha definito soddisfacente.
98
CAPITOLO 6
Fobia sociale
6.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
A. Paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazioni nelle quali la
persona è esposta a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri. L’individuo
teme di agire (o di mostrare sintomi di ansia) in modo umiliante o imbarazzante.
Nota: nei bambini deve essere evidente la capacità di stabilire rapporti sociali appropriati all’età con persone familiari, e l’ansia deve manifestarsi con i coetanei e solo
nelle interazioni con gli adulti.
B. L’esposizione alla situazione sociale temuta provoca quasi invariabilmente ansia, che
può assumere le caratteristiche di un Attacco di Panico causato dalla situazione o
sensibile alla situazione.
Nota: nei bambini, l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi d’ira, con l’irrigidimento, con l’evitamento delle situazioni sociali con persone non familiari.
C. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole.
Nota: Nei bambini questa caratteristica può essere assente.
D. Le situazioni temute sociali o prestazionali sono evitate o sopportate con intensa
ansia o disagio.
E. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella situazione (o situazioni) temuta
interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) con le attività sociali o le relazioni con gli altri
oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere la fobia.
F. Negli individui al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno 6 mesi.
G. La paura o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza
(per es.: una sostanza oggetto di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale e non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale (per es.: Disturbo
di Panico con o senza Agorafobia, Disturbo d’Ansia di Separazione, Disturbo da Dimorfismo Corporeo, un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo o il Disturbo Schizoide
di Personalità).
99
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
H. Se sono presenti una condizione medica generale o un altro disturbo mentale, la
paura di cui al criterio A non è ad essi correlata, per es. la paura non riguarda la
balbuzie, il tremore nella malattia di Parkinson o il mostrare un comportamento
alimentare abnorme nell’Anoressia Nervosa o nella Bulimia Nervosa.
Specificare se: Generalizzata: se le paure includono la maggior parte delle situazioni
sociali (prendere in considerazione anche la diagnosi addizionale di Disturbo Evitante di Personalità).
L’individuazione della Fobia Sociale come entità clinica autonoma rispetto agli
altri disturbi fobici venne rilevata inizialmente da Marks nel 1969 che la definì come
“paura di mangiare, bere, parlare, ballare, scrivere … in presenza di altre persone per il
timore di risultare ridicoli”.
L’esordio della patologia si colloca in età adolescenziale, spesso in relazione con un
evento sociale stressante o umiliante.
Questo Disturbo si caratterizza per una marcata e persistente preoccupazione di
trovarsi esposti al giudizio negativo degli altri, di agire in modo inadeguato, di sentirsi
imbarazzati ed umiliati. Tale preoccupazione viene riconosciuta dal soggetto come eccessiva ed irrazionale.
L’esposizione alle situazioni temute genera una forte ansia anticipatoria che si manifesta con sintomi neurovegetativi (sudorazione eccessiva, tremori, palpitazioni, disturbi gastrointestinali), cognitivi e comportamentali.
A seguito di queste esperienze, l’individuo sviluppa progressivamente la tendenza
ad evitare le situazioni ansiogene: parlare in pubblico, leggere o scrivere di fronte ad
altri, mangiare o bere in presenza di altre persone, trovarsi in situazioni di gruppo. La
risposta fobica alle situazioni sociali innesca un circolo vizioso poiché condiziona negativamente le prestazioni del soggetto e questo rinforza la paura originaria.
Per fare diagnosi di Fobia Sociale è necessario che le condotte di evitamento
siano tali da interferire significativamente con il funzionamento lavorativo, con le
attività sociali abituali o con le relazioni interpersonali del soggetto. Nel caso in cui i
comportamenti di evitamento siano generalizzati l’individuo sperimenta sentimenti
di inferiorità e di inadeguatezza tali da favorire la cronicizzazione ed il possibile sviluppo di patologie concomitanti come Depressione, altri Disturbi d’Ansia o l’abuso
di sostanze.
6.2 Modelli comportamentali e cognitivi
Uno dei primi modelli di riferimento nella letteratura cognitivo comportamentale
è quello del deficit di abilità sociali. Secondo questa ipotesi, i soggetti con fobia sociale
non avrebbero acquisito le risorse e le competenze necessarie per fronteggiare e gestire
le situazioni sociali. Ciò a causa di inadeguati modelli parentali, sociali e di distorsioni
cognitive apprese. Il quadro psicopatologico di questi individui sarebbe pertanto caratterizzato da una carenza di base di abilità, con conseguenti vissuti di ansia, sentimenti
di inadeguatezza, comportamenti di evitamento e di isolamento sociale.
100
I Disturbi d’ansia
In tale quadro teorico, il trattamento va finalizzato all’acquisizione ed al potenziamento delle competenze attraverso il Training Assertivo e delle Abilità Sociali.
Wolpe (1969) propose il modello della disinibizione, nel quale si ipotizza che i
soggetti con fobia sociale disporrebbero già di un repertorio di competenze ma il loro impiego sarebbe inibito dalla presenza di elevati livelli di ansia in situazioni interpersonali. Secondo questo modello, l’obiettivo della terapia mira a ridurre l’intensità
dell’attivazione psicofisiologica attraverso procedure di Desensibilizzazione Sistematica,
di Rilassamento o di Esposizione.
Secondo il modello della distorsione cognitiva, l’ansia sociale viene determinata dalla presenza di sistematiche distorsioni logiche che la persona fobica utilizza
nell’analisi delle situazioni interpersonali. L’assunto teorico di base del modello rileva
che emozioni e comportamenti di un individuo siano determinati dal suo modo di
interpretare e valutare se stesso e gli altri. In particolare, questi errori di pensiero
originano una ipervigilanza verso possibili indizi di giudizio negativo e determinano
interpretazioni errate che portano ad autoattribuirsi la responsabilità di esiti negativi
nelle situazioni sociali.
La caratteristica fondamentale della Fobia Sociale, secondo il modello cognitivo, è
il forte desiderio da parte del soggetto di dare un’immagine positiva dì sé agli altri, desiderio che si accompagna però ad una grossa insicurezza e incertezza circa tale risultato.
Secondo il modello proposto da Clark e Wells (1995; 1997) i processi di auto-valutazione negativa svolgerebbero un ruolo decisivo nello strutturarsi della Fobia Sociale in
quanto il contenuto dell’impressione influirebbe sul grado di pericolo percepito nelle
situazioni sociali.
Le persone con tali paure quando affrontano una situazione sociale la giudicano
estremamente pericolosa, temono di poter agire in modo inadeguato e inaccettabile e
pensano che tale comportamento avrà gravi conseguenze per il loro status sociale.
Questi giudizi di pericolo sono la causa dell’ansia, che si manifesta attraverso cambiamenti fisiologici, cognitivi, emotivi e comportamentali. Nella Fobia Sociale tali sintomi costituiscono ulteriori fonti di pericolo essendo giudicati come minacce per le
proprie capacità e per l’opinione di sé, conducendo così ad un’escalation dell’ansia e al
mantenimento del problema.
Una caratteristica dei fobici sociali è la tendenza a rimuginare molto sull’evento
sociale che devono affrontare, naturalmente il contenuto delle rimuginazioni è negativo e continua anche dopo l’evento. Tali soggetti affrontano le situazioni considerate
pericolose prestando molta attenzione alle proprie risposte somatiche, alla valutazione
che potrebbero ricevere da parte di altri e all’opinione di se stessi; focalizzare l’attenzione su questi aspetti rende ancora più difficile la prestazione a causa dei comportamenti
protettivi messi in atto e riduce la consapevolezza verso informazioni interpersonali più
oggettive. Questi individui non riescono ad osservare le reazioni degli altri alle proprie
prestazioni ma si concentrano solo sugli effetti, assumendo erroneamente che la percezione e valutazione che ne hanno loro coincida con quella che ne hanno gli altri.
Il fobico sociale per evitare le conseguenze temute ricorre ai “comportamenti protettivi” che però hanno l’effetto di perpetuare l’ansia e rafforzare l’idea di essere valutato
negativamente dall’esterno (Wells, 1997). In alcune circostanze infatti le strategie protettive non solo precludono l’esposizione a esperienze di disconferma, utili per superare
101
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
il problema, ma rafforzano la valutazione di pericolosità dell’evento. Si crea dunque
un circolo vizioso: più il soggetto è preoccupato della propria prestazione e dell’ansia,
maggiore è la probabilità che il suo comportamento sociale sia effettivamente inadeguato. Egli effettuerà poi un’analisi a posteriore della prestazione sociale, che non potrà
che essere valutata negativamente visto che nel fare ciò si baserà solo sulle proprie sensazioni e non sugli effettivi feedback ambientali.
Beck (1976) evidenzia che la Fobia Sociale è determinata da un processo circolare
autoperpetuante, nel quale le aspettative negative del soggetto fobico lo rendono più
pauroso ed inibito, quindi inadeguato sul piano comportamentale quando si trova in
contesti sociali. I risultati delle sue prestazioni successivamente costituiscono le premesse per ulteriori aspettative di inefficacia. Quando un soggetto con fobia sociale si
trova coinvolto nelle situazioni temute crede di essere esaminato e giudicato dagli altri
ed è attento ed ipersensibile ai segnali dei suoi interlocutori, che divengono per lui segno della sua accettabilità. Pertanto, la percezione distorta ed autodenigratoria del proprio comportamento e del feedback sociale dipende da: aspettative di efficacia eccessive
ed irrealistiche; svalutazione di sé e delle proprie capacità; auto affermazioni negative;
attenzione selettiva alla propria prestazione sociale; attribuzione degli insuccessi alle
proprie incapacità e dei successi ad eventi fortuiti ed esterni. Secondo questo modello,
il trattamento terapeutico agisce sull’identificazione e successiva modificazione delle
distorsioni logiche e degli schemi disfunzionali di base.
Secondo il modello cognitivo dell’Ansia Sociale di Wells e Clark (1997) l’individuo tende a rimuginare sulla situazione che deve affrontare, anticipando i problemi
che potrebbe incontrare, e continua a rimuginare a posteriori su quanto è accaduto. In
questo processo di valutazione egli è concentrato unicamente sulle proprie sensazioni
negative e sulle proprie valutazioni che non gli consentono di integrare nuove informazioni nel suo sistema cognitivo a disconferma delle errate premesse che guidano la
percezione di sé nella situazione.
Wells (1999) osserva che, quando un fobico sociale si trova in una zona pubblica
vengono attivate le sue convinzioni relative al potenziale fallimento della prestazione e
la situazione viene connotata come “pericolo sociale”. Tali convinzioni, che lo rendono
vulnerabile al mantenimento del problema, costituiscono tre tipi di schema cognitivo:
- credenze su di sé (ad es. “sono stupido”);
- convinzioni sottoposte a condizioni (ad es. “se parlo in modo impacciato penseranno che sono stupido”);
- rigidi standard di valutazione delle prestazioni in pubblico (ad es. “devo sempre
apparire intelligente”).
Facendo riferimento alla teoria dell’autoefficacia di Bandura (2000) “di fronte alle
difficoltà, le persone che posseggono dubbi riguardo alle proprie capacità diminuiscono i loro sforzi o abbandonano l’attività. L’atteggiamento rinunciatario culmina spesso
nell’abbandono”. Il modo in cui la persona valuta la propria capacità di far fronte ad
una situazione influenza l’apprendimento di nuove soluzioni e le future possibilità di
prestazione. A parità di competenze, la convinzione di riuscire costituisce un vantaggio
significativo rispetto al risultato effettivo. La sensazione di “potercela fare” corrisponde
102
I Disturbi d’ansia
al costrutto dell’”autoefficacia percepita” (perceived self efficacy). I fobici sociali sono
persone che dubitano fortemente delle proprie capacità di coping ed attuano frequenti
modalità di comportamento difensivo. La fonte dell’ansia è attribuibile alla differenza
tra l’idea personale degli standard sociali e la percezione delle proprie abilità nel raggiungerli. Essi credono di non possedere le capacità sociali necessarie per soddisfare gli
standard valutativi altrui ed hanno “convinzioni sociali di inefficacia”.
6.3 Trattamento
Il trattamento cognitivo comportamentale della Fobia Sociale prevede la preliminare verifica della natura del Disturbo: un deficit primario di abilità o la loro inibizione
causata da elevati livelli d’ansia. Di conseguenza, si potrà intervenire con un Training
Assertivo o delle Abilità Sociali o con l’impiego di tecniche quali la Desensibilizzazione
Sistematica o l’Esposizione Graduata nei casi in cui l’ansia prestazionale ed il comportamento di evitamento risultino elementi importanti del quadro sintomatologico.
Secondo il paradigma cognitivo comportamentale, la persona può definirsi socialmente abile quando il suo comportamento è caratterizzato da affermatività sociale,
difesa dei propri diritti, espressione di sentimenti positivi e negativi, empatia ed autostima positiva. Pertanto, risulta fondamentale l’individuazione degli schemi che il soggetto utilizza nel valutare se stesso ed il proprio comportamento allo scopo di intervenire anche con una Ristrutturazione Cognitiva. Questa tecnica è particolarmente efficace
nel trattamento della Fobia Sociale in quanto i fattori cognitivi sono significativamente
determinanti nello sviluppo e nel mantenimento della patologia. La paura di essere
oggetto di osservazione, il terrore della valutazione negativa degli altri ed il timore di
apparire inadeguati richiedono un intervento mirato alla modificazione dei pensieri
automatici negativi e delle distorsioni cognitive. Nel modello per la terapia della Fobia
Sociale proposto da Wells (1999) sono stati individuati i seguenti step.
TRATTAMENTO COGNITIVO COMPORTAMENTALE
DELLA FOBIA SOCIALE
Introdurre al modello Cognitivo e Psicoeducazionale: l’Intervento Psicoeducativo, relativo alle caratteristiche della malattia, e l’introduzione del modello cognitivo, dovrebbero
esser la premessa indispensabile ad un trattamento cognitivo comportamentale della Fobia Sociale.
Addestrare alle Abilità Sociali: questa fase ha la funzione di fornire al paziente un repertorio comportamentale/comunicativo per gestire al meglio le situazioni sociali ed interpersonali con cui viene a confrontarsi. L’insegnamento di tali abilità prevede, solitamente, sia l’uso di tecniche (come il Training al Rilassamento) per la gestione dell’ansia che
l’uso di tecniche per la gestione delle interazioni sociali. Queste ultime, che generalmente
prendono il nome di Training all’Assertività, prevedono l’insegnamento di modalità per
condurre le conversazioni, fare richieste ed esprimere i propri bisogni, imparare a dire di
no quando se ne ha l’intenzione, affrontare le critiche che vengono rivolte. Particolare
attenzione viene prestata agli aspetti della comunicazione verbale e non verbale.
103
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Modificare i processi di elaborazione del sé: la strategia principale per modificare i
contenuti delle percezioni consiste nell’esposizione a una reale osservazione di sé. Questo
può essere possibile, ad esempio, utilizzando registrazioni audio e video. Tale strategia
comporta almeno due tipi di difficoltà: può potenziare ancor di più l’attenzione su di sé
e ciò può influenzare l’obiettività dei giudizi; inoltre il paziente può cercare di sminuire i
feedback che vengono dalle registrazioni. Per evitare che si verifichino tali inconvenienti,
il terapeuta può chiedere al paziente di provare ad immaginare i risultati della registrazione, per poi confrontarli con gli esiti reali.
Operare una Riattribuzione Verbale: la Riattribuzione Verbale permette una riformulazione di se stessi in termini di efficacia personale. Vengono esaminati i giudizi connessi
al sé ed i pensieri negativi connessi sia alla reazione sia al giudizio degli altri. La migliore
strategia per poter ottenere buoni risultati è quella che consiste nel chiedere al paziente
le “prove” che lui ha a conferma delle proprie autovalutazioni negative. Sono previste alcune domande che possono essere davvero utili per valutare specifici pensieri automatici
negativi. Esistono altre tecniche ugualmente utili nella riattribuzione verbale tra le quali
il protocollo del bilancio sociale che consiste in una registrazione scritta delle “prove interne,
prove esterne e controprove esterne” dei pensieri automatici negativi del paziente. Si procede all’identificazione dei propri errori cognitivi più comuni, all’analisi dei processi di
anticipazione e alle valutazioni a posteriori nelle situazioni sociali.
Programmare ed attuare Esperimenti Comportamentali: le procedure cognitive devono essere, ad un certo punto del trattamento, accompagnate dalla programmazione di
azioni che il paziente, in accordo con il terapeuta, compie in situazioni pubbliche. Ciò
consentirà l’esposizione e l’acquisizione di controprove alle proprie credenze, nonché sarà
l’occasione per acquistare fiducia nella propria capacità di riuscita, incrementando l’autoefficacia percepita. Tra gli esperimenti più comuni, l’“indagine sull’ambiente circostante”
consiste nell’indurre il paziente a determinare volontariamente le conseguenze nefaste
tanto temute. Se, ad esempio egli ha paura di balbettare o di arrossire, lo si invita a farlo
ed ad osservare poi ciò che accade. Si tratta di scegliere, ovviamente con gradualità, le circostanze temute e, se il paziente risulta resistente può sperimentare quel comportamento
in presenza del terapeuta. L’esperienza verrà praticata prima nel setting terapeutico e poi
nel vissuto quotidiano.
Rilevare, durante il corso della terapia, convinzioni condizionate e credenze: il trattamento dovrebbe essere teso ad elicitare le convinzioni e le credenze nucleari per il paziente, procedendo con la ricerca delle prove alternative. Si otterrà la riduzione della rigidità
dei principi di base e verranno programmati esperimenti comportamentali per indurre il
paziente ad acquisire dati positivi su di sé.
Esempi di alcune di queste convinzioni disfunzionali delle persone afflitte da Fobia Sociale possono essere:
-
-
-
-
devo essere perfetto;
non devo sbagliare mai;
se mostro di essere ansioso apparirò ridicolo;
fare un brutta figura é una catastrofe.
Un altro intervento, ritenuto utile nel modello di trattamento secondo la teoria di
Wells e Clark, è rivolto a sollecitare nel paziente la capacità di spostare l’attenzione selettiva da sé all’esterno, così da facilitare la ristrutturazione delle convinzioni disfunzionali
attraverso l’attuazione di prove comportamentali di esposizione alle situazioni temute.
104
I Disturbi d’ansia
FOCALIZZAZIONE SU EVENTI ESTERNI E ANALISI DI EVIDENZE E DATI
Tutte le persone hanno un limite nella quantità di cose che possono pensare o tenere a
mente contemporaneamente. Occupando la propria mente con pensieri neutri o positivi,
si può bloccare il pensiero disfunzionale per un periodo di tempo. Questo processo può
essere svolto attraverso il contare, il visualizzare immagini di calma o piacevoli, o il porre
attenzione su stimoli esterni (oggetti, luci, sensazioni tattili, ...). Sebbene questa sia una
tecnica con efficacia a breve termine può essere utile per permettere all’individuo di avere
il tempo per fare una valutazione, o attuare un dato comportamento, o mettere in pratica
qualche sequenza di una strategia terapeutica più complessa. Spesso, il paziente ansioso
pone eccessiva attenzione sulle proprie sensazioni corporee e così facendo le interpreta
catastroficamente; se il soggetto orienta all’esterno il proprio focus attentivo può contare maggiormente sulle proprie facoltà di ragionamento. Alcuni stimoli esterni possono
servire d’aiuto: un accessorio nell’abbigliamento di chi ci sta di fronte, il muro di fondo
di un ambiente, il colore di un oggetto, le sensazioni tattili delle nostre dita, ecc... La
Focalizzazione può essere di aiuto anche per lo scopo opposto, cioè aiutare il paziente a
percepire sensazioni e segnali utili del proprio stato. Molti soggetti possono aumentare la
consapevolezza del proprio stato emotivo e dei segnali fisiologici per orientarsi e meglio
definire e categorizzare le proprie reazioni (ciò in contrapposizione al caos interno ed alla
confusione rispetto a queste ultime).
La tecnica dell’Analisi delle Evidenze consiste nell’insegnare al paziente ad identificare e
mettere in discussione l’evidenza e gli elementi utilizzati per mantenere le proprie idee
inefficaci e disfunzionali. Per tale scopo è necessario individuare con chiarezza la fonte dei
dati stessi e l’eventuale ragionamento che il paziente effettua per dare rilevanza ad essi.
L’iniziale messa in discussione di una evidenza “sensoriale” o “percettiva” è un fatto indubitabilmente contro-intuitivo, tuttavia tramite questa tecnica il paziente può accedere alla
migliore valutazione degli eventi; inoltre, il terapista può rilevare come il soggetto abbia
utilizzato particolari processi cognitivi o abbia commesso particolari errori cognitivi. Tutto questo è determinante per l’analisi del personale stile disfunzionale di ragionamento e
quindi per un successivo addestramento e modificazione.
Generalmente il piano del trattamento è articolato nel seguente ordine, anche se
nella pratica clinica può variare, finalizzato a fornire al paziente un sollievo dal sintomo (sensazione e comportamento): far acquisire le abilità sociali mancanti a causa degli
evitamenti; insegnare al paziente come riconoscere i propri pensieri automatici negativi;
istruirlo a rispondere ai pensieri distortì con la logica, la ragione, e l’esame empirico, cioè
modificare i pensieri automatici negativi, identificare e di conseguenza modificare le concezioni disfunzionali di lunga data (schemi di base o assunzioni tacite).
È importante capire quale significato il paziente ha attribuito al problema. Terapeuta e paziente devono concettualizzare il problema insieme affinché possa essere scelta
la strategia adeguata. Gli obiettivi che si vogliono perseguire vanno operazionalizzati in
termini concreti e non formulati in modo vago. Attraverso la Scoperta Guidata il terapeuta può aiutare il paziente a comprendere il significato del problema (es. di scoperta
guidata T.: “cerchi di ricordare l’ultimo evento in cui si è manifestato il problema. Mi descriva dove era, cosa vedeva, cosa stava facendo immediatamente prima di stare male, cosa ha
fatto immediatamente dopo”). Un modo per fare emergere i dati utili per la concettualiz105
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
zazione consiste nel prendere in considerazione molti episodi recenti in cui il paziente
ha provato ansia in situazioni sociali; un altro modo è quello di fare al paziente domande
durante o subito dopo l’esposizione alle situazioni per lui ansiogene. È possibile però che
a causa degli evítamenti, egli non abbia molto da raccontare ed in questi casi si può ricostruire durante la seduta terapeutica una situazione sociale simile a quella che il paziente
tende ad evitare. Per esporre il soggetto all’evento temuto è necessario fare un’analisi
dettagliata della situazione fobica; infatti l’emergere o meno dell’ansia può dipendere da
caratteristiche impercettibili della situazione stessa. L’obiettivo che si vuole raggiungere
è quello di fare emergere ì pensieri automatici negativi che sono rintracciabili facendo
delle domande precise in relazione alle situazioni problema, ad esempio “quali pensieri
negativi le sono venuti in mente quando si trovava in quella situazione?”. Inoltre per
capire qual è il senso che il paziente attribuisce ai suoi sintomi fisici (ad esempio sudare,
tremare,...) gli si pongono domande sempre più puntuali concentrando l’attenzione sui
pensieri avuti nell’esatto momento in cui essi si sono manifestati.
Un altro obiettivo importante è quello di capire qual è la percezione che il fobico
socìale ha di se stesso come oggetto sociale e per questo è utile: valutare i contenuti della sensazione dì disagio, chiedere al paziente quanto giudica evidenti i propri sintomi
oppure indagare sui comportamenti protettivi (quando con questi il paziente cerca di
celare i sintomi ci si trova di fronte a un soggetto che ha un’immagine di sé fortemente
negativa).
I comportamenti protettivi possono essere evidenti o latenti.
Non è facile per il paziente prendere consapevolezza dei propri comportamenti
protettivi, soprattutto quando questi vengono usati da molto tempo in modo sistematico. II terapeuta può cercare di farli emergere facendo tutta una serie di domande
durante l’esposizione del paziente alla situazione temuta. (ad es.: “Ha fatto qualcosa per
controllare la sua ansia? O per evitare il peggio? Quando ha pensato di dover affrontare
quella situazione cosa ha fatto?”).
L’introduzione del modello cognitivo ha lo scopo dì offrire dei punti di riferimento per comprendere la natura del trattamento. AI paziente vengono illustrati i principi
della terapia cognitiva, viene data una spiegazione psicologica dei problemi.
II soggetto con Fobia Sociale teme la disapprovazione o il rifiuto sociale, in questo
modo si può sviluppare ansia anticipatoria che talvolta può essere così grave da impedire di applicare alcune tecniche di terapia cognitiva. Questi pazienti quando temono di
fallire a causa dell’ansia non riescono ad applicare tali tecniche, per cui si rende necessario un intervento terapeutico finalizzato a ridurre l’ansia dell’ansia: a tate scopo sono
molto utili le tecniche di Rilassamento. II fobico sociale infatti evita le situazioni che
provocano ansia perdendo così l’opportunità di mettere alla prova i pensieri irrealistici;
se l’evitamento sembra positivo a breve termine certo non lo sarà a lungo termine.
Il paziente va anche aiutato ad accettare le sensazioni. Accettare la presenza dell’ansia è un fatto cruciale in quanto permette di affrontarla più efficacemente, ciò non
significa naturalmente rassegnarsi all’ansia ma normalizzarla.
Accrescere la tolleranza del soggetto all’ansia è molto importante. Generalmente essa
viene fronteggiata ricorrendo a comportamenti disadattivi, come fumare, mangiare, ecc.,
e pertanto risulta indispensabile istruire la persona ad accrescere la tolleranza aumentando il tempo tra la sensazione di ansia e il ricorso agli abituali meccanismi di fuga.
106
I Disturbi d’ansia
II paziente vive inoltre intensi sentimenti dì vergogna nel mostrarsi ansioso. A tal
fine importanti ed efficaci sono gli esercizi anti-vergogna che nel caso del fobico sociale
possono consistere semplicemente nel dire agli altri di essere ansioso. Tra i pensieri
più comuni che producono vergogna ci sono ad es.: “sono debole; gli altri possono
accorgersi della mia ansia e mettermi da parte; nessun altro è ansioso come me; sarò
rifiutato” Il terapeuta può facilitare la considerazione che non c’è da vergognarsi ad
essere ansiosi.
L’automonitoraggio fornisce al soggetto un modo semplice per sviluppare un senso di padronanza sull’ansia.
In questo senso l’uso di Grafici è molto importante, il terapeuta può far tenere al
paziente un grafico della quantità di ansia provata durante un particolare periodo.
Egli pone delle unità soggettive di disagio (SUD) da 0-100 su un asse, e il tempo
(a intervalli di 30 min.) sull’altro asse.
II grafico fornisce al terapeuta importanti informazioni e dimostra al paziente che
l’ansia è limitata nel tempo e generalmente è collegata a situazioni esterne. Ciò contrasta l’idea, mentre si prova ansia, che questa non passerà mai. Per modificare i pensieri e
le convinzioni ansiogene il paziente deve affrontare la situazione ansiogena. Affrontare
la situazione temuta costituisce un elemento cruciale nel trattamento dell’ansia, così ad
esempio si può ricostruire durante la seduta terapeutica una situazione sociale analoga
a quella che il paziente evita. Identificare i meccanismi di protezione è importante per
capire cosa egli fa per dìminuire l’ansia. Ci sono due meccanismi generali: la fuga e la
ricerca di rassicurazione valutando continuamente il livello di minaccia. Nel primo caso il terapeuta incoraggerà la persona ad avvicinarsi alle situazioni temute; nel secondo
ad astenersi dal cercare rassicurazioni.
L’obiettivo è far capire che l’evitamento e il comportamento protettivo rafforzano
i pensìeri spaventosi e irrealistici.
Importante è la costituzione di una gerarchia di passi. II paziente comprenderà che
un problema che fino a quel momento gli appariva come globale potrà essere suddiviso
in stadi concreti e controllabili. II completamento di ogni passo permetterà di vedere
che l’obiettivo può essere raggiunto.
Sempre al fine di modificare la componente comportamentale può essere importante la tecnica dell’Auto-Istruzione che può aiutare il soggetto a superare le proprie
paure ad entrare in situazioni ansiogene, ripetendosi ad es., frasi come “ciò che gli altri
pensano di me non mi interessa”, “non valutare te stesso”, “devo assumere il rischio”. Il terapeuta sottolinea che il paziente ha il potere sul proprio corpo e parlando a se stesso può
riuscire ad affrontare la situazione temuta.
L’intervento va poi integrato con l’apprendimento di abilità sociali che la persona
non ha avuto modo di sviluppare a causa dei frequenti evitamenti: a tale fine dunque è
possibile introdurre il Training Assertivo.
Uno dei principali obiettivi della terapia è aiutare il paziente a diventare maggiormente consapevole dei propri processi di pensiero. La consapevolezza di sé permette di
distanziarsi dai pensieri disfunzionali e sviluppare una visione più oggettiva riguardo a
una situazione.
I pensieri automatici negativi possono essere elicitati in vari modi, uno dei quali
è quello di accompagnare il paziente nelle situazioni temute e cercare lì dì riconoscere
107
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
i pensieri. Se egli ad esempio ha difficoltà ad affrontare situazioni come “entrare nei
negozi” o “prendere un caffè al bar” lo si può accompagnare e chiedergli cosa stia pensando in quella situazione. Un altro metodo ancora, per aiutare le persone a divenire
consapevoli dei propri pensieri è la loro registrazione tra una seduta e l’altra attraverso
l’uso dei Diario.
II terapeuta aiuta il paziente a riconoscere e a correggere i pensieri negativi anche
attraverso le domande. Le domande possono essere dirette (cosa pensa quando sta male?)
o induttive (scoperta guidata); alla fine i pazienti imparano a porre a se stessi le domande del terapeuta.
Tali pensieri possono essere ristrutturati attraverso tre strategie cognitive esprimibili in tre domande.
1. Qual è la prova (Esaminare le ipotesi, Fornire informazioni).
2. Qual è un altro modo di vedere la situazione (Produrre interpretazioni alternative,
Registrazione dei pensieri disfunzionali, Decentrarsi, Ampliamento della prospettiva).
3. E se succedesse (Decatastrofizzare, Piani per affrontare le situazioni).
Se all’inizio l’obiettivo terapeutico è centrato sul sollievo dai sintomi e sull’elicitazione dei pensieri automatìci, in un secondo momento l’obiettivo è identificare e
modificare le assunzioni che predispongono il paziente all’ansia.
I pensieri automatici negativi riguardano temi di giudizio negativo di sé, gli schemi dovrebbero comprendere regole relative alle implicazioni di determinati eventi riguardanti le prestazioni sociali, le credenze più profonde e incondizionate dovrebbero
rappresentare costruzioni disfunzionali del sé come oggetto sociale.
Le assunzioni del paziente si sono strutturate a partire dalle esperienze familiari e
personali e modificarle non è semplice soprattutto perché dal suo punto di vista le assunzioni impediscono che avvenga qualcosa di indesiderabile e garantiscono che accada
qualcosa di desiderabile.
Nel soggetto ansioso le assunzioni disadattive ruotano intorno a tre temi fondamentali: Accettazione (non posso essere lasciato solo), Competenza (devo essere qualcuno; se non raggiungo il massimo sono un fallimento) e Controllo (io sono il solo che
può risolvere i miei problemi; non posso sopportare di perdere il controllo).
II primo passo per identificare e successivamente modificare credenze e convinzioni è istruire il paziente riguardo al concetto di schema.
Una tra le strategie più efficaci per determinare i contenuti degli schemi è quella
della Freccia Discendente (Burns, 1980), nella quale il significato di un pensiero automatico viene ripetutamente valutato fino ad arrivare al punto finale o “bottom fine”.
Le domande che guidano la Freccia Discendente sono del tipo “se ciò accadesse che cosa le
succederebbe” oppure “cosa c’è di tanto brutto a pensare ciò”.
Un altro metodo é quello di utilìzzare la Scala degli Atteggiamenti Disfunzionali:
si tratta di un inventario dove vengono elencati differenti atteggiamenti o convinzioni
che talvolta sono posseduti dalle persone.
È importante inoltre identificare le regole personali espresse nei “Devo” o nei
“Dovrei”. Talvolta i”Dovrei” non sono verbalizzati dal paziente in modo diretto ma è
108
I Disturbi d’ansia
possibile leggerli attraverso i commenti che fa ai comportamenti degli altri. Dopo aver
identificato gli schemi si passa alla loro confutazione.
Una tecnica cognitiva consiste nell’uso del Contínuum per modificare i pensieri dicotomici. Spesso gli schemi consistono in concetti dicotomici, lavorare su un continuum
offre un mezzo per inserire delle sfumature nel sìstema di giudizio del paziente. Esistono
diversi modi per raggiungere tale scopo, si possono ad esempio definire i due estremi
(fallito/non fallito) e sulla base di questi indicare i restanti punti lungo il continuum.
Un’altra strategia per modificare le credenze consiste in una dettagliata Indagine
delle Prove che il paziente porta a loro sostegno, di solito originate dalle proprie autovalutazioní, piuttosto che da eventi obiettivi.
Un’altra strategia ancora è quella di soppesare Vantaggi e Svantaggi nel mantenere
la convinzione.
Infine anche la riorganizzazione della Freccia Discendente è una strategia di cambiamento: infatti dopo aver stabilito gli stadi e il punto finale, è possibile riformulare
il tema predomìnante.
Nelle ultime sedute terapeutiche è bene utilizzare metodologie per la Prevenzione
delle Ricadute al fine di verificare le credenze residue nei pensieri automatici negativi e
di identificare strategie per contrastarle.
La terapia cognitivo comportamentale individuale della Fobia Sociale produce ottimi risultati ma il trattamento di gruppo presenta notevoli vantaggi, a cominciare dal
fatto ovvio di essere già in una situazione sociale.
6.4 Casi clinici
Il caso di Flo - “Sono noiosa e sono una perdente”
Diagnosi: Fobia Sociale.
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Assertion Inventory
(AI).
Dal CBA 2.0: ansia di tratto elevata, labilità emozionale con elevato rischio di
sviluppare disturbi in condizioni di stress. Sono lamentati numerosi disturbi psicofisiologici ed intense paure riferite al parlare in pubblico, perdere il controllo di sé, svenire,
folla e luoghi chiusi.
Dall’AI: elevate difficoltà nella gestione dell’ansia in situazioni interpersonali nelle
quali sono richieste abilità difensive, di gestione delle critiche e di formulazione di
richieste.
Flo ha 30 anni e conduce una vita molto limitata. Teme di uscire, soprattutto in
compagnia di altre persone, perché se dovesse avvertire la necessità di defecare sarebbe
per lei difficile riuscire a trattenere tale bisogno e “sarebbe terribile” far capire che deve
assentarsi per recarsi in bagno: “non posso sopportare che gli altri sappiano che sono in
bagno per defecare”. Il problema le ha procurato conseguenze negative anche nella sfera
professionale, ha rinunciato a diverse possibilità di lavoro, ed in quella sentimentale,
limitandosi le opportunità di frequentare dei ragazzi.
109
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Storia del caso
Ricorda l’inizio del problema: si trovava a scuola, all’ultimo anno di liceo. In occasione di un’interrogazione inizia a sentirsi agitata ed avverte una fastidiosa sensazione
allo stomaco, seguita da crampi intestinali. Chiede di andare in bagno ma l’insegnante
le rifiuta il permesso, rimproverandola per non aver espletato i suoi bisogni durante
l’intervallo appena concluso e la sollecita a rispondere all’interrogazione. Flo si sente
sempre più male e teme di non riuscire a trattenersi dal defecare. Tuttavia, quello che la
turba maggiormente è sentire su di sé gli occhi dei compagni, che sanno ciò che le sta
accadendo, ed immaginare i loro possibili commenti. “Sapendo che dovevo andare al
bagno sicuramente mi avranno deriso ed avranno pensato che da un momento all’altro
me la sarei fatta addosso”. Racconta di aver vissuto momenti terribili che sembrava non
finissero mai. Una volta tornata al suo posto, per non dare soddisfazione ai compagni
che probabilmente l’avevano derisa, decide di trattenere ancora il suo bisogno per dimostrare che “non avevo rischiato di farmela addosso. Se fossi andata al bagno subito dopo
l’interrogazione avrei dato modo ai miei compagni di prendermi in giro. Invece ho trattenuto il mio bisogno fino al rientro a casa, nonostante avessi forti dolori alla pancia”.
Da allora Flo ha evitato di andare in bagno durante le ore di scuola ed ha iniziato
a ridurre sempre di più le uscite da casa.
La donna si definisce timida ed introversa, caratterizzata da una frequente paura
di commettere errori e di “fare brutte figure”. Riferisce che, ancor prima dell’episodio
scolastico traumatico, avvertiva un senso di imbarazzo nelle situazioni sociali e cercava
di evitare di trovarsi al centro dell’attenzione.
Descrive i genitori, con i quali convive, come molto rigidi nella sua educazione.
Il clima familiare è indicato come sereno, pur con qualche conflitto tra il padre ed i
figli.
Concettualizzazione e trattamento
Flo riconosce che le sue preoccupazioni sono eccessive e che la sollecitazione intestinale sia determinata dall’ansia e dalla sua “timidezza e paura del giudizio degli altri”.
Ritiene di non essere capace di controllare le proprie emozioni e si sente inadeguata,
inferiore agli altri, teme di apparire ridicola e di essere criticata o rifiutata nelle situazioni sociali. Pertanto la fobia determina l’evitamento delle situazioni temute o, nel caso
di esposizione forzata, una risposta d’ansia con marcate manifestazioni neurovegetative
a carico prevalentemente dell’apparato gastrointestinale.
L’intervento terapeutico prevede i seguenti obiettivi.
1. Riduzione dell’ansia e delle manifestazioni somatiche.
L’apprendimento della tecnica di Rilassamento Muscolare Progressivo di Jacobson
ha consentito a Flo di sperimentare un vissuto di controllo sul proprio corpo che
“non potevo neanche immaginare di avere. Praticare il rilassamento mi fa sentire
padrona delle mie sensazioni fisiche”.
Attraverso una Desensibilizzazione Sistematica, la paziente acquisisce una discreta
consapevolezza dei propri stati d’animo e riduce sensibilmente i livelli d’ansia sperimentati.
110
I Disturbi d’ansia
2. Modificazione dei pensieri disfunzionali che contribuiscono a mantenere il problema.
Viene praticata una Ristrutturazione Cognitiva, che le consente di individuare gli
antecedenti che precedono alcune sue esperienze negative e le conseguenze dei suoi
comportamenti. L’analisi dei pensieri automatici evidenzia la presenza delle seguenti distorsioni logiche: inferenza arbitraria, astrazione selettiva, personalizzazione, pensiero dicotomico e doverizzazione. ”Sono incapace ed indesiderabile … sono
noiosa e sono una perdente … se qualcuno mi guarda ho paura di sbagliare, quindi
faccio una figura da stupida … devo assolutamente evitare di trovarmi al centro
dell’attenzione … se gli altri criticano qualche mio comportamento vuol dire che
ci sono delle buone ragioni per farlo …”. Flo, non senza qualche difficoltà, impara
a mettere in discussione questi pensieri ed a sostituirli con altri più funzionali fino
a chiedere di voler provare ad affrontare una situazione di lavoro presso un’azienda
che seleziona personale.
3. Apprendimento delle abilità sociali.
Si procede quindi con un Training Assertivo, attraverso Modeling e Role Playing in
seduta e successivamente con l’esposizione in vivo nel nuovo ambiente di lavoro.
Flo, dopo il successo nella gestione dell’ambiente di lavoro, decide di affrontare un
viaggio con alcune amiche.
Dopo otto mesi di terapia, la paziente presenta miglioramenti anche nel tono
dell’umore che risulta più stabile.
Il caso di Argo -“Se a 30 anni non ho ancora una ragazza…”
Diagnosi: Fobia Sociale.
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Rathus Assertiveness Schedule (RAS).
Dal CBA: elevati punteggi relativi all’ansia in situazioni sociali, critiche o rifiuto, e
nei rapporti con persone di sesso opposto. Nella dimensione introversione – estroversione si colloca decisamente nella direzione introversione, persona schiva e riservata.
Dal RAS: rilevata notevole anassertività.
Argo ha 30 anni e riferisce di avere notevoli difficoltà a relazionarsi con le ragazze,
specialmente se ne è attratto. “Non ho mai avuto una relazione sentimentale con una
ragazza ed ora che ho 30 anni comincio a sentirmi un po’ anormale”.
Ha vissuto sempre i rapporti sociali con una certa apprensione anche se ha cercato,
negli anni, di “forzarsi” a stare con gli altri, ottenendo anche risultati soddisfacenti.
Pertanto, l’attuale problema sembra limitato all’interazione con le ragazze. Non ha
particolari difficoltà di relazione con colleghe e conoscenti ma è completamente inibito
nell’approccio con le donne che gli suscitano interesse. Nei loro confronti nutre infatti
timori relativi alla possibilità di essere rifiutato e deriso.
Ultimamente, una ragazza lo ha particolarmente attratto, provocando in lui una
crisi profonda. Al solo pensiero di mostrarle interesse si agita ed inizia a sudare copiosamente, arrossisce e comincia a balbettare. Questo stato lo rende incapace di instaurare
111
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
una conversazione in quanto, nel tentativo di apparire brillante e simpatico, si trova a
“dire cose stupide e banali”, amplificando il timore che la partner lo valuti negativamente.
Storia del caso
Argo vive con i genitori e due sorelle. Laureato in medicina, svolge la libera professione con impegno e soddisfazione.
Descrive la famiglia come unita, con un padre piuttosto severo e riservato ed una
madre un po’ superficiale, interessata più all’apparire che all’essere, caratterizzata da
passività ed accondiscendenza.
Definito timido ed impacciato fino ai tredici anni, al liceo Argo riesce ad instaurare buone relazioni con i coetanei maschi poiché non vi erano femmine nella scuola
che frequentava.
Con l’ingresso all’università si ripresentano difficoltà di rapporto con gli altri:
parlare in gruppo e sostenere esami orali. Il giovane decide di superare il problema
forzandosi ad uscire in compagnia e frequenta gruppi di coetanei.
Concettualizzazione e trattamento
Il caso è stato concettualizzato sulla base del modello cognitivo della Fobia Sociale
di Wells (1999). Una situazione sociale percepita come pericolosa, attiva pensieri automatici negativi relativi al timore di manifestare comportamenti inadeguati, con conseguente rifiuto da parte dell’altro. Le valutazioni di pericolosità innescano un processo
d’ansia che a livello fisiologico si manifesta con sintomi, interpretati anch’essi come
elementi di minaccia per le proprie capacità e per il valore di sé, ed i conseguenti comportamenti di evitamento e di protezione contribuiscono a mantenere il Disturbo.
Argo controllava ossessivamente i gesti da compiere e preparava le parole da pronunciare con meticolosità quasi ritualistica. In tal modo si impediva il confronto con
l’evento fobico e si precludeva la possibilità di modificare le proprie convinzioni circa
la sua natura.
Il progetto di trattamento ha previsto i seguenti obiettivi.
1. Sviluppo ed incremento delle abilità sociali nelle relazioni interpersonali.
2. Gestione dello stress e dell’ansia sociale nell’interazione con persone di sesso opposto.
3. Superamento degli evitamenti delle situazioni fobiche.
Il deficit di competenze sociali riscontrato in fase di assessment ha richiesto lo
svolgimento di un Training di Abilità Relazionali, che ha consentito l’acquisizione ed
il perfezionamento di capacità espressive, ricettive di ascolto e decodificazione, interattive di alternanza in conversazione e di rinforzo sociale. Particolarmente efficaci con
questo paziente sono risultate le tecniche di Modeling e di Role Playing che gli hanno
consentito il confronto e la verifica di ipotetiche situazioni di rapporto interpersonale
con una terapeuta di sesso femminile.
112
I Disturbi d’ansia
Si è proceduto all’Esposizione Graduata agli eventi fobici, sulla base di una gerarchia di situazioni oggetto di evitamento redatta dal paziente.
La prima fase è stata caratterizzata dall’esposizione in immaginazione, in stato di
rilassamento, attraverso la tecnica del Coping Imagery di Meichenbaum (1977).
COPING IMAGERY
Questa tecnica é fondamentalmente un’estensione della Desensibilizzazione Sistematica
(DS), con la quale spesso si può integrare, e consiste essenzialmente nell’addestrare il
paziente a produrre situazioni ansiogene in immaginazione e farvi quindi fronte (coping), sempre in immaginazione, attraverso una serie di abilità apprese in precedenza.
Il terapeuta cerca, in primo luogo, di identificare i pensieri ansiogeni per far notare al
paziente che essi gli arrecano l’ansia e che é possibile contrastarli attraverso auto-istruzioni adeguate che possono condurre a comportamenti più adattivi. Anche con questa
tecnica il paziente viene addestrato al rilassamento ed alla costruzione gerarchica di scene ansiogene come avviene nella Ds. Rispetto a quest’ultima vengono però introdotti
alcuni importanti cambiamenti: se un paziente prova ansia durante l’immaginazione di
una scena, gli viene suggerito di concedersi di sperimentare alcune delle sensazioni di
ansia e poi immaginarsi mentre l’affronta usando la tecnica di rilassamento e le autoistruzioni apprese in precedenza. Una seconda variazione rispetto alla Ds consiste nella
successiva inclusione di scene ansiogene nella descrizione del terapeuta, piuttosto che
attendere che sia il paziente a formularne una, e l’invito al paziente a fronteggiarle con le
tecniche apprese in precedenza. Secondo Meichenbaum, sia la Ds che la Coping Imagery
vanno considerate come una forma di covert modeling mettendo con ciò in risalto una
sua concezione del processo terapeutico che ruota intorno all’apprendimento cognitivo
attivo di nuove risposte, principalmente per mezzo di prove immaginative, piuttosto
che come un contro-condizionamento passivo di una risposta invece di un’altra. Perciò,
la componente immaginativa assolve in questo processo la funzione di prova. In precedenza erano state suggerite almeno tre modalità attraverso cui le prove immaginative
contribuiscono al cambiamento: favorendo un più rapido ed efficace riconoscimento
dei segnali iniziali di ansia; permettendo una più ampia gamma di situazioni da includere nelle sedute terapeutiche; conducendo ad una maggiore attivazione emotiva. In
altre parole, le prove immaginative sono qui concepite come mezzi che contribuiscono
al cambiamento attraverso la produzione di attivazione emotiva, migliorando la percezione del paziente dei segnali di ansia sia interni che esterni e migliorando, altresì, il suo
bagaglio mnestico relativo a nuove procedure di coping. Nella pratica il Coping Imagery
snellisce e rende più incisiva la Desensibilizzazione Sistematica e può essere impiegato
secondo due criteri generali:
-
-
nel primo, allorché il paziente avverte una reazione d’ansia nel visualizzare la scena,
il terapeuta non interrompe la prova ma invita il paziente ad immaginare se stesso
che affronta (coping) l’ansia mettendo in atto gli accorgimenti precedentemente
concordati;
nel secondo, il terapeuta include direttamente nella scena la rappresentazione della
reazione d’ansia, quindi invita il paziente ad immaginarsi mentre l’affronta e la controlla.
113
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Il paziente ha immaginato se stesso mentre fronteggiava attivamente l’ansia prestazionale, ricorrendo a strategie di coping efficaci, sotto forma di autoistruzioni.
La seconda fase di esposizione è stata realizzata in vivo, iniziando a confrontarsi con ragazze che riteneva meno attraenti. Il paziente è stato sollecitato a ridurre la
focalizzazione attentiva su di sé, dirigendo l’osservazione su elementi esterni relativi
all’ambiente ed alle persone.
In associazione con l’esposizione allo stimolo temuto, è stata impiegata una Ristrutturazione Cognitiva. I pensieri ricorrenti riguardavano la previsione di catastrofiche
conseguenze relative alla visibilità dei sintomi d’ansia (rossore, sudorazione, tremori…)
che venivano interpretati come conferma della propria inadeguatezza ed incapacità
relazionale.
Identificare le distorsioni logiche che caratterizzavano il suo pensiero, ha consentito ad Argo di procedere poi all’invalidazione dei Pensieri Automatici negativi e delle
credenze sottostanti.
Pensiero automatico
Distorsione cognitiva
o faccio una bellissima figura o faccio la figura
dello stupido pensiero dicotomico
devo essere simpatico e brillante
doverizzazione
se a 30 anni non ho ancora una ragazza non
sono normale
saltare alle conclusioni
sento di essere un incapace ragionamento emotivo
Infine, la tecnica della Freccia Discendente, ha evidenziato il processo di passaggio
da Pensiero Automatico negativo alla convinzione di base che il paziente ha imparato a
sostituire con un contenuto alternativo.
LA TECNICA DELLA FRECCIA DISCENDENTE
All’interno dell’intervento attuato con la Ristrutturazione Cognitiva, il terapeuta può usare
una modalità, definita “freccia discendente o all’ingiù”, per identificare sia le cosiddette
“convinzioni intermedie” (opinioni, assunzioni, regole) sia le “convinzioni nucleari” (credenze di base o schemi). Con questa tecnica un pensiero automatico chiave viene ripetutamente messo al vaglio e valutato, dopo che esso è stato identificato ed ipotizzato essere
la diretta conseguenza di una convinzione disfunzionale. Dando per scontata la veridicità
del pensiero automatico, il terapeuta chiede al paziente il significato di tali contenuti ideativi fino ad arrivare al punto finale o “bottom line”. Questo processo consiste nel porre
domande del tipo:
1°) “Tale evento, situazione, fenomeno…cosa significa per lei…?”. In genere questo tipo
di domanda aiuta ad individuare convinzioni a livello intermedio;
2°) “Tale evento, situazione, fenomeno… cosa comporta o comporterebbe su di lei…?”.
In genere quest’altro tipo di domanda aiuta ad individuare le convinzioni di base.
Vediamo uno stralcio di colloquio clinico come esempio dell’utilizzo della tecnica della
Freccia Discendente.
114
I Disturbi d’ansia
T. P. T. P. T. P. T. P. T. P. Se lei arrossisse e parlasse in modo strano di fronte all’aula piena, cosa succederebbe?
La gente se ne accorgerebbe
Bene…e questo cosa significherebbe per lei?
Senz’altro riderebbero di me (convinzione intermedia: assunzione tipo “se…allora”)
…Uhm, riderebbero…e questo cosa significherebbe per lei ?
Non mi prenderebbero sul serio (altra assunzione)
E se non la prendessero sul serio, questo quali conseguenze avrebbe per lei ?
Si convincerebbero che sono uno stupido (assunzione tipo opinione su se stessi)
E pensare che gli altri la giudicano uno stupido cosa comporterebbe su di lei?
…Che sono un perdente…un fallito…una persona inadeguata…(credenze di base)
Di solito il punto finale o “bottom line” di questa tecnica è identificabile come la fase
in cui non è più possibile proseguire con nuovi contenuti e quindi si tende a tornare su
pensieri e convinzioni a livelli precedenti della sequenza.
Durante l’applicazione della tecnica, possono essere evocate nel paziente emozioni dolorose collegate agli avvenimenti di cui si sta parlando (sarebbe terribile…avrei un’ansia a
mille…mi vergognerei da morire, ecc). In questi casi, di tanto in tanto, il terapeuta arresta
momentaneamente l’indagine e risponde, intercalando con una modalità empatica di
comprensione e di rimando emotivo, per poi riguidare il paziente sulla giusta via.
Altre volte il terapeuta, per minimizzare la possibilità che il paziente reagisca in modo non
funzionale all’indagine e all’analisi, fornisce una spiegazione logica delle sue domande,
con interventi del tipo:
“Se questo è vero…allora cosa succede”; “Cosa c’è di brutto in…”; “Quale è la parte
peggiore di, in…”;
“Questo cosa significa o vorrebbe dire relativamente a lei…”.
A conclusione della terapia, dopo sette mesi di trattamento, Argo ha raggiunto un
discreto grado di padronanza nelle relazioni con il sesso opposto che gli ha consentito
di avvicinare alcune donne in occasioni sociali informali.
Nel complesso, il paziente si è sentito più soddisfatto nella gestione di tutti i rapporti interpersonali e ciò ha prodotto un effetto positivo sulla valutazione complessiva
di sé, rafforzando l’autostima positiva.
115
CAPITOLO 7
Disturbo ossessivo compulsivo
7.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
A. Ossessioni o compulsioni
- Ossessioni come definite da 1), 2), 3), e 4):
1) pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento
nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia o disagio
marcati;
2) i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale;
3) la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o
di neutralizzarli con altri pensieri o azioni;
4) la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi o le immagini ossessivi sono un
prodotto della propria mente (e non imposti dall’esterno come nell’inserzione del
pensiero).
- Compulsioni come definite da 1) e 2):
1) comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni
mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si
sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione o secondo regole che
devono essere applicate rigidamente;
2) i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o a ridurre il disagio
oppure a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono
designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.
B. In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli.
Nota: questo non è valido per i bambini.
117
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
C. Le ossessioni o le compulsioni causano disagio marcato: fanno consumare tempo
(più di un’ora al giorno) o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) o con le attività o
relazioni sociali usuali.
D. Se è presente un altro disturbo di Asse I, il contenuto delle ossessioni o delle compulsioni non è limitato ad esso (per es., preoccupazione per il cibo in presenza di un
Disturbo dell’Alimentazione, tirarsi i capelli in presenza di Tricotillomania, preoccupazione per il proprio aspetto nel Disturbo da Dismorfismo Corporeo, preoccupazione riguardante le sostanze nei Disturbi da Uso di Sostanze, preoccupazione di
avere un agrave malattia in presenza di Ipocondria, preoccupazione di avere impulsi
o fantasie sessuali in presenza di una Parafilia, ruminazioni di colpa in presenza di
un Disturbo Depressivo Maggiore).
E. Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una
droga, un farmaco) o di una condizione medica generale.
Specificare se: Con scarso insight: se per la maggior parte del tempo, durante l’episodio attuale, la persona non riconosce che le ossessioni e le compulsioni sono eccessive o irragionevoli.
Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è caratterizzato da pensieri o impulsi
ricorrenti (ossessioni), che sono avvertiti come intrusivi, irrazionali o sgradevoli, ma ciò
nonostante sono irrefrenabili.
La risposta alle ossessioni consiste in atti ripetitivi e ritualizzati (compulsioni); le
compulsioni servono a rassicurare il paziente circa i dubbi sollevati dalle ossessioni e si
manifestano fino nel 75% delle persone con ossessioni. Un soggetto può essere affetto
da più di un ossessione, mentre sono rare le compulsioni multiple. Il DOC è spesso associato all’ansia, portando ad Attacchi di Panico, evitamento fobico e compromissione
della vita quotidiana (Lander e Uhde, 2003).
Le ossessioni sono mantenute da un meccanismo paradossale: più si cerca di sopprimerle e di allontanarle e più questi pensieri aumentano di intensità e di frequenza
(Sanavio, 1991).
Una delle prime conseguenze della presenza delle ossessioni è l’evitamento delle
situazioni in qualche modo connesse al contenuto delle ossessioni stesse.
Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) può interferire con la vita scolastica
o lavorativa in maniera così significativa da portare, nei casi più gravi, all’abbandono
(Dèttore, 2003; Wells, 1999).
L’aspetto importante delle ossessioni è dato dalla loro involontarietà; cioè, esse
non sono suscitate dal paziente, il quale tenta in tutti i modi di porvi termine con altri
pensieri, atti o “gesti cognitivi” detti anche neutralizzazioni. Se le ossessioni sono involontarie, le neutralizzazioni sono sempre volontarie (Sanavio, 1978).
Le compulsioni sono comportamenti intenzionali ed apparentemente finalizzati
o azioni mentali che la persona non può fare a meno di mettere in atto, in risposta ad
un’ossessione, e che riconosce come irrazionali o inappropriati.
Hodgson e Rachman (1977) hanno distinto i sottotipi:
-
-
-
-
118
cleaning, preoccupazioni comportamenti e rituali di pulizia e decontaminazione;
checking, operazioni di controllo e ricontrollo senza necessità;
doubting-ruminating, dubbi, rimuginazioni mentali e scrupoli ossessivi;
slowness-repetition, comportamenti ripetitivi e le cosiddette lungaggini ossessive.
I Disturbi d’ansia
Caratteristiche cognitive presenti nel DOC:
-
-
-
-
-
-
-
-
-
fusione pensiero - azione;
eccessivo senso di responsabilità;
necessità di controllo totale sui pensieri e sistema di regole rigido;
ipervalutazione della minaccia, in senso di un sovrastima sia della probabilità che
si verifichi l’evento sia delle sue conseguenze;
presenza del dubbio patologico, al punto che si ipotizza un deficit di memoria;
intolleranza dell’ambiguità e dell’incertezza;
convinzione che l’ansia sia qualcosa di intollerabile;
presenza del senso di colpa inteso come conseguenza della violazione di una norma
interiore. La colpa può essere sia commissione (per aver compiuto un atto ritenuto
dannoso o immorale) che di omissione (per non aver fatto qualcosa di necessario
o utile);
in una buona percentuale di casi (circa il 60-70 %) al DOC si associano aspetti
depressivi.
Dèttore ipotizza che le persone con DOC, quando si trovano in una situazione
che ha un esito potenzialmente indesiderabile o dannoso, sopravalutano la probabilità
che tale esito si realizzi. Essi sono guidati dalla convinzione che “se qualcosa può andare storto, ci andrà” e di conseguenza, osserva Carr, mettono in atto l’evitamento delle
possibili fonti di rischio.
McFall e Wollersheim (1979) osservano che tali soggetti sono caratterizzati da un
perfezionismo che si manifesta nella ricerca ostinata della soluzione migliore per ogni
problema: credono di dover essere perfetti, che tutto debba funzionare nel modo migliore e che qualunque esito diverso rappresenti una catastrofe. Di conseguenza vivono
con la percezione di una minaccia costante che li porta inevitabilmente a sperimentare
ansia.
Il DOC va distinto da Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità che si caratterizza per una modalità pervasiva di perfezionismo e di inflessibilità altamente
invalidante. I soggetti con tale Disturbo perseguono costantemente la perfezione in
tutto quello che fanno, con un’aderenza a standard eccessivamente rigidi e spesso
irraggiungibili che interferisce significativamente con la realizzazione di progetti e di
attività. Mostrano eccessiva dedizione al lavoro ed alla produttività, fino all’esclusione
delle attività di svago e delle amicizie; sono riluttanti a delegare compiti o lavorare
con altri, salvo che non aderiscano completamente al loro modo di operare; appaiono
esageratamente coscienziosi, scrupolosi ed inflessibili in tema di moralità e valori;
avari, considerano il denaro come indispensabile da accumulare in previsione di future catastrofi.
Nei soggetti con DOC è stata riscontrata un’anomalia nella trasmissione della
serotonina ed i farmaci antidepressivi che agiscono come inibitori della ricaptazione di
quel neurotrasmettitore (SSRI) hanno dimostrato efficacia terapeutica.
Vi sono fattori biologici che predispongono all’insorgenza del Disturbo, insieme
con elevati livelli di autocritica conseguenti a modelli educativi eccessivamente rigidi
e severi.
119
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
7.2 Modelli comportamentali e cognitivi
Secondo la teoria comportamentale, le ossessioni sono un’esperienza comune a
tutte le persone ma la differenza tra normalità e patologia sta nella capacità di reazione
e di controllo di queste intrusioni mentali.
Rachman (1978, 1980) ha evidenziato alcune somiglianze e differenze tra ossessioni “patologiche” e non patologiche. Secondo l’autore “le ossessioni, sotto forma di
pensieri e/o impulsi, sono un’esperienza comune, quindi un fenomeno normale che
la maggior parte delle persone riferisce di aver sperimentato ed inoltre la forma, ed in
parte anche il contenuto, delle ossessioni riferite dai soggetti non clinici e dai pazienti
ossessivi sono simili ed hanno una relazione con l’umore”.
Secondo l’Autore, l’ossessione patologica si differenzia da quella non patologica
per le seguenti caratteristiche:
- l’ossessione non patologica è più facile da allontanare ed ha una maggiore soglia di
accettabilità;
- l’ossessione patologica ha maggiore frequenza, durata e resistenza, è egodistonica,
suscita più impulsi da neutralizzare e produce maggiore disagio.
In presenza di un pensiero ossessivo può accadere che il soggetto metta casualmente in atto un comportamento che viene seguito, sempre casualmente dalla riduzione
dell’ansia. In questo modo però egli apprende, per condizionamento operante, che quella
risposta è in grado di ridurre l’ansia (rinforzo negativo). Successivamente tale comportamento si automatizza fino a caratterizzarsi come compulsione.
Diversi autori sono concordi nel ritenere che gli impulsi ossessivi e l’ansia ad essi
associata vanno incontro ad un decadimento spontaneo (nell’arco di circa un’ora), in
conseguenza di un processo di abituazione lento e progressivo. In questo caso non si ha
un rinforzo immediato, in quanto il decremento dell’ansia è causato dal fattore tempo; tuttavia, se il soggetto mette in atto il rituale il rinforzo sarà immediato. Lo stesso
principio si applica alle neutralizzazioni covert, cioè a quei pensieri in grado di ridurre
il livello dell’ansia provocata dai pensieri ricorrenti.
Secondo il modello cognitivo comportamentale, nel DOC è determinante l’interpretazione e la valutazione che il soggetto fa del pensiero intrusivo, in particolare la
convinzione che quel pensiero possa causare un evento dannoso. Questa convinzione
origina dall’idea che la persona che lo ha prodotto abbia il potere di determinare gli
eventi e che quindi avere un pensiero equivalga a produrre l’azione. Di conseguenza,
il soggetto avverte la necessità di agire per evitare il verificarsi dell’evento temuto ed il
rituale svolge per lui questa funzione.
Pertanto, se le ossessioni provocano ansia ed i comportamenti ritualizzati o le
compulsioni la riducono, tuttavia questi ultimi mantengono attive le credenze che
la persona ha circa le intrusioni – stimolo in quanto non le consentono di verificarne
l’infondatezza.
Il DOC è sostenuto dalle seguenti convinzioni disfunzionali:
- avere un pensiero equivale a compiere un’azione;
- non riuscire a prevenire un danno equivale a provocarlo;
120
I Disturbi d’ansia
- la responsabilità non è attenuata dalla bassa probabilità che un evento si verifichi
ma proporzionale alla gravità del danno;
- non “neutralizzare” un pensiero intrusivo con un rituale equivale a desiderare che
il danno si produca;
- una persona deve controllare sempre i propri pensieri.
Tali convinzioni possono essere presenti senza determinare l’insorgenza del disturbo fino al verificarsi di un evento che agisce come scompenso dell’equilibrio psicologico. L’evento, non necessariamente evidente e significativo, può però anche essere un
fatto positivo per il soggetto (una promozione, il matrimonio, la nascita di un figlio …)
che però egli può vivere con una diversa connotazione emotiva, anche perché spesso si
tratta di situazioni che richiedono una reale assunzione di maggiori responsabilità.
La presenza dell’idea ossessiva origina un pensiero automatico a seguito del quale
si mette in atto la compulsione e, poiché il mancato verificarsi dell’evento temuto è
attribuito al rituale, il processo viene mantenuto.
Lo schema seguente riporta alcuni esempi di contenuti ricorrenti nel meccanismo
ossessivo compulsivo.
p. ossessivo
p. automatico
rituale
sulle mie mani potrebbero
esserci virus
mi ammalerò io e tutti i miei
familiari
lavarsi le mani continuamente
uscendo di casa non ho chiuso ci sarà un’esplosione e moriil rubinetto del gas
ranno tutti
rientrare a controllare
pensieri di fare del male ai
propri figli
pensare equivale a desiderare
evitare di rimanere solo con
i figli
pensieri che gli oggetti siano
fuori posto
se non c’è ordine non c’è
equilibrio
ordine maniacale
Salkovskis (1985) ha analizzato le differenze tra pensieri ossessivi e pensieri automatici definiti da Beck (1976), rilevando che i primi:
a) si intromettono ed interrompono il normale flusso dei pensieri mentre i pensieri
automatici compaiono in parallelo con lo svolgimento del flusso principale di pensiero e non provocano interferenza;
b) si impongono al soggetto con una rilevanza eccessiva e disturbante mentre i pensieri automatici sono meno facilmente accessibili;
c) sono solitamente percepiti come irrealistici ed irrazionali, a differenza dei pensieri
automatici percepiti come logici e plausibili;
d) il loro contenuto è inaccettabile ed incoerente rispetto al sistema di valori del soggetto (egodistonici) per cui egli cercherà di combatterlo in tutti i modi. I pensieri
automatici sono egosintonici e coerenti con le credenze del soggetto.
Wells e Matthews (1994) suggeriscono che le intrusioni attivano convinzioni che
riguardano il significato dell’intrusione stessa. Queste convinzioni infatti non solo con121
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
sistono in informazioni sulle intrusioni ma anche in conoscenze riguardo le risposte
comportamentali.
Rachman nel 1993 ha introdotto un nuovo e utile concetto definito “thought-action fusion” (TAF) che ben rappresenta la convinzione meta-cognitiva per cui i pensieri
sono equiparati alle azioni (ad esempio avere un pensiero di nuocere ai propri bambini
significa che si farà loro del male).
Questo stesso concetto è stato sviluppato successivamente e diviso in 2 componenti:
•
•
“TAF morale”.
“TAF probabile”.
La prima riflette la convinzione che i pensieri sono moralmente equiparati alle
azioni (cioè pensare è male tanto quanto agire); la seconda invece si riferisce alla convinzione che pensare a qualcosa aumenti la sua probabilità di accadere, sia a se stessi che
agli altri (Rachman, Thordarson, Shafran, e Woody, 1995).
Le convinzioni meta-cognitive pertanto riguardano le conseguenze dei pensieri
(i pensieri possono causare azioni/eventi) e il significato dei pensieri per azioni/eventi
passati (se penso di aver fatto qualcosa di brutto probabilmente l’ho fatto).
Il modello generale mostra la relazione tra le variabili chiave nel mantenimento
delle ossessioni con l’utilizzo delle compulsioni. In questo modello un elemento scatenante (molto spesso un pensiero intrusivo o un dubbio) attiva le convinzioni riguardo
il significato dell’elemento stesso.
Le convinzioni rilevanti a questo livello includono:
• convinzioni sui pericoli e il significato del pensiero comprendente i temi di “thought-action fusion” e di “thought-event fusion”;
• convinzioni sulle conseguenze dell’emozione /disagio.
Tutti questi convincimenti influenzano la natura della valutazione delle intrusioni.
Un’influenza ulteriore risulta dalle credenze che l’individuo possiede riguardo a rituali
e risposte comportamentali. Due tipi di credenze sono qui rilevanti: quelle positive (ad
es. “se non metto in atto il mio rituale la sensazione non finirà mai”) e quelle negative
(ad es. “i miei rituali potrebbero danneggiare il mio corpo”).
Inoltre due tipi di feedback circolari agiscono a questo punto: l’ansia e altre reazioni emotive negative, che risultano dalla valutazione delle intrusioni, possono essere
soggette ad interpretazioni negative; le risposte comportamentali prevengono la disconferma della credenza nelle valutazioni disfunzionali di intrusioni. Nel primo caso
le risposte emozionali aumentano la possibilità di ulteriori intrusioni poiché riportano
all’elemento scatenante, mentre nel secondo caso la non occorrenza di eventi catastrofici risultante dalle intrusioni è attribuita ai rituali e non al fatto che la valutazione
iniziale dell’intrusione non era valida poiché esagerata.
Esistono numerosi modelli teorici del DOC, nessuno dei quali però appare distinguersi in particolare per spiegare il Disturbo. I modelli più promettenti includono
i recenti approcci cognitivo-comportamentali (Clark, 2004; Frost e Steketee, 2002;
122
I Disturbi d’ansia
Salkovskis, 1996) che propongono che il DOC derivi da un particolare insieme di
credenze disfunzionali.
L’Obsessive Compulsive Cognitions Working Group (OCCWG, 2003) in una
recente ricerca suggerisce che vi siano 3 tipi distinguibili analiticamente di credenze
correlate a ossessioni e compulsioni: (a) alto senso di responsabilità personale e la tendenza a sovrastimare la minaccia, (b) perfezionismo e intolleranza dell’incertezza, (c)
eccessiva importanza e controllo dei pensieri. Queste dimensioni sono state identificate
come risultato di tutte le credenze collegate a ossessioni e compulsioni che sono state precedentemente delineate nella letteratura della ricerca in questo ambito (Frost e
Steketee, 2002; OCCWG, 1997).
Altri modelli del DOC non considerano le credenze disfunzionali come elementi
che giocano un ruolo importante nel Disturbo. Alcuni pazienti, ad esempio, sostengono che si sentono costretti ad attuare le loro compulsioni non perché associate
a credenze specifiche (come la credenza di avere una personale responsabilità per
prevenire un danno), ma bensì per il bisogno di ottenere un “sentimento” sensorioaffettivo per il quale le cose sono “semplicemente giuste/ corrette” (Leckman, Grice,
et al., 1995). Per esempio una persona si potrebbe sentire costretta a lavarsi ripetutamente le mani fino a quando si sente “pulita”, senza essere in grado di definire il
criterio di “pulizia”.
Guidano e Liotti (1983) ritengono che se le persone con DOC svalutano la
propria capacità di far fronte adeguatamente alle minacce temute, tali pensieri produrranno sensazioni diffuse di incertezza, disagio ed “helplessness”. Nell’ottica del
paziente, i rituali sono l’unico sistema di riferimento possibile in assenza di altri più
appropriati.
Inoltre questi Autori hanno proposto che il DOC risulti da una combinazione di
perfezionismo, bisogno di certezza e la credenza che esistano soluzioni perfette.
Slade e Owens (1998) hanno suggerito un modello ancor più dettagliato del perfezionismo presente nei DOC basato sulla distinzione tra due fattori: il perfezionismo
positivo e quello negativo. Il loro modello descrive la distinzione basata sulla funzione
del comportamento perfezionistico e si può spiegare nel modo seguente:
• il perfezionismo positivo coinvolge cognizioni e comportamenti finalizzati ad ottenere un rinforzo positivo;
• il perfezionismo negativo comprende cognizioni e comportamenti indirizzati ad
obiettivi di evitamento o fuga da fallimenti.
Questi differenti modelli teorici mettono in luce la crescente evidenza che il
DOC sia un disturbo eterogeneo (o un gruppo di disturbi), piuttosto che una sindrome unitaria (McKay et al., 2004); di conseguenza è possibile che differenti modelli
teorici si possano applicare a diversi sottotipi di DOC. In questo modo pertanto i
modelli che enfatizzano il ruolo delle credenze disfunzionali potrebbero applicarsi
solo ad un sottogruppo di manifestazioni di DOC o in casi con presenza di particolari sintomi.
123
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
7.3 Trattamento
Il trattamento comportamentale del DOC ha come obiettivo la riduzione dell’ansia associata a stimoli esterni ed interni e la modificazione dei comportamenti disadattivi attraverso la rottura dell’associazione tra gli stimoli ed i rituali.
Le terapie cognitive si focalizzano sui pensieri ossessivi.
Il trattamento più efficace associa entrambi gli interventi (Rovetto, 1996).
In fase di assessment vengono indagate le seguenti aree: stimoli esterni o interni, in
grado di attivare le ossessioni e le compulsioni; pensieri, immagini mentali ed impulsi
ossessivi con una valutazione del grado di convinzione del paziente; comportamenti
compulsivi, con descrizione dettagliata dei rituali comportamentali o mentali e delle
azioni di evitamento messe in atto in risposta ai pensieri ossessivi; problemi relazionali,
lavorativi e familiari conseguenti.
La raccolta di queste informazioni si avvale di strumenti di automonitoraggio e di
appositi questionari. L’impiego di questi ultimi consente di confrontare la situazione
pre e post trattamento, in modo da ottenere una misurazione oggettiva della sintomatologia.
Il questionario attualmente più utilizzato è il Mausdley Obsessional – Compulsive
Inventory (MOCI) elaborato da Hodgson e Rachman (1977). Una versione ridotta e
revisionata è la scheda 9 del CBA-2.0 Scale Primarie di Sanavio e al. (1986) composto
di 21 item, con risposta vero falso, che prevede tre sottoscale:
- checking, controllo;
- cleaning, pulizia;
- doubting-ruminating, dubbio/ruminazioni.
Ad opera di Sanavio (1988) abbiamo anche il Padua Inventory, composto da 60
item da valutare su una scala a 5 gradi di intensità (0-4) e che rileva quattro fattori:
- controllo inadeguato della propria attività mentale (difficoltà ad allontanare i pensieri intrusivi, rimuginazione, dubbi);
- ossessioni e compulsioni, connesse a contagi e contaminazioni;
- controlli e ricontrolli;
- impulsi e preoccupazioni di poter perdere il controllo del proprio comportamento.
Anche il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) presenta una scala
di “ossessività” (OBS), i cui punteggi elevati indicherebbero difficoltà a prendere decisioni, tendenza alla ruminazione ed alla preoccupazione eccessive.
Un aspetto importante da prevedere in fase di assessment è la motivazione del
paziente ad affrontare il trattamento che richiede un notevole impegno e può anche
provocare forte disagio.
L’intervento comportamentale associa tecniche di Esposizione a tecniche di Prevenzione della Risposta.
Le tecniche di Esposizione consistono nell’affrontare la situazione temuta direttamente (in vivo) o in immaginazione. L’Esposizione può avvalersi anche di procedure di
124
I Disturbi d’ansia
Rilassamento e prevedere o meno una gradualità di esecuzione. Tra le principali tecniche di Esposizione: la Desensibilizzazione Sistematica, l’Esposizione Graduata, l’Esposizione non graduata o Flooding e la Saturazione.
SATURAZIONE
Consiste nella monotona ripetizione mentale di pensieri e di immagini ansiogene, per un
tempo sufficiente a provocare la loro estinzione per un processo di abituazione.
Le tecniche di Prevenzione della Risposta consistono nell’impedire l’emissione di
comportamenti compulsivi o di rituali.
Si basano sul principio del condizionamento operante, secondo il quale la risposta si
estingue se non è seguita da rinforzo.
PREVENZIONE DELLA RISPOSTA NEL DOC
Questa tecnica consiste nell’impedire l’emissione dei comportamenti ritualistici ed è sempre associata a tecniche di Esposizione in vivo o in immaginazione. In pratica, si avvia
un’esposizione graduata facendo affrontare stimoli ansiogeni di crescente intensità e si
impedisce che venga effettuato qualsiasi cerimoniale di purificazione.
I passi da seguire (Marks, 1985; Turner e Beidel, 1988; Steketee, 1993) sono i seguenti:
Verificare che il paziente non abbia anche una sintomatologia depressiva e, nel caso, trattare prima la depressione.
Bloccare l’eventuale utilizzo di ogni alcolico o ansiolitico da parte del paziente.
Verificare l’eventuale presenza di disturbi organici (colite, ulcera, asma, disturbi cardiovascolari), aggravati sicuramente dall’ansia, in modo da intervenire gradualmente.
Definire il problema in modo preciso e comportamentale, individuando tutte le situazioni che creano disagio, nonché rituali anche minimi, sia comportamentali sia mentali.
Richiedere al paziente disponibilità di tempo per il trattamento necessario e forte motivazione al cambiamento.
Contattare familiari e parenti significativi del paziente per spiegare le modalità dell’intervento, ma anche per dare consigli sul comportamento da assumere.
Se viene affidato il compito di supervisore esterno ad un familiare, per controllare i compiti a casa, è necessario istruirlo sulle regole da seguire e le tecniche da utilizzare.
Se, invece, sarà lo stesso paziente ad avere la responsabilità dei compiti lo si invita, qualora
avesse forti impulsi ad emettere comportamenti ritualistici, a rivolgersi ad una persona
vicina particolarmente comprensiva o, almeno nelle prime fasi della terapia, a mettersi in
contatto telefonico col terapeuta.
È necessario che il paziente tenga una scheda di rilevazione dei rituali eventualmente
emessi.
Via via che i rituali vengono controllati, l’aiuto del supervisore o del terapeuta verrà attenuato e quindi eliminato.
La Prevenzione della Risposta costituisce un’importante tecnica d’autocontrollo che comporta, dunque, un alto grado di coinvolgimento e collaborazione del paziente e anche di
familiari e parenti.
125
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
In alcuni casi, tuttavia, come nelle ossessioni di contaminazione e di controllo, può essere
consentita la Dilazione della Risposta, una particolare e graduale forma di Prevenzione
della Risposta che permette l’emissione del rituale quando l’ansia è troppo alta e non
decresce, ma comunque sempre dopo un certo intervallo di tempo dalla manifestazione
dell’impulso.
Altre tecniche utili per aiutare i pazienti a gestire i loro rituali e le loro ideazioni
ossessive sono di seguito descritte.
DILAZIONE DELLA RISPOSTA
Il paziente viene esposto allo stimolo ansiogeno ma si stabiliscono tempi precisi, e gradualmente più lunghi, di posticipazione della risposta compulsiva. Il presupposto per
l’utilizzo di questa tecnica è che il rituale sia contiguo alla presenza dell’impulso.
PRATICA NEGATIVA
Al paziente viene richiesto di ripetere un elevato numero di volte il rituale con tempi
prestabiliti ed in momenti della giornata concordati.
RITUALI OBBLIGATI
Si stabiliscono momenti della giornata nei quali il paziente è obbligato ad emettere il
comportamento compulsivo e momenti nei quali gli è proibito attuarlo. I tempi del divieto vengono progressivamente allungati.
SENSIBILIZZAZIONE COVERT
In immaginazione, il paziente visualizza l’esecuzione del rituale ed il terapeuta introduce
gradualmente nella scena elementi che portano a conseguenze estremamente sgradevoli.
Sarà poi il paziente a ripetere la sequenza autonomamente, seguendo le istruzioni del
terapeuta.
ARRESTO O STOP DEL PENSIERO
I pensieri disadattivi e disfunzionali hanno spesso un effetto a cascata per il soggetto. Un
pensiero o una riflessione su un dato evento può partire come un qualcosa di inizialmente
insignificante ma può, se “lasciato libero”, acquistare peso e forza. Questo vuol dire che
126
I Disturbi d’ansia
spesso gli individui valutano i propri pensieri e le proprie considerazioni attribuendo
valutazioni a catena e generando circoli e problemi secondari. Una volta creati, questi
processi disfunzionali hanno un tale impatto sull’individuo che può essere difficile bloccarli. Ad esempio, un paziente depresso può generare una catena di considerazioni sulla
minaccia da parte degli altri e sulla durezza della vita che può condurlo velocemente al
suicidio. Una tecnica utile in queste situazioni, nello stadio precoce ed iniziale del processo, è lo Stop del Pensiero. Il terapista può addestrare il soggetto a raffigurarsi in mente
la parola “stop”, oppure può scriverla su un foglio e indicarla ed utilizzarla all’occorrenza
nella seduta, oppure può attribuire il significato di “stop” ad un gesto che all’occorrenza
può fungere da segnale per il paziente e da ausilio per rafforzare il comando di “stop”. Possono essere utili vari modi per indicare tale comando, da segnali visivi a stimoli acustici,
come campanelli o altri rumori, o segnali cenestesici e tattili. Ognuna di queste procedure
è usata nella fase di partenza del processo ed è molto utile nel bloccare lo sviluppo e la
progressione dei pensieri. I vari segnali impiegati per indicare il comando di “stop” sono
utili anche per il valore mnemonico che possono avere; infatti essi possono costituire un
aiuto e un sussidio per il paziente il quale, avendo applicato in seduta tale comando, si
ricorda di esso con più efficacia. Questa tecnica ha un valore duplice: è sia distraente, in
quanto si propone un segnale all’attenzione distogliendola da un certo stimolo attivo fino
a quel momento, ed è anche avversiva in quanto si contrappone una intenzione ad una
intenzione contraria. Lo scopo principale è quello di permettere al paziente di riacquistare
il senso del controllo del proprio pensiero attraverso un modo tangibile e perciò rassicurante. Questo tipo di procedura è utile per contrastare la modalità frequente che i soggetti
utilizzano nel fronteggiare un pensiero (intrusivo) non voluto, sia scandalizzante sia rifiutato o ancora giudicato estraneo. Se il soggetto intenzionalmente si impone di allontanare
un contenuto indesiderato dalla propria mente incorre nel fenomeno definito “paradosso
della intenzionalità”: quel contenuto sarà presente molto più di prima in quanto egli controllerà continuamente se lo sta pensando. Una modalità adattiva consiste nell’impegnarsi
in un compito selezionato che abbia un valore di interesse e di utilità reale per il soggetto,
piuttosto che essere scelta a caso. Una variante della tecnica consiste nell’indirizzare lo
“stop” non al pensiero intrusivo ma alla valutazione negativa che l’individuo ne formula:
in questo caso il segnale di “stop” ha la funzione di blocco delle valutazioni disfunzionali
e contribuisce a costruire una rappresentazione sempre meno convincente delle originarie
valutazioni. L’applicazione di questa variante della tecnica si pone l’obiettivo di favorire lo
sviluppo di un atteggiamento di accettazione dei propri contenuti mentali.
Queste tecniche prevedono il coinvolgimento attivo della persona nella pianificazione dei compiti, proporzionati alle sue risorse disponibili, ed il ricorso ad attività
piacevoli alternative al rituale da praticare in sua sostituzione.
Nel trattamento cognitivo l’intervento mira ad identificare le distorsioni logiche e
ad operare una ristrutturazione delle cognizioni rilevate nel paziente con DOC.
In particolare, aiuta il soggetto a produrre valutazioni ed interpretazioni alternative ed a renderlo meno vulnerabile agli effetti di eventi stressanti. Partendo dall’individuazione dei pensieri automatici, si procede alla loro modifica e sostituzione seguendo
alcune specifiche procedure:
- l’esame delle prove a favore o contro e delle probabilità realistiche che il rischio
temuto si verifichi, unitamente all’elaborazione di interpretazioni alternative;
- la ricerca di esempi e di informazioni da fonti diverse dal terapeuta, come ad esempio amici o conoscenti;
127
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
- il decentramento e distanziamento dalle proprie interpretazioni, ad esempio ipotizzando di attribuirle ad un’altra persona e valutandole così dall’esterno;
- la ricerca sistematica delle più comuni distorsioni cognitive, quali la personalizzazione, il pensiero dicotomico, la generalizzazione...;
- la riattribuzione, cioè la consapevolezza da parte del paziente che egli non è responsabile del pensiero disfunzionale e delle sue temute conseguenze ma che il
pensiero stesso rappresenta il disturbo. Il processo riattributivo contribuisce anche
a diminuire il senso di autosvalutazione e ad aumentare l’autostiima;
- la ricerca di modalità alternative di pensiero e di significati nuovi che sostituiscano
i pensieri automatici.
CAPIRE I SIGNIFICATI PERSONALI TIPICI
Solitamente, i termini usati dal paziente sono particolari, idiosincrasici, personali ed il
terapista non può dare per scontato che un tale concetto sia padroneggiato e posseduto,
o un certo termine sia usato nello stesso campo di applicazione. Spesso anche tra professionisti l’accordo sui riferimenti semantici di un termine, pur centrale o frequente
o “alla moda”, non è scontato. Inoltre, con pazienti con disturbi del pensiero, con particolari elaborazioni deliranti o sub-deliranti, l’accordo sulla terminologia “tecnica” è
pressoché nullo. In tale questione il terapeuta chiede chiarimenti su particolari termini
usati dal paziente. Ad esempio un paziente può usare il termine “ansioso” per descrivere
il proprio stato di ostilità, un altro può definire se stesso come “disgustato” piuttosto
che descriversi come “deluso” o come “arrabbiato” (ciò è tipico quando si ha a che fare
con i termini riguardanti le emozioni). In sostanza, questo intervento ha lo scopo di
aiutare il soggetto ad esplicitare la propria specifica definizione del termine che usa, in
modo da rendere comprensibile il modello implicito che ha per comprendere il fatto o
l’evento a cui è o è stato esposto. Spesso, può essere utile soffermarsi sulla distinzione
tra termini, in quanto ciò agevola sia la discriminazione successiva sia l’acquisizione di
vocabolario condiviso che è un aspetto importante per il proseguimento degli interventi. Ovviamente, la richiesta di chiarificazione del terapista non deve risultare un atto di
accusa o una indicazione di ignoranza, il che porterebbe il paziente a diffidare di lui o a
chiudersi “in difesa” da possibili svalutazioni. In alcuni casi, tuttavia, deve essere corso
il rischio di richieste di chiarificazioni che appaiono scontate o banali ma che possono
rivelarsi, ove si trascuri il chiarimento, fonte di equivoci. È sempre utile schematizzare
o ricollegarsi al modello generale (ad esempio, il modello cognitivo ABC) in quanto
il soggetto può non sapere ancora orientarsi o utilizzare concetti impiegati nel trattamento.
DECATASTROFIZZAZIONE
Se il paziente vede un’esperienza come potenzialmente catastrofica, il terapista lo può
aiutare a considerare se egli non stia sovrastimando la natura catastrofica della situazione.
Ad esempio, il terapeuta può proporre “cosa può farti di male ciò?” oppure “che danno
particolare ti comporta ciò?” o anche “se ciò accade come pensi che ti sentirai fra un mese
128
I Disturbi d’ansia
(o una settimana, o altro)?” Il clinico propone degli stimoli tendenti a “forzare” una visione diversa della situazione, una prospettiva meno a senso unico, meno catastrofica. Se il
paziente considera lo stimolo minacciante o il pensiero negativo o la situazione da evitare
come l’aspetto centrale della propria vita allora l’ansia o la depressione o l’emozione specifica associata ad essa sarà intensa e drammaticamente resistente; ma se il terapista riesce
a decentrare o articolare l’interesse del soggetto su più aspetti o parti dello stesso aspetto
generale allora l’aspettativa di “rimanere senza niente” o “essere scoperto (nel senso di
esposto)” o anche “perdere l’unica cosa che ...” perderà importanza. È importante che
il clinico riesca a promuovere nel paziente una prospettiva realistica delle conseguenze
associate ad una certa situazione temuta o evitata. Un aspetto non secondario è la sensibilità del terapista nell’evitare di esporre il paziente ad autovalutazioni negative o alla
percezione di essere ridicolizzato o sminuito, mentre affronta il compito di prospettarsi
il danno realistico piuttosto che il danno irrazionale e catastrofico, e lo stesso vale per le
conseguenze associate. Alcune volte è utile fare l’esperienza dalla situazione per ricavarne
il dato realistico, altre volte è utile il ricordo soltanto; in ogni caso il paziente deve essere
stimolato al confronto tra le proprie aspettative riguardo allo stimolo (un pensiero, un
segnale dal proprio corpo, una certa situazione sociale) e delle valutazioni più moderate
e realistiche.
Successivamente si può procedere all’identificazione delle assunzioni e degli schemi di base sottostanti, che solitamente nel paziente con DOC si riferiscono ad un
bisogno di perfezione e di controllo.
A tale scopo, la terapia cognitiva “post-razionalista”, orientata secondo modelli
strutturalisti - costruttivisti, propone un intervento articolato su di un duplice livello.
INTERVENTO COGNITIVO STRUTTURALISTA
Organizzazione cognitiva ossessiva
Nel caso di scompenso di una struttura cognitivo-emotiva ossessiva, il cambiamento superficiale si può ottenere dopo aver aiutato il paziente a riconoscere e criticare l’esigenza
di perfezione che ovviamente implica l’idea di guarigione totale e perfetta. Si può poi intervenire con tecniche come l’Esposizione Graduale, il Modeling, il Differimento o il Blocco
dei Rituali per alleviare i disagi emotivi collegati al bisogno compulsivo.
È ovvio che nei piani di cambiamento terapeutico profondo, si agisce in modo tale che
non rimanga inalterata l’identità personale basata sulla sensazione continua ed intrinseca
di una doppia e opposta facciata, sempre presente in contemporanea negli atteggiamenti
verso se stesso e la realtà, e sul tacito bisogno di adeguarsi del tutto a una delle due, quella
giusta, escludendo l’altra, quella sbagliata.
Lo studio della prognosi del Disturbo lo indica come difficile da trattare e, anche
se l’intervento comportamentale ne favorisce esiti più positivi, risulta particolarmente
necessario il lavoro sulla Prevenzione delle Ricadute (Déttore, 2003).
129
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
7.4 Casi clinici
Il caso di Olindo -“Se penso di aver sbagliato probabilmente è vero”
Diagnosi: Disturbo Ossessivo Compulsivo.
Dal CBA 2.0 scale primarie: significativo il punteggio alla scala relativa alla paura
del rifiuto sociale, con moltissima paura per gli “insuccessi”, per la possibilità di “commettere errori” e di “fare una figura da stupido”; alla scala delle ossessioni presenta un
punteggio particolarmente elevato alle subscale relative ai controlli ed ai dubbi/ruminazioni.
Olindo è un operaio di 40 anni che riferisce un problema d’ansia caratterizzato
dalla presenza invasiva di ricorrenti pensieri stereotipati e ripetitivi che lo inducono
all’irrinunciabile necessità di controllarne la veridicità. Il contenuto dell’ideazione è di
tipo dubitativo ed è relativo alla sua attività lavorativa.
In particolare il problema si acuisce nelle ore serali e notturne, durante le quali
il pensiero di non aver svolto adeguatamente alcune azioni che richiedono la sua attenzione (come spegnere un macchinario o chiudere a chiave la porta al termine di un
turno) lo spinge a ripercorrere mentalmente più volte, secondo un ordine preciso, tutta
la sequenza dei movimenti compiuti e questo interferisce anche pesantemente con la
durata e la qualità del riposo notturno: “se non riesco a ricordare tutto quello che ho
fatto provo un’ansia terribile e non riesco ad addormentarmi”. Se durante la riproposizione mentale della sequenza si accorge di aver saltato un’azione, la compulsione alla
ripetizione di tutti i passaggi aumenta nel tentativo di assicurarsi maggiormente di aver
eseguito tutte le azioni con precisione.
Storia del caso
Olindo è coniugato e padre di due bambini. Riferisce di aver ricevuto dai genitori
un’educazione improntata al senso del dovere e dell’impegno ”… mi hanno insegnato a
fare le cose bene e con attenzione … a completare sempre le cose che inizio a fare…”.
Si definisce una persona precisa e scrupolosa, ansioso da sempre, e colloca l’origine
della sintomatologia, lamentata in relazione con l’avvio dell’attuale attività lavorativa,
circa quindici anni prima.
Concettualizzazione e trattamento
Il Disturbo è stato trattato con una iniziale gestione della sintomatologia ansiosa,
mediante tecnica di rilassamento che ha consentito al paziente di ridurre l’attivazione
fisiologica disturbante associata con la presenza del pensiero intrusivo.
Si è quindi proceduto alla realizzazione di compiti di Esposizione in vivo e di Prevenzione della Risposta, con la registrazione dei pensieri intrusivi non seguiti da neutralizzazione e delle cognizioni disfunzionali sottostanti.
Le principali cognizioni disfunzionali rilevate sono risultate le seguenti:
- “devo avere il controllo totale dei miei pensieri”;
130
I Disturbi d’ansia
-
-
-
-
“bisogna sempre fare le cose nel modo migliore”;
“se penso di aver sbagliato qualcosa probabilmente è vero”;
“non devo mai sbagliare”;
“se non svolgo bene il mio lavoro sono un incapace, sono un fallimento”.
Mediante un intervento di Ristrutturazione Cognitiva, Olindo ha appreso a modificare i pensieri negativi con sensibile riduzione dell’intensità dell’emozione associata
alla presenza dell’intrusione/dubbio.
Situazione
Pensiero intrusivo/ dubbio Pensiero disfunzionale
Pensiero funzionale
a casa dopo cena
non ho spento il macchi- non devo sbagliare; se
nario
non ricordo di averlo
fatto non l’ho fatto, devo verificare e non posso
farne a meno
sbagliare è umano, posso
anche fare un errore, se
non ricordo tutti i movimenti è perché li faccio
in modo automatico, verificare è un impulso che
posso trattenere: io posso
controllare le mie azioni
e decido di non verificare ma di affrontare la mia
ansia con le tecniche che
ho imparato
Emozione
ansia 80%
Emozione
ansia 30%
Il confronto tra i propri pensieri negativi associati ad un suo errore sul lavoro e
quelli associati ad un errore altrui, ha consentito al paziente di comprendere più facilmente le convinzioni negative che sostenevano il disturbo e di sostituirle con valutazioni più realistiche e funzionali.
ERRORE SUL LAVORO
Olindo
Collega
“Ho sbagliato, non sono stato attento, non deve suc- “Ha sbagliato, forse è stanco o è solo un momento
cedere”
di distrazione”
“Quando se ne accorgono pensano che sono un inca- “Ha fatto un errore, non per questo è un incapace”
pace”
“Hanno ragione, non devo sbagliare, devo essere at- “Può succedere, di solito è una persona attenta e aftento e preciso nel lavoro”
fidabile”
“Se ho sbagliato è colpa mia … le conseguenze me le “Non ci sono conseguenze particolarmente negatimerito”
ve”
In particolare il paziente ha potuto verificare che:
- l’errore altrui era giustificabile per stanchezza o semplice distrazione mentre il suo
rivelava la propria inettitudine globale;
131
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
- i pensieri disfunzionali erano sostenuti da un’ipervalutazione del perfezionismo,
con eccessivo senso di responsabilizzazione, e dall’assunzione: “comportamento
corretto e preciso = sé amabile e degno di stima”.
Dopo un anno di terapia, Olindo ha raggiunto un soddisfacente controllo dei propri dubbi ossessivi, con il superamento della compulsione alla verifica, sintetizzabile in
questa sua espressione: “Non ricordo tutti i movimenti che ho fatto, e se ho sbagliato
qualcosa? … Mi sento padrone della mia mente e libero di scegliere se stare a pensarci,
e forse farmi venire i dubbi, oppure no… e scelgo di no”.
Il caso di Era - “Se penso questo sono pazza o sto per impazzire”
Diagnosi: Disturbo Ossessivo Compulsivo.
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Padua Inventory
(PI), Beck Depression Inventory (BDI), Rathus Assertiveness Schedule (RAS).
Dal CBA: elevata ansia di tratto; marcata instabilità emozionale con possibilità di
sviluppare disturbi psicologici in situazioni di stress; significativo il punteggio alla scala
delle paure nell’area agorafobia ed a quella della depressione; elevati i valori indicativi
della presenza di dubbi / ruminazioni.
Dal PI: inadeguato controllo sulle proprie attività mentali relativamente alla paura
di non riuscire a controllare i propri pensieri e comportamenti motori.
Dal BDI: disturbo depressivo clinicamente significativo.
Dal RAS: anassertività di tipo passivo.
Era ha 30 anni e si presenta in terapia lamentando una sintomatologia ansiosa
depressiva, con ricorrenti pensieri di impulsi aggressivi verso il figlio e verso la madre.
Ossessionata dal dubbio di aver compiuto qualche gesto riprovevole del quale non
aveva memoria, spesso si alzava di notte per controllare che il bambino stesse bene ed
effettuava numerose e ripetute telefonate rassicuranti alla mamma. In particolare: verso quest’ultima aveva ridotto le occasioni di incontro per il timore di poter compiere
qualche gesto violento nei suoi confronti e verso il figlio cercava di evitare le situazioni
nelle quali poteva trovarsi da sola col lui. Il marito ha sempre cercato di rassicurarla,
dimostrandole affetto e comprensione, ma Era provava forti sentimenti di colpa ed il
timore di perdere il controllo si manifestava sempre più insistente.
Storia del caso
La donna si definisce riservata, corretta ed affidabile, timida, poco socievole e
poco incline a manifestazioni che esprimano emozioni positive. Attribuisce queste
caratteristiche all’educazione familiare, piuttosto rigida e con scarse esternazioni di
affetto. Descrive il padre come severo, autoritario, poco presente e la madre come
intrusiva ed iperprotettiva. Nonostante sia felicemente coniugata da dieci anni, ha
continuato a mantenere un forte legame di dipendenza emotiva dalla madre che con
i suoi atteggiamenti di controllo (“dove sei stata?”, “perché hai tardato?”…) e di diret132
I Disturbi d’ansia
tività (“devi fare così”, “questo è giusto, questo è sbagliato”…) la condiziona ancora
nel presente.
All’età di ventotto anni, una lieve depressione la induce a rivolgersi ad uno psichiatra che le diagnostica un Disturbo Ossessivo Compulsivo e le prescrive una terapia
farmacologia che lei però non inizia per il timore degli effetti collaterali.
Concettualizzazione e trattamento
Il trattamento del Disturbo ha previsto:
- la riduzione della frequenza e dell’intensità dei pensieri ossessivi, attraverso un
intervento cognitivo accompagnato da tecniche di Prevenzione della Risposta e di
Esposizione Graduata;
- la riduzione della sintomatologia ansiosa depressiva, con l’impiego di tecniche di
rilassamento e di attività distraenti;
- il miglioramento delle abilità comunicative, con Training Assertivo.
Lo stile cognitivo della paziente era caratterizzato da convinzioni disfunzionali
relative alla percezione di se stessa e del Disturbo:
-
-
-
-
-
“sono pazza o sto per diventarlo”;
“non sono una brava madre”;
“sono la disgrazia di chi mi vuole bene”;
“non ne uscirò mai”;
“prima o poi succederà veramente”.
La confutazione dei pensieri irrazionali è stata prevalentemente guidata dalla produzione di alternative più realistiche ed adattive che potevano rispondere al quesito “in
quale altro modo avrei potuto considerare questa situazione?”.
Il miglioramento del tono dell’umore conseguente alle modificate cognizioni elaborate da Era l’hanno resa consapevole del ruolo attivo che ella possiede nel condizionare il proprio vissuto emotivo.
Il Training Assertivo si è focalizzato in particolare sull’ansia connessa con la paura
della critica negativa da parte degli altri e sulla capacità di manifestare le emozioni, esternandole in maniera adattiva e funzionale. Quest’ultima abilità ha consentito alla donna
di migliorare il rapporto con il figlio, verso il quale si è sentita più libera e spontanea.
L’analisi del rapporto con la madre ha evidenziato la difficoltà da parte di Era di fare e rifiutare una richiesta: “non chiedo per non metterla in obbligo di accontentarmi”,
“non posso dirle di no se mi chiede qualcosa, ci rimarrebbe male”.
La paziente ha imparato ad esprimere i propri bisogni e desideri in maniera affermativa, migliorando così anche il rapporto con il marito arrivando a comprendere
“perché a volte non mi capisce … come può sapere quello che non gli dico?”.
Al termine della terapia, dopo un anno di trattamento, non è più turbata dai pensieri negativi disturbanti e pratica abitualmente il rilassamento quando avverte i primi
segnali di tensione emotiva.
133
CAPITOLO 7
Disturbo d’ansia generalizzato
8.1 Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
A. Ansia e preoccupazione eccessive (attesa apprensiva) che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi e riguardano numerosi eventi o attività
(come prestazioni lavorative o scolastiche).
B. La persona ha difficoltà nel controllare la preoccupazione.
C. L’ansia e la preoccupazione sono associate a tre (o più) dei seguenti sintomi (con
almeno alcuni dei sintomi presenti per la maggior parte dei giorni negli ultimi sei
mesi:
Nota: nei bambini è richiesta una sola voce.
1. irrequietezza o sentirsi con i nervi a fior di pelle;
2. facile affaticabilità;
3. difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria;
4. irritabilità;
5. tensione muscolare;
6. alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, o sonno
irrequieto e insoddisfacente).
D. L’oggetto dell’ansia e della preoccupazione non è limitato alle caratteristiche di un
disturbo di Asse I: ad esempio l’ansia o la preoccupazione non riguardano l’avere un
attacco di Panico (come nel Disturbo di Panico), il rimanere imbarazzati in pubblico
(come nella Fobia Sociale), l’essere contaminati (come nel Disturbo Ossessivo Compulsivo), l’essere fuori casa o lontano da parenti stretti (come nel Disturbo d’Ansia
di Separazione), l’ingrassare (come nell’Anoressia Nervosa), l’avere molti fastidi fisici
(come nel Disturbo di Somatizzazione) o l’avere una grave malattia (come nell’Ipocondria); e l’ansia e la preoccupazione non si manifestano esclusivamente durante
un Disturbo Post Traumatico da Stress.
135
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
E. L’ansia, la preoccupazione e i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o un’alterazione del funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
F. L’alterazione non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (ad esempio,
una sostanza oggetto di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale (ad
esempio, ipertiroidismo) e non si manifesta esclusivamente durante un Disturbo
dell’Umore, un Disturbo Psicotico o un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo.
8.2 Modelli comportamentali e cognitivi
Secondo il modello cognitivo di Beck e al. (1985) i soggetti con Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG) si valutano incapaci di affrontare gli eventi e valutano un
gran numero di situazioni come minacciose. La caratteristica cognitiva del Disturbo
è un sentimento persistente e ricorrente di preoccupazione eccessivo ed incontrollabile.
Wells (1999) propone un modello che rileva il ruolo della rimuginazione come
strategia per far fronte a diverse situazioni, attività mentale considerata però dalla persona con connotazione negativa. L’autore individua due tipi di preoccupazioni:
- tipo 1: riguardano le percezioni fisiche interne o gli eventi esterni di relazione o
quotidiani;
- tipo 2: riguardano la natura stessa delle rimuginazioni a livello metacognitivo.
Nel DAG si rilevano più frequenti le preoccupazioni del secondo tipo.
Alcune delle preoccupazioni metacognitive si mantengono perché hanno un fine
protettivo, preoccuparsi è un modo per “essere sempre pronti”. Questa metacognizione
positiva della preoccupazione è tipica delle prime fasi del Disturbo, mentre nel tempo
si iniziano a produrre giudizi metacognitivi negativi riguardo alle rimuginazioni, come ad esempio “pensare troppo porta alla pazzia”. Pertanto la preoccupazione nasce
come strategia di fronteggiamento: se preoccuparsi è considerato utile dal paziente, le
difficoltà si intensificano nel momento in cui si percepisce che la preoccupazione può
essere nociva, che “se continuo a preoccuparmi posso impazzire”; la preoccupazione
ed i sintomi associati vengono allora letti come segnale di un pericolo imminente, con
conseguente aumento dell’attivazione ansiosa.
Mentre l’evitamento di situazioni ritenute preoccupanti può avere un iniziale effetto benefico e di riduzione dell’ansia, tentare di bloccare le metacognizioni spiacevoli
dei pensieri agisce aumentandone la produzione. Clark, Ball e Pape (1991) hanno
dimostrato sperimentalmente che i tentativi volti alla soppressione delle rimuginazioni
portano a produrre con maggiore frequenza gli stessi pensieri disturbanti che si vogliono evitare. Questo meccanismo disfunzionale rinforza inoltre nel soggetto la percezione di non avere il controllo sulla produzione cognitiva.
136
I Disturbi d’ansia
8.3 Trattamento
Wells propone di non intervenire sul paziente con DAG inducendolo a reprimere il contenuto di una sua preoccupazione ma di agire interrompendo il processo
di preoccupazione. In questo modo non si cerca di eliminare dalla consapevolezza il
contenuto di una preoccupazione (si è visto come ciò sia quasi impossibile) ma si vuole
bloccare il percorso catastrofizzante della preoccupazione stessa: si riconosce il pensiero
che preoccupa e lo si blocca, lo si allontana evitando di collegare ad esso tutta una serie
di altri pensieri preoccupanti.
Nell’intervento è centrale discutere con il paziente sia il contenuto delle preoccupazioni sia le specifiche preoccupazioni legate all’idea di preoccuparsi, quelle che Wells
chiama “metapreoccupazioni”. È altresì importante confrontare gli aspetti ritenuti positivi in merito alle preoccupazioni con quelli ritenuti negativi, in modo che il paziente
possa verificare l’onere di far coesistere pensieri positivi e negativi legati alle medesime
metacognizioni sulle preoccupazioni.
Spesso un individuo con DAG presenta carenze nella capacità di affrontare i problemi e le situazioni stressanti, motivo per cui gli è utile apprendere abilità di Problem
Solving.
Il superamento delle condotte di evitamento risulta poi fondamentale per consentire al paziente di confrontarsi con le proprie preoccupazioni e verificarne la natura
inoffensiva e transitoria.
fattore scatenante
attivazione delle metacognizioni positive
preoccupazioni di tipo 1
attivazione delle metacognizioni negative
preoccupazioni di tipo 2
(metapreoccupazione)
comportamento
pensiero
emozione
Schema del modello metacognitivo del DAG tratto da Wells (1997)
137
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
8.4 Casi clinici
Il caso di Solange - “Potrebbe accadere qualcosa di terribile”
Diagnosi: Disturbo d’Ansia Generalizzato.
Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto molto elevata, presenti dubbi e ruminazioni mentali.
Solange ha 35 anni e da diversi mesi soffre di crisi d’ansia connesse a preoccupazioni su “possibili disastri o incidenti che potrebbero capitare ai miei cari … ci penso
tutto il giorno …non vivo più”. Il suo stato di malessere interferisce significativamente
con lo svolgimento di qualsiasi attività.
Uno dei motivi che la spinge a chiedere una psicoterapia è la preoccupazione per
la sua bambina di pochi mesi: “ho paura di trasmetterle tutte le mie paure e farla diventare un’insicura”.
La paziente riconosce l’infondatezza delle proprie preoccupazioni: “ho capito che
il mio è un problema psicologico. So che le mie paure sono infondate, ne ho avuto tante prove ormai … ma continuo lo stesso a preoccuparmi. Quando comincio a pensare
che potrebbe succedere qualcosa di tremendo non riesco a fermare il pensiero, a volte
per ore… è come se continuare a pensarci mi desse la possibilità di tenermi pronta e
preparata… se succede qualcosa posso intervenire in tempo”.
Solange, a seguito di questi pensieri disturbanti, cerca continue rassicurazioni e
conferme dai suoi familiari con le quali riesce a tranquillizzarsi fino al sopraggiungere
della successiva preoccupazione.
Storia del caso
Solange è casalinga, coniugata da tre anni, e vive con il marito e la figlia.
La relazione di coppia è definita serena e riferisce che il marito si dimostra molto
comprensivo nei suoi confronti, cercando di rassicurarla continuamente circa i dubbi
ed i timori che la tormentano.
Con i genitori ha avuto un rapporto caratterizzato da profonde incomprensioni.
Ha due sorelle, una delle quali con problemi cronici di salute. Per questo motivo, la
madre avrebbe riservato molte più attenzioni a questa figlia e Solange ne avrebbe sofferto particolarmente: “… ha sempre mostrato una preferenza per lei ed io soffrivo perché
vedevo mia sorella più vicina a mamma di quanto potessi starci io”. Il padre è descritto
come assente: “non si interessava veramente a me, non c’era dialogo tra noi”.
Si definisce una persona un po’ ansiosa da sempre, spesso tesa e nervosa fin da
ragazza, con un comportamento frequentemente iperattivo.
La paziente non riesce ad individuare un momento preciso d’insorgenza del
Disturbo ma rileva con certezza l’aggravamento della sintomatologia a seguito della
nascita della figlia. Già durante la gravidanza era assalita da dubbi circa la possibilità di aver fatto qualcosa che potesse nuocere alla creatura, aver mangiato un cibo
dannoso o essere stata a contatto con sostanze pericolose. A seguito di un episodio
durante il quale un temporaneo stato di malessere fisico l’aveva particolarmente spa138
I Disturbi d’ansia
ventata, si è sottoposta a numerosi controlli medici dai quali ha tratto conclusioni
rassicuranti.
Concettualizazione e trattamento
In associazione con le preoccupazioni che non riesce a controllare, la paziente
presenta anche irritabilità, affaticamento con difficoltà di rilassamento e difficoltà di
concentrazione.
Sulla base del modello cognitivo proposto da Wells (1999), sono stati rilevati due
diversi tipi di preoccupazioni.
Preoccupazioni del Tipo 1, relative a tutti gli eventi esterni e quelli interni non
cognitivi, quali ad esempio:
- preoccupazioni per la salute della figlia;
- timore che il marito possa aver un incidente d’auto;
- paura che avvertire una condizione di facile affaticabilità possa preannunciare una
crisi depressiva.
Preoccupazioni del Tipo 2, relative a convinzioni a livello metacognitivo sulla natura delle proprie ruminazioni. Queste credenze possono essere positive, come:
- se mi preoccupo posso prevenire ed evitare che accadano cose terribili;
- se continuo a rimuginare sono continuamente all’erta e pronta per affrontare qualsiasi problema;
o negative, quali:
- non ho alcun controllo sulle mie rimuginazioni;
- se continuo a rimuginare posso perdere il controllo o diventare pazza.
A livello comportamentale, la paziente adottava alcune strategie per affrontare l’ansia associata alle sue preoccupazioni. In particolare metteva in atto condotte
di evitamento di alcune situazioni, nelle quali pensava di potersi preoccupare, e di
protezione, come rassicurazioni e conferme dei mancati accadimenti catastrofici temuti.
Il trattamento terapeutico ha previsto un iniziale Addestramento al Rilassamento
per la gestione della sintomatologia ansiosa.
Sono quindi stati stabiliti gli ulteriori obiettivi:
1. Acquisizione della capacità di affrontare e risolvere i problemi in maniera efficace,
attraverso l’apprendimento della tecnica di Problem Solving. Ciò anche allo scopo
di aumentare la fiducia nelle proprie capacità di gestione delle situazioni di reale
pericolo.
2. Superamento delle condotte di evitamento e di protezione che contribuiscono al
mantenimento della patologia ansiosa.
139
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
3. Intervento sulle preoccupazioni del Tipo 1 e del Tipo 2, mediante Ristrutturazione
Cognitiva.
L’analisi delle ruminazioni ha consentito alla paziente di comprendere come esse,
determinando l’iniziale riduzione dei livelli d’ansia, venivano mantenute e quindi perpetuate attraverso un meccanismo di rinforzo negativo.
Anche l’Analisi dei Vantaggi e degli Svantaggi sul processo di ruminazione ha aiutato Solange a coglierne gli aspetti non funzionali: le continue preoccupazioni non
aiutano a risolvere un problema ma servono soltanto a mantenere elevato un livello di
attivazione ansiosa fortemente disturbante.
Relativamente alla credenza negativa di perdere il controllo sulla propria mente, la
paziente ha sviluppato la successiva convinzione che “io ho il controllo sui miei pensieri
…posso smettere di preoccuparmi se voglio … se sento l’ansia per qualche preoccupazione mi concentro sulle sensazioni che provo piuttosto che continuare a rimuginare
sui pensieri che mi preoccupano”.
La terapia si è conclusa dopo otto mesi di trattamento.
Il caso di Palmiro - “Mi sono cancellato le emozioni”
Diagnosi: Disturbo d’Ansia Generalizzato.
Nell’assessment è stato impiegato il CBA 2.0 scale primarie che ha rilevato: ansia
di stato elevata e, nei tratti di personalità, una prevalenza dei tratti di estroversione e di
anticonformismo.
Palmiro ha 29 anni e si rivolge alla terapia perché “Sto male, ho paura di cadere in
depressione e di farmi venire le manie”. Si sente agitato e spaventato ed ha paura dei
forti sintomi d’ansia che sperimenta da circa un anno. In particolare, teme che questi
sintomi possano portarlo alla depressione di cui soffre il fratello che avrebbe anche non
meglio precisati “disturbi mentali”.
Circa un anno prima di richiedere l’intervento terapeutico Palmiro ha avuto un
violento disturbo intestinale, probabilmente di natura virale, che gli ha provocato un
abbassamento di pressione con sensazione di svenimento e che è culminato in un attacco di panico. A seguito di quell’episodio ha sempre vissuto con grande apprensione, nel
timore di ripetere l’esperienza fino ad alcuni giorni prima quando “improvvisamente
mi sono sentito agitatissimo, ansioso, mi sentivo svenire, avvertivo il bisogno di svuotare l’intestino e non mi sentivo più le gambe”.
Storia del caso
Palmiro ha un diploma di scuola media superiore ed ha frequentato l’università
con brillanti risultati ma poi ha abbandonato gli studi. Vive da solo, svolge con il padre
un’attività commerciale ed è fidanzato da diversi anni.
Riguardo i motivi per i quali ha lasciato l’università dice “perché volevo guadagnare tanto, subito e senza fatica”. Per questo inizia a frequentare ambienti malavitosi,
140
I Disturbi d’ansia
entrando in un giro di attività illegali, ed assume comportamenti violenti. Riferisce
anche di essere abituato ad ottenere “tutto e subito” e di non saper tollerare le rinunce
e le frustrazioni che gli generano intense reazioni di rabbia, con manifestazioni anche
di violenza fisica.
Palmiro però non è soddisfatto della vita che conduce, ne vuole uscire anche perché pressato dalla fidanzata che minaccia di lasciarlo se non cambia comportamento:
“lei ha ragione, non si fida di me, con me è sempre in ansia”.
Il ragazzo è molto legato alla mamma con la quale ha un ottimo rapporto, mentre
con il padre vive intensi conflitti: ”lui non è stato presente nella mia vita… non mi ha
mai chiesto come stai”. Tuttavia non nutre rabbia o risentimento nei suoi confronti ma
dice “l’ho perdonato, anche se mi è mancato, perché so che è fatto così”.
Tra i genitori ci sono sempre stati conflitti che il paziente ha vissuto in maniera
angosciante, a causa della forte gelosia e della prepotenza ed aggressività del padre.
Quando Palmiro aveva otto anni i genitori si sono separati e lui è andato a vivere con la
madre presso i genitori di quest’ultima. Pur se accudito e sostenuto, avvertiva tuttavia
molto intensamente la mancanza del padre.
Concettualizzazione e trattamento
Lo stato d’ansia che caratterizza attualmente il paziente è da considerare come
la generalizzazione di uno stato di attivazione che egli ora riconosce di avere sempre
vissuto, fin dall’infanzia. Inoltre Palmiro vive una situazione di conflitto che influisce
sul suo stato ansioso: ha adottato modelli di aggressività e di illegalità che non sente
suoi e dei quali vorrebbe liberarsi. In particolare, sente che questo stile di vita gli ha
impedito di manifestare quelle emozioni ritenute inaccettabili negli ambienti malavitosi, perché segno di debolezza: “mi sono cancellato le emozioni, coperto da una falsa
invulnerabilità”.
L’intervento terapeutico ha previsto tecniche di:
-
-
-
-
Gestione dell’Ansia
Training per il Controllo della Rabbia
Training Assertivo
Ristrutturazione Cognitiva.
Dopo aver condiviso il modello cognitivo dell’ansia e del panico, il paziente ha
appreso la tecnica del Rilassamento Muscolare di Wolpe che ha praticato con successo.
L’intervento per il Controllo della Rabbia si è articolato nei seguenti passi:
- comprendere che la reazione comportamentale non è da attribuire alla situazione
esterna ma soltanto a se stesso ed alla propria responsabilità;
- riconoscere l’emozione dentro di sé;
- riconoscere i fattori che scatenano la reazione di rabbia. A questo riguardo, il paziente individua precise situazioni: “quando non mi danno retta, quando mi criticano per qualcosa, quando mi interrompono mentre parlo”;
- trovare risposte alternative a quelle aggressive;
- spostare l’attenzione fuori da sé, decentrarsi.
141
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
L’intervento per il controllo della rabbia è stato favorito anche dal Training Assertivo, che ha consentito a Palmiro di costruire una modalità di comunicazione e di
relazione interpersonale alternativa a quella aggressiva.
La Ristrutturazione delle idee irrazionali e delle convinzioni distorte si è focalizzata
sui seguenti errori di pensiero:
- “Per essere un uomo di valore devo essere sempre ricco e vincente”. Nella convinzione che con il denaro si può comprare tutto, Palmiro adottava quei comportamenti, anche illegali, che alimentavano anche la risposta ansiosa.
- “Devo avere sempre il controllo su tutto”. La paura più forte che scatenava la risposta d’ansia era il timore di svenire, come perdita di controllo della situazione.
- “Per essere rispettati bisogna essere forti e fare paura” e questa idea irrazionale gli
rendeva ancora più credibile la precedente.
- “Chi ha paura, chi è insicuro, chi è ansioso è un debole”. Questa convinzione è
risultata la più radicata e, pertanto, ha incontrato maggiori resistenze al cambiamento nel sistema cognitivo del paziente. Egli infatti, di fronte ai sintomi d’ansia che sperimentava, non ha mai reagito con l’evitamento ma piuttosto con un
improduttivo atteggiamento di sfida aggressiva, così come reagiva a tutti gli altri
eventi non desiderati o non tollerati.
Riconoscere ed accettare quelle emozioni prima contrastate gli ha permesso di
riconoscere ed accettare una parte di sé che sentiva di aver perso.
Dopo diciotto mesi di terapia, il paziente ha raggiunto un livello soddisfacente di
gestione dell’’ansia e di controllo della rabbia.
Sul piano comportamentale, ha iniziato a collaborare con un gruppo di volontariato religioso ed a frequentare nuove amicizie. Si sente “più aperto, anche gli altri mi
dicono che mi sono addolcito… riesco ad aspettare, ad avere pazienza”.
142
PARTE TERZA
I DISTURBI DELLA
CONDOTTA ALIMENTARE
“Una malattia corporea, che noi vediamo come un’entità completa
e conchiusa, dopo tutto, potrebbe essere niente più che il sintomo
di un malessere della parte spirituale”
Nathaniel Hawthorne
“Non puoi fare molto affidamento sul tuo modo di sentire oggi la realtà,
dal momento che, come quella di ieri, può dimostrarsi una delusione domani”
L. Pirandello
CAPITOLO 9
DISTURBI DELLA CONDOTTA ALIMENTARE
9.1 Introduzione
I Disturbi della Condotta Alimentare (DCA) si caratterizzano per la presenza di
alterazioni del comportamento alimentare e si sviluppano lungo un continuum dove
i diversi sintomi e tratti comportamentali possono combinarsi tra loro, producendo
una gamma di situazioni eterogenee all’interno della quale si collocano l’Anoressia e la
Bulimia (Beumont, 1988).
Il meccanismo comune di base è il rapporto introduzione/neutralizzazione del
cibo e il fattore costante riscontrabile è la preoccupazione di controllare il peso.
Nel DSM-IV vengono indicati i criteri diagnostici per individuare tre diverse patologie:
- l’Anoressia Nervosa, caratterizzata dal rifiuto di mantenere il peso corporeo al di
sopra della soglia minima attesa per età ed altezza, terrore di ingrassare, immagine
distorta del proprio corpo ed amenorrea;
- la Bulimia Nervosa, con ricorrenti episodi di abbuffate seguiti dal ricorso a mezzi inappropriati di controllo del peso come condotte di eliminazione (vomito
autoindotto, uso di lassativi …) o compensatorie (digiuno, eccessiva attività fisica…);
- i Disturbi Alimentari Non Altrimenti Specificati (NAS), che non rientrano in
nessuna delle due precedenti per assenza di amenorrea, per comportamenti di iperalimentazione inferiori a quelli richiesti per fare diagnosi di Bulimia o per la mancanza di condotte compensatorie.
Diversi autori hanno rilevato l’alterata percezione dell’immagine corporea come
caratteristica comune a queste patologie (Bruch, 1973; Garner, Garfinkel e Bonato,
1987; Cash e Brown, 1987; Grant e Cash, 1995; Williamson, 1996), mentre secondo
altri (Hsu e Sobkiewicz, 1991) non tutti i pazienti affetti da DCA presentano una
distorsione dell’immagine corporea e la tendenza a sovrastimare le proprie dimensioni
145
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
fisiche non ne è espressione diretta ma si riscontra anche in molti soggetti sani che, non
soddisfatti del loro peso, vorrebbero essere più magri.
I disturbi dell’immagine corporea possono riguardare la profonda insofferenza per
il grasso corporeo, l’insoddisfazione estrema per il peso, il disgusto verso specifiche parti del corpo o anche un’errata percezione delle dimensioni corporee. A queste percezioni si accompagnano convinzioni circa la necessità di esercitare un severo autocontrollo
su alimentazione e peso. Peso che, nella maggior parte dei casi di Bulimia, risulta nella
norma (BMI compreso tra 20 e 25).
Il peso corporeo è mantenuto dal bilancio energetico tra assunzione e consumo. I
processi fisiologici e metabolici si modificano nel senso di mantenere il peso di un soggetto adulto ad un livello prefissato, costituzionale (teoria del “set point”) con modeste
variazioni a lungo termine determinate da modificazioni di dieta ed esercizio fisico e
variazioni legate all’avanzare dell’età. Infatti si osserva che un cambiamento del peso
corporeo, prodotto sperimentalmente da variazioni della quantità di cibo, sia in senso
di diminuzione (Keys e al. 1950) sia di aumento dell’apporto calorico (Sims, Horton
e al. 1968), è normalmente seguita da un rapido ritorno al peso normale precedente
all’esperimento, con il ripristino della dieta libera.
Il “set point” può essere modificato in particolari condizioni: diete ad alto contenuto di grassi possono aumentarlo mentre l’esercizio fisico può ridurlo.
Per spiegare queste variazioni Keesey (1986) ha notato che il peso corporeo non è
rigorosamente fisso al livello di “set point” ma viene approssimativamente stabilito per
un periodo di tempo di almeno sei mesi.
Il comportamento alimentare può essere diviso in tre momenti (Del Toma,
1991):
1. avvio (“go”), costituito dalla sensazione di fame e dalla ricerca di cibo;
2. fase consumatoria vera e propria;
3. arresto (“stop”), collegato in parte alla sensazione di sazietà.
Numerosi fattori di ordine psicologico, sociale e culturale non metabolici possono
interferire e condizionare ciascuna fase (es. avvio in assenza di fame o sua inibizione per
imposizione dietetica, inibizione dell’arresto per ansia ...).
Il rapporto con il cibo è quindi mediato dalle emozioni ed assume un significato
particolare secondo la storia personale.
9.2 Modelli comportamentali e cognitivi
Nell’eziologia dei Disturbi Alimentari sono stati individuati fattori biologici (vulnerabilità basata su fattori ereditari di tipo neuroendocrino), socio culturali (stereotipo
del corpo magro) e psicologici.
Per quanto riguarda i fattori psicologici, nelle persone che sviluppano una patologia del comportamento alimentare sono riscontrabili alcune caratteristiche ricorrenti: scarsa identità personale, bassa autostima e autoefficacia, senso di inadeguatezza,
146
I Disturbi della condotta alimentare
tendenza al perfezionismo, incapacità di riconoscere le proprie emozioni e le proprie
esigenze, tendenza ad uniformarsi alle pressioni esterne ed a soddisfare i bisogni degli
altri arrivando alla negazione di sé (Di Berardino e altri, 1997).
Rilevati ripetutamente anche tratti quali ossessività, somatizzazione, difficoltà di
adattamento sociale, ansia, locus of control esterno, confusa identità sessuale, tendenza
all’abuso di sostanze e in generale problemi di controllo degli impulsi (Beumont, Gerye
e Smart, 1976; Ordman e Kirschenbaum, 1986; Williamson, 1990).
Bruch (1973) ha descritto lo “schiacciante senso di incapacità” come la condizione
che sta alla base dei Disturbi dell’alimentazione. Questo costrutto è fortemente correlato con la bassa stima di sé o con l’autosvalutazione e l’inadeguatezza.
L’Autrice (1978) ha inoltre rilevato la presenza di modelli perfezionistici che Slade
(1982) ha indicato come condizione critica per l’instaurarsi di una patologia alimentare.
Il modello multidimensionale di Garner (1985) rileva che in queste patologie modalità personali di attribuzione di significato al peso ed alle forme corporee interagiscono con caratteristiche stabili individuali, quali il perfezionismo ed i timori legati
alla propria crescita e maturità psicobiologica, e con contingenze di rinforzo sociale
associate alla dieta ed alla magrezza.
Secondo l’Autore (1997), una volta raggiunto l’obiettivo del dimagrimento i sintomi emotivi e psicologici, secondari alla denutrizione, tendono a perpetuare i pensieri
disfunzionali ed i comportamenti idiosincratici nei confronti del peso.
Fairburn e coll. (1993) enfatizzano le variabili di mantenimento dei Disturbi: bassa autostima, estrema preoccupazione per peso e forme corporee, dieta ferrea, abbuffate
e vomito autoindotto.
Il ruolo della bassa autostima è condiviso dai diversi modelli cognitivo comportamentali, con la considerazione che queste pazienti assumono il peso e le forme corporee
come criteri di riferimento per la valutazione di sé. Analogamente, diverse teorizzazioni
convergono sull’enfatizzazione dei conflitti tra ricerca di autonomia e bisogno di dipendenza, perfezionismo ed evitamento sociale.
I pensieri disfunzionali, per i soggetti che sviluppano un DCA, si legano alle contingenze rinforzanti positive e negative associate al successo o al fallimento nei comportamenti di controllo del peso (Garner e Dalle Grave, 1999).
Crisp (1965, 1997) ha fatto riferimento al principio del rinforzo negativo per spiegare i fattori eziologici dell’Anoressia Nervosa, considerata come una “fobia del peso”
o “fobia del grasso”.
Al riguardo, alcune pazienti definiscono in maniera molto chiara l’esistenza di
un peso che costituisce una soglia ponderale oltre la quale si innesca la reazione di
paura per il possibile ritorno delle mestruazioni e la normalizzazione delle funzioni
ipotalamiche - ipofisarie. Secondo questa teoria, che rileva una risposta fobica alle
richieste esterne di crescere, la perdita del peso rappresenta una regressione ad un’età
prepuberale. Pertanto, seguire una dieta e perdere peso sono comportamenti mantenuti da rinforzi negativi che determinano l’allontanamento dalle forme corporee di
donna adulta.
147
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
9.3 Trattamento
La terapia cognitivo comportamentale si è dimostrata particolarmente efficace nel
trattamento di queste patologie, soprattutto per l’intervento sulle convinzioni disfunzionali che le sostengono: le pazienti con DCA in sostanza non si piacciono ed il controllo del peso e delle forme del corpo è un modo per cercare di piacersi.
Il trattamento mira a favorire il riconoscimento e l’espressione adeguata delle emozioni e ad incrementare le scarse capacità di coping, aiutando la persona ad identificare
le situazioni problematiche ed a generare soluzioni efficaci.
Il progetto complessivo è finalizzato al raggiungimento dell’autonomia, con il miglioramento dell’immagine corporea, l’acquisizione di abilità comunicative per migliorare i rapporti interpersonali ed il più generale incremento dell’autostima.
La terapia di questi Disturbi è spesso orientata all’integrazione tra differenti trattamenti: psicoeducazionale, per fornire le corrette informazioni nutrizionali; comportamentale, per modificare le condotte disfunzionali associate alla patologia; cognitivo,
per intervenire adeguatamente sui pensieri e sulle convinzioni errate che mantengono
il Disturbo; familiare.
Nel trattamento dell’Anoressia il primo obiettivo è la normalizzazione dell’alimentazione, finalizzata all’aumento del peso. Successivamente si interviene sui vissuti
associati all’alimentazione. Nel caso in cui il peso è troppo basso, lo stato di denutrizione causa alterazioni psicologiche che rendono impraticabile un efficace intervento
terapeutico. In particolare, nei casi gravi (con dimagrimento superiore al 25% del peso
corporeo) è necessaria una riabilitazione nutrizionale in ambito ospedaliero.
Nella terapia della Bulimia, il primo intervento affronta la rapida oscillazione ponderale con la registrazione delle abbuffate e dei comportamenti di compenso. Nei casi
più seri, si possono verificare complicanze fisiche (ulcere, aritmie …), squilibri elettrolitici e/o stati di disidratazione che vanno opportunamente trattati.
L’intervento cognitivo nelle terapia dei DCA è rivolto ad affrontare i pensieri associati alla dieta estrema ed alla riduzione cronica del peso e le convinzioni connesse con
sentimenti di inefficacia, conflitti interpersonali, lotta per l’autonomia e paure legate
allo sviluppo psicosociale (Poerio, 1999).
Nell’ottica della terapia cognitiva “post-razionalista”, orientata secondo modelli
strutturalisti - costruttivisti, si propone un intervento articolato su di un duplice livello.
INTERVENTO COGNITIVO STRUTTURALISTA
Organizzazione cognitiva alimentare psicogena
Nel caso di scompenso di una struttura cognitivo emotiva alimentare psicogena, cambiamenti di livello “superficiale” si ottengono aiutando i pazienti a riconoscere le sensazioni
di ansia collegate al desiderio-timore di giudizio, per riuscire poi ad affrontare le situazioni temute con tecniche del tipo Assertive Training e Ristrutturazione di Convinzioni di
Inadeguatezza Personale.
Un progetto di cambiamento a livello profondo, può presumere di modificare gli schemi
148
I Disturbi della condotta alimentare
di base caratterizzati da atteggiamenti intrinseci di non riuscire a focalizzare e definire
chiaramente le proprie sensazioni, decisioni e posizioni. La struttura presente, infatti,
tende sempre ad evitare il rapporto diretto con la realtà ed a dipendere dalla presenza di
persone con le quali non si riesce ad evitare il coinvolgimento emotivo.
149
CAPITOLO 10
Bulimia nervosa
10.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
A. Episodi di ricorrenti abbuffate compulsive. Un’abbuffata compulsiva è caratterizzata
dai due caratteri seguenti (entrambi necessari):
1. mangiare in un definito periodo di tempo (ad es. nell’arco di due ore) una quantità di cibo indiscutibilmente maggiore di quella che la maggior parte delle persone
mangerebbe nello stesso tempo ed in circostanze simili.
2. sensazione di mancanza di controllo sull’atto del mangiare durante l’episodio
(ad es. sentire di non poter smettere di mangiare o di non poter controllare cosa e
quanto si sta mangiando).
B. Ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o
esercizio fisico eccessivo.
C. Le abbuffate e le condotte compensatorie si verificano in media almeno due volte
alla settimana, per tre mesi.
D. La valutazione di sé è inappropriatamente influenzata dalle forme e dal peso corporei.
E. Il Disturbo non si riscontra esclusivamente nel corso di episodi di Anoressia Nervosa.
Specificare il sottotipo.
Con condotte di eliminazione: nell’episodio attuale di Bulimia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi o diuretici.
Senza condotte di eliminazione: nell’episodio attuale il soggetto ha utilizzato regolarmente
altri comportamenti compensatori inappropriati, quali il digiuno o l’esercizio fisico eccessivo, ma non si dedica regolarmente al vomito autoindotto o all’uso inappropriato di
lassativi o diuretici.
151
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
La Bulimia viene indicata come entità nosografica autonoma dal 1979, anno di
pubblicazione di un articolo dello psichiatra Russel che ne individua caratteristiche
peculiari, differenziandola dall’Anoressia.
L’esordio del Disturbo è spesso associato ad una dieta finalizzata a perdere peso, in
altri casi vi è una storia di perdita o separazione. Molte pazienti presentano una condizione di pregresso sovrappeso rispetto ai coetanei (Fairburn, 1996). Indipendentemente dall’origine, la condotta bulimica sembra assumere nel tempo un’esistenza autonoma
divenendo uno stile abituale che può arrivare a sovvertire completamente le normali
abitudini alimentari, con l’eliminazione dei pasti regolari sostituiti da abbuffate alternate a periodi di digiuno o di rigide restrizioni (Cassano e al., 1999).
Per fare diagnosi di Bulimia è necessaria la presenza di perdita di controllo, in caso
contrario si tratta di “iperfagia”. La perdita di controllo può portare a sperimentare un
vissuto di estraneità, soprattutto nelle fasi iniziali di insorgenza della patologia, quasi
un’esperienza di derealizzazione. L’ingestione rapida di grandi quantità di cibo di solito
ha termine quando il soggetto avverte un senso di pienezza estrema, anche accompagnato da dolore gastrico, o per l’esaurimento delle scorte. Nel caso in cui l’abbuffata
sia stata interrotta può riprendere in un secondo momento come una continuazione
dal punto dell’interruzione stessa: Fairburn (1996) osserva come chi si abbuffa sembra
trovarsi in una condizione di pausa, in “stand-by”.
Le persone affette da questo Disturbo provano vergogna per le loro abitudini alimentari e tentano di nasconderle: le abbuffate avvengono in solitudine e sono seguite
da umore depresso, ansia e colpa.
Caratteristiche delle abbuffate
L’abbuffata che caratterizza la Bulimia Nervosa è detta “oggettiva”, poiché la quantità di cibo assunta è oggettivamente elevata, e si differenzia dalla percezione “soggettiva” di essersi abbuffata che non ha riscontro nella realtà.
Generalmente durante le abbuffate vengono assunti cibi non consumati nelle fasi
di restrizione dell’alimentazione, perché considerati troppo calorici. La preferenza va
ad alimenti ricchi di carboidrati o grassi e che non richiedano particolare preparazione
(dolci, gelati, cioccolata, pane, biscotti, formaggio).
Caratteristica comune delle abbuffate è l’elevata velocità nell’assunzione del cibo.
Durante l’attacco bulimico la persona è agitata ed irrequieta, con un vissuto di totale
mancanza di controllo sul comportamento che la porta a procurarsi il cibo in qualsiasi
modo, anche ripescandolo tra i rifiuti.
10.2Modelli comportamentali e cognitivi
La paziente bulimica è caratterizzata da un basso livello di autostima che viene
fortemente condizionato dalle forme e dal peso corporeo (Vanderlinden, Norré, Vandereycken, 1995). Di conseguenza ella ne enfatizza l’importanza e li utilizza come cri152
I Disturbi della condotta alimentare
terio per la valutazione di sé, in quanto peso e forme del corpo sono più controllabili
di altri aspetti esistenziali e, se gestiti adeguatamente, ricevono anche rinforzi sociali
(enfatizzazione della magrezza).
Il tentativo di regolare il peso a livelli sempre più bassi espone al rischio crescente
di andare incontro alle abbuffate, che vengono seguite da comportamenti alimentari
sempre più restrittivi e da condotte compensatorie o di eliminazione per controllare il
peso. Questi comportamenti portano ad un’alterazione dei meccanismi che regolano la
fame e la sazietà: chi è a dieta da un lato percepisce la forte pressione biologica ad alimentarsi ma dall’altro non percepisce più il senso di sazietà, con conseguente abbandono all’abbuffata. Non si tratta pertanto di diete dimagranti equilibrate e bilanciate ma
di regole ferree autoimposte che prevedono rigidamente quando, cosa e quanto mangiare. L’applicazione di questa rigida schematizzazione alimentare è sostenuta da due
caratteristiche cognitive che si riscontrano nella paziente bulimica: il perfezionismo ed
il pensiero dicotomico. La prima spinge la persona a porsi standard qualitativi elevati
in molti aspetti della propria vita, inclusa l’immagine corporea e la dieta. Il pensiero
dicotomico interviene nel mantenere rigidamente distinti da una parte il controllo
totale sulle forme corporee e sulla dieta e dall’altra il completo fallimento nel caso di
minime variazioni degli obiettivi prefissati: “ho mangiato un cibo che non avrei dovuto
assumere, ho fallito, tanto vale che mi abbuffi”.
L’abbuffata ha anche una funzione di attenuazione delle emozioni negative (ansia,
depressione, rabbia …) e può produrre alcuni effetti positivi che Fairburn (1997a)
identifica nei seguenti:
- stato di allentamento della tensione che può accompagnare l’avvio dell’abbuffata,
come abbandono della rigida imposizione dietetica;
- connotazioni positive associate a certi cibi;
- stato di sonnolenza (o torpore) che può seguire l’assunzione di grandi quantità di
carboidrati;
- stato di allentamento della tensione e dell’ansia che segue l’eliminazione del cibo,
ingerito con l’abbuffata, attraverso il vomito.
Si tratta però di effetti di breve durata, presto sostituiti da emozioni negative (colpa, disgusto, paura…).
Un’ulteriore teorizzazione della Bulimia fa riferimento ad un modello di dipendenza dal cibo, definito “Addiction Model”. Secondo questa teoria, il Disturbo è manifestazione di una generica predisposizione all’abuso di sostanze ed alla conseguente
dipendenza. In alcuni casi sono presenti familiarità con tali condizioni o con alcolismo. Inoltre, si riscontrano similitudini sul piano sintomatologico e comportamentale
tra Bulimia e tossicodipendenza: continua preoccupazione e ricerca della sostanza (alcol, cibo, stupefacenti), perdita di controllo sulla sua assunzione, segretezza che spesso
caratterizza queste condotte, isolamento sociale e compromissione funzionale che ne
conseguono (Cassano, 1990).
153
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
10.3Trattamento
Un modello di terapia applicata con successo nel trattamento della Bulimia è quello proposto da Fairburn e coll. (1993) che prevede un intervento articolato secondo tre
strategie principali.
Fase 1: normalizzazione del comportamento alimentare.
Automonitoraggio dei cibi consumati, degli episodi di abbuffata, delle condotte di
eliminazione e dei pensieri e delle emozioni che li accompagnano. Controllo del
peso regolamentato. Pianificazione dei pasti ed assunzione dei cibi evitati. Eliminazione della restrizione alimentare.
In questa fase risulta determinante l’intervento educativo con informazioni corrette sul peso corporeo, sulle conseguenze fisiche della dieta restrittiva, del vomito
autoindotto e dell’uso improprio di lassativi e diuretici.
Vengono impiegate tecniche di:
- Controllo dello Stimolo, per favorire la regolazione dell’alimentazione attraverso l’identificazione delle sollecitazioni ambientali associate agli eccessi alimentari;
- Comportamenti Alternativi, da sostituire all’alimentazione in tutte le situazioni a rischio di perdita di controllo;
- Esposizione Graduale, per eliminare la restrizione alimentare, che prevede la
progressiva graduale introduzione dei cibi fino ad allora evitati;
- Problem Solving, che consente la gestione funzionale dei problemi individuati
dalla paziente come collegati con le crisi bulimiche.
l
Fase 2: riduzione dell’importanza del peso e delle forme corporee come criterio per
determinare il valore di sé, attraverso un intervento cognitivo volto all’identificazione e modificazione dei pensieri disfunzionali associati.
l
Fase 3: modificazione delle distorsioni logiche di perfezionismo, di pensiero dicotomico e di autosvalutazione e Ristrutturazione Cognitiva delle convinzioni determinanti nello sviluppo e nel mantenimento della patologia.
l
In questa fase viene dato particolarmente incremento al mantenimento del cambiamento ed alla prevenzione delle ricadute. Fondamentale in questa prospettiva è la
valutazione delle aspettative della paziente che devono essere il più possibile realistiche.
Infatti, credere che non si verificheranno più abbuffate non è realistico ma piuttosto
l’evento va considerato come un “lapse” (scivolata) da prevedere e da saper gestire, tenendolo distinto dal “relapse” che rappresenta invece la ricaduta.
Si tratta di un trattamento articolato in una ventina di sedute con cadenza settimanale, nel quale risulta fondamentale l’ordine di applicazione delle tecniche che
sono state strutturate in modo da essere costruite una sull’altra, mentre possono subire
variazioni i loro tempi di introduzione (Fairburn, Wilson, 1993).
La Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) per la Bulimia Nervosa (CBTBN) è stata recentemente indicata dalle National Clinical Practice Guidelines inglesi
come il trattamento di prima scelta da offrire agli adulti affetti da questa patologia (Na154
I Disturbi della condotta alimentare
tional Institute of Clinical Excellence, 2004). La CBT BN, nonostante sia attualmente
considerato il trattamento più efficace, presenta alcuni limiti:
1) ha un’efficacia ridotta (solo il 40-50% dei pazienti che completano il trattamento
raggiunge remissione completa e prolungata);
2) è applicabile solo alla bulimia nervosa e non all’anoressia nervosa e ai disturbi dell’alimentazione atipici;
3) non prende in considerazione la presenza di meccanismi psicopatologici aggiuntivi
che in un sottogruppo di pazienti sembrano contribuire al mantenimento del disturbo;
4) è applicabile solo a pazienti di età superiore ai 16 anni.
Fairburn e colleghi (2003) per far fronte alle difficoltà della CBT-BN hanno recentemente proposto una nuova CBT transdiagnostica dei Disturbi dell’Alimentazione,
chiamata CBT Enhanced (CBT-E), che può essere applicabile non solo alla Bulimia
ma anche all’Anoressia e soprattutto ai Disturbi dell’Alimentazione atipici.
La CBT-E si caratterizza perché prende in esame fattori di mantenimento specifici
e fattori di mantenimento aggiuntivi o non specifici presenti in un sottogruppo di
pazienti, elementi che non erano stati precedentemente considerati dalla CBT-BN.
Il trattamento è stato ideato per un livello di cura ambulatoriale e per pazienti di età
superiore ai 16 anni e con BMI > 16 kg/m2.
La CBT-E è un grande passo in avanti nel trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione per tre motivi principali:
1) si basa su una teoria che espande quella della bulimia nervosa affrontando in modo
chiaro e preciso alcuni fattori di mantenimento aggiuntivi non precedentemente
considerati come il perfezionismo clinico, la bassa autostima nucleare, l’intolleranza
alle emozioni ed i problemi interepersonali;
2) pur allargandosi ad affrontare fattori di mantenimento non specifici dei disturbi
dell’alimentazione mantiene una struttura focalizzata e precisa solo sui processi di
mantenimento rilevanti per il paziente attraverso la costruzione della formulazione
personalizzata del caso;
3) è concepita per curare non solo la bulimia nervosa e l’anoressia nervosa ma anche i
disturbi dell’alimentazione atipici che costituiscono più del 50% dei casi di pazienti
che richiedono un trattamento specialistico.
Nonostante questi progressi, il campo di applicazione della CBT-E è ancora limitato ad un sottogruppo di pazienti che hanno più di 16 anni, un BMI > 16 kg/m2 e
che possono portare avanti una cura ambulatoriale.
Poiché la CBT-E non fornisce alcuna soluzione ai pazienti che falliscono il trattamento ambulatoriale, è stata sperimentata un’estensione della CBT-E per renderla applicabile veramente a “tutti” i pazienti (di qualsiasi età e BMI) e ad ogni livello di cura
(terapia ambulatoriale, terapia ambulatoriale intensiva, day-hospital e ricovero).
155
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
II nuovo trattamento chiamato CBT-MS (Multi Steps), pur basandosi sulla nuova
teoria transdiagnostica di Fairburn e colleghi (2003), presenta numerose caratteristiche
distintive rispetto alla CBT-E.
Caratteristiche distintive della CBT-MS
1. Approccio multi-step
La CBT-MS prevede cinque passi di cura: 1) ambulatoriale; 2) ambulatoriale intensiva;
3) day-hospital; 4) ricovero; 5) terapia ambulatoriale post-ricovero. L’intervento inizia
sempre, salvo le eccezioni di pazienti con grave instabilità medica, con la terapia ambulatoriale e poi, se dopo tre mesi non si verificano miglioramenti (o prima se le condizioni
mediche diventano instabili) il paziente passa alla terapia ambulatoriale intensiva (passo
2). Se il paziente non risponde al passo 2 (perchè ad esempio non riesce a gestire i pasti
durante il week-end a casa) è proposto un trattamento residenziale che può essere il dayhospital (in genere nei pazienti maggiorenni e in condizioni mediche stabili) oppure il
ricovero (in genere nei pazienti minorenni o in condizioni mediche instabili). Il passo
successivo al trattamento residenziale (day-hospital o ricovero) è la CBT-MS ambulatoriale post-ricovero (passo 5). Se durante il passo 5 si verifica una ricaduta il paziente è
ricollocato per un breve periodo al passo 2 o se questo intervento non è sufficiente ai passi
3 o 4. Caratteristica peculiare e unica della CBT-MS è l’applicazione ad ogni livello di cura
della medesima teoria di riferimento e delle stesse procedure terapeutiche. Ciò significa che
a tutti livelli di cura si usano i medesimi principi e identiche strategie d’intervento, con
un’ovvia maggiore intensificazione degli interventi con il progredire del livello di cura del
trattamento.
2. Èquipe multidisciplinare non eclettica
La CBT-MS adotta un innovativo approccio che si può definire “multidisciplinare non
eclettico”che è potenzialmente in grado di superare sia i problemi dell’approccio basato su singolo terapeuta sia quello basato su più terapeuti (multidisciplinare eclettico).
L’approccio prevede a livello ambulatoriale un’équipe composta da medico, psicologo
e dietista con l’aggiunta della figura dell’infermiere professionale nel day-hospital e
ricovero. La caratteristica distintiva di questo nuovo approccio è che tutti i terapeuti dell’équipe aderiscono alla medesima teoria, usano lo stesso linguaggio e mirano
ad obiettivi terapeutici comuni. In questo modo è possibile mantenere la fedeltà alla
teoria e alla CBT-MS e nello stesso tempo avere i vantaggi di un approccio multidisciplinare.
3. Nessun limite di età
La CBT-E è indicata solo per pazienti adulti. La CBT-MS, per superare questo limite
introduce un modulo aggiuntivo di terapia cognitivo comportamentale familiare per i
pazienti che hanno meno di 18 anni di età. Il modulo di terapia familiare prevede 10
sedute con i genitori e la paziente ed è organizzato in 4 passi:
•
•
•
•
156
Passo 1. Educare i genitori sulla teoria cognitivo comportamentale e il trattamento dei
disturbi dell’alimentazione.
Passo 2. Affrontare i pasti familiari.
Passo 3. Ridurre l’emotività espressa e migliorare la comunicazione.
Passo 4: Affrontare le problematiche dell’adolescenza.
I Disturbi della condotta alimentare
4. Inclusione di pazienti con disturbi dell’alimentazione di quasi tutti i livelli di
severità clinica
Una delle più importanti caratteristiche distintive della CBT-MS è la possibilità di includere nel trattamento pazienti di quasi tutti i livelli di severità clinica. I pochi pazienti
esclusi sono quelli che richiedono un ricovero urgente in un reparto per acuti.
5. Diario della pianificazione e alimentazione meccanica
Una differenza fondamentale tra CBT-E e CBT-MS è la strategia adottata per affrontare
la restrizione alimentare e il recupero eventuale di peso (nei soggetti sottopeso).
La CBT-E consiglia ai pazienti di tenere un diario alimentare e di erodere la restrizione
dietetica gradualmente regolarizzando la frequenza, la quantità e la qualità dell’alimentazione assunta.
La CBT-MS incoraggia i pazienti a pianificare i pasti e a mangiare meccanicamente. Nella
CBT-MS è fornito un razionale chiaro per adottare la pianificazione dei pasti. I pazienti
sono incoraggiati a pianificare in anticipo la quantità, la qualità (con un contenuto di
grassi dietetici del 30% e l’inclusione di cibi che il paziente considera fobici) e la frequenza dei pasti (ogni 4-5 ore).
Il contenuto calorico è determinato dallo stato del disturbo dell’alimentazione: nei pazienti sottopeso per produrre un bilancio energetico positivo tale da permettere un aumento
compreso tra 0,5 - 1 kg la settimana (tra 1 e 1,5 kg la settimana nei pazienti ricoverati e
in day-hospital), nei soggetti normopeso per produrre un bilancio energetico in pareggio
e così mantenere il peso in un range di 3 kg.
Un intervento più specificamente indirizzato a ridurre la preoccupazione eccessiva
per il peso e le forme corporee è quello proposto da Wilson (1999). Si tratta di una
tecnica di Esposizione allo Specchio che si rifà al modello sviluppato da Teasdale (1999)
nella “Mindfulness – Based Cognitive Therapy (MBCT)”. La procedura elaborata da
Wilson prevede che la paziente stia in piedi davanti ad uno speciale specchio e descriva
in maniera oggettiva il proprio corpo senza giudizi o autocritiche, inizialmente indossando i suoi vestiti abituali e progressivamente cambiando indumenti fino ad osservarsi
in costume da bagno. Durante l’esposizione, la paziente è aiutata dal terapeuta ad adottare il medesimo atteggiamento di “mindfulness” previsto da Teasdale nella MBCT:
si tratta di favorire un’attenzione passiva al proprio corpo ed alla propria mente che
consenta di raggiungere la piena e neutra consapevolezza delle sensazioni fisiche, dei
pensieri e delle emozioni sperimentati nel momento attuale. I risultati dell’Esposizione
allo Specchio sono sostenuti e rafforzati da prescrizioni comportamentali che prevedono
l’ascolto delle registrazioni delle sedute e l’astensione dall’adozione di condotte di mascheramento delle forme fisiche, come indossare vestiti larghi, e di eccessivo controllo
del proprio corpo (body checking) (Wilson, 1999; Cappellari, Dalle Grave, 2001).
MINDFULNESS
Teasdale et al. (1995) descrivono nel modo seguente il “mindfulness”: “L’essenza di questo
stato è quella di ‘essere’ pienamente nel momento presente, senza giudicarlo o valutarlo, senza
guardare indietro alle memorie passate, senza guardare avanti per anticipare il futuro, come
accade nello stato ansioso, e senza cercare di ‘risolvere il problema’ o altrimenti evitare qualsiasi
aspetto della situazione immediata. In questo stato, uno è altamente consapevole e focalizzato
157
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
sulla realtà del momento presente ‘così come è’, accettandolo e riconoscendolo nella sua piena
‘realtà’ senza ingaggiare immediatamente pensieri discorsivi su di esso, senza cercare di lavorare per modificarlo e senza essere trasportato in pensieri diffusi e focalizzati in qualche altro
luogo o in qualche altro tempo. La caratteristica centrale dello stato di ‘mindfulness’ sembra
essere un’accentuata consapevolezza di essere nel qui ed ora, piuttosto che operare con le modalità ‘mindless’ di un pilota automatico, in cui uno automaticamente reagisce piuttosto che
rispondere in modo conscio e ‘mindfully’. Lo stato ‘mindful’ è anche associato ad una scarsa
processazione dei pensieri riguardanti l’esperienza della situazione corrente, le sue implicazioni, gli ulteriori significati, o le necessità per le azioni collegate ma non immediate. Piuttosto, il ‘mindfulness’ coinvolge l’esperienza diretta ed immediata della situazione presente”.
Lo stato “mindfulness” sembrerebbe affinare la capacità sia di riconoscere sia di evitare
quelle forme di rimuginazioni mentali disfunzionali più sopra citate. Si tratta in ultima
analisi di favorire modalità di risposta più funzionali agli stimoli disturbanti in uno stato
di rilassamento, senza incorrere in circoli viziosi che perpetuano il disturbo emotivo,
dapprima durante le sedute terapeutiche e poi nella realtà quotidiana. Questo duplice
intervento, sia a livello proposizionale sia a livello implicazionale, costituisce la base della
Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), una forma di terapia innovativa che è stata
applicata nella prevenzione delle ricadute per pazienti in remissione dalla Depressione e
che ha fornito risultati decisamente incoraggianti.
ESPOSIZIONE ALLO SPECCHIO PER RIDURRE LA PREOCCUPAZIONE
PER IL PESO E LE FORME CORPOREE
In sintonia con le considerazioni appena sopra esposte, circa la tecnica del Mindfulness, e
con i risultati limitati ottenuti dalla CBT nella riduzione della preoccupazione per il peso
e le forme corporee in pazienti affetti da Disturbi dell’Alimentazione, Wilson (1999) ha
elaborato una tecnica di Esposizione allo Specchio che utilizza le procedure della MBCT.
Egli, ipotizzando che la preoccupazione disfunzionale per il peso e le forme corporee
si ponga a quel livello di significato schematico\emozionale definito da Teasdale come
implicazionale, sostiene che la Ristrutturazione Cognitiva, e quindi la disputa razionale
sui significati attribuiti dalla paziente alla propria immagine corporea, possa rivelarsi non
sempre sufficiente per una riduzione duratura delle preoccupazioni corporee disfunzionali. La tecnica da lui elaborata prevede che la paziente stia in piedi di fronte ad uno specchio (alto 183 cm con due ali di 61 cm) e che descriva in modo sistematico il suo corpo
senza essere “giudicante” (vedi sotto). La procedura prevede sette sedute:
-
-
nella Seduta 1, la paziente indossa i propri vestiti abituali ed in quelle successive
è incoraggiata ad indossare vestiti che progressivamente rivelino il suo corpo, ad
esempio più aderenti, più corti, fino ad arrivare a vestire solo il costume da bagno.
La velocità con cui avviene questa progressione dipende dalla paziente;
nelle Sedute 4-7, la paziente è incoraggiata a consumare dei “cibi proibiti” un po’
prima di esporsi e a guardare, per alcuni minuti, foto di giornali di modelle magre.
Durante l’esposizione la paziente è aiutata dal terapeuta ad adottare il medesimo atteggiamento di “mindfulness” previsto da Teasdale nel suo MBCT per i pazienti in remissione
dalla Depressione. Si tratta quindi di favorire un’attenzione passiva al proprio corpo e alla
158
I Disturbi della condotta alimentare
mente che permetta di raggiungere una piena, naturale e soprattutto neutra consapevolezza delle sensazioni corporee, dei pensieri e delle emozioni che la paziente esperisce nel momento attuale senza distrarsi in valutazioni e ragionamenti su quanto le sta accadendo. Per
favorire un atteggiamento descrittivo, non giudicante e non autocritico, la paziente è continuamente aiutata a dare ad alta voce una descrizione oggettiva del proprio corpo in modo
olistico, considerando quindi i dettagli di ogni sua parte e senza focalizzarsi su alcuni punti in particolare. L’essenza è quindi quella di “ascoltare” ed accettare tutto quello che esperisce nel momento presente (qui ed ora) senza “togliere od aggiungere” nulla, senza impegnarsi in ragionamenti discorsivi (rimuginazioni) su quello che dovrebbe o non dovrebbe
essere o sul passato e sul futuro, lasciando “entrare ed uscire” da sé ogni pensiero, sensazione ed emozione, senza provare a modificare quello che le sta accadendo (Wilson, 1999).
Tale atteggiamento favorisce una reazione più funzionale a quegli stimoli, i punti “caldi” del proprio corpo, che elicitano gli schemi e le preoccupazioni disfunzionali, senza
incorrere ulteriormente in spirali autoriverberantesi di pensieri e sensazioni fisiche che
perpetuano le preoccupazioni e quindi le emozioni disfunzionali. Grazie a questo atteggiamento la paziente sentirà arrivare, crescere e poi decrescere le emozioni negative,
come la metafora del “surf che cavalca l’onda”, ma con la ripetizione sistematica delle
esposizioni, le “ondate” appariranno sempre meno disturbanti e gli stimoli, che prima elicitavano le preoccupazioni disfunzionali, perderanno sempre più il loro potere patogeno.
Gli effetti delle esposizioni allo specchio sono poi rinforzati da compiti a casa comportamentali, nei quali la paziente dovrà riascoltare l’audiocassetta della registrazione della seduta con incise le proprie descrizioni ed astenersi da comportamenti disfunzionali, come
ad esempio indossare vestiti larghi (evitamento) oppure effettuare un eccessivo controllo
del proprio corpo (body checking) (Wilson, 1999).
10.4 Casi clinici
Il caso di Selina - “La crisi arriva quando c’è un vuoto”
Diagnosi: Bulimia Nervosa.
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie ed Eating Disorder
Inventory-2 (EDI-2).
Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto elevata. Paure legate al giudizio ed al
rifiuto sociale, alla possibilità di sbagliare e di fare brutta figura.
Dall’EDI-2: elevati punteggi alle scale di bulimia, impulso alla magrezza, insoddisfazione corporea, inadeguatezza e perfezionismo.
Selina ha 37 anni ed ha un problema di abbuffate quotidiane con vomito autoindotto (BMI = 21).
Storia del caso
Laureata in Scienze Economiche, svolge la libera professione. Sposata da poco, è
orfana di padre ed ha una madre con trascorsi di problemi psichiatrici e di alcolismo.
159
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Selina soffre di Disturbi del Comportamento Alimentare dall’età di diciotto anni
quando, a seguito della morte del padre, ha iniziato a limitare drasticamente l’alimentazione fino a giungere ad un BMI = 16. Dopo qualche anno sono cominciate le abbuffate con il ricorso sistematico al vomito.
Riferisce che la madre “era sempre a dieta” e controllava anche la sua alimentazione per il timore che potesse ingrassare: “Da piccola mi diceva di mangiare ma di non
esagerare, di stare attenta a non ingrassare … sentivo che se fossi ingrassata non mi
avrebbe più amato”.
Concettualizzazione e trattamento
Selina descrive così la dinamica dell’abbuffata: “La crisi arriva quando c’è un vuoto, una pausa tra le tante cose che ho da fare, e il pensiero va sul cibo. Non c’entra la
fame, mi succede anche se ho mangiato da poco”.
Dal Diario Alimentare.
Situazione
Pensiero
Comportamento
Da sola alla fine di una giornata Quante cose ho ancora da fare! Abbuffata
di lavoro
Non ce la faccio a finire tutto.
Vomito
Gli obiettivi terapeutici hanno previsto un iniziale Intervento Psicoeducativo sulla
Bulimia (abbuffate, peso, alimentazione) che si è avvalso anche della Biblioterapia.
Per la gestione delle situazioni a rischio di abbuffata, la paziente ha individuato le
attività alternative che avrebbe potuto più piacevolmente svolgere:
•
•
•
•
fare una telefonata
andare in palestra
uscire a fare qualche acquisto
pianificare un’attività da svolgere.
Il successivo obiettivo si è focalizzato sull’apprendimento di abilità di gestione di
situazioni problematiche con la tecnica del Problem Solving. Ciò in quanto la paziente
aveva riconosciuto tra i fattori scatenanti di una crisi bulimica “prendere una decisione,
un problema da risolvere … e non so come fare”.
Con la Ristrutturazione Cognitiva si è intervenuti su pensieri ed assunzioni disfunzionali verso il peso e le forme del corpo.
- “La magrezza è segno di autocontrollo”.
- “Il grasso è segno di pigrizia, sregolatezza, mancanza di disciplina e cura per se
stessi”.
- “Essere grassi vuol dire essere trascurati e incapaci”.
- “Solo le persone magre sono ammirate ed apprezzate e io voglio essere ammirata”.
Selina aveva associato fin dall’infanzia la propria amabilità all’essere magra, inizialmente per soddisfare le richieste della madre. Lavorando sulla costruzione di un
160
I Disturbi della condotta alimentare
diverso concetto di sé, basato sulla conoscenza reale di se stessa e sull’autoaccetazione
incondizionata, ha potuto sviluppare un’autostima svincolata da parametri di fisicità e
di immagine del corpo.
Per facilitare il cambiamento cognitivo è stata impiegata anche la tecnica di Esposizione allo Specchio dove la paziente doveva osservare il proprio corpo e descriverlo
senza giudizi o critiche ma limitandosi ad esprimere osservazioni possibilmente neutre
ed oggettive. A conclusione della procedura, Selina si è espressa in questi termini: “Ho
imparato a conoscere davvero tutto il mio corpo, che prima credevo di conoscere bene.
Vedo i difetti ma li riconosco come parte di un bel corpo che mi piace ed al quale mi
sto proprio affezionando”.
Nella programmazione della Prevenzione delle Ricadute, la paziente ha elaborato
un piano di mantenimento che, in caso di rischio di ricaduta, prevedeva le seguenti
strategie.
Piano di mantenimento
Nel caso sentirò di rischiare una ricaduta metterò in atto queste strategie
1. Cerco di prendere tempo per riconoscere la situazione che mi crea il problema.
2. Compilo il Diario Alimentare scrivendo emozioni e pensieri.
3. Faccio un programma per i giorni successivi, evitando situazioni sia di vuoto sia di
eccesso di impegni.
4. Metto in atto una delle attività alternative per evitare di perdere il controllo.
5. Faccio il Problem Solving se ho qualche situazione da risolvere.
6. Parlo a qualcuno del mio problema, condividere mi aiuta.
7. Mi pongo obiettivi limitati e realistici. Se sbaglio lo considero un errore e non un
fallimento.
8. Prendo nota dei miei progressi, anche minimi.
Dopo un anno e mezzo di terapia i cicli abbuffata/vomito si sono ridotti ad una
frequenza mensile e l’alimentazione si è normalizzata pur con la possibilità che Selina
potesse concedersi qualche “sgarro” senza sentirsi in colpa: “Adesso non ho più il pensiero fisso che quello che mangio si trasforma tutto in ciccia … mangio senza ansia”.
Il caso di Kori - “Sono troppo grassa”
Diagnosi: Bulimia Nervosa.
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie ed Eating Disorder
Inventory–2 (EDI–2).
Dal CBA: si rileva scarsa stabilità emozionale con elevato rischio di sviluppare
disturbi in condizioni di stress. Tono dell’umore piuttosto basso.
Dall’EDI-2: elevati punteggi alle scale dell’impulso alla magrezza, bulimia, insoddisfazione per il corpo, sfiducia interpersonale e controllo degli impulsi.
161
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Kori ha 38 anni ed ha un problema di Bulimia caratterizzato da abbuffate tre volte
alla settimana, la pratica di un’attività fisica molto intensa, una forte paura di ingrassare ed un basso tono dell’umore. Alta 1,70 cm, pesa 60 Kg (BMI = 20) ma vorrebbe
perderne dieci e controlla il proprio peso anche più volte al giorno.
Storia del caso
Kori è docente ordinario di chimica, è single e vive da sola. Descrive i rapporti
con la famiglia come difficili, con una madre molto ansiosa ed apprensiva ed un padre
autoritario e poco affettuoso.
Riconduce l’origine del suo problema all’adolescenza quando, intorno ai quindici
anni, ha iniziato a saltare i pasti per dimagrire arrivando a perdere dieci chili in poco
tempo. In un paio di anni li ha però recuperati e, digiunando a pranzo, arrivava ad
abbuffarsi la sera perdendo il controllo sul cibo. Questa condotta la porta ad acquistare
altri chili e da allora decide di sottoporsi a diete molto restrittive, intervallate da abbuffate, con la contemporanea pratica di un’attività molto intensa.
Concettualizzazione e trattamento
Kori si sottoponeva ad una dieta ipocalorica e sbilanciata che ha richiesto una regolarizzazione dell’alimentazione che la donna ha accettato di mettere in pratica dopo
un Intervento Psicoeducativo. Con questa tecnica la paziente ha acquisito le necessarie
informazioni sul peso e sugli effetti negativi delle restrizioni alimentari, sulle conseguenze fisiche delle abbuffate e dei meccanismi di compenso.
Attraverso la compilazione del Diario Alimentare, Kori ha appreso a riconoscere
le emozioni che, con i pensieri ed i comportamenti, mantenevano il Disturbo ed ha
raggiunto l’obiettivo di una significativa riduzione nella frequenza delle abbuffate.
In tal modo, unitamente ad un’alimentazione più bilanciata e senza restrizioni
squilibrate, ha potuto perdere alcuni chili con soddisfazione, rinforzando positivamente i progressi raggiunti.
La paziente ha monitorato i propri pensieri negativi verso il peso e le forme del
corpo, arrivando a riformularli in maniera più realistica e funzionale attraverso una
Ristrutturazione Cognitiva.
In un intervento di Prevenzione delle Ricadute è stata affrontata l’aspettativa irrealistica di non incorrere mai più in un’abbuffata dal momento che il problema si ritiene
superato. Tale convinzione espone al rischio che, di fronte ad un nuovo episodio non
previsto, la paziente possa interpretarlo come ricaduta con tutte le conseguenze emotive e comportamentali che potrebbe mettere in atto. Pertanto Kori ha potuto modificare
questa errata valutazione di quella che ha imparato a considerare come una probabile
ed accettabile episodica “scivolata”.
Al termine della terapia durata dodici mesi, la paziente non presentava più episodi
di abbuffate con un peso di 55 Kg del quale si riteneva soddisfatta. Anche il vissuto
dell’immagine del proprio corpo era decisamente migliorato e l’esercizio fisico che praticava, con una frequenza bisettimanale, era finalizzato non più soltanto al consumo
calorico ma anche al suo benessere generale.
162
CAPITOLO 11
Disturbo da alimentazione incontrollata
11.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
A. Episodi ricorrenti di alimentazione incontrollata. Un episodio di alimentazione incontrollata si caratterizza per la presenza di entrambi i seguenti elementi:
1. mangiare, in un periodo definito di tempo (per es., entro un periodo di due
ore), un quantitativo di cibo chiaramente più abbondante di quello che la maggior parte delle persone mangerebbe in un periodo simile di tempo e in circostanze simili;
2. sensazione di perdita di controllo nel mangiare durante l’episodio (per es., la
sensazione di non riuscire a fermarsi oppure a controllare che cosa e quanto si
sta mangiando).
B. Gli episodi di alimentazione incontrollata sono associati con tre (o più) dei seguenti
sintomi:
- mangiare molto più rapidamente del normale;
- mangiare fino a sentirsi spiacevolmente pieni;
- mangiare grandi quantità di cibo anche se non ci si sente fisicamente affamati;
- mangiare da soli a causa dell’ imbarazzo per quanto si sta mangiando;
- sentirsi disgustato verso se stesso, depresso, o molto in colpa dopo le abbuffate.
C. È presente marcato disagio a riguardo del mangiare incontrollato.
D. Il comportamento alimentare incontrollato si manifesta, mediamente, almeno per
due giorni alla settimana per un periodo di 6 mesi.
E. L’ alimentazione incontrollata non risulta associata con l’ utilizzazione sistematica di
comportamenti compensatori inappropriati (per es., uso di purganti, digiuno, eccessivo esercizio fisico), e non si verifica esclusivamente in corso di Anoressia Nervosa o
di Bulimia Nervosa.
Il Binge Eating è classificato come un Disturbo dell’Alimentazione Non Altrimenti Specificato (NAS).
163
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Nell’accertamento di questa patologia è necessaria una diagnosi differenziale con
i Disturbi:
- Bulimia Nervosa, nella quale il soggetto ricorre a meccanismi compensatori inappropriati per controbilanciare le conseguenze delle abbuffate.
La sottotipizzazione operata dal DSM-IV in Bulimia Nervosa con o senza condotte di eliminazione e la categorizzazione del Binge Eating (BED) hanno suscitato
perplessità, facendo ipotizzare che in realtà i due quadri possano riferirsi al medesimo Disturbo con diverse manifestazioni relative al peso riconducibili a fattori
differenti, come ad esempio cause genetiche o metaboliche (Cassano e coll. in
“Trattato italiano di Psichiatria”, 1999). Altri orientamenti scientifici confermano
il BED come categoria diagnostica autonoma, differenziandola significativamente
dalla Bulimia e non ritenendola una variante comportamentale dell’obesità (Spitzer e al., 1992, 1993; Gladis e al., 1998).
- Disturbo Depressivo Maggiore, in cui frequentemente si può riscontrare iperalimentazione nel corso degli episodi depressivi ma che solitamente non comporta la
presenza di abbuffate. La diagnosi supplementare di Disturbo da Alimentazione
Incontrollata può essere presa in considerazione solo se il soggetto riferisce che,
nel corso di episodi di iperalimentazione, sono presenti sia il senso soggettivo di
perdita di controllo sia tre dei sintomi associati elencati nel criterio B.
Il comportamento caratteristico dei soggetti che presentano un Disturbo da Alimentazione Incontrollata è costituito, come nella Bulimia Nervosa, dalla presenza di
episodi ricorrenti di abbuffate.
Possono essere presenti abbuffate oggettive e soggettive, come anche episodi di iperfagia oggettiva e soggettiva (Fairburn e Wilson, 1993); per la diagnosi è però necessaria
la presenza di abbuffate oggettive. Le caratteristiche di un’abbuffata oggettiva o episodio
di alimentazione incontrollata, sono specificate dal criterio A della diagnosi del DSMIV, in sintesi: quantità elevata di cibo introdotto e sensazione di perdita di controllo.
Se non c’è la perdita di controllo parliamo allora di iperfagia oggettiva se la quantità di cibo assunta è elevata, soggettiva se è scarsa.
Il Disturbo si caratterizza per la presenza di giorni di alimentazione incontrollata
piuttosto che di episodi (singoli) di abbuffata. Il fenomeno infatti si manifesta con l’assunzione di grandi quantità di cibo o episodi di abbuffate che si concentrano nell’arco
delle 24 ore, alternate a giornate nelle quali il soggetto si alimenta normalmente o
anche in maniera ridotta.
La frequenza media del binge eating è di 3-5 giorni a settimana, con la preferenza
di cibi ricchi di grassi piuttosto che di fibre o proteine che vengono invece consumate
nei giorni “non binge”.
11.2Modelli comportamentali e cognitivi
La Bulimia Nervosa ed il Binge Eating presentano caratteristiche comuni relativamente alla severità delle abbuffate ed alla preoccupazione per il peso, il cibo e le forme
corporee (Marcus, 1995; Wilson e Fairburn, 1993).
164
I Disturbi della condotta alimentare
Tuttavia, a differenza dei soggetti bulimici, quelli con BED non manifestano elevati livelli di restrizione alimentare, non riuscendo a limitare il loro introito calorico
(Wilson e Smith, 1995; Marcus, 1997).
A differenza dei bulimici che sono generalmente normopeso, molti pazienti con
Disturbo da Alimentazione incontrollata sono in sovrappeso o addirittura obesi (Garner e coll., 1991; Dalle Grave, 1997a). Tuttavia, rispetto alle persone affette da obesità senza Binge Eating, essi hanno una incapacità generale di regolare la propria alimentazione sia durante le abbuffate che al di fuori di esse. Esperimenti effettuati in
laboratorio hanno infatti evidenziato come, sia la durata dei pasti (Goldfein, Walsh,
LaChaussee, Kissileff e Devlin, 1993) sia la quantità di cibo ingerito durante gli stessi
(Guss, Kissileff, Walsh e Devlin, 1994; Yanovski et al. 1992), siano significativamente
maggiori rispetto a quelle degli obesi di pari peso.
Come nel caso dell’obesità, a causa dell’eccesso ponderale possono manifestarsi patologie organiche quali diabete mellito, ipertensione arteriosa, malattie cardio-vascolari
ed alcuni tipi di neoplasie.
Molti pazienti manifestano sentimenti di disperazione legati alla difficoltà di controllare l’assunzione di cibo, con pregressi numerosi tentativi di sottoporsi a dieta: proprio le diete rappresenterebbero un tentativo di recuperare il controllo su alimentazione e peso, perso completamente durante i periodi in cui predominano le abbuffate
(Marcus, 1995).
Coloro che soffrono di BED tendono a utilizzare il cibo per modulare una varietà
di sensazioni ed emozioni negative e/o positive (Garner, 1985; Dalle Grave; 1999).
Alcuni soggetti riferiscono che il loro comportamento alimentare incontrollato viene
scatenato da alterazioni disforiche dell’umore, come ansia e depressione. Altri non sono
in grado di individuare precisi fattori scatenanti, ma riferiscono sentimenti aspecifici di
tensione, che ricevono sollievo dal mangiare senza controllo. Altri ancora individuano
la propria perdita di controllo, in ambito alimentare, come determinata da sensazioni
prevalentemente positive o, infine, come scatenata da qualsiasi tipo di emozione sia
essa negativa che positiva.
11.3Trattamento
I modelli di trattamento applicati alla Bulimia Nervosa hanno fortemente influenzato la terapia del BED per le molteplici similitudini tra i due Disturbi. I soggetti con
BED presentano tuttavia alcune caratteristiche peculiari che li differenziano dai pazienti bulimici e che pertanto necessitano di una specificità di trattamento (Fairburn,
Marcus & Wilson, 1993). In particolare manifestano:
1) diverso comportamento alimentare, con bassi livelli di restrizione alimentare e non
utilizzo di condotte compensatorie;
2) minori distorsioni cognitive, che risultano generalmente meno estreme rispetto a
quelle osservate nella Bulimia Nervosa pur mantenendo una notevole preoccupazione per l’eccesso ponderale;
3) obiettivi diversi, con maggiore motivazione alla perdita di peso (in presenza di
soprappeso) rispetto all’eliminazione delle abbuffate.
165
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
La terapia del BED è basata sul modello di Fairburn per la Bulimia (v. trattamento
della Bulimia Nervosa), la struttura è identica ma la durata dell’intervento è più lungo
(22 sedute in 24 settimane). Il maggior tempo richiesto sembra essere necessario per
favorire la normalizzazione del comportamento alimentare molto disturbato in questi
pazienti ed aumentare così sensibilmente il numero dei “responders” al trattamento
(Eldredge e al., 1997).
Nella prima fase del trattamento, gli obiettivi consistono nella normalizzazione
dell’alimentazione e nello sviluppo di uno stile di vita sano. Questo è ciò che deve essere ribadito ai pazienti che si presentano con una richiesta di riduzione del peso.
Un programma dimagrante va preso in considerazione soltanto dopo che essi
hanno imparato a gestire le abbuffate ed il comportamento alimentare, poiché la
sospensione delle abbuffate solo raramente comporta una contemporanea riduzione
di peso.
La seconda fase del trattamento prevede un intervento di Ristrutturazione Cognitiva finalizzato all’identificazione ed alla modificazione delle distorsioni logiche e dei
pensieri disfunzionali associati alla patologia ed al suo mantenimento.
La fase della Prevenzione delle Ricadute conclude il trattamento.
11.4Caso clinico
Il caso di Levia - “Non riesco a controllarmi perché sono una debole”
Diagnosi: Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Binge Eating Disorder).
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie, Rathus Assertiveness
Scale (Ras) ed Eating Disorder Inventory-2 (EDI-2).
Dal CBA: nella dimensione introversione - estroversione si colloca decisamente
nella direzione dell’estroversione, è una persona socievole che ama la compagnia; significativo il punteggio alla scala della depressione.
Dal RAS: rilevate difficoltà interpersonali riferibili a problemi di anassertività.
Dall’EDI-2: elevati punteggi alle scale della bulimia, insoddisfazione per il corpo,
inadeguatezza e sfiducia interpersonale.
Levia ha 35 anni ed ha un problema di obesità (BMI = 40). Ha episodi di abbuffate quotidiani che mette in atto sempre la sera quando riesce ad ingerire, senza alcun
controllo, una quantità di cibo tele da arrivare a sentirsi stordita.
Storia del caso
Nubile, vive in casa con i genitori anziani, entrambi obesi, che accudisce con una
costante presenza. Ha un fratello, anch’egli obeso.
Riferisce di essere sempre stata in soprappeso, fin da bambina, e di avere sempre
mangiato moltissimo: “In famiglia tutti mangiavamo moltissimo”. Ha alternato diete a
periodi nei quali riacquistava sistematicamente i chili persi. In una di queste diete si era
sottoposta ad una rigida restrizione alimentare che le aveva consentito di perdere molti
166
I Disturbi della condotta alimentare
chili ma, a seguito di una forte delusione sentimentale, aveva recuperato l’abbondante
sovrappeso iniziale.
L’aspetto fisico è stato per lei motivo di vergogna e fonte di frustrazioni: derisa e
spesso esclusa dagli altri, in particolare rifiutata dai ragazzi.
La sua vita sentimentale è costellata di delusioni che l’hanno portata ad una condizione di solitudine affettiva.
Concettualizzazione e trattamento
Nel Disturbo di Levia si possono identificare la familiarità e l’insorgenza precoce
dell’obesità, come elementi predisponenti, e le diete, le frequenti fluttuazioni di peso
e la delusione sentimentale come fattori di mantenimento. I fattori scatenanti delle
crisi bulimiche sono stati da lei identificati in alcune condizioni emotive negative che
frequentemente sperimentava:
- rabbia, “Quando mi arrabbio e non mi posso sfogare mangio a rimpinzarmi, ma dopo
mi sento ancora più arrabbiata per non essere riuscita a controllarmi”;
- tristezza, “Quando vorrei tanto piangere … mangio”;
- noia, “A volte non sento niente, non so cosa fare, mangiare mi aiuta a riempire questi
vuoti”;
- stanchezza, “Quando mi sento molto stanca mi rilasso con il cibo ma poi perdo il controllo su quello che mangio”.
Il trattamento ha previsto i seguenti obiettivi:
-
-
-
-
-
-
riduzione delle abbuffate compulsive;
normalizzazione dell’alimentazione;
riduzione dei pensieri disfunzionali su dieta, peso e forme corporee;
riduzione della sintomatologia depressiva secondaria;
sviluppo delle abilità assertive;
prevenzione delle ricadute.
La perdita di peso con un programma dietetico finalizzato è stata rinviata ad un
momento successivo al raggiungimento della regolarizzazione dell’alimentazione con la
progressiva diminuzione delle abbuffate.
Attraverso la compilazione del Diario Alimentare Levia ha rilevato i pensieri ed i
comportamenti con funzione di eventi scatenanti o conseguenze rinforzanti.
Un esempio di registrazione.
Situazione
Pensiero
Emozione
Dopo cena mia madre Ci risiamo, ancora tutto Rabbia
mi racconta una delle sue su di me, sono stufa
lamentele solite
Comportamento
Abbuffata
167
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Con tecniche di Psicoeducazione e Biblioterapia la paziente ha acquisito le necessarie informazioni sul corretto stile nutrizionale e sulla normalizzazione e gestione autoregolativa dell’alimentazione.
Nelle situazioni che Levia aveva identificato come a rischio di scatenare un’abbuffata, ha stabilito alcune attività alternative da mettere in pratica:
•
•
•
•
•
assumere una tisana;
andare a dormire;
ascoltare musica;
fare una telefonata;
uscire di casa.
Nel programma è stata introdotta anche una leggera attività fisica, in precedenza
del tutto assente.
La fase successiva del trattamento ha previsto una Ristrutturazione Cognitiva per
ridurre la preoccupazione per il peso e le forme corporee.
Le Distorsioni Cognitive che sostenevano i pensieri negativi erano: ipergeneralizzazione, pensiero dicotomico, astrazione selettiva, etichettamento e pensiero catastrofico.
Si riportano alcune assunzioni disfunzionali espresse dalla paziente:
-
-
-
-
-
-
“Essere grassi vuol dire essere pigri”;
“Solo le persone magre hanno successo nella vita”;
“Se sono magra sono accettabile, se sono grassa faccio schifo”;
“Se non riesco a fare la dieta non ho carattere”;
“Non riesco a controllarmi perché sono una debole”;
“Le persone magre possono mangiare tutto quello che vogliono, io ingrasso anche
se non mangio”.
Generando convinzioni alternative più realistiche, la paziente ha migliorato il proprio atteggiamento verso il corpo e più in generale verso se stessa.
Con il Training Assertivo, Levia ha potuto apprendere ad esprimere adeguatamente
i propri desideri e bisogni ed a gestire funzionalmente la rabbia che rappresentava una
delle emozioni per lei più problematica.
Un aiuto particolarmente importante per il problema dell’assunzione di cibo in
casa, dove lo stile alimentare era improntato all’ipernutrizione, lo ha ottenuto dall’acquisizione dell’abilità di formulare un rifiuto senza sentirsi in colpa o reagire con aggressività.
Dopo nove mesi di terapia, la presenza delle abbuffate si è ridotta ad una frequenza settimanale e, al di fuori della crisi bulimica, l’alimentazione si è normalizzata
e la paziente ha iniziato a perdere alcuni chili. Levia ha diminuito sensibilmente la
preoccupazione e l’atteggiamento disfunzionali sul peso e sulle forme del suo corpo
che ha imparato gradualmente ad accettare come caratteristiche della propria struttura fisica.
168
PARTE QUARTA
I DISTURBI DI PERSONALITà
“Il pensiero ha bisogno di un padrone;
di un desiderio; di un modello;di abitudini.
Altrimenti è come un sogno – inutile, terribile, circolare, stupido.
è una serie infinita…
La potenza della mente è di limitarsi,
di restringersi lei stessa”
Paul Valéry
CAPITOLO 12
disturbi di personalità
12.1Introduzione
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la personalità “Una modalità
strutturata di pensiero, sentimento e comportamento che caratterizza il tipo di adattamento e lo stile di vita di un soggetto e che risulta da fattori costituzionali, dello
sviluppo e dell’esperienza sociale”.
Nell’ottica cognitivista la personalità definisce gli aspetti caratteristici e costanti di
un individuo nel proprio modo di costruirsi la realtà (Lorenzini, Sassaroli, 1995).
Quando i tratti della personalità di un individuo risultano talmente rigidi e poco
adattivi rispetto all’ambiente da compromettere seriamente il suo funzionamento sociale e lavorativo e da provocare sofferenza per sé e per gli altri, ci si trova di fronte ad
un Disturbo.
Approccio categoriale vs. dimensionale
Nel descrivere un Disturbo di Personalità (DP), assumiamo che non vi sia una
chiara demarcazione tra ciò che è normale e ciò che è patologico, in quanto esistono
numerose corrispondenze tra principali dimensioni della personalità normale (o del
temperamento) e sintomatologia dei DP. L’attuale tendenza è propensa a concettualizzare questi Disturbi tenendo conto non soltanto degli aspetti caratteriali e di personalità, ma anche di quelli temperamentali e neurobiologici.
L’approccio diagnostico utilizzato nell’ICD-10 e nel DSM-IV rappresenta la prospettiva categoriale secondo cui i Disturbi di Personalità rappresentano sindromi cliniche distinte qualitativamente. La definizione che ne dà il DSM così recita: “un Disturbo
di Personalità rappresenta un modello di esperienza interiore e di comportamento che devia
marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo e inflessibile,
esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo, e determina disagio
o menomazione”.
171
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Le classificazioni di questi Disturbi proposte dall’ICD-10 (International Classification of Disease) e dal DSM IV si basano sulla distinzione fra “tratto”, inteso come
disposizione associata alla personalità, e “stato” come condizione mentale corrente.
In particolare, l’ICD-10 definisce i Disturbi di Personalità “(…) condizioni e modalità di comportamento di significato clinico, che tendono ad essere persistenti e sono
l’espressione di uno stile di vita e di un modo di porsi in relazione a sé e agli altri caratteristico dell’individuo (…). Alcune di queste condizioni e modalità di comportamento emergono precocemente nel corso dello sviluppo dell’individuo, come risultato sia
di fattori costituzionali sia delle esperienze sociali, mentre altre sono acquisite più tardi
nel corso della vita (…). Queste considerazioni comprendono modalità di comportamento profondamente radicate e durature, che si manifestano come risposta costante
ad una vasta gamma di situazioni personali e sociali. Esse rappresentano deviazioni
estreme o significative dal modo in cui l’individuo medio in una data cultura percepisce, pensa, sente e, in particolare, si pone in relazione con gli altri (…). Tali modalità
comportamentali tendono ad essere stabili e ad estendersi a molteplici sfere di comportamento e di funzionamento psicologico. Esse sono frequentemente, ma non sempre,
associate a vari livelli di sofferenza soggettiva e con problemi nel funzionamento e nelle
prestazioni sociali”.
Il DSM IV definisce i tratti di personalità come “(…) modi costanti di percepire,
rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi, che si manifestano in
un ampio spettro di contesti sociali e personali”. Si parla di Disturbi di Personalità
(DP) quando “(…) tali tratti sono rigidi e non adattivi e causano una significativa
compromissione del funzionamento sociale o lavorativo, oppure una sofferenza soggettiva”.
Pertanto, secondo il DSM IV, per diagnosticare un DP sono necessari i seguenti
criteri:
A. Una modalità persistente di esperienza interiore e di comportamento che si discosta in modo marcato dalle aspettative della cultura della persona. Tale modalità si
manifesta in due o più delle seguenti aree:
1. Cognitiva (modi di percepire ed interpretare se stessi, gli altri e gli eventi).
2. Affettiva (gradazione, intensità, labilità ed appropriatezza della risposta emotiva).
3. Funzionamento interpersonale.
4. Controllo degli impulsi.
B. È un modello rigido e pervade un’ampia gamma di situazioni sociali e personali.
C. Porta ad un disagio di rilievo clinico o ad una compromissione del funzionamento
sociale, lavorativo o di altre importanti aree.
D. È stabile e di lungo termine ed il suo esordio può essere fatto risalire almeno
all’adolescenza o alla prima età adulta.
E. Non è espressione o conseguenza di altro disturbo mentale.
F. Non è dovuta agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (droga, farmaci) o ad
una condizione medica generale.
172
I Disturbi di personalità
Tabella 12.1
Le categorie dei disturbi di personalità
Diagnosi DSM IV
Principali dimensioni
cliniche
Diagnosi ICD-10
Confronto ICD-DSM
Schizotipico
Acuto disagio nelle relazioni intime, distorsioni
cognitive o percettive,
comportamento eccentrico
Disturbo schizotipico
Psicosi nell’ICD Disturbo di Personalità nel
DSM
Schizoide
Indifferenza per
le relazioni
sociali, gamma
ristretta di
espressioni emotive
Schizoide
Nessuna differenza significativa
Paranoide
Diffidenza e sospettosità
Paranoide
Nessuna differenza significativa
Antisociale
Mancanza di rispetto e
Dissociale
violazione dei diritti degli
altri
Il DSM richiede un precedente
Disturbo di
Condotta
Borderline
Relazioni interpersonali instabili, instabilità
dell’immagine di sè,
affettività disforica, impulsività
Emotivamente instabile,
sottotipo borderline
Il DSM include i sintomi
cognitivi
Istrionico
Eccessiva emotività e bisogno di essere al centro
dell’attenzione
Istrionico
Nessuna differenza significativa
Narcisistico
Grandiosità, bisogno di
essere ammirati, mancanza di empatia
Non presente nell’ICD
Emotivamente instabile
sottotipo impulsivo
Non presente nel DSM
Ansioso
Nessuna differenza significativa
Evitante
Inibizione sociale, sentimento di inadeguatezza,
ipersensibilità alla critica
Dipendente
Sottomesso, dipendente, Dipendente
eccessivo bisogno di essere accudito
Nessuna differenza significativa
Ossessivo-Compulsivo
Eccessiva attenzione per Anancastico
l’ordine, il perfezionismo
e i controlli
Nessuna differenza significativa
Non specificato
Risponde ai criteri generali per un disturbo
di personalità ma non a
quelli specifici per una
singola categoria
Non specificato o misto
173
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Per la definizione dei vari Disturbi si fa riferimento ad un criterio fenomenologico
descrittivo, per cui la diagnosi viene formulata sulla base della presenza/assenza di segni
o sintomi rigorosamente osservabili. I DP classificati dal DSM IV sono dieci, ripartiti
in tre cluster.
•
•
174
CLUSTER A. La cui caratteristica osservabile è la stranezza o l’eccentricità.
Disturbo Paranoide. Gli individui con questo disturbo manifestano diffidenza e
sospettosità tali da interpretare sempre negativamente le intenzioni degli altri. In
particolare essi sospettano di essere sfruttati, ingannati o danneggiati. Non si fidano di nessuno, non si confidano con gli altri, spesso privi di umorismo, sono
rancorosi, si offendono facilmente e spesso reagiscono con rabbia.
Disturbo Schizoide. È caratterizzato da una modalità pervasiva di indifferenza e
distacco nelle relazioni sociali e da una ristretta gamma di espressione delle emozioni. Il soggetto schizoide presenta introversione e ritiro sociale, non desidera stabilire legami affettivi e non mostra interesse per le relazioni sessuali, non ha amici
o confidenti, appare indifferente, freddo e distaccato e quasi sempre sceglie attività
solitarie.
Disturbo Schizotipico. Il quadro è simile al precedente ma è più marcata la presenza
di sintomi psicotici. Lo schizotipico manifesta distacco dalla realtà comune, usa un
linguaggio strano ed a volte incomprensibile, presenta strane credenze o pensiero
magico che influenzano il comportamento e sono incompatibili con il suo contesto culturale.
CLUSTER B. Gli individui appaiono melodrammatici, emotivi o imprevedibili.
Disturbo Istrionico. Caratteristiche di questo disturbo sono una modalità pervasiva
di emotività eccessiva ed una costante ricerca di attenzione ed approvazione. Si
tratta di individui molto egocentrici, che tendono ad utilizzare la loro grande carica emotiva per soggiogare gli altri. Sono teatrali, estroversi, esibizionisti e spesso
iperseduttivi. Sfruttano l’aspetto fisico per attirare l’attenzione e sono a disagio se
non si trovano al centro dell’attenzione. Le loro azioni sono mirate ad una soddisfazione immediata e non tollerano frustrazioni. Temono la solitudine e possono
sentirsi profondamente angosciati di fronte a situazioni di separazione. Tendono a
considerare le relazioni più intime di quanto lo siano in realtà.
Disturbo Narcisistico. Grandiosità, costante bisogno di ammirazione e mancanza
di empatia sono caratteristiche del Disturbo. Il narcisista ha una considerazione
irrealistica del proprio valore, non tollera di essere messo in discussione e reagisce
con rabbia alle critiche. Frequenti stati emotivi di disprezzo, invidia e superbia lo
caratterizzano con conseguenti comportamenti anche finalizzati a sfruttare gli altri
per raggiungere i propri scopi.
Disturbo Borderline. Caratterizzato da instabilità nelle relazioni interpersonali e
nell’immagine di sé e da forte impulsività. Incapace di stabilire un rapporto profondo, il borderline considera l’altro uno strumento per soddisfare i propri scopi,
tra i quali anche il bisogno di attribuirgli la responsabilità dei propri problemi e
difficoltà. Angosciato dall’idea dell’abbandono, tuttavia non tollera relazioni troppo intime. Alla continua ricerca di attenzioni e rassicurazioni, per ottenerle ricorre
I Disturbi di personalità
anche a comportamenti con forte connotazione emotiva (minacce, scopi di rabbia,
tentativi di suicidio). Lo stile di vita del borderline è perennemente instabile, senza
obiettivi e per questo costellato da delusioni ed esperienze di rifiuto.
Disturbo Antisociale. Le persone con questo disturbo provano un’assoluta indifferenza per i diritti degli altri e mostrano un comportamento irresponsabile ed
antisociale. Hanno una lunga storia di condotte antisociali già presenti nell’infanzia (menzogne, furti, scontri con l’autorità, assenze scolastiche, fughe da casa)
e la diagnosi richiede un’età superiore ai 18 anni. Si tratta di individui incapaci di
assumersi responsabilità, di conformarsi alle norme sociali e lavorative e di mantenere una relazione affettiva stabile. L’assenza di rimorso e la totale indifferenza li
portano a giustificare la loro condotta.
• CLUSTER C. Persone che appaiono ansiose o paurose.
Disturbo Evitante. Grave inibizione del comportamento sociale, con sentimenti di
inadeguatezza ed ipersensibilità alla critica. L’emozione che caratterizza i soggetti
con questo Disturbo è la vergogna conseguente ad un profondo senso di inadeguatezza. La paura di essere rifiutati li porta a loro volta a rifiutare ogni occasione di
contatto sociale. Estremamente in ansia per l’opinione che gli altri possono avere
di loro, questi individui spesso interpretano come critiche negative anche semplici
osservazioni.
Disturbo Dipendente. Caratterizzato da un comportamento di sottomissione e di
attaccamento, correlato al bisogno che altri si prendano cura di sé. La persona con
Disturbo Dipendente è incapace di vivere in maniera autonoma e di prendere
decisioni anche banali. Si affida completamente all’altro per ogni cosa, assumendo
un ruolo totalmente passivo. Non esprime il dissenso dall’altro per timore di perderne il sostegno ed è disposta a tollerare anche situazioni spiacevoli o degradanti
pur di essere accettata.
Disturbo Ossessivo Compulsivo. Una modalità pervasiva e disadattiva di perfezionismo, ordine e controllo caratterizza questa patologia. Si tratta di un soggetto
rigido, schematico, inflessibile ed esigente, continuamente preoccupato di essere
perfetto. Molto severo con se stesso, non lascia spazio alle emozioni, dalle quali è
spaventato, ma preferisce concentrarsi su fatti concreti con regole da rispettare e
dettagli da considerare. Ha difficoltà a prendere decisioni per paura di sbagliare e
rimugina continuamente sui propri impegni e priorità. Ossessioni o compulsioni
non sono necessariamente presenti, mentre possono riscontrarsi pensieri ricorrenti
o rituali.
Accanto al modello ateoretico e categoriale proposto dal DSM e dall’ICD-10, esistono modelli teorici dei Disturbi di Personalità che prendono in considerazione
la prospettiva dimensionale, che si fonda sull’assunto seguente: le misurazioni dei
tratti di personalità covariano, ma sono anche indipendenti tra loro. La personalità
può essere pensata come un insieme di tratti, ognuno dei quali può essere descritto come una dimensione nello spazio. Per questo motivo i tratti sono chiamati
dimensioni di personalità. Ogni tratto rappresenta una strategia che può rivelarsi
adattiva in un certo tipo di condizioni ambientali. I Disturbi di Personalità sono
varianti disadattive di queste strategie.
175
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Vi sono stati tentativi diversi di identificare le dimensioni fondamentali che sottostanno all’intera area del funzionamento personologico normale e patologico. Il
dibattito, ancora aperto, ruota fondamentalmente intorno a tre quesiti: 1) natura
dimensionale o categorica dei DP; 2) distinzione tra caratteristiche di personalità
normali e patologiche; 3) natura dei processi e della struttura di base sottostante
sia ai Disturbi di Personalità sia alla personalità normale.
Attualmente, sono in fase di valutazione cinque approcci dimensionali:
a) approccio dimensionale puro: simile all’approccio categoriale di Asse II, trasforma le
attuali categorie in rappresentazioni dimensionali, facendo corrispondere i criteri
dimensionali al numero dei criteri che devono essere soddisfatti dalla persona (1-3
criteri soddisfatti = tratti di personalità; 4-5 criteri soddisfatti = disturbo di personalità; 5-8 = diagnosi pervasiva; 7­-9 = diagnosi prototipica);
b) approccio prototipico: permette di effettuare una diagnosi lungo un continuum di
maggiore/minore gravità; si basa sulla valutazione della generale somiglianza del
paziente ai prototipi che descrivono un DP nella sua forma pura;
c) approccio prototipico derivato dall’esperienza clinica: sviluppato empiricamente
dalle descrizioni dei clienti fornite da un migliaio di clinici; qui i criteri sono
derivati dall’esperienza dei setting clinici, la patologia è diagnosticata lungo un
continuum maggiore/minore gravità, si ricerca la somiglianza di specifici prototipi;
d) approccio del modello dei cinque fattori: considera i cinque fattori nevroticismo,
estroversione, apertura all’esperienza, coscienziosità e amabilità, ulteriormente
suddiviso in sei sfaccettature, per un totale di 30 componenti che rendono accuratamente conto dei tratti di personalità adattivi e disadattivi che la maggior parte
degli individui ritiene importanti quando deve fornire una descrizione di sé e degli
altri. Un’altra implicazione del modello, descrivendo le aree più marcatamente disfunzionali della personalità, identifica fino a 40 dimensioni, tra cui: reattività affettiva, apprensività sociale, distorsione cognitiva, impulsività, mancanza di sincerità, egocentrismo. Altre dimensioni che sono state indagate includono l’affettività
positiva, l’affettività negativa e I’inibizione, la ricerca della novità, la dipendenza
dalla gratificazione, l’evitamento del danno, la persistenza, I’autodirezionalità, la
cooperatività e I’autotrascendenza; il potere (il dominio verso la sottomissione),
l’affiliazione (l’amore verso l’odio), la ricerca del piacere verso I’evitamento del
dolore, l’adattamento passivo verso la modificazione attiva, la propagazione del sé
verso la nutrizione degli altri;
e) approccio psicobiologico: la personalità è qui concettualizzata come un’interazione
complessa tra il temperamento - in cui confluiscono influenze genetiche e costituzionali - e il carattere, cui afferiscono le caratteristiche apprese nel processo
di socializzazione. La personalità è quindi descritta secondo tre tratti caratteriali
(gestione del sé, cooperatività e senso dell’esistenza) e tre tratti temperamentali
(ricerca di novità, evitamento del danno e dipendenza dalla ricompensa). Bassi
punteggi nei tratti caratteriali evidenziano un disturbo di personalità, mentre punteggi estremi nei tratti temperamentali denotano pattern di personalità.
176
I Disturbi di personalità
I diversi modelli dimensionali hanno molto in comune e insieme sembrano coprire le importanti aree della disfunzione della personalità. La loro integrazione, l’utilità
clinica e la relazione con le categorie diagnostiche dei Disturbi di Personalità e con vari
aspetti delle disfunzioni della personalità sono tuttora in corso di studio.
Le caratteristiche che definiscono un Disturbo di Personalità possono non essere
considerate problematiche dall’individuo in quanto i tratti sono spesso egosintonici,
cioè la persona attribuisce i propri problemi esistenziali a cause esterne e considera il
proprio comportamento normale e logico. Inoltre, le sue sofferenze sono prodotte, in
larga misura, dalle inevitabili reazioni dell’ambiente che rinforza le stesse anomalie.
In tale quadro, risulta più difficile la valutazione del Disturbo (Lorenzini, Sassaroli,
1995).
12.2Modelli comportamentali e cognitivi
Alcuni Autori (Koerner, Kolenberg, Parker, 1996; Marshall, Barbaree, 1984; Turner, Hersen, 1984) ritengono che molti problemi dei pazienti con DP siano di natura interpersonale. I disturbi del comportamento sociale vengono acquisiti secondo
modalità di condizionamento operante e di apprendimento sociale. Attraverso complesse
configurazioni di rinforzi, sia dirette sia vicarie, e di punizioni si consolidano comportamenti persistenti che si generalizzano alle diverse situazioni.
Un ampliamento di questo modello è stato proposto con riferimento alla reciproca influenza tra i comportamenti interpersonali ed i pensieri disfunzionali (Beck e al.,
1990; Freeman e al., 1990; Fleming e al., 1990; Pretzen, 1988).
Da quando l’approccio comportamentale ha accettato di considerare l’elaborazione cognitiva e la sfera emotiva come importanti aspetti del comportamento umano
anche se non direttamente osservabili, i Disturbi di Personalità non sono più stati visti
come una costellazione di sintomi da trattare separatamente ma si è passati a considerarli come disturbi del comportamento interpersonale o come il risultato di schemi
disfunzionali, fino a giungere alla più recente concettualizzazione dei DP in termini di
cicli cognitivi-comportamentali autoperpetuantesi (Fleming e Pretzer, 1990; Pretzer e
Fleming, 1990).
Il modello cognitivo applicato alla psicopatologia sull’interazione reciproca fra elaborazione cognitiva e comportamentale, sottolineando gli effetti disfunzionali degli
schemi, delle convinzioni, degli assunti e del comportamento interpersonale disadattivi, pone infatti l’accento sulla sfera emotiva e dei pensieri automatici.
Numerose ricerche nel campo degli stili di attaccamento hanno evidenziato come
i Disturbi di Personalità siano il risultato di modelli di sé e degli altri rigidi e chiusi
(Fonagy, 1999; Liotti, 2001) e sottolineano come i deficit nelle prime relazioni infantili portino a deficit neurofisiologici e psicologici. Le interazioni adulto-bambino
che connotano un attaccamento sicuro aiutano a sviluppare connessioni neuronali che
consentono al bambino la gestione delle emozioni. Viceversa un attaccamento insicuro
sarà caratterizzato da instabilità o indisponibilità emotiva. Sulla base degli stili di attaccamento sviluppati durante l’infanzia e dei modelli operativi interni di sé e degli altri si
177
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
definiranno perciò gli stili di attaccamento adulto. Di grande interesse teorico e clinico
è la linea di studio che connette l’insicurezza nell’attaccamento in generale e la disorganizzazione dell’attaccamento in particolare a deficit nello sviluppo e nell’esercizio delle
funzioni metacognitive (Flavell, 1979). In tale ottica i Disturbi di Personalità vengono
a essere il risultato di modelli di sé e degli altri rigidi e chiusi, che caratterizzano individui con funzionamento sociale, lavorativo e relazionale diversamente compromesso
e su cui hanno pesato influenze negative ambientali, culturali e spesso traumatiche.
Risulta perciò priva di fondatezza la credenza per la quale i DP sono meno limitanti
rispetto ai Disturbi in asse I. A parte i casi di comorbidità, è di assoluta importanza utilizzare trattamenti integrati che favoriscano una riabilitazione sociale al fine di mitigare
l’impatto dei Disturbi di Personalità sul funzionamento dell’individuo.
Nell’ottica del Cognitivismo, Liotti (1992) ha enfatizzato il ruolo dell’egocentrismo nei DP e Greenberg e Mitchell (1986) fanno riferimento a concetti propri della
teoria delle relazioni oggettuali. Lorenzini e Sassaroli (1995) ipotizzano una relazione fra
pattern di attaccamento, stili di conoscenza e Disturbi di Personalità: ai tre raggruppamenti dei DP corrispondono i tre stili di conoscenza che caratterizzano i pattern di
attaccamento, così come di seguito schematizzato.
Tabella 12.2
Stili di conoscenza, attaccamento e disturbo di personalità
Stile di attaccamento
Stile di conoscenza
Disturbo di Personalità
Sicuro
Ricerca attiva
Assente
Insicuro evitante
Immunizzazione
Tipo A
Paranoide
Schizoide
Schizotipico
Insicuro resistente
Evitamento
Tipo C
Ossessivo
Evitante
Dipendente
Disorientato, Disorganizzato
Ostilità
Tipo B
Narcisistico
Borderline
Istrionico
Antisociale
La crescita della conoscenza si sviluppa in due fasi: la generazione di alternative e
l’eliminazione di quelle errate e, successivamente, il processo di generazione delle alternative differenzia quattro diversi sistemi cognitivi:
- la ricerca attiva, che tende ad ampliare costantemente i propri confini attraverso
l’esplorazione e la verifica delle proprie ipotesi;
- l’immunizzazione, che annulla l’effetto dell’invalidazione con la riduzione del contenuto empirico delle previsioni;
- l’evitamento, che tende a non incorrere in invalidazioni restringendo il campo
dell’esplorazione;
178
I Disturbi di personalità
- l’ostilità, che scredita la fonte delle invalidazioni ribadendo la propria costruzione
dei fatti.
I Disturbi del Tipo A sono caratterizzati da stranezza, eccentricità e da una marcata
indifferenza per le relazioni sociali. Lo stile cognitivo dell’immunizzazione si sviluppa
in seguito all’esperienza di una figura di attaccamento distante che porta, successivamente, all’indifferenza verso tutte le altre persone ed all’incapacità di condivisione.
L’intervento terapeutico su questo stile di conoscenza va indirizzato prevalentemente al
far uscire il paziente dall’egocentrismo cognitivo che immunizza il sistema dalle invalidazioni provenienti dagli altri, operando sulla distinzione tra sé ed altro da sé e favorendo la costruzione di significati condivisi e di un linguaggio condivisibile che consenta
l’ascolto del messaggio altrui. Il terapeuta ha un ruolo di presenza discreta ma costante
che non invade ma che non può essere ignorata.
I Disturbi di Tipo C sono caratterizzati dalla presenza di ansia e dalla tendenza ad
arginarla attraverso l’evitamento. L’ansia si produce quando il sistema è consapevole di
dover affrontare eventi poco conosciuti, imprevedibili e dunque minacciosi. Lo stile
cognitivo evitante si sviluppa all’interno di una relazione di attaccamento con una
figura poco prevedibile, poco accessibile e controllante e si caratterizza per il progressivo restringimento del campo esplorativo, al fine di sottrarsi alle novità nel tentativo
di diminuire l’aleatorietà del rapporto. La sequenza è quindi: imprevedibilità – ansia
– evitamento. L’intervento terapeutico su questo stile di conoscenza va indirizzato al
riconoscimento da parte del paziente della tendenza ad evitare situazioni esplorative, in
conseguenza della loro valutazione come pericolose e della percezione di se stesso come
inadeguato ad affrontarle. Egli dovrà esporsi gradualmente ad invalidazioni di peso
crescente e parallelamente costruire alternative di adeguatezza personale. Il terapeuta lo
guida nell’esplorazione di due diverse strategie:
- la rilettura del rapporto tra ignoto e spaventoso, con la necessità di conoscere per
ridurre la minacciosità e la pericolosità dovuti proprio a ciò che non è noto;
- la familiarizzazione con le emozioni che si sperimentano quando si verifica un’invalidazione e che possono essere fonte di informazione su sé e sui cambiamenti in
atto. In questo processo di riappropriazione dell’esplorazione, il ruolo del terapeuta è di rappresentare una base sicura, accessibile e prevedibile, contrariamente a
quanto sperimentato con la figura di attaccamento.
I Disturbi di Tipo B presentano comportamenti imprevedibili ed impulsivi, con la
tendenza ad ignorare l’altro come interlocutore ed a trattarlo come oggetto da asservire
ai propri bisogni. Lo stile cognitivo dell’ostilità si sviluppa a seguito di un’esperienza
con una figura di attaccamento vissuta come minacciosa. L’intervento terapeutico su
questo stile di conoscenza mira a far acquisire consapevolezza dell’imposizione ostile
delle proprie scelte ed a stimolare il confronto con le “verità” degli altri, allo scopo di
verificarne l’effettiva minacciosità ed a sperimentare il rapporto interpersonale in una
prospettiva più realistica ed adattiva. Il terapeuta deve rifiutare la logica di potere del
paziente e polarizzare la sua attenzione sulle aspettative che egli ripone nella loro relazione: potrà così sperimentarne il ruolo di complice invece di quello di elemento ostile
e scoprire i vantaggi della cooperazione da sostituire al vecchio stile competitivo.
179
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Più recentemente Sperry (2000, 2004), altro autore clinico che si è molto occupato dei Disturbi di Personalità, postula il bisogno di sviluppare un’ottica integrata per
la comprensione e la psicoterapia di tali patologie. Inoltre l’Autore considera fondamentale che la terapia sia indirizzata sia all’aspetto caratteriale che temperamentale del
paziente, condizione indispensabile per la sua efficacia. La distinzione tra i due aspetti
dell’individuo, già ipotizzata da Cloninger e al. (1993, 2000) per la descrizione della
personalità, intende che per definizione il temperamento sia riferito alle influenze genetiche e costituzionali, mentre il carattere sia relativo alle influenze apprese tramite il
processo di socializzazione.
Modello neurobiologico. Secondo questa prospettiva, i pattern di risposta comportamentale si sono evoluti come mezzi di adattamento a stimoli critici in funzione della
sopravvivenza del singolo individuo e per la conservazione della specie. L’aggressione
a scopo difensivo sarebbe ad esempio una risposta comportamentale adattiva al dolore
e alla minaccia di distruzione. La connessione tra questi sistemi e degli stimoli critici
sembrerebbe indicare che la struttura neurobiologica sottesa è strettamente integrata in
circuiti cerebrali responsabili del riconoscimento del significato degli stimoli e dell’attivazione dei sistemi effettori e del comportamento motorio. Queste funzioni cerebrali
sono state definite emozione o valutazione emotiva e espressione emotiva (LeDoux,
1987). Possiamo quindi considerare i sistemi comportamentali in termini più generali
come sistemi emozionali. Un sistema emotivo specifico sarebbe quindi costituito da
una determinata classe di stimoli, dalle emozioni e dalle motivazioni generate e dai pattern di comportamento espressi. Esisterebbero poi dei sistemi neurocomportamentaliemozionali generali caratterizzati da una motivazione di tipo incentivo-gratificazione
e da sentimenti soggettivi di desiderio e positività che faciliterebbe il contatto tra animale e stimoli condizionati e incondizionati implicanti gratificazione e da cui il sistema stesso è attivato. Similmente, anche per quanto riguarda la personalità sono stati
individuati dei fattori di ordine superiore, concepiti secondo strutture gerarchizzate,
scomponibili in tratti di ordine inferiore, a loro volta suddivisibili in tratti di superficie.
Sarebbe quindi possibile ipotizzare un’analogia tra strutture gerarchiche dei fattori di
personalità e dei sistemi neurocomportamentali­emozionali generali, tale da far pensare
a una condivisione di caratteristiche neurochimiche e neurobiologiche.
Modello biopsicosociale. Questo modello postula che l’influenza dei fattori biologici, psicologi e sociali presi singolarmente non è sufficiente a spiegare perche i tratti
sono amplificati nei disturbi. L’ipotesi è che solo l’ effetto cumulativo e interattivo
di molti fattori di rischio possa spiegare come si sviluppino i Disturbi di Personalità.
Questo stesso modello prende anche in considerazione l’influenza di fattori protettivi,
cioè quelle influenze biologiche, psicologiche o sociali che rendono meno probabile
lo sviluppo di un Disturbo (Paris, 1996) istrionico, dipendente o passivo-aggressivo
di personalità. Gli individui borderline e istrionici hanno storie familiari di elevata
reattività autonomica e mostrano ipersensibilità alle stimolazioni. Il bambino si sentirà perciò adeguato solo se il suo comportamento sarà esplicitamente approvato dagli
altri e solo se può contare su un supporto sicuro. Nel caso del Disturbo Dipendente,
le caratteristiche temperamentali del bambino susciterebbero un atteggiamento iperprotettivo nel genitore che fa sì che egli sviluppi un forte attaccamento e dipendenza
che a sua volta lo limiterà nell’acquisizione delle abilità necessarie ad emanciparsi dalla
180
I Disturbi di personalità
famiglia. I soggetti che svilupperanno un Disturbo Passivo Aggressivo tendono a esibire
un temperamento irritabile, difficile da consolare che susciterà in chi si prende cura di
loro atteggiamenti irregolari, oscillanti a loro volta tra il passivo e l’aggressivo.
12.3Trattamento
Come abbiamo già riportato, le persone con Disturbi della Personalità hanno scarsa consapevolezza delle proprie caratteristiche disfunzionali, considerano normale il
loro comportamento, e tendono ad attribuire agli altri la causa delle proprie difficoltà.
Pertanto, di solito intraprendono una terapia su insistenza di altri (familiari o autorità
istituzionali) ed in presenza di Disturbi classificati nell’asse I del DSM, quali Disturbi
d’Ansia o dell’Umore.
Trattare questi pazienti diventa una sfida per il clinico di qualsiasi orientamento
poiché la terapia è spesso lunga e frustrante (Fleming, Pretzen, 1990).
La strategia generale del trattamento cognitivo comportamentale prevede un intervento a più fasi, di seguito indicate.
- Fase dell’aggancio. Come per qualsiasi terapia, è essenziale che il paziente creda nel
terapeuta, si fidi di lui e lo accetti. In tal modo si può stabilire un’alleanza terapeutica ed il paziente si impegna a lavorare per il proprio miglioramento. Da parte
sua, il terapeuta deve manifestare empatia, accettazione ed il ricorso al pronome
“noi” per sottolineare la collaborazione, l’adesione ad un contratto che definisca le
regole, l’impegno e gli obiettivi.
- Analisi della struttura. Si tratta di comprendere la struttura disadattiva del paziente
che si manifesta nel suo modo di pensare, di comportarsi, di provare emozioni, di
affrontare le situazioni della vita e di rapportarsi con gli altri. Questa fase di assessment consente di individuare gli obiettivi e le specifiche tecniche d’intervento per
raggiungerli.
- Cambiamento della struttura. Lo scopo della terapia è l’abbandono della struttura
disadattiva e l’adozione permanente di una modalità generalizzata che migliori la
qualità della vita e riduca la sofferenza soggettiva. Sono previsti interventi strutturati che consentono l’acquisizione di specifiche attività (gestione della rabbia, controllo degli impulsi, gestione dell’ansia, problem solving, training assertivo …).
- Mantenimento della struttura. Quando la nuova struttura diventa modalità costante nella vita del paziente, è necessario affrontare la fase della conclusione della
terapia con particolare attenzione. Il processo di separazione dal terapeuta è molto
delicato e potrebbe rievocare antichi schemi di abbandono. Pertanto, le eventuali
difficoltà di separazione devono costituire oggetto d’intervento.
- Prevenzione della ricaduta. A conclusione della terapia, è indispensabile lavorare
sulla generalizzazione dei nuovi apprendimenti e sulla prevenzione della ricaduta.
È importante che il paziente impari a riconoscere le situazioni per lui critiche ed
i segnali di un aumento dello stress personale, in modo da poter mettere subito
in atto tutte le strategie per affrontare le difficoltà ed evitare di scivolare verso una
ricaduta.
181
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Sperry (2000) sottolinea come l’efficacia della terapia cognitiva dipenda dal livello
di congruenza che si stabilisce fra le aspettative del paziente e quelle del terapeuta, relativamente agli obiettivi del trattamento. Le dimensioni temperamentali e gli eventuali
Disturbi sull’Asse I devono essere trattati per primi, sia per ottenere risultati positivi
che rinforzino il paziente ed il terapeuta al proseguimento del lavoro sia per rimuovere
quegli ostacoli che renderebbero l’intervento sulla modificazione del carattere, cioè il
lavoro cognitivo sugli schemi che tendono a riprodurre errori di pensiero, complicato
e facilmente destinato al fallimento.
Poiché il cambiamento implica il passaggio attraverso un periodo di “caos” ed i
pazienti con DP tendono prevalentemente a mantenere un sistema di significati disfunzionale piuttosto che sentirsi preda di un “disordine privo di senso” (Di Maggio,
Semerari, 2003), è opportuno focalizzare l’intervento sulle specifiche esigenze della
persona e calibrarlo sulla base dell’effettiva gravità del Disturbo.
Pertanto il trattamento dei Disturbi di Personalità risulta piuttosto complesso e la
terapia cognitivo comportamentale impiega un’ampia gamma di tecniche, in funzione
del tipo e della gravità del Disturbo. L’efficacia dell’intervento richiede il superamento
dell’applicazione “standard” della terapia, prevedendone l’adattamento alle specifiche
caratteristiche del singolo paziente ad opera di un terapeuta più esperto e con specifica
preparazione.
Secondo Sperry (2004), il trattamento dei Disturbi di Personalità non può essere
generalizzato ma deve differenziarsi in base alla individualità del soggetto e alla severità
della patologia. Certamente, la migliore concettualizzazione è per l’Autore in termini
integrativi e biopsicosociali. In tali terapie, l’obiettivo centrale è quello di riuscire, attraverso il trattamento focalizzato sulle caratteristiche del temperamento e del carattere,
ad indirizzare, fino a modificarlo, il disturbo di personalità in direzione di uno stile di
personalità, rendendo così l’individuo più adattato all’ambiente circostante.
182
CAPITOLO 13
Disturbo borderline
13.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
A. Una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine
di sé e dell’umore ed una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e
presenti in vari contesti, come indicato da uno (o più) dei seguenti elementi:
1. sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono (Nota: non includere i
comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5)
2. un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza
tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione
3. alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili
4. impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto,
quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate (Nota: non
includere i comportamenti suicidari o automutilanti considerati nel criterio 5)
5. ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari o comportamento automutilante
6. instabilità affettiva dovuta ad una marcata reattività dell’umore (per es.: episodica
intensa disforia, irritabilità o ansia, che di solito durano poche ore, e soltanto raramente più di pochi giorni)
7. sentimenti cronici di vuoto
8. rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia (per es.: frequenti
accessi di ira o rabbia costante, ricorrenti scontri fisici)
9. ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi transitori, legati allo stress
Beck e Freeman (1990) sostengono che gli assunti di base nell’individuo borderline, rinviando a temi di vulnerabilità, inaccettabilità, mancanza di potere, insieme a una visione
del mondo come pericoloso e malvagio, lo fanno vacillare tra autonomia e dipendenza e
183
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
strutturano le sue modalità di pensiero in maniera dicotomica. La combinazione di questi
elementi è alla base dei comportamenti e delle emozioni borderline:
•
•
•
•
•
•
le manifestazioni di paura e di intensa rabbia immotivata;
la sensazione di persona vulnerabile per una propria intrinseca fragilità;
l’assenza di progettualità;
la percepita condizione di abbandono al quale è destinato;
la convinzione di essere una persona inaccettabile;
il vissuto di vuoto ed i comportamenti autolesivi.
Secondo Young (1990) gli schemi disadattivi avrebbero origini precoci. I più comuni sono quelli di abbandono e perdita e di deprivazione emotiva.
Linehan (1993) individua alla base del Disturbo un deficit del sistema di regolazione delle emozioni, che di conseguenza vengono esperite con eccessiva intensità e si
manifestano nel comportamento e nella comunicazione in maniera sproporzionata:
le incomprensibili esplosioni di rabbia, il terrore immotivato di essere abbandonati,
le rapide oscillazioni dell’umore, il caos che caratterizza le relazioni affettive, fino alle
condotte autolesionistiche. L’abuso di droghe o di alcol, le abbuffate di cibo e gli altri
comportamenti impulsivi sono considerati dall’autrice come tentativi di gestire se
non addirittura di spegnere l’intensità dolorosa delle emozioni, ed allo stesso modo
possono essere letti i fenomeni di estraneamento, le sensazioni di vuoto e di annullamento.
Per spiegare l’origine di questo deficit del sistema di regolazione delle emozioni,
Linehan fa riferimento al concetto di “invalidazione dell’esperienza emotiva”, secondo il quale la persona apprende ad attribuire scarso valore alle esperienze emotive
proprie ed altrui ed a connotarle negativamente a causa del contesto relazionale in
cui sviluppa la conoscenza di sé e degli altri. Da un punto di vista evolutivo, il modello della Linehan, può essere così spiegato: in presenza di condizioni ambientali
invalidanti, il bambino non potrà sviluppare la capacità di scegliere e regolare qualitativamente e quantitativamente le sue risposte agli stimoli ambientali, non imparerà
a tollerare gli stress emotivi, né riuscirà ad avere la sicurezza che le sue risposte emozionali corrispondano a una corretta interpretazione degli eventi e dell’ambiente. Da
adulto si approprierà delle caratteristiche invalidanti da cui è stato circondato. Ciò
comporterà un costante atteggiamento di sfiducia, svalutazione e invalidazione rispetto alle proprie esperienze emotive, marcata tendenza ad appoggiarsi agli altri per
trarre indicazioni dal mondo esterno, tendenza alla semplificazione dei problemi della vita. Si tratta pertanto di individui portati a seguire obiettivi irrealistici, con crollo
dell’autostima, fino all’odio di sé, in occasione di ogni fallimento. Non riuscendo a
adottare strategie adeguate all’avvicinamento della meta finale, essi svilupperanno un
senso di vergogna, come reazione a emozioni intense e incontrollabili ma anche come
conseguenza del rapporto con un ambiente che guarda con sospetto chi manifesta
vulnerabilità emotiva.
184
I Disturbi di personalità
13.2Trattamento
Nel 2001 l’APA ha pubblicato le Linee guida per il trattamento dei pazienti con
Disturbo Borderline di Personalità. Le indicazioni evidence-based proposte, pur presentando dei limiti, sono degne di nota per i seguenti motivi: 1) identificano la natura
multidimensionale della patologia borderline; 2) raccomandano un approccio di trattamento flessibile, ma soprattutto “tagliato su misura” a seconda dei bisogni e delle aspettative del
paziente; 3) evidenziano il valore dell’approccio combinato (farmaci e terapia); 4) forniscono indicazioni per il ricovero e la cura dei pazienti.
Con questo tipo di pazienti si possono utilizzare formati terapeutici individuali,
di gruppo, di coppia e varie sono le tecniche applicabili, a seconda dei diversi approcci
considerati.
La costruzione di una buona alleanza terapeutica è essenziale per ogni tipo di
psicoterapia ma nel caso del paziente borderline la relazione ha un ruolo primario.
Egli infatti ripropone nel rapporto con il terapeuta la stessa conflittualità che caratterizza le sue relazioni interpersonali, con marcata instabilità ed ambivalenza, che lo
porta frequentemente ad abbandonare la terapia. Il clinico riveste il ruolo di “modello” da imitare ma spesso è investito di aspettative irrealistiche: può quindi essere
idealizzato e subito poi svalutato, amato ed odiato, complice e rivale. Il paziente
gli può delegare totalmente il proprio benessere ed arrivare altrettanto totalmente a svalutarlo al minimo comportamento che deluda le sue aspettative. Pertanto,
nel trattamento di questo paziente il terapeuta dovrà curare particolarmente alcuni
aspetti del proprio atteggiamento e della propria disposizione di base. In particolare:
disponibilità alla flessibilità che gli permette di “seguire” il paziente nelle sue oscillazioni emotive; grande attenzione alle reazioni emotive che il paziente gli suscita ed
alle proprie modalità di esprimerle, in considerazione della sua accentuata sensibilità
ad interpretare i segnali non verbali della comunicazione; atteggiamento di grande
accoglienza, tolleranza, assenza di giudizio e di qualsiasi tendenza a colpevolizzare o
punire; disponibilità ad accettare i propri errori ed a modificare le proprie modalità
di risposta; riconoscere i propri confini personali, anche in termini di tolleranza, e
pretenderne il rispetto. In sostanza, chi si prende cura di un individuo borderline
deve saper gestire il proprio equilibrio, proponendo stabilità e coerenza mentre riceve labilità e caos.
L’obiettivo della terapia è la regolazione dell’emotività e la conseguente modificazione dello stile di vita e delle abilità. Questo richiede la capacità del paziente di
riconoscere le proprie risposte emotive e di controllare le conseguenti espressioni comportamentali.
Dopo aver costruito le premesse per un rapporto terapeutico basato sulla fiducia e
sull’alleanza, si procede alla fase psicoeducativa del trattamento finalizzata all’acquisizione di competenze emozionali e relazionali che il paziente non possiede.
Al trattamento comportamentale, che prevede Training di Abilità Sociali e di Autocontrollo, si associa utilmente quello farmacologico che agisce sugli aspetti biologici
dell’instabilità affettiva e dell’impulsività.
Sul piano cognitivo si focalizzano le aree disfunzionali e si identificano gli schemi
maladattivi che frequentemente riguardano il valore personale, l’abbandono, la dipen185
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
denza, la deprivazione emotiva, l’incompetenza. L’intervento si avvale delle tecniche di
Ristrutturazione Cognitiva.
Un modello di intervento particolarmente efficace è quello definito “dialettico”
(Linehan, 2001). La caratteristica fondamentale del metodo enfatizza il rapporto terapeutico in una cornice interpretativa della realtà come prodotto dell’equilibrio tra forze
contrapposte. Non prevede infatti l’esistenza di una posizione valida in assoluto, né
un punto di vista giusto o sbagliato ma al contrario le possibilità di cambiamento e di
equilibrio si trovano proprio all’interno delle contraddizioni, delle diversità e delle sfide
che la vita propone. Nella fase iniziale del trattamento l’attenzione è centrata sull’accettazione più che sul cambiamento, accettazione ed attribuzione di valore all’esperienza
di vita, anche dolorosa e caotica, del paziente. Nel setting terapeutico il paziente sperimenta l’esperienza di un ambiente che gli riconosce il valore per come egli è e per
tutte le potenzialità che possiede per il cambiamento. Solo successivamente, quando
avrà accettato i propri stati emotivi, anche se sgradevoli o dolorosi, e sarà in grado di
riconoscerli, l’intervento potrà orientarsi verso l’obiettivo del trattamento.
In sintesi questo tipo di terapia prevede quattro modalità di trattamento:
terapia individuale;
training di abilità psicosociali che si focalizza principalmente su quattro moduli:
abilità nucleari di mindfulness (consapevolezza), abilità di efficacia interpersonale,
abilità di regolazione emozionale, tolleranza della sofferenza mentale/angoscia;
• contatto telefonico: tra una seduta e l’altra è permesso contattare telefonicamente
il terapeuta, anche se con le dovute limitazioni;
• consulenza terapeutica.
•
•
Linehan propone altresì un doppio setting terapeutico, individuale e di gruppo,
con due diversi clinici che operano in stretta collaborazione.
Sperry (2000) ha affermato che il trattamento del Disturbo Borderline, pur essendo attuabile, pone una delle sfide terapeutiche più ardue a causa della patologica,
perdurante e pervasiva instabilità emotiva e comportamentale di questi pazienti. Una
relativa efficacia possono averla i trattamenti psicoterapeutici cognitivo comportamentali a medio - lungo termine (da 2 a 3 anni), interventi che rimangono comunque
auspicabili.
In estrema sintesi e facendo riferimento ad obiettivi molto generali, l’intervento
con pazienti borderline consiste nell’aiutarli ad integrare ed a “modulare”: le sovramodulazioni emotive frequenti e debilitanti (stile affettivo); i comportamenti automutilanti e suicidi e le vunerabilità e deficit nelle relazioni sociali (stile interpersonale); la
sovramodulazione del pensiero con uso massiccio dell’identificazione proiettiva su di
una base di scarsa tolleranza allo stress emotivo/frustrazioni (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati e trattati con le seguenti tecniche: Training per
la Consapevolezza e la Regolazione Emotiva, Training alle Abilità di Autogestione, per le
Abilità Interpersonali ed Addestramento per la Consapevolezza Cognitiva e per la Tolleranza allo Stress Emotivo. Dal punto di vista della relazione ed alleanza terapeutica, considerando che i pazienti con personalità borderline possono manifestare atteggiamenti e
comportamenti di resistenza/dipendenza (intensa ambivalenza), lo psicoterapeuta può
186
I Disturbi di personalità
inizialmente creare un clima di confronto, stabilendo dei limiti con contratti terapeutici chiari e contenutivi.
Pertanto, il trattamento psicologico di questa patologia mira, in una prima fase,
a modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il repertorio delle
abilità sociali e di gestione delle emozioni negative ed in una seconda fase, a riorganizzare la struttura (abbandono/perdita; mancanza di valore; dipendenza; incompetenza) e i
processi (scarsa stabilità e difficoltà ad arrivare all’integrazione di sé) che mantengono i
comportamenti disfunzionali (deficit pervasivo riguardo una interdipendenza più stabile
ed adattiva) al fine di ristabilire un equilibrio tra il desiderio funzionale di attenzione
ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere associato.
Altre modalità di trattamento
Interventi strutturati di abilità sociali. È stato osservato che questa strategia di trattamento
ha un effetto normalizzante dei comportamenti mediati dal sistema limbico (ad esempio
impulsività, aggressività, labilità dell’umore), che riflettono i particolari deficit di abilità
dei soggetti con DBP.
Terapia cognitiva focalizzata sulle strategie di coping. Questo tipo di terapia rappresenta
un approccio attivo, direttivo, didattico e strutturato per il trattamento degli individui
con Disturbi di Personalità (Sharoff, 2002). Si tratta di un approccio che inizia con la
valutazione delle abilità di coping presenti nel paziente e in seguito si concentra sull’incremento di abilità nelle aree che lo necessitano. Le cinque principali aree di intervento
sono: abilità cognitive (problem-solving, training di autoistruzione e gestione di sé),
abilità emotive (contenimento emotivo), abilità percettive (arresto del pensiero, mantenimento della prospettiva e presa di distanza psicologica), abilità fisiologiche (meditazione e training di rilassamento) e abilità comportamentali (comunicazione e training
assertivo).
Terapia degli schemi. Sviluppata da Young (1999) e Young, Klosko, Weishaar (2003), è
un’elaborazione della terapia cognitiva, specifica per i Disturbi di Personalità e per altri
problemi individuali e di coppia. Implica l’identificazione degli schemi disadattivi e la
pianificazione di specifiche strategie nelle aree cognitiva, esperienziale, comportamentale
e della relazione terapeutica. Gli schemi disadattivi nel Disturbo Borderline di Personalità
sono i seguenti: abbandono, imperfezione, abuso/sfiducia, deprivazione emotiva, isolamento sociale, scarso autocontrollo.
STABILIRE DEI LIMITI
Questo intervento é finalizzato ad aiutare i pazienti a rendersi conto di quegli aspetti personali che li spingono a comportamenti dannosi per sé o per gli altri. Gli individui con
Disturbi di Personalità hanno spesso difficoltà a mantenere le proprie azioni entro certi
confini e a valutarne le conseguenze. Per questa ragione Stabilire dei Limiti é estremamente importante sia all’interno che all’esterno della terapia. L’intervento procede come di
seguito illustrato.
Il terapeuta presta attenzione e mette al centro dell’intervento una delle seguenti categorie
comportamentali: comportamenti che interferiscono con il buon andamento della terapia (come arrivare in ritardo o non presentarsi agli appuntamenti o ritardare senza motivo
187
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
i pagamenti); comportamenti distruttivi verso se stessi o gli altri (come atti autolesionistici); comportamenti verbali inappropriati (come l’utilizzo di minacce, il parlare troppo
o a vanvera); invasione della privacy del clinico (come telefonate inappropriate o troppo
frequenti); azioni fuori luogo (comportamenti violenti, danneggiamenti, furti o ricerca di
contatti fisici); mancato svolgimento dei compiti a casa.
In secondo luogo, il terapeuta comincia a stabilire dei limiti, definendo il concetto stesso
di limite. Tale concetto viene espresso nella forma di “Se...allora...” e lo specifico limite é
formulato in modo neutro, non critico, né giudicante. Ad esempio, nel caso di una persona che, presentandosi e descrivendosi come abbiente e con notevole disponibilità economica, facesse richiesta al terapeuta di una riduzione del suo onorario o di un pagamento
rateizzato il clinico, piuttosto che fare concessioni speciali al paziente, potrebbe spiegargli
in modo preciso il proprio modo di gestire i pagamenti o, esprimendo dispiacere, essere
disponibile ad aiutarlo a trovare la possibilità di un’alternativa di trattamento economicamente per lui più soddisfacente.
In terzo luogo il terapeuta spiega il motivo per cui é necessario stabilire un limite.
Nell’esempio precedente potrebbe far rilevare che non sarebbe conveniente neppure per il
paziente accumulare debiti e trovarsi un conto assai elevato da pagare.
In quarto luogo si stabiliscono assieme al paziente le conseguenze relative alla trasgressione o al superamento dei limite stabilito. Sempre riferendosi all’esempio, si potrebbe concordare la sospensione temporanea del trattamento in mancanza del pagamento di due
sedute consecutive; il trattamento verrebbe poi ripristinato una volta estinto il debito.
E necessario che il terapeuta sia particolarmente attento ad evidenziare ogni superamento
del limite stabilito, poiché i pazienti, consapevolmente o meno, tendono facilmente a
trasgredire. Affrontare la trasgressione o il superamento del limite vuoi dire far scontare
al paziente le conseguenze di tale comportamento, discuterne l’impatto sul trattamento e
sottolineare la possibilità del ripetersi di tale evenienza.
TRAINING PER LA TOLLERANZA ALLO STRESS EMOTIVO
Per Tolleranza allo Stress Emotivo si intende la capacità di percepire il proprio ambiente
senza pretendere che sia differente da quello che è, di accettare il proprio stato emotivo
senza tentare di cambiarlo e di osservare i propri pensieri e le proprie azioni senza tentare
di bloccarli. Consiste, in definitiva, nell’abilità di tollerare e accettare le situazioni difficili.
Di solito le personalità istrioniche e borderline, con un basso livello di funzionamento,
hanno molta difficoltà a tollerare lo stress emotivo. Questo training ha l’obiettivo di
aiutare il paziente a sviluppare strategie e abilità che gli permettano di sopportare meglio
le crisi emotive e di accettare la vita attimo per attimo. Tale intervento risulta particolarmente utile per gli individui impulsivi e con forti sbalzi di umore ed è necessario prima
di procedere con qualsiasi altro intervento. Inizialmente viene presentato ed illustrato dal
terapeuta e successivamente è messo in pratica ed applicato nella vita reale dal paziente. Si
tratta quindi di una tecnica sostanzialmente auto-gestita (self-management).
L’intervento procede come di seguito illustrato.
In primo luogo lo psicoterapeuta valuta l’abilità del paziente nel distanziarsi dai pensieri
e dai sentimenti dolorosi e nel consolare se stesso di fronte alla solitudine, alla preoccupazione o allo stress emotivo.
A seconda dei problemi evidenziati, il terapeuta può insegnare abilità di distanziamento
o distrazione ed abilità concernenti la capacità di consolare se stessi.
Se esiste un deficit di base nella capacità di distrazione, si può utilizzare l’Arresto del
Pensiero o si può suggerire di distrarsi telefonando a qualcuno, guardando la televisione, ascoltando musica, facendo sport o confrontandosi con qualche persona che ha
188
I Disturbi di personalità
problemi più gravi. Si può fare anche ricorso ad intense sensazioni come quelle causate
dal tenere del ghiaccio stretto in una mano o dallo strisciare un pezzo di stoffa spessa e
ruvida sui propri polsi; in questo modo si produce una sensazione dolorosa ma innocua
che é in grado di deviare pensieri e impulsi autolesionisti, come il desiderio di tagliarsi
le vene.
Se esiste un deficit nella capacità di consolare se stessi, si può utilizzare la Respirazione
Controllata (tecnica che consiste nell’inspirare assai profondamente e nell’espirare molto
lentamente e completamente) o consumare i cibi preferiti e ascoltare musica rilassante.
Le abilità di accettazione prevedono invece l’accettazione radicale (completamente con
tutto se stesso), la scelta di accettare la realtà così come é e l’abbandono del desiderio di
cambiamento a favore dell’accoglimento della realtà.
13.3Caso clinico
Il caso di Diamante - “Lei è la mia ultima speranza”
Diagnosi: Disturbo Ossessivo Compulsivo (sull’Asse I).
Disturbo Borderline di Personalità (sull’Asse II).
L’assessment è stato condotto solo sulla base dei colloqui perché non è stato possibile ottenere la collaborazione della paziente nella compilazione di questionari.
Diamante ha 35 anni e si reca in terapia per un Disturbo Ossessivo Compulsivo
di cui soffre da 20 anni ma che ultimamente si è accentuato. In particolare la donna si
sente obbligata a raccogliere da terra qualsiasi cosa attiri la sua attenzione (capelli, pezzi
di carta, rifiuti...) ed in casa a controllare ripetutamente che sia rispettata la disposizione prestabilita di oggetti ed indumenti.
Nel corso degli anni si è sottoposta a numerose visite psichiatriche, con terapie
farmacologiche che segue ancora oggi.
Storia del caso
Diamante è nubile e vive con i genitori. Diplomata, svolge lavori saltuari come
commessa nei negozi.
Ha una relazione stabile con un uomo molto più grande che per lei è fonte di
sicurezza.
Riferisce che altri suoi familiari soffrono di problemi psicologici: le sorelle, una di
attacchi di panico e un’altra di bulimia, ed alcuni altri parenti di manie e ossessioni.
Queste circostanze inducono la donna a credere che il suo disturbo sia ereditario e
pertanto irrisolvibile.
L’atteggiamento dei genitori nei confronti del problema della figlia rispecchia
quello che verosimilmente ha caratterizzato da sempre il loro rapporto: mentre si preoccupano con ansia per il suo stato di salute, in realtà non intervengono in alcun modo
per sostenerla ed aiutarla concretamente ma la lasciano in balia di se stessa e della sua
incapacità di autoregolarsi.
189
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Diamante presenta una modalità di relazione instabile con le persone con le quali
entra in rapporto: “gli psichiatri mi hanno curato bene” e “i medici mi hanno rovinato
con tutte quelle medicine”; riferendosi al terapeuta “non so se lei è in grado di curarmi
… non le interessa niente di me” e “lei si che mi sa capire … ma mi vuole bene?”.
La sua impulsività si manifesta nella gestione del denaro che spende senza controllo, nella guida spericolata e nella promiscuità della sua vita sessuale.
L’instabilità dell’umore le fa sperimentare momenti di intensa depressione, a volte
rimane a letto per giornate intere, alternati con vissuti di profonda rabbia che fa fatica
a controllare.
Concettualizzazione e trattamento
La richiesta della paziente era di aiutarla per il Disturbo Ossessivo Compulsivo che
è stato quindi il primo obiettivo della terapia.
Si è proceduto inizialmente ad un Intervento Psicoeducativo, attraverso il quale la
paziente ha potuto conoscere le caratteristiche del Disturbo secondo il modello cognitivo comportamentale.
Per bloccare la compulsione a raccogliere gli oggetti si è impiegata la tecnica della
Prevenzione della Risposta e si è addestrata la paziente ad un Training di Rilassamento
Respiratorio per controllare la risposta ansiosa.
Con la tecnica dell’Arresto del Pensiero si è intervenuti per bloccare i pensieri ossessivi, motivando Diamante con la considerazione che trattandosi di pensieri illogici,
piuttosto che contrastarli con il ragionamento razionale si poteva riconoscerne l’illogicità e bloccarli al loro comparire.
Diamante ha appreso correttamente le tecniche ma la loro applicazione è stata
subordinata all’umore del momento: quando decideva di applicarle otteneva risultati
positivi ma nel caso in cui si sentiva depressa o in preda a crisi di rabbia, il pensiero
ossessivo prendeva il sopravvento “no, è inutile, il pensiero è più forte di me”.
La donna ha manifestato scarsa consapevolezza dei propri processi di pensiero e del
rapporto tra cognizioni, emozioni e comportamento conseguente: lei “sente” o vuole
agire in un certo modo e lo fa. Pertanto ha incontrato una certa difficoltà a comprendere il modello cognitivo.
Dall’analisi dei pensieri sono emerse distorsioni logiche che evidenziano uno schema di profonda svalutazione di sé.
Pensiero automatico
Distorsione cognitiva
Se non sono perfetta non vengo accettata
Pensiero dicotomico
Non ci riuscirò mai, sono un’incapace
Ipergeneralizzazione
Anche la pregnanza delle distorsioni cognitive è subordinata al tono dell’umore, e
gli schemi di autosvalutazione si impongono come verità incontestabili nel caso in cui
Diamante stia vivendo un momento di abbattimento.
190
I Disturbi di personalità
Dopo due anni e mezzo di terapia, caratterizzata da alterne manifestazioni di attaccamento e distacco, ripensamenti ed un abbandono, Diamante ha acquisito padronanza nell’impiego delle tecniche comportamentali per gestire efficacemente le sempre
meno frequenti manifestazioni d’ansia e sul piano cognitivo ha sviluppato una nuova
consapevolezza dei propri processi di pensiero, anche se l’instabilità emotiva che la
caratterizza continua a condizionare l’elaborazione cognitiva.
191
CAPITOLO 14
Disturbo istrionico
14.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
Un quadro pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione, che compare entro
la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti, come indicato da almeno
cinque dei seguenti criteri:
1. è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell’attenzione;
2. l’interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamento sessualmente
seducente o provocante;
3. manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale;
4. costantemente utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sé;
5. lo stile dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli;
6. mostra auto-drammatizzazione, teatralità ed espressione esagerata delle emozioni;
7. è suggestionabile, cioè facilmente influenzato dagli altri e dalle circostanze;
8. considera le relazioni più intime di quanto non lo siano realmente.
Gli individui con Disturbo Istrionico sono caratterizzati da un’emotività eccessiva
e dalla continua ricerca di attenzione: si sentono a disagio quando non sono al centro
dell’attenzione. Percependo l’approvazione degli altri come unica ancora di salvezza per
il timore di essere abbandonati, avvertono una pressione costante ad utilizzare l’aspetto
fisico per ricercare questa attenzione. Di conseguenza, si preoccupano eccessivamente
di essere fisicamente attraenti, di impressionare gli altri per il loro aspetto e spendono
una notevole quantità di tempo, energia e denaro per gli abiti e per le cure personali.
Spesso temono l’invecchiamento e la degenerazione fisica, in quanto potrebbero far perdere loro l’unico strumento che conoscono per attirare gli altri a sé. Queste persone si
193
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
percepiscono soggettivamente come socievoli e piacevoli ed il loro aspetto e comportamento risultano frequentemente provocanti o apertamente seduttivi. In effetti, possono
inizialmente affascinare le nuove conoscenze per il loro entusiasmo e la loro apertura
ma quando la relazione continua tali qualità tendono ad indebolirsi, poiché questi individui sono considerati come eccessivamente esigenti e bisognosi di continue attenzioni
e rassicurazioni. Nei loro tentativi di ottenere l’accettazione e l’approvazione degli altri
possono usare approcci indiretti come la manipolazione, ma fanno ricorso anche a coercizioni o a minacce di suicidio, se metodi più sottili non sembrano avere successo. In
particolare per quanto riguarda il rischio reale di suicidio, l’esperienza clinica suggerisce
che, oltre alle più frequenti minacce, possano realizzare gesti suicidari finalizzati ad attrarre l’attenzione e a costringere gli altri ad occuparsi maggiormente di loro. Le emozioni degli individui istrionici sono espresse intensamente e appaiono esagerate, prive di spontaneità, false; chi sta loro vicino ha la sensazione di assistere costantemente ad una recitazione. Facilmente rispondono a eventi minimi con pianti
incontrollati, rabbia, scoppi d’ira o collera, tanto da indurre gli altri ad accusarli di
simulare i sentimenti.
Possono avere difficoltà a raggiungere l’intimità emotiva in relazioni sentimentali o
sessuali nelle quali, senza rendersene conto, spesso recitano un ruolo (ad es., la “vittima”
o la “principessa”). Possono cercare di controllare il partner attraverso la manipolazione
emotiva o la seduttività, mentre manifestano parallelamente una marcata dipendenza.
Spesso compromettono le relazioni con gli amici dello stesso sesso perché il loro
stile relazionale sessualmente provocante può essere da questi vissuto come una minaccia per i propri rapporti oppure a causa di pressanti richieste di costante attenzione.
Le persone con questo Disturbo sono frequentemente intolleranti o frustrati dalle
situazioni che prevedono una gratificazione posticipata e le loro azioni sono spesso
dirette ad ottenere soddisfazione immediata. Sebbene inizino un lavoro o un progetto
con grande entusiasmo quest’ultimo può rapidamente venir meno.
14.2 Trattamento
La terapia del Disturbo Istrionico può risultare molto difficile ed il trattamento
cognitivo comportamentale a medio e lungo termine (da 1 a 2 anni) si è dimostrato
piuttosto efficace.
Sperry (2000) ha proposto un intervento rivolto a facilitare l’integrazione delle caratteristiche di sensibilità ed espressività con quelle di concretezza ed energia al fine di
imparare a “modulare”: le manifestazioni di superficialità ed esagerazione (stile affettivo); i comportamenti di incoerenza, di anassertività e di deficit di empatia e di effettivo
calore umano (stile interpersonale); gli atteggiamenti impressionistici e globali caratterizzati da impulsività (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati
e trattati con le seguenti tecniche: Training: per la Consapevolezza Emotiva e Cognitiva,
per l’Empatia e l’Assertività, per il Controllo degli Impulsi.
Le caratteristiche di drammatizzazione, impulsività, seduttività e tendenza alla manipolazione (che include potenzialità suicidarie) possono compromettere la relazione
194
I Disturbi di personalità
terapeutica ed è quindi necessario che il clinico sappia prevenire tale rischio discutendone con il paziente, sottolineando altresì i limiti del loro rapporto e delle rispettive
responsabilità.
Pertanto, nella terapia si individuano due fasi finalizzate rispettivamente a: modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il repertorio delle abilità
sociali e di gestione delle emozioni negative; riorganizzare la struttura (deprivazione
emotiva e/o eccessiva considerazione di sé) e i processi (eccessiva emotività) che mantengono i comportamenti disfunzionali (mancanza di obiettivi a medio e lungo termine, deficit di auto-gestione e di effettiva interdipendenza) per ristabilire un equilibrio
tra il desiderio funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere
associato.
TRAINING PER IL CONTROLLO DEGLI IMPULSI
Scopo di questo intervento é ridurre l’impulsività. La tecnica consente di aumentare le
capacità di autocontrollo e viene inizialmente presentata dal terapeuta e successivamente
applicata dal paziente nella realtà. L’intervento si articola in tre fasi: valutazione, addestramento e applicazione.
In una prima fase il clinico analizza l’insieme dei pensieri e delle emozioni del paziente che
causano comportamenti impulsivi dannosi per sé o per gli altri. Una volta compresa la relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti, il paziente può cominciare a cercare modalità alternative che gli permettano di ottenere gli stessi risultati con minori effetti negativi.
In secondo luogo il clinico esamina assieme al paziente questi pensieri e sentimenti: per
esempio, il paziente può tenere un diario dei pensieri e dei sentimenti associati a ciascun
comportamento impulsivo.
In terzo luogo il terapeuta insegna al paziente alcune risposte alternative, provocando
una situazione alla quale quest’ultimo risponde di solito in modo impulsivo e aiutandolo
a dilazionare la risposta - per periodi di tempo progressivamente più lunghi - tramite
metodi cognitivi (contare fino a dieci prima di agire o parlare) o rilassamento muscolare.
Una delle risposte alternative più comuni consiste nell’utilizzare metodi di distrazione
sia interna sia esterna. Come distrazioni interne si utilizzano pensieri incompatibili con
l’impulso (per es. “In realtà mi sto divertendo ed é meglio sorridere che adirarsi”); come
distrazioni esterne si possono apportare modificazioni all’ambiente (per es. lasciare una
stanza quando un genitore sta gridando, piuttosto che picchiarlo).
In quarto luogo il clinico fornisce il feedback necessario per aiutare il paziente a padroneggiare le abilità apprese. Inoltre gli insegna ad utilizzare metodi di distrazione per neutralizzare i propri impulsi: per esempio, se il paziente é presente mentre il proprio padre è
ubriaco può evitare di essere coinvolto in un litigio pensando a qualcosa di divertente per
poi allontanarsi con una scusa.
Infine, poiché il comportamento autolesivo può essere particolarmente grave, é essenziale
per il terapeuta comprendere le motivazioni di tale condotta, approfondendo in particolare i pensieri e i sentimenti immediatamente precedenti la messa in atto del comportamento stesso: in questo caso il clinico può chiedere direttamente: “Cosa stavi tentando di
ottenere con questa azione?”.
I tentativi di suicidio, le automutilazioni e altri comportamenti autodistruttivi possono
essere messi in atto per differenti motivi: punire qualcuno con cui il paziente è arrabbiato;
punire se stessi o cercare sollievo dai sensi di colpa; distrarsi da emozioni intollerabili e
così via. Una volta comprese le ragioni di una tale condotta il paziente può cercare mo195
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
dalità meno dannose e più adattive per conseguire i propri scopi: per esempio, é possibile
impiegare piccoli atti di autolesionismo (farsi dei segni con una penna) al posto di azioni
dalle conseguenze più gravi (tagliarsi le vene dei polsi). A loro volta, i piccoli atti autolesionistici saranno successivamente sostituiti con condotte più appropriate. Se vi è un’alta
probabilità che il soggetto si procuri seri danni fisici e l’approccio descritto in precedenza
non si è rivelato efficace, può essere necessaria l’ospedalizzazione al fine di offrire al paziente un po’ più di tempo per lavorare su questi problemi.
TRAINING PER LA CONSAPEVOLEZZA E LA REGOLAZIONE EMOTIVA
Per quei pazienti che normalmente soffrono di labilità di umore può essere utile apprendere abilità di regolazione emotiva. Tale tipo di addestramento può risultare di difficile
realizzazione poiché i pazienti sono spesso convinti che per modificare le proprie emozioni avrebbero bisogno di cambiare la loro natura. I pazienti con questi problemi sono
spesso cresciuti in ambienti dove gli altri mostravano un grande controllo delle proprie
emozioni, non tollerando al tempo stesso l’incapacità di mettere in atto tale controllo.
Di conseguenza, le persone con problemi di labilità emotiva non sono particolarmente
motivate a guadagnare il controllo sulle proprie emozioni perché questo significherebbe
disconfermare il proprio modo di essere e di sentire. Negli individui con forti sbalzi di
umore l’esperienza di una qualsiasi emozione scatena delle risposte secondarie quali intense sensazioni di vergogna, ansia e rabbia. In realtà le emozioni da loro provate sono
spesso adattive e appropriate al contesto: occorre perciò ridurre la frequenza delle risposte
secondarie, permettendo ai paziente di esprimere emozioni in un ambiente protetto e non
giudicante. In altre parole, la consapevolezza e l’accettazione delle proprie emozioni é essenzialmente una tecnica di esposizione. L’intervento procede come di seguito illustrato.
Lo psicoterapeuta indaga le abilità complessive di regolazione emotiva del paziente e alcune abilità specifiche, come la capacità di identificare le emozioni, di modularle e di averne
la consapevolezza. Successivamente il terapeuta delinea un piano di azione. L’addestramento può essere allestito in un contesto individuale o di gruppo; la situazione di gruppo
é tuttavia preferibile: il gruppo infatti può fornire il supporto sociale ed il feedback non
disponibili nel tradizionale formato terapeutico individuale.
In una terza fase il terapeuta, indipendentemente dal formato del trattamento, insegna,
modella e incoraggia le diverse, specifiche abilità che concorrono a regolare lo stato emotivo. Il primo passo della regolazione emotiva consiste nell’identificare e dare un nome
alle diverse emozioni. L’identificazione di una risposta emotiva implica abilità di autoosservazione e capacità di descrivere accuratamente il contesto in cui l’emozione viene
provata; infatti l’identificazione é molto più semplice se la persona è in grado di:
a) b) c) d) osservare e descrivere l’evento che ha provocato la risposta emotiva;
interpretare l’evento stesso;
differenziare le diverse sensazioni provate (incluse quelle fisiche);
descrivere gli effetti di tali sensazioni sul proprio funzionamento.
Allo stesso modo la labilità emotiva può essere modulata controllando gli eventi che
provocano gli sbalzi di umore o riducendo la vulnerabilità dell’individuo. I pazienti sono
più esposti emotivamente se conducono una vita stressante: in questo caso, le persone
dovrebbero essere aiutate a raggiungere un maggiore equilibrio nel proprio stile di vita
ed a ridurre gli eventi stressanti. Questo risultato si ottiene migliorando l’alimentazione,
il sonno, l’attività fisica, riducendo l’uso di sostanze stupefacenti ed incrementando il
196
I Disturbi di personalità
livello di autoefficacia. Il raggiungimento di tali obiettivi é facile solo in apparenza e può
comportare molte difficoltà: richiede infatti un approccio attivo e costante da parte del
paziente fino all’ottenimento dei risultati voluti.
Un altro modo per regolare la labilità emotiva consiste nell’aumentare il numero di circostanze positive nella vita del paziente: inizialmente si cerca di incrementare il numero
di eventi positivi nella quotidianità per poi arrivare a dei cambiamenti più profondi che
facilitino la naturale comparsa di aspetti positivi.
Oltre ad aumentare il numero effettivo di circostanze positive é utile lavorare per far si
che il paziente sia più consapevole delle cose positive che accadono e meno preoccupato
che le stesse possano venire meno. La consapevolezza verso lo stato emotivo corrente si
ottiene vivendo pienamente le emozioni senza giudicarle, inibirle, allontanarle o bloccarle. Si ipotizza cioè che l’esposizione ad emozioni stressanti e dolorose, in un ambiente
che protegge da conseguenze negative, estinguerà la comparsa delle risposte secondarie.
Un paziente che vive in maniera conflittuale l’aver esperito una determinata emozione
ed a causa di questo giudica se stesso negativamente, provando di conseguenza colpa,
rabbia o ansia, finirà con l’aumentare ulteriormente il proprio stato di malessere. Al
contrario, la persona é più capace di tollerare il proprio stato emotivo se si astiene dal
giudicarlo in modo negativo.
Come ultima fase, terapeuta e paziente collaborano assieme perché quest’ultimo possa
mettere in pratica le abilità di regolazione emotiva all’interno e fuori delle sedute. All’interno delle sedute l’uso del Role Playing può essere particolarmente utile per rinforzare le
abilità acquisite dal paziente; per l’applicazione fuori dalle sedute è possibile identificare
particolari situazioni in cui il paziente possa fare pratica.
14.3Caso clinico
Il caso di Marialba - “Devo dominare la situazione”
Diagnosi: Disturbo Istrionico di Personalità (sull’Asse II).
Dal CBA 2.0 scale primarie: ansia di tratto elevata. Riferite alcune manifestazioni
depressive come scarsa motivazione a svolgere le attività e facile affaticabilità.
Marialba ha 23 anni e lamenta problemi con lo studio nel quale non riesce ad applicarsi con costanza, ha difficoltà di concentrazione ed è indietro con gli esami. Soffre
di insonnia e di diversi disturbi fisici. Chiede di “conoscere meglio alcune mie caratteristiche psicologiche, capire cosa mi sta succedendo perché sto troppo male”.
Storia del caso
Marialba è una studentessa universitaria che vive con la madre ed il fratello in
quanto i genitori sono divorziati. Descrive un rapporto positivo con la madre e più
conflittuale con il padre ed il fratello. I rapporti tra i genitori sono sempre stati difficili,
con frequenti litigi ed incomprensioni reciproche.
Anche il rapporto sentimentale che la ragazza ha da un anno con un coetaneo è
piuttosto burrascoso e lei ritiene che lui debba accettare completamente il suo modo di
essere e di fare: “…sono fatta così e se mi vuole si deve adeguare a me”.
197
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Concettualizzazione e trattamento
La paziente riferisce difficoltà nel gestire alcuni stati d’animo negativi come frustrazione e rabbia. “Quando mi arrabbio sento la necessità di spaccare qualche oggetto
e di sentirne il rumore mentre si rompe”.
Riferisce che in occasione di un recente esame universitario nel quale il professore
l’aveva ripresa per il suo comportamento durante la prova scritta “mi sono messa a
piangere e a gridare che non avevo fatto niente ed ho abbandonato l’aula senza finire
il compito”.
Il primo obiettivo terapeutico si è focalizzato sulla gestione dell’emotività, iniziando da una conoscenza e discriminazione delle emozioni ed intervenendo con una
Ristrutturazione Cognitiva.
Si riportano le principali distorsioni logiche espresse da Marialba.
-
-
-
-
“Devo dominare la situazione altrimenti mi sento in difficoltà”.
“Mi va tutto male e quindi non valgo niente”.
“Nessuno mi vuole bene veramente se no mi capirebbe subito”.
“Se ricevo un complimento non ci credo, lo fanno per ipocrisia”.
La paziente ha appreso a riconoscere il legame tra pensieri, emozioni e comportamenti ed ha iniziato a mettere in discussione le cognizioni disfunzionali individuate
nelle emozioni negative e nelle condotte distruttive. Quando ha potuto sperimentare
modi alternativi di pensare e di affrontare la realtà ha acquisito consapevolezza anche
della natura dei propri disturbi fisici che, non avendo base organica, erano delle somatizzazioni che venivano rinforzate dalle conseguenze che producevano nell’ambiente
relazionale, in particolare attenzioni ed interessamento da parte degli altri.
Marialba presentava anche problemi relazionali, con condotte aggressive correlate
con scarsa stima in se stessa che la spingeva a volersi imporre a tutti i costi con la forza.
A seguito delle reazioni violente che agiva, provava spesso sensi di colpa.
Attraverso un Training Assertivo ha acquisito le abilità di disarmo della collera e di
gestione delle critiche, aumentando anche la propria tolleranza alle situazioni frustranti, capacità che aveva sempre ritenuto espressione di debolezza.
Dopo otto mesi di terapia la paziente ha imparato ad affrontare in maniera adattiva alcuni aspetti della propria esistenza che costituivano il problema più urgente per
lei, mantenendo tuttavia quelle caratteristiche di instabilità emotiva e di enfatizzazione
dell’espressione delle emozioni sulle quali era però maggiormente in grado di esercitare
una forma di controllo.
198
CAPITOLO 15
Disturbo narcisistico
15.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
Un quadro pervasivo di grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), necessità di
ammirazione e mancanza di empatia, che compare entro la prima età adulta ed è presente
in una varietà di contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
ha un senso grandioso di importanza (per es. esagera risultati e talenti, si aspetta di
essere notato come superiore senza una adeguata motivazione)
è assorbito da fantasie di illimitato successo, potere, fascino, bellezza e di amore
ideale
crede di essere speciale e unico e di dover frequentare e di poter essere capito solo da
altre persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata
richiede eccessiva ammirazione
ha la sensazione che tutto gli sia dovuto, cioè l’irragionevole aspettativa di trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative
sfruttamento interpersonale, cioè si approfitta degli altri per i propri scopi
manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le
necessità degli altri
è spesso invidioso degli altri o crede che gli altri lo invidino
mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntuosi
Beck, Rush, Shaw ed Emery (1979) fanno riferimento alla “triade cognitiva” per
riferirsi agli schemi disfunzionali che caratterizzano la visione di sé, del mondo e del futuro del paziente con Disturbo Narcisistico. Nella percezione di se stesso egli si concentra esclusivamente sulla gratificazione personale e si considera unico, speciale, eccezionale; ritiene che tutto gli sia dovuto e si aspetta dagli altri continua attenzione, rispetto,
obbedienza e forte ammirazione; il futuro è finalizzato alla realizzazione grandiosa di
successo illimitato, potere, fascino ed amore ideale.
199
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
I pazienti con questo Disturbo possono presentare alcuni aspetti comportamentali
che ne caratterizzano lo stile. Si tratta generalmente di persone molto attente e ricercate nella cura della propria forma fisica e nel modo di vestire. Parlano volentieri di sé,
facendo frequentemente riferimento alle proprie doti e talenti, e si aspettano un’ammirazione ed una considerazione speciale ed esclusiva anche da parte del terapeuta
che tentano di manipolare per ottenere una prova della loro grandiosità ed unicità.
Nel rapporto con il terapeuta esprimono commenti ed interrogativi sulle sue capacità
professionali, poiché si ritengono meritevoli delle cure migliori, ed hanno aspettative
molto elevate sull’efficacia del trattamento in tempi brevi. Per questo motivo, spesso
sperimentano un sentimento di delusione per la mancata realizzazione di obiettivi irrealistici e di conseguenza frequentemente arrivano ad interrompere il trattamento. A
volte il terapeuta viene adulato con intenti manipolativi e se non interpreta questi atteggiamenti come espressione della psicopatologia, ma ne rimane gratificato e lusingato, arriva a compromettere il percorso terapeutico. In altri casi questi pazienti possono
provocare nel clinico elevati livelli di frustrazione, non impegnandosi nella realizzazione dei progetti concordati perché convinti di meritare “ben altri trattamenti” dal terapeuta, ed indurlo a ritenere che gli atteggiamenti ed i comportamenti riscontrati siano
troppo radicati per poter essere modificati. Per superare queste difficoltà è necessario
provare ad identificare alcuni obiettivi più facilmente raggiungibili e programmabili a
breve termine, in modo da poter ottenere cambiamenti positivi in tempi rapidi, come
ad esempio focalizzarsi su una convinzione specifica espressa in un contesto particolare
oppure aiutare il paziente ad essere maggiormente consapevole dei sentimenti che una
persona a lui cara può aver provato trovandosi in una precisa situazione.
Le relazioni sociali del paziente con Disturbo Narcisistico sono spesso caratterizzate
da forti tensioni in quanto la vulnerabilità della sua autostima lo rende molto sensibile
alle critiche altrui ed alle frustrazioni: anche se può non mostrarlo esteriormente, la critica gli provoca un’umiliazione ed un avvilimento che lo inducono a reagire con sdegno o
rabbia oppure a contrattaccare con insolenza. In generale, i rapporti interpersonali sono
compromessi dalle eccessive pretese, dalla necessità di ammirazione e dal relativo disinteresse per la sensibilità degli altri, con mancanza di empatia ed incapacità di riconoscere
i loro sentimenti. Le relazioni sociali sono basate prevalentemente sul principio della
convenienza e dello sfruttamento dell’altro: difficilmente il narcisista dona qualcosa in
modo completamente disinteressato. Può esservi la tendenza a non instaurare legami
affettivi seri ed importanti in quanto nessuno viene valutato sufficientemente positivo
per sé e, nel caso in cui si stabiliscano relazioni sentimentali, sono frequenti separazioni e
rotture. Il partner deve essere una figura ideale, con requisiti ad alti livelli nell’aspetto fisico, nella condizione socio economica e nella personalità: in caso contrario, difficilmente l’altro è oggetto di interesse. Tuttavia, all’interno della coppia entra spesso in competizione con il partner, in particolar modo se i suoi successi sono superiori ai propri.
Anche il rapporto professionale è condizionato dal proprio ruolo di centralità: il
lavoro viene usato come strumento per mettere in evidenza le proprie capacità, allo
scopo di ottenere un riconoscimento personale. Il narcisista ritiene di non dover essere
assegnato allo svolgimento di mansioni troppo semplici rispetto alle alte competenze che
crede di possedere, è poco tollerante nei confronti dell’autorità ed esprime marcati sentimenti di insofferenza quando si trova a ricoprire posizioni professionali subordinate.
200
I Disturbi di personalità
15.2Trattamento
Generalmente, il paziente con Disturbo Narcisistico richiede un intervento di psicoterapia solo quando i suoi problemi relazionali hanno raggiunto livelli significativamente invalidanti oppure a seguito dello sviluppo di un disturbo di tipo ansioso o
depressivo. In particolare, quest’ultimo è assai frequente in quanto la presenza di aspettative grandiose e di fantasie di successo illimitato rimangono costantemente inappagate, generando un costante sentimento di frustrazione.
Il narcisista può manifestare un atteggiamento di resistenza alla valutazione diagnostica, in quanto tende a non accettare che il proprio problema, che egli considera
unico e speciale, venga classificato come ordinario e sia comune anche ad altri.
Nel trattamento del Disturbo si focalizzano due obiettivi generali.
1. Trattamento del disturbo specifico presentato, finalizzato alla risoluzione dei sintomi lamentati. Si tratta di un lavoro a breve termine.
2. Modificazione dello stile di vita del paziente, attraverso un intervento di Ristrutturazione Cognitiva che, riducendo progressivamente le cognizioni disfunzionali,
consenta di acquisire alternative di comportamento più adattive. Questo lavoro
a lungo termine è rivolto al trattamento di aspetti caratteristici dello stile cognitivo, affettivo e comportamentale della persona narcisista. Questa infatti utilizza
spesso una modalità di pensiero di tipo dicotomico, categorizzazione nei termini
di “tutto o niente”, oscillando spesso tra due estremi: da una visione totalmente
positiva di sé ad una drasticamente negativa. Nel confronto con gli altri, amplifica
irrazionalmente le diversità, collocandosi o in una posizione di netta superiorità
o in condizione di incolmabile inferiorità. Nel corso della terapia si opera una
ristrutturazione cognitiva dell’eccessivo senso di grandiosità del paziente in modo
che egli possa, attraverso l’assunzione di convinzioni alternative, attribuire a se
stesso un livello di importanza più obiettivo e realistico e riconoscere analoghe
caratteristiche negli altri.
L’intervento sull’ipersensibilità alla valutazione si avvale della tecnica di Desensibilizzazione Sistematica, con una gerarchia di esposizioni graduali al feedback degli altri.
Si procede iniziando con il confronto con un riscontro positivo e si prosegue verso
altri progressivamente sempre più critici e negativi. Durante l’esposizione, il paziente
ha il compito di riflettere sui propri pensieri e sulle interpretazioni disfunzionali e
catastrofiche, ristrutturandoli in una direzione più realistica ed adattiva, nonché sulla
propria modalità di reazione emotiva. Il fine ultimo è lo sviluppo di nuove abilità che
gli consentano inizialmente di tollerare e successivamente di beneficiare delle valutazioni altrui e di poter mantenere una visione positiva di sé indipendentemente dalle
osservazioni espresse dagli altri. L’intervento sulla modificazione dell’atteggiamento di
eccessiva attenzione alle valutazioni ed ai giudizi utilizza tecniche di Blocco del Pensiero
e di Distrazione.
Nel trattamento del Disturbo si prevede un intervento per accrescere l’empatia
verso gli altri. Il paziente inizia a prestare attenzione alla propria mancanza di empatia
con l’aiuto del terapeuta che gli pone interrogativi circa il riconoscimento dei senti201
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
menti altrui. Attraverso l’utilizzo del Role Playing con inversione di ruolo, il paziente
può attivare gli schemi cognitivi relativi ai sentimenti ed alle reazioni emotive degli
altri, enfatizzando quali emozioni essi potrebbero provare in determinate circostanze.
Egli viene invitato a riflettere e discutere sulla possibilità di modi alternativi di relazionarsi, ad esempio provando a cedere il posto a qualcuno, a complimentarsi con una
persona per qualcosa … Per motivarlo a questo lavoro a lungo termine, può risultare
facilitante l’impiego di una lista di problemi specifici lamentati dal paziente che consenta di concentrare il trattamento su situazioni ben definite.
Secondo Sperry (2000) il trattamento del Disturbo Narcisistico è difficile ed inizialmente può risultare complesso, al punto da configurarsi come una sfida per il terapeuta, a causa del pervasivo atteggiamento di ipervalutazione di sé del paziente affetto
da questa patologia. Di sicura efficacia risultano gli interventi psicoterapeutici cognitivo comportamentali a medio - lungo termine (da 1 a 3 anni), che sono altamente
consigliabili.
Sinteticamente e riferendoci ad obiettivi generali, la terapia con pazienti narcisisti
consiste nell’affiancarli nell’integrare e “modulare”: le frequenti e visibili manifestazioni
della c.d. “collera narcisistica” (stile affettivo); i comportamenti interpersonali caratterizzati da profondi deficit di atteggiamento empatico (stile interpersonale); un utilizzo
diffuso e disfunzionale di distorsioni cognitive, del meccanismo di difesa dell’identificazione proiettiva; una continua ipervigilanza (stile cognitivo). Rispettivamente i
tre stili vengono affrontati e trattati con le seguenti tecniche: Training per la Gestione
della Rabbia, Training per l’Empatia ed Addestramento per la Consapevolezza Cognitiva
e per la Riduzione della Sensibilità Interpersonale. Dal punto di vista della relazione ed
alleanza terapeutica, considerando che i pazienti con personalità narcisistica possono
manifestare atteggiamenti e comportamenti di attacco e di resistenza se non vedono
soddisfatte le proprie aspettative e non vengono date conferme al loro sé, il clinico può
minimizzare le proteste o le lamentale del paziente, fornendogli delle interpretazioni
funzionali.
In generale, quindi, il trattamento psicologico del Disturbo Narcisistico mira, in
una prima fase, a modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il
repertorio delle abilità sociali e di gestione delle emozioni negative e, in una seconda
fase, a riorganizzare la struttura (eccessiva considerazione di sé, mancanza di autocontrollo, propensione alla sfiducia e all’abuso verso gli altri) ed i processi (bassa consapevolezza e scarsa sollecitudine verso i bisogni degli altri) che mantengono i comportamenti
disfunzionali (deficit pervasivo di empatia) al fine di ristabilire un equilibrio tra il
desiderio funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere
associato.
TRAINING PER LA GESTIONE DELLA RABBIA
Lo scopo di tale intervento è diminuire l’attivazione emotiva e le manifestazioni di ostilità
dell’individuo, aumentando allo stesso tempo la capacita di esprimere tali energie in modi
più accettabili socialmente. Si tratta di un intervento sostanzialmente direttivo che può
essere applicato in un formato individuale oppure di gruppo. Le abilità acquisite vanno
poi messe in pratica nella realtà. Naturalmente un rapporto collaborativo tra terapeuta
202
I Disturbi di personalità
e paziente può aumentare la motivazione e la compliance di quest’ultimo. L’intervento
procede come di seguito illustrato.
Inizialmente il clinico informa il paziente sui quattro fattori responsabili della risposta di
rabbia:
a) situazioni ad alto rischio (fattori esterni come persone, luoghi o momenti del giorno
che possono suscitare rabbia o risentimento);
b) fattori interni (sensazioni, sentimenti, sindrome da astinenza o livello di stress che
possono rendere piú vulnerabile l’individuo alla reazione collerica);
c) dialogo interno (pensieri, immagini o convinzioni specifiche che possono scatenare
reazioni di rabbia o rendere la persona più vulnerabile alla rabbia stessa);
d) strategie di coping che possono aumentare o diminuire gli effetti dei fattori precedenti.
In secondo luogo il terapeuta aiuta il paziente a identificare nella propria vita le circostanze in cui si presentano i quattro fattori e viene compilata una lista contenente le
situazioni che più tipicamente scatenano rabbia. Per esempio, il clinico chiede al paziente
di descrivere un episodio recente in cui ha manifestato rabbia e lo guida nell’individuare e
discriminare gli aspetti relativi ai quattro fattori. Riportiamo un caso a titolo di esempio.
Un paziente era stato denunciato dalla moglie dopo averla percossa:
-
-
-
-
dopo aver bevuto molti alcolici in un bar, egli decise di tornare a casa con la sua
moto, rischiando più volte un’incidente grave (circostanza ad alto rischio);
aveva avuto una giornata lavorativa molto pesante e frustrante, era sotto gli effetti
dell’alcol ed era di pessimo umore poiché era andato incontro ad un umiliante insuccesso professionale (fattori interni);
aveva pensato: “Perché capitano tutte a me?” e “Nessuno può permettersi di mortificarmi così mentre esercito e passarla liscia” (dialogo interno);
trattandosi di una persona molto suscettibile alle critiche ed alle limitazioni e facile
all’arrabbiatura (strategie di coping), di fronte all’“incomprensione” della moglie,
totalmente in preda alla collera, passò alle vie di fatto.
La terza fase consiste nell’invitare il paziente a riportare per iscritto ogni episodio in cui
ha provato collera, ad identificare i quattro fattori ed i comportamenti messi in atto
(nell’esempio precedente, gridare e strattonare violentemente la moglie). Vengono quindi
cercate delle analogie tra i vari episodi accaduti e gli specifici deficit nelle strategie di coping (nell’esempio precedente, era più probabile che il paziente si arrabbiasse quando era
stanco, dopo una giornata di lavoro non gratificante e/o dopo aver bevuto).
Nella quarta fase si cercano alternative alle situazioni ad alto rischio (nell’esempio precedente, se il paziente aveva bevuto, poteva prendere un taxi o farsi accompagnare a casa) e piani
di azione per ridurre l’influenza dei fattori interni (quando si é molto stanchi o stressati é
meglio evitare di fare richieste pressanti o creare polemiche dannose e non funzionali).
Nella quinta fase lo psicoterapeuta allena il paziente ad un dialogo interno più efficace nel
gestire i propri scatti di collera (nell’esempio precedente, “È davvero brutto ed inutile che
io abbia aggredito mia moglie, ma farò del mio meglio per evitare che riaccada”).
Infine, il clinico insegna al paziente Tecniche di Rilassamento (respirazione controllata) e
Distrattive (contare fino a dieci nel momento in cui si sente contrastato) e altre modalità di
Coping (per es. comunicazione assertiva) come valide alternative alle reazioni di rabbia.
203
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
TRAINING PER LO SVILUPPO DELL’EMPATIA
In questo intervento viene chiesto al paziente di esprimere ciò che ha compreso riguardo
il punto di vista ed i sentimenti di qualcun altro. Tale visione è direttamente confrontata
con l’altro individuo per essere eventualmente corretta. Si verifica anche in che misura
il paziente é consapevole dell’impatto delle proprie azioni o parole sugli altri (specie se
queste suscitano dolore o rancori) e delle aspettative degli altri sul tipo di comportamento
da mettere in atto. Il Training per lo Sviluppo dell’Empatia é particolarmente comune per
contrastare la proiezione e la scissione, favorendo una maggiore consapevolezza circa i
sentimenti e i pensieri altrui. Le capacità empatiche, infatti, facilitano un rapporto costruttivo con l’altro ed una migliore capacità di risolvere i problemi. Tra i diversi approcci
ideati per lo sviluppo dell’empatia, quello centrato sulle relazioni interpersonali ha dimostrato di essere particolarmente efficace e breve, non più di 3-4 sedute, per i Disturbi di
Personalità (incluso il Disturbo Narcisistico), specialmente se inserito all’interno di una
terapia di coppia. L’intervento procede come di seguito illustrato.
In primo luogo il clinico valuta il grado in cui il paziente possiede e utilizza le seguenti abilità empatiche: ascolto attivo, interpretazione dei segnali interpersonali, risposta empatica.
In secondo luogo il terapeuta, tramite Modellamento, istruisce il paziente su queste abilità
fino a quando egli non cominci a mostrare capacità di ascolto e risposte empatiche.
Successivamente il terapeuta incoraggia il paziente ad utilizzare le abilità empatiche con
l’altro elemento della coppia partendo da argomenti neutri, proseguendo con gli aspetti
positivi della relazione per poi arrivare ai conflitti. In pratica. lo psicoterapeuta esorta il
paziente ad affrontare i propri punti deboli ed a riconoscere i propri bisogni mascherati dalle difese narcisistiche, incoraggiandolo a ricorrere all’uso dell’ascolto empatico ed
all’espressione degli autentici sentimenti provati. Inizialmente il paziente tende ad esperire
ed esprimere la propria vulnerabilità sotto forma di rabbia, critiche e biasimo; l’ascolto
empatico diventa un mezzo a sua disposizione per calmare le proprie reazioni istintive e per
scollegare le emozioni provate dai comportamenti dannosi scatenati da queste emozioni.
In quarto luogo, con questo training viene insegnata al paziente l’auto-osservazione della
propria reattività emotiva. I pazienti spesso riferiscono che ascoltare e rispondere empaticamente li fa sentire maggiormente di sostegno agli altri. Essi scoprono anche che quando
le emozioni sono accuratamente osservate ed espresse con una consapevolezza maggiore,
tenendo conto anche del significato dell’emozione stessa, esse tendono a mutare o ad
estinguersi rapidamente. Per esempio, un individuo può sentirsi arrabbiato molto a lungo
se non presta attenzione a tale emozione, al suo significato ed ai desideri che essa può
rivelare. Se invece egli si pone in un atteggiamento di osservazione e comprensione verso
il proprio stato emotivo, è facile che avvenga un cambiamento a livello affettivo, cognitivo
e comportamentale.
TRAINING PER LA CONSAPEVOLEZZA COGNITIVA
Con questo intervento si vogliono ridurre i sentimenti di rabbia e frustrazione, le tendenze proiettive e le distorsioni cognitive tipiche dei narcisisti. Una maggiore consapevolezza
ed attenzione verso le proprie distorsioni cognitive e le proprie aspettative irrealistiche
per diminuire la tensione, lo stress e l’aggressività; per questo motivo il Training di Consapevolezza Cognitiva è particolarmente indicato per i Disturbi di Personalità. Anche se
l’intervento è introdotto dal terapeuta, esso é sostanzialmente autogestito dal paziente a
cui é richiesto molto esercizio al fine di raggiungere un buon livello di padronanza. L’intervento procede nel seguente modo.
204
I Disturbi di personalità
Per prima cosa il clinico analizza il tipo di problema, poiché l’intervento varia a seconda
che sia applicato a un problema di frustrazione, di proiezione o di distorsioni cognitive.
Se il problema è il sentimento di frustrazione o l’atteggiamento proiettivo, il training si
concentra sulle relazioni sociali che rappresentano fonti di conflitto per l’individuo. Lo
scopo è far comprendere al paziente la relazione tra il comportamento altrui (che egli pensa essere causa dei propri problemi) e l’irragionevolezza delle proprie aspettative. Questo
vuole dire cercare che cosa esattamente nel comportamento dell’altro ha provocato la
frustrazione, il risentimento o il dolore ed identificare allo stesso tempo quali aspettative
sono state deluse. L’essenziale è che il terapeuta assista il paziente nel differenziare le aspettative ragionevoli da quelle irragionevoli. La mancata differenziazione tra le aspettative è
fonte della frustrazione tipicamente provata dai narcisisti.
Se il problema riguarda le distorsioni cognitive, il clinico si focalizza sui pensieri e le
immagini del paziente associati con l’inizio e l’esacerbazione del conflitto. Il terapeuta
analizza l’esperienza interiore del paziente nel momento in cui la rabbia comincia a salire:
che cosa pensava, cosa si diceva e quali immagini aveva il paziente nel momento in cui
il contrasto con l’altro iniziava a degenerare? Prestando attenzione a queste cognizioni,
l’individuo può diventare maggiormente consapevole di molti pensieri e percezioni irrazionali che in precedenza erano al di fuori della sua consapevolezza.
15.3Caso clinico
Il caso di Barto - “Non credo che la mia personalità possa essere definita con tre parole”
Diagnosi: Disturbo Narcisistico di Personalità (sull’Asse II).
Dal CBA 2.0 scale primarie: non si rilevano punteggi significativi in nessuna delle
scale. Barto ha 30 anni e chiede la psicoterapia perché “sono sempre agitato e in tensione”. Non identifica un momento d’inizio del problema ma dice di soffrirne da pochi
mesi. Lamenta tachicardia, sudorazione e tremore agli arti superiori.
Storia del caso
Barto lavora come impiegato presso uno studio commerciale e vive con i genitori
con i quali ha un buon rapporto. Ha interrotto gli studi universitari per timore di
non riuscire come gli altri: “Mi sono trovato a dovermi confrontare con ragazzi molto
preparati … mentre preparavo gli esami pensavo che qualcun altro comunque sarebbe
stato più bravo di me”.
Ritiene di avere doti e capacità eccezionali: “Qualsiasi cosa decido di fare mi riesce
bene, non c’è niente che non sono in grado di fare bene a meno che non mi interessa e
per questo non mi ci impegno”.
Riferisce di non avere rapporti sociali soddisfacenti perché “molte persone sono
deboli o cattive … e con i colleghi non c’è possibilità di relazione perché loro riconoscono che sono più bravo ma non lo ammettono”. Le difficoltà nel rapporto interpersonale gli suscitano frustrazione con emozioni di rabbia ed alimentano la considerazione
narcisistica di se stesso e svalutante degli altri.
205
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Concettualizzazione e trattamento
Le caratteristiche del Disturbo Narcisistico hanno influito negativamente sulla
compliance alla terapia in quanto il paziente ha assunto un atteggiamento critico e
svalutante, ritenendo poco probabile che lui potesse avere caratteristiche di personalità
riscontrabili anche in altre persone: “Non mi riconosco nelle caratteristiche descritte
come comuni anche ad altre persone e poi io sono unico”. La posizione di superiorità
attribuitasi rispetto agli altri è stata inizialmente mantenuta anche nei confronti del
terapeuta verso il quale sembrava prevalere un atteggiamento di sfida teso a squalificare
piuttosto che a collaborare.
Tuttavia si è proceduto con esiti positivi alla definizione di obiettivi comuni, concettualizzati in termini di problemi scatenanti le sue manifestazioni di ansia. Barto
ha identificato i problemi di relazione come motivo di tensione e su quest’area si è
dichiarato disposto a lavorare. Ha accettato di sperimentare convinzioni alternative a
quelle che sostenevano la sua visione degli altri: “anche le altre persone hanno aspetti
positivi”, “anche gli altri hanno opinioni da ascoltare”, “anche gli altri hanno bisogni da
soddisfare”… Per ciascuna convinzione proposta il paziente ha prodotto esempi concreti che ricavava personalmente nell’esperienza quotidiana di relazione interpersonale.
Particolarmente utile è risultata l’analisi delle caratteristiche obiettive delle persone con
le quali veniva a contatto, in termini di abilità/pregi in alcune aree e difficoltà/difetti in
altre. Questo gli ha consentito di “normalizzare” la visione di sé in rapporto agli altri,
ha potuto riscontrare di avere anche aspetti in comune con loro, arrivando a riconoscere che “uno non può essere superiore o migliore in tutto e cercando di dimostrare di
essere sempre il migliore ho compromesso i miei rapporti”.
Un altro aspetto importante del Disturbo di Barto era l’ipersensibilità al giudizio
e per ridurla si è proceduto con un compito di esposizione alla valutazione degli altri.
Il paziente doveva chiedere opinioni su di sé e registrare i pensieri e le emozioni che
queste gli suscitavano.
Con l’utilizzo del Role Playing il paziente ha acquisito consapevolezza circa le conseguenze negative del proprio modo di porsi nei confronti altrui ed ha sviluppato un
relativo grado di empatia: “Certo che con queste parole ferisco veramente, capisco
come si può sentire…”.
La terapia si conclude dopo undici mesi perché Barto riferisce di sentirsi più tranquillo e di aver migliorato i propri rapporti con i colleghi di lavoro, nei confronti dei
quali continua a mantenere atteggiamenti competitivi ma con un grado di consapevolezza che ne consente la riduzione sia in termini quantitativi che di intensità.
206
CAPITOLO 16
Disturbo evitante
16.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
A. Un quadro pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza ed ipersensibilità al giudizio negativo, che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà
di contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
evita attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale, perché teme di essere criticato, disapprovato o rifiutato;
è riluttante nell’entrare in relazione con persone se non sia certo di piacere;
è inibito nelle relazioni intime per il timore di essere umiliato o ridicolizzato;
si preoccupa di essere criticato o rifiutato in situazioni sociali;
è inibito in situazioni interpersonali nuove per sentimenti di inadeguatezza;
si vede socialmente inetto, non attraente o inferiore agli altri;
è insolitamente riluttante ad assumere rischi personali o ad ingaggiarsi in qualsiasi
nuova attività, poiché questo può rivelarsi imbarazzante.
Nell’accertamento di questa patologia è necessaria una diagnosi differenziale con i Disturbi:
-
-
-
-
-
Fobia Sociale, nel quale l’evitamento sociale non è generalizzato ma circoscritto a
specifiche situazioni;
Attacchi di Panico e Agorafobia, dove l’evitamento non ha esordio precoce ma è
successivo all’esperienza di panico;
Schizoide e Schizotipico di Personalità, dove l’evitamento sociale è un’esigenza pervasiva con l’assenza del desiderio di entrare in relazione con l’altro;
Paranoide di Personalità, nel quale la riluttanza a fidarsi degli altri non è dovuta al
timore dell’imbarazzo o dell’inadeguatezza ma alla loro supposta malevolenza;
Dipendente di Personalità, poiché gli individui evitanti possono diventare dipendenti da quelle poche persone con le quali riescono ad instaurare un rapporto di
amicizia.
207
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Una descrizione della personalità evitante può essere quella di un individuo che di
fronte ad una minima provocazione o anche in assenza di un tale stimolo sente che gli
altri lo disprezzano, non lo prendono sul serio, non desiderano la sua compagnia o lo
trascurano. Il suo auto disprezzo lo rende profondamente incerto riguardo agli atteggiamenti degli altri nei suoi confronti. Non essendo in grado di accettarsi così come è,
non può in alcun modo credere che gli altri, conoscendo tutti i suoi difetti, possano
accettarlo con spirito amichevole o elogiativo.
Nel 1981, Millon rileva che individui con “Personalità Evitante” mantengono una
vigilanza costante per timore che i propri impulsi e desideri d’affetto possano essere
causa di ripetute esperienze dolorose ed angosciose, in passato già sperimentate con
altri. In una prospettiva biosociale (Millon, Everly, 1985; Millon, Davis, 1996), l’origine e lo sviluppo del Disturbo Evitante sono correlati con fattori ambientali e biogenetici. L’attivazione del Sistema Nervoso Simpatico, che determina l’ipervigilanza,
comporta che impulsi anche irrilevanti possano interferire con i normali processi di
pensiero, elementi di disturbo nelle associazioni logiche. Dal punto di vista ambientale, le esperienze del rifiuto da parte dei genitori e del gruppo dei pari rappresentano
importanti influenze eziologiche che compromettono negativamente il proprio senso
di valore e competenza e comportano critiche negative verso se stessi. Ne conseguono:
una restrizione delle esperienze sociali, che non favorisce lo sviluppo di adeguate abilità
relazionali e la possibilità di ricevere risposte positive dagli altri; una ipersensibilità alla
critica che, associata all’ipervigilanza, induce ad interpretare come rifiuto di sé anche
atteggiamenti non obiettivabili in tal senso; una accentuata introspezione.
Beck e Freeman (1993) hanno proposto un profilo cognitivo per il Disturbo Evitante caratterizzato da un concetto di sé inadeguato, senza valore, socialmente inetto
ed incompetente, vulnerabile al rifiuto e da un concetto degli altri come critici, disinteressati o umilianti. Il paziente con questo Disturbo utilizza una strategia di evitamento
delle situazioni in cui può essere valutato (evitamento comportamentale) e di pensieri
spiacevoli associati con emozioni negative intollerabili (evitamento cognitivo). Emotivamente prevale la disforia conseguente alla consapevolezza dell’impossibilità di stabilire relazioni sociali ed intime soddisfacenti, pur desiderando il rapporto con l’altro, e
di ottenere la realizzazione nel lavoro.
Gli Autori identificano le seguenti convinzioni del paziente evitante:
- “se la gente avesse modo di conoscermi da vicino scoprirebbe chi sono veramente
e mi respingerebbe”;
- “essere smascherato come inferiore o inadeguato sarà insopportabile”;
- “dovrei evitare situazioni spiacevoli ad ogni costo”;
- “se gli altri mi criticano, vuol dire che ci sono delle buone ragioni”;
- “dovrei evitare situazioni in cui sono al centro dell’attenzione o dovrei passare il
più inosservato possibile”;
- “qualunque segno di tensione in una relazione sta a significare che la relazione è
andata a finire male, pertanto dovrei interromperla”.
Beck e Freeman (1998) fanno risalire queste convinzioni ad esperienze di apprendimento nell’infanzia in un rapporto con le figure significative caratterizzato da criti208
I Disturbi di personalità
che, umiliazioni e rifiuto. Di conseguenza il soggetto impara a percepirsi come inadeguato, incapace e senza valore e, dopo varie esperienze negative, crede che questa sia la
sua vera natura. Pur desiderando affetto, accettazione ed amicizia è una persona con
pochi amici e con poche relazioni intime.
La paura di essere rifiutato lo porta a mantenere le distanze dagli altri ed a richiedere accettazione incondizionata prima di potersi aprire con loro. Tendenzialmente, li
mette alla prova per verificare a chi può piacere veramente.
Liotti (1994) rileva come atteggiamenti di genitori esigenti, umilianti ed improntati alla derisione producano nel figlio un’immagine di sé come debole ed incompetente e lo portino a vivere la relazione in termini di rifiuto.
L’evitante è riluttante ad entrare in relazione con l’altro, a meno che non sia certo
di essere accettato, in quanto questi ha un ruolo di validatore della sua identità e può
pertanto costituire una minaccia: la propria amabilità si definisce sulla base della sua
reazione. “Se sono accettato vuol dire che sono amabile, se sono rifiutato non sono
amabile” (Lorenzini, Sassaroli, 1995).
La centralità del rapporto con le figure parentali nell’infanzia è sottolineato da
Benjamin (1999) che sottolinea come i pazienti con Disturbo Evitante abbiano ricevuto un’educazione appropriata ed abbiano avuto uno sviluppo iniziale positivo,
tanto da desiderare i contatti sociali e l’accudimento da parte di altri. Tuttavia, il
successivo controllo dei genitori, finalizzato a creare una positiva immagine sociale,
ha comportato che qualsiasi imperfezione dei figli sia stata vissuta come fonte di
imbarazzo ed umiliazione, specialmente per la famiglia. Diventati adulti, questi individui si relazionano soltanto quando sanno di poter agire in maniera adeguata e di
poter dare una impressione favorevole di se stessi, evitando quelle situazioni sociali
che potrebbero portarli a provare le stesse emozioni di imbarazzo e di umiliazione
sperimentate nell’infanzia. Va osservato che, nonostante siano stati condizionati negativamente dalle figure significative di riferimento, sono convinti che la famiglia
rappresenti per loro l’unica fonte di supporto e tutto ciò che ne è estraneo sia oggetto
di pericolo sociale.
Nel paziente con Disturbo Evitante Sperry (2000) individua uno schema di assenza di valore/vergogna, relativo alla credenza di essere intrinsecamente privo di valore e
di meriti e quindi non degno dell’attenzione altrui, ed uno schema di scarsa attrattività
sociale/alienazione, riferibile alla convinzione di essere diverso rispetto agli altri e di
conseguenza indesiderabile.
16.2 Trattamento
I pazienti con Disturbo Evitante hanno una bassa tolleranza agli stati disforici ed
evitano pensieri che possono evocare emozioni spiacevoli. L’obiettivo terapeutico prevede l’iniziale presa di consapevolezza dell’evitamento cognitivo ed emotivo finalizzata
non all’eliminazione totale della disforia quanto piuttosto all’accrescimento della capacità di sperimentare questo vissuto, intervenendo sulla disconferma delle convinzioni
relative alla sua intollerabilità ed ai pericoli che vi vengono associati.
209
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Nella terapia di questo Disturbo si rileva la centralità della relazione terapeutica
che deve basarsi sulla fiducia e sull’accettazione in un contesto nel quale il paziente si
senta sicuro, considerata la sua paura di esprimere pensieri ed emozioni che possono
essere giudicati negativamente. Egli diffida dell’autentico interessamento del terapeuta
ed ha paura di essere rifiutato, così come avviene in tutte le altre relazioni interpersonali. Anche in questo tipo di rapporto quindi, una volta stabilita una relazione agirà nel
tentativo di compiacere continuamente l’altro, nella convinzione che quest’ultimo lo
rifiuterebbe se lui affermasse i propri desideri.
Pertanto, nel trattamento del Disturbo Evitante si rivela efficace un Training di
Abilità Sociali insieme con interventi di tipo cognitivo finalizzati all’ampliamento delle
relazioni sociali ed alla riduzione dell’ansia ad esse associata (Stravynski, Marks, Yule,
1982).
La fase finale della terapia si concentra sul lavoro di Prevenzione della Ricaduta a
livello comportamentale e cognitivo, in quanto i pazienti con questo Disturbo possono
facilmente ripresentare le caratteristiche patologiche iniziali. Gli obiettivi comportamentali possono prevedere le seguenti attività: stabilire nuove amicizie, approfondire le
relazioni esistenti, comportarsi in maniera affermativa nei rapporti con gli altri, affrontare situazioni precedentemente evitate. A livello cognitivo, si interviene per ridurre
l’incidenza delle convinzioni disfunzionali e rafforzare le nuove acquisizioni. L’identificazione delle situazioni di rischio che potrebbero compromettere le relazioni future
consente al paziente di prevedere gli eventuali pericoli di ricaduta e progettare un piano
d’intervento, con la pianificazione dei comportamenti adeguati e positivi che ha appreso, dopo aver identificato e modificato i pensieri che lo indurrebbero a riproporre
l’evitamento.
Sperry (2000) ritiene che il trattamento del Disturbo Evitante sia possibile anche se inizialmente può risultare frenato a causa dell’atteggiamento di chiusura e di
sfiducia del paziente affetto da tale patologia. Una relativa efficacia presentano gli
interventi psicoterapeutici cognitivo comportamentali a medio - lungo termine (da
1 a 3 anni), che rimangono comunque quelli che hanno ottenuto i risultati più soddisfacenti.
In sintesi e riferendoci ad obiettivi generali, l’intervento con pazienti evitanti
consiste nell’aiutarli a sapere integrare ed a “modulare”: gli atteggiamenti di ipersensibilità ed apprensività (stile affettivo); i comportamenti fortemente caratterizzati da
eccessivo evitamento/isolamento e da timidezza ed anassertività (stile interpersonale);
l’ipervigilanza (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati e trattati
con le seguenti tecniche: Training per la Regolazione Emotiva, Training per le Abilità
Interpersonali e per l’Assertività, Addestramento alla Riduzione della Ipersensibilità. Dal
punto di vista del rapporto e dell’ alleanza terapeutica, considerando che i pazienti con
personalità evitante possono manifestare atteggiamenti e comportamenti di resistenza
e di difesa invece che di auto-apertura per via della profonda paura di essere rifiutati,
lo psicoterapeuta può all’inizio consentire una moderata dipendenza ed introdurre gradualmente il tema della paura della valutazione, della critica e del conseguente, temuto,
rifiuto.
In generale, quindi, il trattamento psicologico del Disturbo Evitante mira, in una
prima fase, a modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il re210
I Disturbi di personalità
pertorio delle abilità sociali e di gestione delle emozioni negative e, in una seconda
fase, a riorganizzare la struttura (assenza di valore/vergogna, scarsa attrattività sociale/
emarginazione) ed i processi (scarsa tolleranza al giudizio altrui) che mantengono i comportamenti disfunzionali (deficit di fiducia negli altri) al fine di ristabilire un equilibrio
tra il desiderio funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere
associato.
TRAINING PER LE ABILITÀ INTERPERSONALI
Per abilità interpersonali si intende una vasta gamma di comportamenti legati alle relazioni sociali e ai rapporti intimi e personali. Tra queste abilità si annovera la capacità di
sopportare il disagio emotivo, la regolazione del proprio stato emotivo, il controllo degli
impulsi, l’ascolto attivo, l’assertività, il problem solving, lo stabilire rapporti amichevoli con gli altri, la negoziazione e la risoluzione dei conflitti. Le persone meno adattate
possono mancare del tutto di queste abilità, mentre quelle con un migliore adattamento
mostrano solitamente un discreto grado di funzionamento interpersonale. Tuttavia, per
essere efficaci nei rapporti con gli altri non basta manifestare risposte comportamentali automatiche in situazioni di routine. Occorre, invece, essere in grado di creare o di
combinare risposte per gestire particolari circostanze. Avere abilità interpersonali significa
dunque rispondere assertivamente, negoziare ragionevolmente e gestire efficacemente i
conflitti con gli altri. In altre parole, ottenere i propri scopi cercando di salvaguardare la
relazione con l’altro ed il rispetto per se stessi. Anche se qualche paziente con Disturbo di
Personalità non particolarmente grave può avere adeguate capacità nei rapporti interpersonali, i problemi insorgono quando tali abilità vengono applicate in situazioni particolarmente difficili. Questi pazienti possono essere in grado di suggerire un comportamento
efficace ad una persona che incontra difficoltà interpersonali ed al tempo stesso essere
totalmente incapaci di affrontare una situazione che li coinvolge direttamente. Di solito
il loro sistema di credenze e i loro incontrollabili stati affettivi inibiscono l’applicazione
delle abilità sociali. Non é raro che i pazienti con Disturbo di Personalità interrompano
prematuramente le loro relazioni sentimentali o che il loro deficit nella tolleranza degli
stati emotivi negativi renda difficoltosa la gestione delle paure, dell’ansia o delle frustrazioni che normalmente si incontrano nei rapporti conflittuali. Similmente, l’incapacità di
controllare gli impulsi o di regolare il proprio stato emotivo impediscono la gestione della
rabbia o della frustrazione. Inoltre, i deficit nelle capacità di problem solving rendono
difficile la gestione dei potenziali conflitti e non consentono perciò di formare buone relazioni con gli altri. In breve, la competenza interpersonale richiede tutta la serie di abilità
precedentemente o altrove descritte ed altre abilità aggiuntive.
L’applicazione della tecnica procede nel modo di seguito illustrato.
Il clinico valuta i tipi di deficit e le capacità sociali possedute. È necessario prendere in
considerazione la tolleranza agli stati emotivi negativi, la regolazione del proprio stato
emotivo, il controllo degli impulsi, l’ascolto attivo, l’assertività, il problem solving, la
capacità di stabilire rapporti amichevoli con gli altri, la negoziazione e la risoluzione dei
conflitti.
Viene quindi elaborato un piano di trattamento. Se esistono deficit pervasivi può essere indicato un trattamento di gruppo sulle abilità sociali. Questo intervento di gruppo
infatti é estremamente utile per fornire al paziente il supporto sociale necessario mentre
impara le nuove abilità.
Nella terza fase inizia l’insegnamento delle abilità, in contesto individuale o di gruppo.
L’insegnamento prevede il modellamento delle abilità ed il successivo incoraggiamento a
211
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
metterle in pratica (operando le modifiche del caso) in modo tale che il paziente possa
raggiungere un adeguato livello di padronanza. I risultati migliori si ottengono coinvolgendolo in molte situazioni ed esperienze diverse, e comunque con molto esercizio.
L’uso di videoregistrazioni che mostrano i comportamenti adeguati, il role playing e l’assegnazione di compiti completano l’addestramento. È naturalmente compito del clinico
seguire i progressi del paziente, anche nel caso in cui quest’ultimo partecipi ad un gruppo
sulle abilità sociali.
Infine, il terapeuta ed il paziente collaborano per pianificare alcuni modi in cui questi
possa generalizzare nel proprio contesto di vita i comportamenti appresi. Le nuove abilità
generalmente comprendono iniziare una conversazione con un estraneo, fare amicizia,
fissare appuntamenti. Il livello di padronanza dimostrato nell’affrontare queste situazioni
viene poi valutato, per essere eventualmente migliorato.
TRAINING PER LA RIDUZIONE DELLA IPER-SENSIBILITÀ
Questo intervento é mirato a neutralizzare e delimitare la vulnerabilità individuale alla
critica, alla sospettosità ed alle percezioni erronee. Le persone che normalmente percepiscono in modo distorto e negativo i segnali sociali sono portate in mettere in atto comportamenti difensivi ed aggressivi. Il training si propone di insegnare a queste persone un
modo più accurato di prestare attenzione, pensare e rispondere ai segnali di tipo sociale.
Di norma l’intervento é introdotto e mostrato dal terapeuta e successivamente viene praticato e applicato nella vita reale dal paziente.
Il training si svolge nel modo di seguito illustrato.
Anzitutto il terapeuta stabilisce che l’ipersensibilità dell’individuo sia causata effettivamente da errori o distorsioni nella elaborazione delle informazioni. Tale elaborazione
comprende quattro fasi: attenzione, elaborazione, risposta e feedback. L’intervento é diretto proprio a queste quattro componenti.
Successivamente il clinico valuta come la persona percepisce i diversi segnali sociali tramite l’esame delle relazioni nelle quali l’individuo stesso é coinvolto. A titolo di esempio,
riportiamo il caso di un soggetto che nell’entrare in un locale dove si teneva un’asta si era
accorto che un piccolo gruppo di persone lo guardava sorridendo; dopodiché aveva udito
un commento sottovoce seguito da una grossa risata. Se egli si fosse concentrato solo sul
fatto di aver udito un commento sottovoce avrebbe ignorato il fatto che quelle persone
gli avevano anche sorriso ed avrebbe reagito in modo aggressivo o difensivo. Nel caso in
cui il paziente presenti difficoltà nel prestare attenzione ai diversi segnali sociali, il clinico
deve lavorare per favorire lo sviluppo di questa abilità.
La terza fase consiste nel valutare l’accuratezza della interpretazione dei segnali sociali.
L’attenzione rivolta selettivamente verso certi segnali e la loro erronea percezione possono
causare una interpretazione distorta: così insegnare all’individuo una modalità interpretativa più accurata e corrispondente alla realtà diventa essenziale. L’uso di videoregistrazioni, il role playing e l’assegnazione di compiti sono di grande aiuto per il training.
Nella quarta fase il terapeuta valuta le modalità di risposta del paziente agli stimoli sociali:
questi stimoli comprendono il linguaggio verbale ma anche il linguaggio non verbale
e le azioni. Le risposte agli stimoli possono variare, da quelle accurate fino a quelle più
aggressive. L’individuo risponderà in maniera appropriata nella misura in cui è in grado
di prestare attenzione e di elaborare gli stimoli. L’intervento é diretto ad insegnare una
modalità di risposta appropriata e si concentra sia sul linguaggio verbale sia sul tono di
voce, sull’espressione facciale e sulla gestualità del paziente.
212
I Disturbi di personalità
Nella quinta fase si valuta come e in che misura la persona utilizza le conseguenze dei
propri comportamenti sociali: per esempio, un feedback negativo può costituire una informazione positiva ed essere utilizzato in modo costruttivo. Le conseguenze positive
dovrebbero aumentare di frequenza con il miglioramento delle prestazioni sociali dell’individuo.
16.3Caso clinico
Il caso di Teosio -“Gli altri avranno motivo per dire che sono stupido”
Diagnosi: Fobia Sociale (sull’Asse I).
Disturbo Evitante di Personalità (sull’Asse II).
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Assertion Inventory
(AI).
Dal CBA: ansia di tratto e di stato elevate; significativo il punteggio indicatore
di instabilità emotiva; nella dimensione introversione - estroversione si colloca decisamente nella dimensione introversione e può essere descritto come persona riservata,
che esercita un notevole controllo sulle proprie emozioni e piuttosto pessimista. Significativo il punteggio relativo alla paura del rifiuto sociale; elevato il punteggio alla scala
della depressione.
Dall’A I: elevati punteggi relativi tanto al grado di disagio quanto alla possibilità
di azione in situazioni di rapporto interpersonale che richiedono comportamenti affermativi.
Teosio ha 21 anni e chiede di intraprendere una psicoterapia perché ha “problemi
troppo pesanti da reggere tutti i giorni”. Riferisce di sentirsi spesso nervoso, con forte
senso di insicurezza e frequenti sbalzi d’umore. Descrive una sintomatologia fisica che
sperimenta sotto forma di “agitazione interna. Mi sento una stretta allo stomaco, il
cuore mi batte forte, ho la testa vuota … soprattutto quando sto in mezzo agli altri o
quando devo fare qualcosa … l’unica soluzione è stare da solo o con persone che conosco ma a volte anche in questi casi mi sento agitato”.
Storia del caso
Teosio è diplomato e vive con i genitori, nei confronti dei quali si esprime in
maniera positiva definendo i loro rapporti caratterizzati da affetto, comprensione e serenità. La madre è tuttavia valutata come poco disponibile in termini di tempo perché
molto assorbita dal lavoro ed il padre “è sempre stato una persona forte e sicura. Ho
con lui un rapporto di amicizia e di fiducia ma … mi vuole bene solo se faccio quello
che vuole lui e se non riesco a farlo interviene lui per risolvere la situazione”.
Da circa un anno ha una relazione sentimentale soddisfacente.
Riferisce di avere sempre avvertito “un’agitazione interna” nelle situazioni sociali e
di avere sempre incontrato difficoltà nel farsi le amicizie: “Non ho mai cercato gli altri,
ho aspettato che gli altri mi cercassero … ma ogni novità mi mette ansia”.
213
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Le difficoltà del giovane si sono accentuate da alcuni mesi di fronte alla prospettiva
di trovare un lavoro che lo esporrebbe al giudizio degli altri.
A proposito dei suoi problemi Teosio si esprime così: “Per l’80% sono di origine
genetica, per il 20% dovuti all’ambiente ed io posso fare poco per risolverli”.
Concettualizzazione e trattamento
Si tratta di un individuo ansioso, particolarmente esposto a disturbi psicosomatici
e con intense reazioni emotive che possono interferire con la capacità di adattamento.
Il quadro ansiogeno è particolarmente evidente in situazioni di interazione nelle
quali teme il giudizio sociale. I comportamenti ed i vissuti conseguenti sono di tipo passivo con percezione di bassa autostima e di autosvalutazione. Il tono depresso
dell’umore può essere ricondotto alla valutazione della scarsa autoefficacia sperimentata in molte situazioni.
Le principali idee irrazionali espresse dal paziente sono risultate le seguenti:
- “sono un insicuro ed un debole, nessuno deve accorgersi che sono così altrimenti
non mi apprezzerebbero e mi respingerebbero”;
- “non devo mostrare le mie emozioni altrimenti sono un debole”;
- “non riesco a risolvere i problemi per cui sono un debole”;
- “devo sempre trovare la risposta giusta altrimenti gli altri pensano che sono stupido”.
Dall’analisi dei pensieri Teosio ha potuto verificare l’impiego delle distorsioni logiche di seguito schematizzate.
Pensiero automatico
Distorsione logica
sicuramente sbaglierò a comprendere la richie- catastrofizzazione
sta che mi ha fatto
o capisco subito o è inutile insistere
pensiero dicotomico
non ne faccio una giusta, sono un disastro
astrazione selettiva
penserà che sono stupido
lettura del pensiero
L’obiettivo terapeutico è stato finalizzato al superamento dell’evitamento cognitivo, emotivo e comportamentale ed all’acquisizione di capacità assertive e di abilità
sociali.
Il paziente ha manifestato un’iniziale difficoltà nel riconoscimento e nella discriminazione delle emozioni che facilmente confondeva con un pensiero o con una situazione, come nell’esempio qui riportato.
Emozione
Pensiero
Situazione
sono spaventato
credo di essere spaventato
l’incontro con una persona
nuova mi spaventa
214
I Disturbi di personalità
Pertanto si è reso necessario un intervento volto a fargli apprendere ad identificare le emozioni sperimentate nel corso della giornata, lavoro che gli ha permesso di
raggiungere un maggiore grado di consapevolezza relativamente ai propri vissuti di
aggressività, delusione, dolore, timidezza ed imbarazzo.
Il sistema cognitivo del paziente era caratterizzato da una scarsa tolleranza emotiva
che lo portava ad evitare tutte le situazioni che potevano suscitargli forti emozioni: il
rapporto con gli altri e l’esposizione alle loro richieste.
Attraverso la tecnica della Freccia Discendente si è arrivati a cogliere la convinzione
di base che lo guidava nel suo rapporto con la realtà: nelle situazioni nelle quali temeva di essere giudicato si attivava l’idea irrazionale “devo sempre dare la risposta giusta
altrimenti gli altri penseranno che sono stupido”, sostenuta dalla convinzione negativa
“sono uno stupido”.
Nel Training all’Assertività si è dato particolare risalto al superamento comportamentale e cognitivo delle difficoltà a rifiutare richieste e ad accettare le critiche. Le idee
irrazionali che sostenevano tali difficoltà erano rispettivamente, nel caso in cui non
voleva esaudire una richiesta fattagli da qualcuno “se mi rifiuto e dico di no pensa che
non sono capace” oppure “se dico di no potrebbe offendersi” e, di fronte ad una critica
negativa su un suo comportamento, “non valgo niente” oppure “sono tutto sbagliato”.
Al termine della terapia, durata nove mesi, Teosio è riuscito ad affrontare l’impatto
con il lavoro in maniera meno minacciosa, con la riduzione dei vissuti depressivi ed
ansiogeni legati alla prestazione in conseguenza di un aumento dell’autoefficacia.
Il paziente ha sintetizzato la modificazione dei propri schemi cognitivi nell’affermazione “In effetti sono io che quando faccio le cose pretendo di avere un ottimo
risultato”.
215
CAPITOLO 17
Disturbo dipendente
17.1Inquadramento diagnostico e caratteristiche cliniche
Criteri diagnostici del DSM IV
Una situazione pervasiva ed eccessiva di necessità di essere assistiti che determina un comportamento sottomesso e dipendente e timore della separazione, che compare all’inizio
dell’età adulta ed è presente in una varietà di contesti come indicato da cinque (o più) dei
seguenti punti:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
ha difficoltà ad assumere le decisioni quotidiane senza chiedere un’eccessiva quantità
di consigli e rassicurazioni;
ha bisogno che altri si assumano la responsabilità per la maggior parte dei settori
della propria vita;
ha difficoltà ad esprimere disaccordo verso gli altri per il timore di perdere supporto
o approvazione.
Nota: non includere timori realistici di punizione.
Ha difficoltà ad iniziare progetti o a fare cose autonomamente (per una mancanza di
fiducia nel proprio giudizio o nelle proprie capacità più che per mancanza di motivazione o di energia);
può giungere a fare qualsiasi cosa pur di ottenere assistenza e supporto da altri, fino
al punto di offrirsi per compiti spiacevoli;
si sente a disagio o indifeso quando è solo per timori esagerati di essere incapace di
provvedere a se stesso;
quando termina una relazione stretta cerca urgentemente un’altra relazione come
fonte di assistenza e supporto;
si preoccupa in modo non realistico di essere lasciato a provvedere a se stesso.
Il comportamento dipendente e sottomesso è motivato dalla convinzione di non
essere in grado di prendere decisioni autonome in quanto la realtà è percepita come
troppo impegnativa rispetto alle proprie capacità. Il paziente con questo Disturbo ha
217
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
paura di stare da solo perché ha aspettative catastrofiche e ritiene di avere costante bisogno di qualcuno che lo protegga, lo sostenga e lo indirizzi. Tale necessità lo porta ad
evitare il contrasto con gli altri, attraverso l’adozione di comportamenti improntati alla
disponibilità, al compiacimento ed all’accondiscendenza.
Nell’accertamento di questa patologia è necessaria una diagnosi differenziale con i
Disturbi di Personalità:
- Borderline, nel quale si reagisce alla paura dell’abbandono con sentimenti di vuoto
emotivo, rabbia e pretese piuttosto che con la sottomissione e le relazioni sono
instabili ed incerte;
- Istrionico, in cui il bisogno di dipendenza non si manifesta con comportamenti
modesti e docili ma con richieste attive di attenzione;
- Evitante, nel quale non si cerca di mantenere il legame a tutti i costi poiché il sentimento di inadeguatezza, l’ipersensibilità alla critica e la necessità di rassicurazione
sono talmente pervasivi da indurre al ritiro dalle relazioni e ad accettarle solo nel
caso in cui si sia certi di essere accettati.
Beck identifica le convinzioni peculiari di questo Disturbo:
- “non posso sopravvivere senza qualcuno che si prenda cura di me”;
- “sono troppo inadeguato per affrontare la vita da solo”;
- “se fossi più indipendente sarei completamente solo”.
Queste convinzioni si esprimono prevalentemente attraverso le distorsioni cognitive del pensiero dicotomico giusto/sbagliato, considerandosi completamente sbagliato, e
della catastrofizzazione, in particolare rispetto alla perdita di un rapporto di relazione.
Nel paziente con Disturbo Dipendente Sperry (2000) individua uno schema di
dipendenza/incompetenza, relativo alla convinzione di essere incapace di gestire le responsabilità quotidiane e di avere quindi bisogno di qualcuno a cui affidarsi, ed uno di
fallimento relativo alla credenza di fallire e di avere comunque una prestazione inferiore
rispetto a quella degli altri in qualsiasi attività si intraprenda.
17.2Trattamento
L’obiettivo terapeutico potrebbe essere definito i termini di progressiva autonomizzazione, intesa come capacità di agire indipendentemente dagli altri pur mantenendo relazioni intime. A tale scopo il paziente deve aumentare la sicurezza in se stesso e
la propria autoefficacia.
Oltre a favorire comportamenti di autonomia, l’intervento va indirizzato verso il
riconoscimento delle idee irrazionali connesse con la paura di rimanere solo.
La capacità di prendere decisioni può essere potenziata attraverso l’addestramento
al Problem Solving e l’impiego del Role Playing e del Modeling, allo scopo di favorire
l’apprendimento della comunicazione affermativa nell’ambito di un Training all’Assertività.
218
I Disturbi di personalità
Nella terapia del Disturbo Dipendente Sperry (2000) rileva l’iniziale complessità
del trattamento dovuta all’eccessiva accondiscendenza di tali pazienti. Gli interventi
psicoterapeutici cognitivo comportamentali a medio - lungo termine (da 1 a 2 anni)
risultano efficaci e sono consigliabili.
In sintesi e riferendoci ad obiettivi generali, l’intervento con pazienti dipendenti
consiste nell’aiutare le persone a sapere integrare ed a “modulare”: le manifestazioni
frequenti e debilitanti di stati ansiosi (stile affettivo); i comportamenti scarsamente
intraprendenti dal punto di vista decisionale, caratterizzati da eccessiva dipendenza/
acquiescenza e da anassertività (stile interpersonale); la propensione ad una valutazione
ingenua ed acritica dei fatti (stile cognitivo). Rispettivamente i tre stili vengono affrontati e trattati con le seguenti tecniche: Training per la Gestione dell’Ansia, Training
al Problem Solving e all’Assertività, Addestramento all’Identificazione e Modificazione dei
Pensieri Automatici. Dal punto di vista della relazione ed alleanza terapeutica, considerando che i pazienti con personalità dipendente possono manifestare atteggiamenti e
comportamenti di accondiscendenza e di delega delle decisioni piuttosto che di collaborazione e di autonomia, lo psicoterapeuta può all’inizio consentire una moderata dipendenza e introdurre gradualmente il tema della collaborazione, distinguendola dalla
acquiescenza.
In generale, quindi, il trattamento psicologico del Disturbo Dipendente mira, in
una prima fase, a modulare gli eccessi e gli scompensi temperamentali aumentando il
repertorio delle abilità sociali e di gestione delle emozioni negative e, in una seconda
fase, a riorganizzare la struttura (dipendenza/inadeguatezza) ed i processi (scarsa autonomia ed interdipendenza) che mantengono i comportamenti disfunzionali (deficit pervasivo di una dipendenza più adattiva) al fine di ristabilire un equilibrio tra il desiderio
funzionale di attenzione ed i bisogni a cui tale desiderio dovrebbe essere associato.
TRAINING PER LA GESTIONE DELL’ANSIA
Lo scopo di questo intervento consiste nel diminuire il livello d’ansia e le manifestazioni
psicofisiologiche connesse, aumentando contemporaneamente le capacità di tolleranza
e di gestione degli stati ansiosi dell’individuo. Si tratta di un intervento sostanzialmente
direttivo che può essere applicato a singoli individui o a gruppi. Le abilità acquisite vanno
poi messe in pratica nella vita di tutti i giorni. Naturalmente, una relazione terapeutica
caratterizzata da alleanza può aumentare la motivazione e l’adesione al trattamento del
paziente stesso. L’intervento procede come di seguito illustrato. Inizialmente il clinico
istruisce il paziente circa le variabili che determinano lo stato ansioso:
-
-
-
fattori scatenanti esterni che possono elicitare ansia (impegni stressanti o problemi
da risolvere);
fattori scatenanti interni (attività e reattività psicofisiologica) o specifiche convinzioni - sotto forma di dialogo interno che possono rendere la persona più o meno
vulnerabile all’ansia;
strategie di coping del paziente che possono diminuire o aumentare gli effetti dei
fattori precedenti.
In secondo luogo il terapeuta aiuta il paziente ad identificare nella propria vita le circostanze in cui si presentano i tre fattori succitati e viene compilato un elenco contenente le
219
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
situazioni che più tipicamente scatenano ansia. A titolo di esempio, riportiamo il caso di
un paziente che descrisse un episodio vissuto di recente nel quale aveva provato un’ansia
da prestazione intollerabile: gli avevano affidato il compito di tenere una lezione per un
uditorio di specialisti nella materia che avrebbe dovuto trattare (fattore scatenante esterno). Quando fu sul punto di entrare in aula di fronte al pubblico provò un’attivazione
psicofisiologica notevole e disse tra sé e sé: “Mi sento totalmente inadeguato a tenere una
lezione davanti a persone e professionisti così preparati” e inoltre: “Perderò il controllo
della situazione e questo mi farà sprofondare nella vergogna” (fattori scatenanti interni).
Prima di cominciare a parlare davanti al gruppo di persone che formavano l’aula, ammise
i propri limiti e di sentirsi più capace nello scrivere che nel tenere una lezione (strategie
di coping) e durante la presentazione si sentì inadeguato, accorgendosi di avere la bocca
secca, le mani sudate ed il batticuore.
Per registrare nei dettagli gli episodi ansiosi, si possono utilizzare delle schede apposite
(schede di auto-monitoraggio) e, in presenza di più episodi, si può costruire una gerarchia
di situazioni che evocano ansia.
La terza fase dell’intervento consiste nell’invitare il paziente a scrivere e registrare ogni
episodio nel quale prova ansia, identificando i tre fattori ed i relativi comportamenti messi
in atto (nell’esempio precedente, il paziente, dopo la presentazione in aula, porse le sue
scuse e nonostante ciò non si sentì affatto sollevato, concludendo che aveva ancora una
volta fallito).
Nella quarta fase vengono cercate delle similarità tra i vari episodi accaduti e gli specifici
deficit nelle strategie di coping (nell’esempio precedente, era probabile che il paziente
provasse più ansia in presenza di persone che valutava come superiori che non di fronte a
pari e/o con scarsa conoscenza nella materia da trattare).
Nella quinta fase si cercano alternative su come gestire i fattori scatenanti esterni
(nell’esempio precedente, il soggetto poteva chiedere di essere affiancato da un docente
più esperto che eventualmente sarebbe potuto intervenire per rispondere a domande più
specifiche).
Durante la sesta fase si mette a punto un piano particolare per fronteggiare (coping) i fattori scatenanti interni, come strategie di rilassamento per ridurre l’attivazione psicofisiologica e/o l’addestramento a un dialogo interno più efficace (nell’esempio precedente, “Il
mio valore come persona non può e non deve dipendere da come presento una lezione”,
oppure: “Conosco questa materia come pochi altri e posso benissimo cavarmela di fronte
a questo uditorio di persone, seppure esperte e preparate”).
Infine, lo psicoterapeuta insegna al paziente specifiche modalità di rilassamento, respirazione diaframmatica controllata (che il paziente dell’esempio poteva applicare prima di
iniziare la presentazione) ed altre strategie di coping, quali valide alternative alle manifestazioni ansiose ed agli atteggiamenti di autocritica. Il progresso nel trattamento viene
valutato in base alle capacità del paziente di gestire in modo più adattivo i fattori scatenanti esterni e interni. Nel momento in cui egli riporta una significativa diminuzione (o
la scomparsa) delle sensazioni soggettive di ansia, si può affermare che il trattamento é
stato efficace.
TRAINING AL PROBLEM SOLVING PER PAZIENTI
CON DISTURBI DI PERSONALITÀ
Per mezzo di questo training l’individuo apprende come usare alcune strategie per affrontare problemi personali e interpersonali. Lo scopo dei training é quello di aiutare
le persone ad identificare i problemi che causano disagio ed ansia, di insegnare loro un
metodo sistematico di soluzione degli stessi così da formare un bagaglio di competenze
220
I Disturbi di personalità
che potranno essere utili per affrontare le situazioni difficili nel futuro. Il training per le
abilità di problem solving è in genere abbastanza breve e può essere applicato in formato
individuale, di coppia o di gruppo. Di norma l’intervento è introdotto e mostrato dal
terapeuta e successivamente viene praticato e applicato nella vita reale dal paziente. Il
training si svolge nel modo di seguito illustrato.
La capacità di risolvere i problemi viene valutata rispetto a cinque elementi: identificazione del problema, definizione di obiettivi, generazione di soluzioni alternative, presa di
decisione e messa in atto della soluzione scelta come la più fattibile.
Il terapeuta analizza, in collaborazione con il paziente, gli specifici problemi esistenti
(per esempio, il paziente nota che rimane sempre senza soldi una settimana prima del
pagamento dello stipendio, a causa del suo impulso a spendere nelle prime tre settimane
del mese).
Nella seconda fase, il clinico aiuta il paziente a valutare il problema, ad identificarne le
cause ed a stabilire degli obiettivi realistici. Riferendoci all’esempio riportato, l’impulso
a spendere é identificato come causa e l’obiettivo consiste nell’arrivare a fine mese con
ancora disponibilità di denaro e possibilmente nel risparmiarne una piccola parte, per
esempio il 10%.
Successivamente si aiuta il paziente a generare diverse soluzioni. Nel caso del soggetto
citato, si potrebbe organizzare una gestione del denaro su base settimanale o chiedere al
datore di lavoro di essere retribuito ogni due settimane o chiedere l’accredito dello stipendio direttamente in banca.
Nella quarta fase, la persona viene assistita nello scegliere una tra le possibili soluzioni,
tenendo conto delle conseguenze di ciascuna a breve e a lungo termine. Nell’esempio,
scegliere di gestire il proprio denaro su base mensile appare il tipo di scelta più realistico
a breve e lungo termine.
Infine, vengono date informazioni e incoraggiamenti per mettere in pratica la soluzione
scelta. In questo caso il paziente potrebbe concordare di rivolgersi ad un consulente finanziario, per preparare un piano di spesa su base mensile ed annuale, e di aprire un libretto
di risparmio presso una banca.
17.3 Caso clinico
Il caso di Smirne -“Da sola, non ce la posso fare”
Diagnosi: Disturbo Dipendente di Personalità (sull’Asse II).
Nell’assessment sono stati impiegati: CBA 2.0 scale primarie e Assertion Inventory
(AI).
Dal CBA 2.0: punteggio significativo alla scala della depressione. Riferisce moltissima paura relativa alla possibilità di impazzire.
Dall’AI: anassertività di tipo passivo con elevata ansia e scarsa competenza sociale.
Smirne ha 35 anni e riferisce di sentirsi depressa, di essere fisicamente stanca e di temere di non riuscire ad affrontare le situazioni quotidiane che le “pesano sempre di più”.
Il problema è iniziato dopo il parto, quattro anni prima, con sintomi diagnosticati
depressione post partum dallo psichiatra al quale si era rivolta. E’ stata aiutata dalla
madre, alla quale ha delegato da subito l’accudimento della neonata, e dal marito che
provvede alla gestione ed all’amministrazione della casa.
221
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Storia del caso
Casalinga, sposata da cinque anni, ha una figlia e definisce sereno il rapporto con
il marito. Lamenta un problema dei relazione con la madre a causa della “eccessiva
ingerenza” di quest’ultima nell’educazione della bambina: “è troppo permissiva e contraddice quello che dico a Lola”.
Si sente molto legata alla famiglia di origine e trascorre gran parte del tempo libero
a casa dei genitori.
Non fa vita di relazione al di fuori della cerchia familiare (ha tre fratelli) e non ha
interessi che possa condividere con il marito.
Concettualizzazione e trattamento
Il Disturbo della paziente è sostenuto da scarsa autostima, anassertività e limitata
autonomia personale.
Pertanto il trattamento terapeutico ha previsto interventi specifici indirizzati verso
queste aree deficitarie, facilitando nel contempo alla paziente lo sviluppo di una maggiore consapevolezza emotiva.
1. Consapevolezza emotiva.
Attraverso la compilazione del Diario con l’annotazione degli stati d’animo sperimentati nello svolgimento delle diverse attività quotidiane, Smirne ha appreso
ad identificare le proprie e le altrui emozioni, a differenziarle dai sintomi fisici
associati ed a gestire le emozioni negative, l’ansia in particolare e poi la rabbia.
2. Incremento dell’autostima.
La paziente ha individuato i propri punti di forza ed ha pianificato degli obiettivi
comportamentali che riteneva di poter raggiungere con le capacità possedute. Ha
iniziato a svolgere attività extrafamiliari nel tempo libero, riducendo così le occasioni per “rifugiarsi” in casa dei genitori che le limitavano la possibilità di sviluppare un’autonomia personale.
3. Incremento delle abilità sociali.
Smirne ha verificato che lo stile passivo che la caratterizzava nei rapporti interpersonali costituiva motivo di disagio relazionale e la portava ad evitare il confronto
attivo con gli altri. Attraverso un Training Assertivo ha appreso le abilità sociali
necessarie per consentirle rapporti più soddisfacenti.
Dopo dieci mesi di terapia, Smirne è soddisfatta di aver acquisito una maggiore
consapevolezza dei propri bisogni e stati d’animo che riesce ad esprimere meglio al
marito e, pur con qualche difficoltà in più, alla madre. In particolare, nei confronti di
quest’ultima si sente meno vincolata ai suoi giudizi anche se continua in parte a subirne
l’influenza.
222
INDIRIZZI UTILI
ALETEIA - Scuola di Psicoterapia cognitiva – Istituto Superiore per le Scienze Cognitive - Via Grimaldi, 8 - 94100 Enna - Tel. 0935.504160 - Fax 0935.504383
E-mail: [email protected]
Associazione per la Psicoterapia Cognitiva - Via Montebello, 27 - 20123 Milano - Tel.
02/6570350
Centro Clinico Crocetta - C.so Galileo Ferraris, 110 - 10129 Torino - Tel. 011.
503769-5682156. E-mail: [email protected]
Centro di Terapia Cognitivo-Comportamentale - Viale Verona, 102 - 36100 Vicenza Tel./Fax 0444/961963. E-mail: [email protected]
Centro di Psicologia Cognitiva -Via Grassi, 33 - 73100 Lecce - Tel. 0382.342326
CPC - Centro di Psicologia Cognitiva - Via Allegri, 51 - 09045 - Quartu S. Elena Cagliari - Tel. 070.822487
Istituto Miller - Sede di Genova: Corso Torino 17/10 - 16129 - Tel. 010.5707062 - Fax
010.8680904; Sede di Firenze: Via Mannelli, 139 - 50132 - Tel. e Fax 055.2466460.
E-mail: [email protected]. Sito web: www.istituto-miller.it.
Poiesi - Centro di Psicologia Cognitiva e Comportamentale - Via Luigi Ploner, 23 00123 Roma - Tel. 06.30893972. Sito web: digilander.libero.it/CentroPoiesi - Email: [email protected]
223
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
Parte I - Disturbi depressivi
Abramson L.Y. e Sackheim H.A. (1977). A paradox in depression: uncontrollollability
and self-blame. Psychological Bullettin, 84, 838-851.
Abramson, L.Y., Seligman, M.E.P., Teasdale, J. (1978). Learned helplessness in humans: Critique and reformulation. Journal of Abnormal Psychology, 87, 49-74.
American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fourth Edition. American Psychiatric Association, Washington D.C.
(Tr. It.: DSM IV; Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Masson,
Milano).
Arieti S. e Bemporad J. (1978). Severe and mild depression: the psychotherapeutic approach. Basic Books, New York.
Bara G. (1996). Manuale di Psicoterapia Cognitiva. Bollati Boringhieri, Torino.
Barlow D.H., Craske M. Cerny J., Klosko J. (1989). Behavioral treatment of panic
disorder. Behavior Therapy, 20, 261-282.
Beck A.T. (1978). La depressione. Bollati Boringhieri, Torino.
Beck A.T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Astrolabio, Roma.
Beck A.T. (1996). Beyond beliefs: a theory of modes, personalità and psychopathology.
In Salkovskis P.M. (a cura di), Frontiers of cognitive therapy. Guilford Press, New
York.
Beck A.T., Rush A.J. Shaw B.F. e Emery G. (1987). Terapia cognitiva della depressione.
Bollati Boringhieri, Torino.
Beck; A.T., Clark, D.A. (1997). An information processing model of anxiety: Reconsidering the role of automatic and strategic processes. Behavior Research and Therapy,
35, 49.58.
Benjamin L. (1996). Interpersonal diagnosis and treatment of personality disorders, 2nd ed.
Guilford, New York.
Bowlby, J. (1988). A secure base: Parent-child attachment and healthy human development. New York : Basic Books. (Trad. it. La base sicura. Milano: Raffaello Cortina
Editore, 1989).
Brehony A., Geller C.A. (1981). Treatment of panic Disorder. Guiford Pres, New
York.
Burns D. (1980). “Feeling good, the new mood therapy”. Avon Books.
Cassano, G.B. (1990). Psichiatria Medica. UTET, Torino.
Cassano GB, Cecconi D., (1995), “La depressione: identificazione, diagnosi e trattamento”, Quaderni Italiani di Psichiatria, XIV, 86-108.
225
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Clark D.M., Ball S., Pape D. (1991). An experimental investigation of thought suppression. Behaviour Research and Therapy, 29, 253-257.
Clark D.M., Beck A.T., Alford B.A. (2001). Teoria e terapie cognitive della depressione.
Ed. Masson, Milano.
Costello, C. G. (1972). Depression: loss of reinforcers or reinforcer effectiveness. Behavior Therapy, 3, 240-247.
Dettore D.,(1998). Il disturbo ossessivo-compulsivo. Mc Graw-Hill, Milano.
Di Pietro, M. (1992). L’educazione razionale-emotiva. Trento; Ed. Erickson.
Dobson K.S. (2002). Psicoterapia cognitivo-comportamentale. Teorie, trattamenti, efficacia: lo stato dell’arte (II Ed.). McGraw-Hill.
Durgoni G. (1987). I comportamenti depressi in “Terapia del comportamento” n. 13,
Bulzoni, Roma.
D’Zurilla, T.J. (1990). Problem-solving training for effective stress management and
prevention. Journal of Cognitive psychotherapy: An International Quarterly, 4,
327-355.
D’Zurilla, T.J., & Goldfried, M.F. (1971). Problem-solving and behavior modification. Journal of Abnormal Psychology, 78, 107-126.
Fester C.B. (1973). A functional analysis of depression. American Psychologist, 28,
857-870
Ferster C.B. (1974). Behavioral approaches to depression, (in Friedman R.J. e Katz
M.M. (a cura di) The psychology of depression: contemporary theory and Research.
Winston, Washington,1974).
Fuchs, C.Z., Rehm, L.P. (1977). A self-control behavior therapy program for depression, in Journal of Consulting and Clinical Psychology. 45.
Gibbons F.X., Smith T.W., Ingram R.E., Pearce K., Brehm S.S. e Schroeder D. (1985).
Self-awareness and self-confrontation: effects of self-focused attention on members
of clinical population. Journal of personality and Social Psychology, 48, 662-675.
Greenberger D. e Padesky C.A. (1998). Penso, dunque mi sento meglio. Edizioni Erickson, Trento.
Guidano V. F. (1988). La complessità del Sè. Bollati Boringhieri, Torino.
Guidano V. F. (1991). Il Sè nel suo divenire. Bollati Boringhieri, Torino.
Gray J.A. (1987). The psychology of fear and stress. University press, Cambridge.
Klosko J. S. e Sanderson W.C. (2001). Trattamento cognitivo-comportamentale della
depressione. McGraw-Hill, Milano.
Lazarus, A.A. (1968). Learning Theory and the treatment of depression. Behavior Research and Therapy, 6, 83-89.
Lewinsohn, P. N. (1974). A behavioral approach to depression. In R. J. Friedman, M.
M. Katz, The psycology of depression. New York, Wiley.
Lewinsohn P.N., Mischel W., Chaplin W. e Barton W. (1980). Social competence and
depression: the role of illusory self-perceptions. Journal of Abnormal Psychology, 89,
203-212.
Lewinsohn P. L., Munoz R., Youngren M. A., Zeiss A. M., (1985). Control Your Depression, New York: Fireside.
Liotti G. (1991). Il significato delle emozioni e la psicoterapia cognitiva. in Magri T.,
Mancini F. (a cura di) Emozione e Conoscenza. Editori Riuniti. Roma.
226
Bibliografia ragionata
Liotti G.(2001) Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva
cognitivo-evoluzionista. Cortina Editore, Milano.
Meichenbaum D. (1977). Cognitive- Behavior modification. Plenum, New York.
Nezu A. M. (1987). A problem solving formulation of depression: a literature review
and proposal of a pluralistic model. Clinical Psychology Review,7,121-144.
Nolen-Hoeksema S. (1987). Sex differences in unipolar depression: evidence and theory. Psychological Bullettin,10, 259-282.
Nolen-Hoeksema S. (1991). Responses to depression and their effect on the duration
on depressive episodes. Journal of Abnormal Psychological, 100 (4), 569-582.
Oatley K., Bolton W. (1985). A social-cognitive theory of depression in reaction to life
events. Psychological Review, 92, 372-388.
Pyszczynski T., Greenberg J. (1986). Depression, self-focused attention and expectancies for future positive and negative events for self and other. Journal of Personality
and Social Psychology, 50 (5), 1039-1044.
Pyszczynski T., Holt K., Greenberg J. (1987). Persistent high self-focus after failure and
low self-focus after success: the depressive self-focusing style. Journal of Personality
and Social Psychology, 52, 994-1001.
Reda M. (1986). Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia. Nuova Italia Scientifica, Roma.
Rehm L. P. (1975). Preference for immediate reinforcement in depression. Journ. Behav. Ther. Exp. Psychiat.
Saggino A. (2004). La depressione. In: Galeazzi, A. e Meazzini, P. (2004). Mente e
Comportamento. Trattato italiano di psicoterapia cognitivo-comportamentale. Giunti
editore, Firenze.
Sanavio E. (2002). Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, ed. Carocci, Roma
Seligman M. E. P. (1974). Depression and learned helplessness. In R. J. Friedman, M.
M. Katz, The psychology of depression. New York: Wiley.
Seligman, M.E.P. (1975). Helplessness: On depression, development, and death. Freeman,
San Francisco.
Seligman M.E.P., Abramson L.Y., Semmel A. e von Baeyer C. (1979). Depressive attributional style. Journal of Abnormal Psychology, 88, 242-247.
Semerari A. (1996) La relazione terapeutica. In Bara B.G. op. cit.
Teasdale J., Segal Z., Williams J. (2000). Prevention of relapse/recurrence in depression
by mildfulness-dased cognitive therapy. Journal of Consulting and Clinical psychology, 68,: 615-623.
Vidotto G., Bertolotti G., Michielin P., Sanavio E., Zotti A.M. (1987). CBA 2.0 Scale
Primarie: Software. Organizzazioni Speciali, Firenze.
Wegner e coll. (1987). Paradoxical effects of thought suppression, Journal of Personality
and Social psychology, 53, 5-13.
Wells A. (1997) Cognitive Therapy of Anxiety Disorders: A Practice Manual and Conceptual Guide. Wiley. (tr. it. Trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia. McGrawHill, Milano, 1999).
Young, J.E. (1990). Cognitive tharapy for personality disorders: A schema-focused approach. Professional Resource Exchange, Sarasota (Florida).
227
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Parte II - Disturbi di ansia
American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders (4th ed.). Washington, DC: American Psychiatric Association; trad. it.
(1999). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Milano: Masson.
Andrews G., Creamer M., Crino R., Hunt C., Lampe L., Page A. (2003). Trattamento
dei disturbi d’ansia. Centro Scientifico ed., Torino.
Aquilar F. & Del Castello E. (1998). Psicoterapia delle fobie e del panico. Comportamento, convinzioni, attaccamento, relazioni intime, livelli di coscienza. Franco
Angeli, Milano.
Bandura A. (1977), Self-efficacy: Toward a unifying theory of behavioral change, Psycological Review, 84, 191-215
Bandura A.(1996). Il senso dell’ Autoefficacia. Ed. Erickson, Trento.
Bandura A. (2000). Autoefficacia. Ed. Erickson, Trento.
Barlow, D. H. (1991). “Disorders Of Emotion”. Psycological Inquiry, 2, 58-71.
Barlow D. H. Rapee R. (1997). Mastering stress: a lifestyle approach. Killara NSW,
Lyfestyle Press
Bartholomew, K.(1990). Avoidance of intimacy: an attachment perspective. Journal of
Social and Personal Relationship, 7, 147-178.
Beck A.T. (1967), Depression:Clinical, Experimental, and theoretical Aspects. New York:
Harper &Row (trad. it. La depressione, Boringhieri, Torino, 1978)
Beck, A.T. (1976) Cognitive therapy and the emotional disorders, New York, International University Press. Trad. It. Principi di terapia cognitiva: un approccio nuovo
alla cura dei disturbi affettivi, Roma, 1984, Astrolabio.
Beck, A., Emery, G., Greenberg, R. (1985). Anxiety Disorders and Phobias: A Cognitive
Perspective. New York: International Universities Press; trad. it. (1988). L’ansia e le
fobie: una prospettiva cognitiva. Roma: Astrolabio.
Brenner H. (1991). Rilassamento Progressivo, ed. Paoline, Roma.
Burns D. (1980). “Feeling good, the new mood therapy”. Avon Books.
Clark D.M. (1986). A cognitive Model of Panic. Behavior Research and Therapy,
24,461-470
Clark D.M. (2004). Cognitive-Behavioral therapy for OCD. Guilford Press. New York.
Clark D.M., Salkovskis P.M., (1985) Respiratory control as treatment for panic attacks, Journal of Behaviour Therapy and experimental psychiatry , n.16
Clark D.M. , Ball S. e Pape D. (1991). An experimental investigation of thought suppression. Behaviour Research and Therapy, 29, 253-257.
Clark, D.M. & Wells, A. (1995). A cognitive model of social phobia. In R. Heimberg,
M. Liebowitz, D.A. Hope & F.R. Schneier (eds.), Social Phobia: Diagnosis, Assessment and Treatment. New York: Guilford Press
Cassano, G.B. (1990), (a cura di) Il disturbo da attacco di panico-agorafobia. Masson,
Milano.
Dettore D. (2003). Il disturbo ossessivo-compulsivo. Caratteristiche cliniche e tecniche di
intervento. Mc Graw-Hill, Milano.
Di Nardo P.A., Guzy L.T., Bak R.M. (1988). Anxiety response patterns and etiological
factors in dog-fearful and non fearful subjects. Behavior Research and Therapy,26,
228
Bibliografia ragionata
245-252.
Ellis A. (1989). Ragione ed emozione in psicoterapia. Astrolabio, Roma.
Ellis A. (1993). L’autoterapia razionale emotiva. Edizioni Erickson, Trento.
Emmelkamp P.M.G., Kuipers A.C., Eggeraat J.B. (1978), Cognitive modification versus prolonged exposure in vivo: A comparison with agoraphobics as subject, Behavior Research and Therapy, 16, 33-41.
Fava G. A. e coll. (1995). Follow-up a lungo termine di pazienti con disturbo di panico
trattati con psicoterapia comportamentale. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, 1, (2).
Favarelli G., Webb T., Ambonetti A. (1985), Prevalence of traumatic early events in 31
agoraphobic patient with panic attacks, American Journal of Psychiatry, n. 142.
Frost R.O, Steketee G. (2002). Cognitive approaches to obsessions and compulsions: theory, assessment and treatment. Pergamon Press., New York.
Giberti F. e Rossi R. (1996). Manuale di psichiatria. Piccin editore, Padova.
Guidano,V.F. & Liotti,G.(1983). Cognitive processes and emotional disorders : a structural approach to psychotherapy. New York : Guiford Press.
Goldstein, A.J. & Chambless, D.L. (1978). A re – analysis of agoraphobia. Behaviour
Therapy, 47 – 59
Goldrwum G. F., Sacchi D., Scarlato. (1986). Le tecniche di rilassamento nella terapia
comportamentale. Manuale Pratico teorico, ed. Franco Angeli, Milano.
Hauri P., Linde S. (1992). Vincere l’insonnia. Bollati Boringhieri, Torino.
Hodgson R., Rachman S. (1977). Obsessional-Compulsive Complaints. Behavior Research and Therapy, 15, 389-95.
Jacob R. G., Rapport M.D. (1984). Panic disorders : Medical and psychological parameters, in S. M. Turner (ed.), Behavioral theories and treatment of anxiety, Plenum, New York.
Jacobson E. (1952), L’arte del rilasciamento, ed. Cosimi, Milano.
Lander M.H. e Uhde T.W. (2003). Ansia, panico e fobie. Momento medico, Salerno.
Leckman J.F., Grice D.E.,Boardman J. (1997). Symptoms of obsessive-compulsive disorder. American Journal of Psychiatry, 154, 911-917.
Liotti G. (1995), Attaccamento insicuro e agorafobia, in Parkers C. M.
Liotti G., Reda M. (a cura di) (1981). Cognitivismo e psicoterapia. Milano, Franco
Angeli.
Lorenzini R. Sassaroli S. (1987). La paura della paura. La Nuova Italia Scientifica Roma.
Lorenzini R. Sassaroli S.(1998), Paure e Fobie. Il Saggiatore, Milano.
Lorenzini R., Sassaroli S. (2000), La mente Prigioniera, strategie di terapia cognitive, ed.
Raffaello Cortina Editore, Roma.
Lyddon, W.J. , Jones, J.V. (2002). L’approccio evidence-based in psicoterapia. McGrawHill, Milano.
Marks I. M. (1985). Behavioral psychotherapy for anxiety disorders. Psychiatry Clinics
of North America, 8, 25-35.
Marks I. M. (2002). Ansia e paure. Comprenderle, affrontarle e dominarle. McGraw Hill,
Milano.
Marshall W.L. (1985). The effects of variable exposure in flooding therapy. Behaviour
229
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Research and Therapy, 16, 117-135.
Mathews, A.M. Gelder, M.G. e Johnston, D.W. (1981). Agoraphobia: Nature and Treatment. New York: Guilford.
McCarthy L. e Shean G. (1996). Agoraphobia and interpersonal relationship. Journal
of Anxiety Disorders, 10, 477-497.
Mc Fall M. E., Wollersheim J. P. (1979). Obsessive-Compulsive neurosis: a cognitive
behavioral formulation and approach to treatment. Cognitive Therapy and Research, 3, 333-348.
McKay D., Abramowitz J.S., Calamari J.E., Kyrios M., Sookman D., Taylor S. (2004).
A critical evaluation of obsessive-compulsion disorder subtypes: symptoms versus
mechanisms. Clinical Psychology Review, 24, 283-313.
Meazzini P, Galeazzi A (1978), Paure e Fobie, Giunti, Firenze.
Meichenbaum D. (1977) Cognitive-behavior modification. An integrative approach. Plenum Press, New York.
Mineka S. (1988). A primate problem of phobic fears. In Eysenck H. J., Martin I. (a
cura di ) Theoretical Foundations of Behaviour Therapy, Plenum Press, New York.
Mowrer O. H., Learning theory and personality dynamics, New York: Ronald Press
(1950).
Oakley M.E., Padesky C.A. (1990). Cognitive therapy for anxiet disorders. In Hersen
M., Miller P.M. (a cura di ) Progress in Behavior modification, Vol.26, Sage, Newbury Park, CA.
Obsessive Compulsive Cognitions Working Group (2003). Psychometric validationof
the obsessive belief questionnnaire and the interpretation of intrusion inventory.
Part I. Behaviour Research and Therapy, 41, 863-878.
Parker, G., Tupling, H. & Brown, L.B. ((1979) . A parental bonding instrument.
Journal of Medical Psychology, 52, 1-10.
Rachman S. (1991). Neo-conditioning and classical theory of fear acquisition. Clinical
Psychological Review, 11, 155,173.
Rachman S. (1993). Obsessions, responsabilità and guilt. Behaviour Research and Therapy, 40, 625-639.
Rachman S. (2004). L’ansia. Editori Laterza, Roma-Bari.
Rachman S., De Silva P. (1978).Abnormal and normal obsession. Behavior Research
and therapy. 16, 233-248).
Rachman S., Hodgson R. (1980). Obsession and compulsion. Prentice Hall, New Jersey.
Rachman S., Thordarson D.S., Shafran R., Woody S.R. (1995). Perceived responsibility, structure and significance. Behaviour Research and Therapy, 33, 779-784.
Rapee R.M. (1991a). The conceptual overlap between cognituion and conditioning in
clinical psychology. Clinical Psychology Review, 11, 193-204.
Razran G. (1972). Osservabilità dell’inconscio e deducibilità della coscienza nella psicofisiologia sovietica attuale: condizionamento interocettivo, condizionamento semantico e riflesso di orientamento. In l’Inconscio nella psicologia sovietica, pag.163.
Editori Riuniti, Roma.
Rescorla R.A. (1968). Probabilità of shock in the presence and absence of SC in fear
conditioning. Journal of Comparative and Physiological Psychology, 6, 1-5.
230
Bibliografia ragionata
Rovetto, F. (1996). Non solo pillole. Psicoterapia e farmaci: un integrazione. McGrawHill, Milano.
Rovetto F. (2003). Panico: Origini, dinamiche, terapie. MacGraw-Hill, Milano.
Rolla E. (1989). Rilassamento e autocontrollo, ed. Centro Maier Edizioni, Torino.
Salkovskis P. M. (1985). Problemi ossessivo-compulsivi: un’analisi cognitivo-comportamentale. (trad. it.), Terapia del comportamento, 12, 53-75.
Salkovskis, P.M. (1991). The importance of behaviour in the maintenance of anxiety
and panic: a cognitive account. Behaviour Psychotherapy, 19, 6-19.
Salkovskis, P.M. (1996). Cognitive-behavioral approaches to the understanding of obsessional problems. In R. M. Rapee, Current controversies in the anxiety disorders
(pp. 103:104). Guilford Press, New York.
Salkovskis P.M., Clark D.M., Gelder M.G. (1996). Cognition-behavior links in the
persistence of panic. Behavior Research and Therapy, 34,453-458.
Sanavio E. (2004).Psicoterapia cognitiva e comportamentale. Carocci, Roma.
Sanavio, E., Bertolotti, G., Michelin, P., Vidotto, G., Zotti, A.M. (1986). CBA­2.0
Cognitive Behavioural Assessment 2.0 Scale primarie. Manuale. Organizzazione Speciali, Firenze
Sanavio, E. (1988b). Obsessions and Compulsion: The Padua Inventory. Behaviour
Research and Therapy, 26, 169-177.
Sassaroli S., Ruggiero G.M. (2002). I costrutti dell’ansia: obbligo di controllo, perfezionismo patologico, pensiero catastrofico, autovalutazione negativa e intolleranza
dell’incertezza, Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, vol. 8,n° 1, 45 – 60.
Seligman M. (1971). Phobias and preparadness. Behavior Therapy, 2, 307-320.
Slade P.D. e Owens R.G.(1998). A dual process model of perfectionism based on reinforcement theory. Behavior Modification, 22, 372-390.
Solomon R.L., Wynne L.C. (1954), Traumatic avoidance learning: several extinction
procedures with dogs, Journal of Abnormal and And Social psycology, 48, 291-295
Spielberger, C. D. (1989). Stress and anxiety. Washington, DC: Hemisphere.
Stampler G.F. (1978). Phobias: a review. New York, Guiford Press.
Steketee G. S. (1993). Treatment of Obsessive-Compulsive Disorder. London, The Guilford Press.
Stern R.S., Marks I.M. (1973), Brief and prolonged flooding: a comparision in agoraphobic patients. Archives of General Psychiatry, 28,270-276.
Trower P., Turland D. (1984). Social Phobia, in S.M. Turner (ed.), Behavioral Theories
and Treatment of Anxiety. Plenum, New York (pagg. 321-365).
Turner S. M. e Beidel D. C. (1988). Treating obsessive-compulsive disorder. New York,
Pergamon Press.
Wells A.(1999). Trattamento Cognitivo dei disturbi d’ansia, ed. McGraw-Hill, Milano.
Wells A., Mathews A.M. (1994). Attention and the control of worry. In G.C.L. Dawey
e F. Tallis (a cura di), Worrying: Perspectives on Theory, Assessment and Treatment.
Wiley and Sons, Chichester.
Wells, A. & Clark,D.M. (1997). Social phobia: a cognitive approach. In D.C.L. Davey
(Ed.), Phobias: A Handbook of Descriptions, Treatment and Theory. Chichester: Wiley.
Wolpe J. (1958). Psycotherapy by reciprocal inhibition. CA, Stanford University Press,
Stanford.
231
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Wolpe J., Lazarus A. (1984). Tecniche di Terapia del Comportamento. Ed. Franco Angeli, Milano.
Wolpe J.,(1985). Psychotherapy treatment of phobia and panic disorders. Stanford University Press, Stanford.
Parte III - Disturbi della condotta alimentare
American Psychiatric Association DSM-IV (1996). Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali. Masson, Milano.
Beumont P.J.V., Gerye G.C., Smart D.E. (1976). Dieters and bingers and purgers in
anorexia nervosa. Psychological Medicine, 6, 617-622.
Bruch H. (1973). Eating disorders. Basic Books, New York (trad. ital. Patologia del comportamento alimentare. Feltrinelli, Milano 1977).
Bruch H. (1983). Patologia del comportamento alimentare. Obesità, anoressia mentale e
personalità. Feltrinelli ed., Milano.
Cappellari D. e Dalle Grave R. (2001). Esposizione allo specchio per ridurre la preoccupazione per il peso e le forme corporee: un caso clinico. Psicoterapia Cognitiva e
Comportamentale, vol.7, n. 3, 245-252.
Cash T.F., Brown T.A. (1987). Body image in anorexia nervosa and bulimia nervosa: A
review of the literature. Behavior Modification, 11, 487-521.
Cassano, G.B. (1990). Psichiatria Medica. UTET, Torino.
Cassano G. B., P. Pancheri, L. Pavan, A. Pazzagli, L. Ravizza, R. Rossi, E. Smeraldi, V.
Volterra (1999). Trattato italiano di psichiatria. Masson, Milano.
Crisp A.H. (1965). Clinical and therapeutic aspect of anorexia nervosa – A study of
thirty cases. Journal of Psychosomatic Research, 9, 67-78.
Crisp A. H. (1997). Anorexia nervosa as flight from growth: assessment and treatment
based on the model . Handbook of treatment for eating disorders (248-277). New
York.
Di Berardino C. (1997). Oltre la dieta. Il Pensiero Sagittario, Pescara.
Dalle Grave R.(1997a). Binge eating disorder: diagnosi e modelli terapeutici. La clinica
dietologica, 24,39-46.
Dalle Grave R.(1999a). Perdere peso senza perdere la testa: il peso ragionevole in 7 passi.
Positive Press, Verona.
Del Toma E. (1991). Dietoterapia e nutrizione clinica. Pensiero Scientifico Edit., Roma.
Eldredge K. L., Agras W. S., Arnow B., Telch C. F., Bell S., Castonguay L., & Marnell
M., (1997).The effect of extending cognitive- behavioral therapy for binge eating
disorder among initial treatment non-responder. International Journal of eating
disorder, 4, 347-352.
Fairburn C.G. (1996). Come vincere le abbuffate. Positive Press, Verona.
Fairburn C. G. & Wilson G.T. (1993). Binge eating Nature; Assessment, and Treatment.
Guilford Press, New York.
Fairburn C. G., Marcus M. D. & Wilson G. T. (1993). Cognitive-behavioral therapy
232
Bibliografia ragionata
for binge eating and bulimia nervosa. In C. G. Fairburn C. G. e Wilson G.T. Binge
eating Nature; Assessment, and Treatment (361-404). Guilford Press, New York.
Fairburn C.G., Cooper Z. e Shafran R. (2003).Cognitive behaviour therapy for eating
disorders: A ”Transdiagnostic”theory and treatment. Behaviour research and Therapy, 41, 509-528.
Garner D.M., Garfinkel P.E. (1985). Handbook of psychotherapy for anorexia nervosa
and bulimia. Guilford, New York.
Garner D.M., Garfinkel P.E., Bonato D.P. (1987). Body image measurement in eating
disorders. Advances in Psychosomatic Medicine, 17, 119-133.
Garner D. M. & Wooley S. C. (1991). Confronting the failure of behavioral and dietary treatments for obesity. Clinical Psychology Review, 11, 729-780.
Garner D. M., Dalle Grave R. (1999). Terapia cognitiva comportamentale dei disturbi
dell’alimentazione. Positive Press, Verona.
Gladis MM., Wadden T. A., Vogt R. Foster G., Kuhenel R. H., & Barlett S. J. (1998).
Behavioral treatment of obese binge eaters: Do they need different care? Journal of
Psychosomatic Research, 44, 375-384.
Goldfein J. A., Walsh B. T., LaChaussee J. K., Kissilleff H. R., & Devlin M. J. (1993).
Eating behavior in binge eating disorder. International Journal of Eating Disorders,
14, 427-431.
Grant J.R., Cash T.F. (1995). Cognitive behavioural body image therapy: comparative
efficacy of group and modest-contact gratment. Behavior Therapy, 26(1), 64-84.
Guss J. L., Kissileff H. R.,Walsh B. T., & Devlin M. J., (1994). Binge eating behavior
in patients with eating disorders. Obesity Research, 2, 355-363.
Hsu L.K.G., Sobkiewicz T.A. (1991). Body image disturbance: time to abandon the
concept for eating disorders? International Journal of Eating Disorders, 10, 15-30.
Keesey, R.E. (1980). A set-point analysis of the regulation of body weight. In A.J.
Stunkard (Ed.) Obesity (paa.144-165). W.B. Saunders Company, Philadelphia.
Keys A. J. et al. (1950). The biology of human starvation. University of Minnesota,
Minneapolis.
Marcus M. D. (1995). Binge eating and obesity. In K. D. Brownell& C. G. Fairburn
(eds.) Eating Disorders and obesity: A comprehensive handbook. 441-444. Guilford,
New York.
Marcus M.D. (1977). Adapting treatment for patients with binge eating disorder. In
Garner e Garfinkel (Eds.), Handbook of treatment for eating disorders (pp. 484-493).
Guilford Press, New York.
Poerio V. (1994). Componenti eziopatologiche nello sviluppo e nel mantenimento
della anoressia: modelli clinico-psicologici. In M. Campanelli,Viaggio all’interno
dei disturbi alimentari (pp.65-91), Titano editore, San Marino.
Poerio V. (1999). Rappresentazioni di sé e degli altri nei disturbi del comportamento alimentare: un modello degli stili di attaccamento. In Psicoterapia Cognitiva e
Comportamentale, Volume 5, n°1., Pavia.
Russel G.F.M. (1979). Bulimia nervosa: an ominous variant of anorexia nervosa. Psychological Medicine, 9, pag. 429-448.
Sims E.A.H., Horton E.S. et al. (1968). Experimental obesity in men. Transactions of
the Association of American Physician, 81, 153-170.
233
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Slade P. (1982). Toward a functional analisys of Anorexia and Bulimia Nervosa. British
Journal of Clinical Psychology, 21, 170.
Spitzer R. L., Devlin M., Walsh B. T., Hasin D., Wing R., Marcus M., Stunkard A.,
Wadden T., Yanovski S., Agras S., Mitchell J., & Nonas C. (1992). Binge eating
disorder: a multisite field trial of the diagnostic criteria. International Journal of
Eating Disorders, 11, 191-203.
Spitzer R. L., Devlin M., Walsh B. T., Hasin D., Wing R., Marcus M. D., Stunkard
A., Wadden T., Yanovski S., Mitchell J., & Horne R. L. (1993). Binge Eating
Disorder: its further validation in a multisite study. International Journal of Eating
Disorders, 13, 137-153.
Teasdale, J.D. (1999). Emotional processing, three modes of mind and the prevention
of relapse in depression. Behaviour research and Therapy, 3, 253-257.
Vanderlinden J., Norrè J., Vandereycken W.(1989). La bulimia nervosa. Astrolabio,
Roma.
Williamson D. A. (1996). Body Image disturbance in Eating Disorsers: A form of
Cognitive Bias? Eating Disorders,4.
Williamson D.A., Davis C.J., Goreczny A.J., Blouin D.C. (1989). Body image disturbances in bulimia nervosa: influences of actual body size. Journal of Abnormal
Psychology, 98, 97-99.
Williamson,D.A., Davis,C.J., Duchmann,E.G., Mc Kenzie,S.J. & Watkins, P.C.
(1990) Assessment of eating disorders: Obesity, anorexia and bulimia nervosa. New
Jork :Pergamon Press.
Wilson G.T. (1999b). Modifying dysfunctional body shape and weight concerns in bulimia nervosa. Unpublished treatment manual, Rugers University.
Wilson G. T. e Fairburn C. G., (1993). Cognitive treatments for eating disorders. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 61, 261-269.
Wilson N.L. e Blackhurst A.E. (2002). Disturbi dell’alimentazione: potenziamento
dell’efficacia attraverso l’integrazione di fattori culturali. In: Lyddon, W.J. e Jones,
J.V. (2002). L’approccio evidence-based in psicoterapia (pag. 211-248). McGrawHill, Milano.
Yanovski S.Z., Leet, M. e Yanovski J.A. et al. (1992). Food intake and selection obese
women with binge eating disorders. American Journal of Clinical Nutrition,56,
975-980.
Parte IV - Disturbi di personalità
American Psychiatric Association DSM-IV (1996, 2001). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Masson, Milano.
Beck, A.T, Rush, A.J., Shaw, B.F. e Emery, G. (1979). Cognitive Therapy of Depression.
New York: Guilford.
Beck A.T., Freeman A. (1990, 1993). Terapia cognitiva dei disturbi di personalità, Mediserve, Milano.
Benjamin, L.S. (1999). Diagnosi interpersonale e trattamento dei disturbi di personalità. LAS, Roma.
234
Bibliografia ragionata
Cloninger, C. R. (2000) A practical way to diagnosis of personality disorders: A proposal. Journal of Personality Disorders, 14: 99-108.
Cloninger, R., Svrakic, D. e Prybeck, T., (1993). A psychobiological model of temperament and character. Archives of General Psychiatry, 50, 975-990.
Di Maggio G., Semerari A. (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Laterza, Roma-Bari.
Flavell J.H. (1979). Metacognition and cognitive monitorino. A new area of cognitivedevelopmental inquiry. American Psychologist, 34, 906-911
Fleming, B. e Pretzen, J., (1990). Cognitive-behavioral approaches to personality disorders. In M. Hessen R.M. e Miller P.M. (eds), Progress in Behavior Modification,
25, 119-151. Sage, Newbury Park, CA.
Fonagy P.(1999). Attaccamento, sviluppo del Sé e sua patologia nei disturbi di personalità. Psicoterapia, 5, 16/17, 53-65.
Freeman A., Pretzen J., Fleming B. e Simon K. (1990). Clinical Application of Cognitive
Therapy. Plenum Press, New York.
Greenberg, J.R., Mitchell, S.A. (1986). Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica,
Il Mulino, Bologna.
Koerner, K., Kohlenberg, R.J. e Parker, C.R., (1996). Diagnosis of personality disorder: a radical behavioural alternative. Journal of Clinical and Consulting Psychology,
64, 1169-1176.
Le Doux J.E. (1987). Emotion. In Mountycastle V.B., Plum R., Geiser S.T. (Eds.),
Handbook of Physiology, Sect I,. The Nervous System, Vol. 5, Part I Higher functions
of the brain. APA, Bethesda (Maryland).
Linehan M. M. (1993). Cognitive-behavioral treatment of borderline personality disorder.
Guilford, New York. (traduzione italiana, Raffaello Cortina Ed., 2001)
Liotti, G. (1992). Disorganizzazione dell’attaccamento e predisposizione allo sviluppo
di disturbi funzionali della coscienza. In: Ammanniti, M. Stern, D.N. (Eds.) Attaccamento e psicoanalisi. Laterza, Roma-Bari.
Liotti G. (1994). La dimensione interpersonale della coscienza. La Nuova Italia Scientifica. Roma.
Liotti G. (2001). Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva
cognitivo evoluzionista. Raffaello Cortina, Milano.
Lorenzini, R., Sassaroli S. (1995). Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità.
Raffaello Cortina Editore, Milano.
Marshall, W.L. e Barbaree, H.E., (1984). Disorders of personality, impulse, and adjustment. In. S.M. Turner e K. S. Hersen (eds). Adult Psychopathology and Diagnosis.
New York: Wlley.
Millon, T. (1981). Disorders of personality: DSM III Axis II. Wiley, New York.
Millon T., Everly G. (1985). Personality and its disorders : a biosocial learning approach.
Wiley, New York.
Millon T., Davis R. (1996). Disorders of personality: DSM-IV and beyond, 2nd ed. Wiley,
New York,.
Pretzer J.L. (1988). Paranoid personality disorder: a cognitive view. International cognitive Therapy Newsletter, 4, 4: 10-12.
Pretzer J. L., Fleming B.M. (1990). Cognitive-behavioral treatment of personality disorders. Behavior Therapist, 12, 105-109.
235
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Sharoff, K. (2002). Cognitive coping therapy. Brunner Pontledge, New York.
Sperry, L. (2000). Disturbi di personalità. McGraw Hill, Milano (1° ediz.).
Sperry, L. (2004). I disturbi di personalità. McGraw - Hill, Milano (2°ediz.).
Stravynski A., Marks L., Yule W. (1982). Social skills problems in neurotic outpatients.
Archives of General Psychology. 39: 1378-1383.
Turner, S.M. e Hersen, M., (1984). Disorders of social behavior: a behavioral approach to
personality disorders. In S.M. Turner e K.S. Hersen, opera citata.
Young, J.E. (1999). Cognitive tharapy for personality disorders: A schema-focused approach, 3° ed. Professional Resource Exchange, Sarasota (Florida).
Young J.E., Klosko J., Weishaar M. (2003). Schema Therapy: A practitioner’s guide.
Guilford Press, New York.
236
Elenco di letture specialistiche di
approfondimento
AAVV, Psicoterapie Cognitive. Recenti sviluppi nella teoria, nella ricerca e nella pratica. Giuffrè, 1991.
AAVV, Relazione Terapeutica nelle Terapie Cognitive. Melusina, 1992.
ANCHISI R. & GAMBOTTO DESSY M., Manuale di Biofeedback: psicologia e medicina comportamentale.Edizione Cortina, Torino, 1996.
ASPREA A. M. & VILLONE BETOCCHI G., Ansia, Stress e Coping nella prospettiva
cognitiva. Idelson Gnocchi, 1998.
BARA G., Manuale di Psicoterapia Cognitiva. Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
BASMAJIAN J. V., (1983), Biofeedback. Principles and practice for clinicians. II ed.
(Tr. it., Il biofeedback, aspetti teorici ed applicazioni pratiche.Piccin Nuova Libraria,
Padova, 1985).
BECK A. T., L’amore non basta. Come risolvere i problemi del rapporto di coppia con la
terapia cognitiva. Astrolabio, Roma, 1990.
BEIDEL D.C. & TURNER S.M., Timidezza e fobia sociale. Genesi e trattamento nel
bambino e nell’adulto. Mc-Graw Hill, 2000.
BRUCH M. & BOND F.W., Oltre la diagnosi. Nuovi percorsi per la formulazione del
caso. McGraw Hill, Milano, 2000.
CHADWICK P & BIRCHWOOD M. & TOWER P., Terapia Cognitiva per deliri,
voci e paranoia. Astrolabio, Roma, 1997.
CHIARI G., Biofeedback, Emozione e Malattia. Franco Angeli, Milano, 1982.
CLARK D.A. & BECK A.T. & ALFORD B.A., Teoria e terapia cognitive della depressione. Masson, Milano, 2001.
DALLE GRAVE R. Terapia cognitivo comportamentale dell’obesità. Verona, Positive
Press, 2001.
DALLE GRAVE R. & DE LUCA L, Prevenzione dei disturbi dell’alimantazione: un
programma di educazione e prevenzione primaria e secondaria per operatori sociosanitari. Positive Press, Verona, 1999.
DATTILIO F. & PADESKY C., Terapia Cognitiva della Coppia. Melusina, 1995.
DE SILVESTRI C., I Fondamenti teorici e clinici della Terapia Razionale Emotiva.
Astrolabio, Roma, 1981.
DE SILVESTRI C., Il mestiere di psicoterapeuta. Manuale pratico di Psicoterapia cognitivo-emotivo-comportamentale. Astrolabio, Roma, 1999.
DETTORE D., Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale. McGraw Hill,
237
La psicoterapia cognitivo comportamentale nella pratica clinica
Milano, 2001.
DOBSON K.S., Psicoterapia cognitivo-comportamentale - Teorie, trattamenti, efficacia:
lo stato dell’arte (II Ed.). McGraw-Hill, 2002.
DOWD E.T. La tossicodipendenza. Trattamenti a confronto. McGraw Hill, Milano,
2001.
FOWLER D. & GARETY P. & KUIPURS E., Terapia Cognitivo-Comportamentale
delle Psicosi. Teoria e Pratica. Masson, Milano, 1997.
GALEAZZI A., MEAZZINI P., Mente e Comportamento. Giunti, Firenze, 2004
GOLDWURM G.F., SACCHI D., SCARLATO A., Le tecniche di rilassamento nella
terapia comportamentale. Manuale pratico teorico. Franco Angeli editore, Milano,
1986.
GUIDANO V. F.& LIOTTI G., Elementi di Psicoterapia Comportamentale. Bulzoni,
Roma, 1979
GUIDANO V. F. & REDA M. A. (a cura di), Cognitivismo e Psicoterapia. Franco Angeli, Milano, 1981.
JOHNSON S.L., Strategie e strumenti di psicoterapia. McGraw-hill, Milano, 1999.
KINGDOM D.G. & TURKINGTON D., Psicoterapia della schizofrenia. L’approccio
cognitivo-comportamentale. Cortina, 1997.
LAVANCO G. & CROCE M. & LO RE T. & VARVERI L. & ZERBETTO R., Psicologia del gioco d’azzardo. McGraw Hill, Milano, 2001.
LAZARUS A. A., La terapia multimodale. Astrolabio, Roma, 1981.
LIOTTI G., Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivo-evoluzionista. Cortina, 2001.
LO IACONO G., D’amore e d’accordo. Guida psicologica per la vita di coppia. Centro
studi Erickson, Trento, 1999.
LORENZINI R. & SASSAROLI S., La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva.
Raffaello Cortina, Milano, 2000.
MAJANI G., Compliance, adesione, aderenza - I punti critici della relazione terapeutica.
McGraw Hill, Milano, 2001.
MARTIN G. & PEAR J., Strategie e tecniche per il cambiamento - La via comportamentale 6/ed. McGraw Hill, Milano, 2000.
MARSHALL W.L. & FERNANDEZ Y., Trattamento cognitivo comportamentale degli
aggressori sessuali. Torino, Centro Scientifico Editore, 2001.
MEICHENBAUM D., Al termine dello stress. Prevenzione e gestione secondo l’approccio
cognitivo-comportamentale. Erikson, Trento, 1990.
MELAMED B. G. & SIEGEL L. J., Medicina Comportamentale. Raffaello Cortina,
Milano.
MERENDA M.T. & POERIO V. Il benessere comincia dalla mente. F. Angeli ed., Milano, 2003.
MONTANO A., Psicoterapia con clienti omosessuali. McGraw Hill, Milano, 2000.
MOSTICONI R., Terapia del Comportamento: Principi, metodo, pratica. Bulzoni, Roma, 1979.
O’CONNEL B., La Terapia Centrata sulla Soluzione. Guida alla terapia breve e al
counselling. Ecomind, Salerno, 2002.
PANCHERI P., Stress Emozioni e Malattia. Mondadori, Milano, 1980.
238
Elenco di letture specialistiche di approfondimento
PERRIS C. & McGORRY P.D., Psicoterapia cognitiva dei disturbi psicotici e di personalità. Masson, Milano, 2001.
PRUNETI C. A., Stress, disturbi dell’integrazione mente-corpo e loro valutazione. ETS,
Pisa, 1998.
RAVIZZA L. & BOGETTO F. & MAINA G., Il disturbo ossessivo-compulsivo. Masson, Milano,1997.
REDA M. A., Sistemi Cognitivi Complessi e Psicoterapia. NIS, Roma, 1986.
REDA M. A. & MAHONEY M. J., Psicoterapie cognitive. Recenti sviluppi nella teoria,
nella ricerca e nella pratica. Giuffrè, 1991.
ROVETTO F., Non solo pillole. Psicoterapia e farmaci: un’integrazione. McGraw-Hill,
Milano, 1996.
RUGGERI G., Sogno in Psicoterapia Cognitiva. Seminari. Melusina, 1992.
SACCO G., Tecniche della terapia cognitivo-comportamentale. Melusina, Roma, 1989.
SACCO G., I giochi della mente. Teorie, ricerche e applicazioni delle immagini mentali.
Melusina, Roma, 1994.
SACCO G., ISOLA L. La relazione terapeutica nelle terapie cognitive. Melusina, Roma
1992.
SCHUYLER D. (1991), Guida pratica alla terapia cognitiva. Astrolabio, Roma, 1992. SEMERARI A., I processi cognitivi nella relazione terapeutica. NIS, Roma, 1991.
SEMERARI A., Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Metacognizione e relazione terapeutica. Cortina, 1999.
SHUCHTER S. e DOWNS N., Depressione. Conoscenze biologiche e psicoterapia. Raffello Cortina Editore, Milano, 1997.
STURMEY P., Analisi funzionale in psicologia clinica. McGraw Hill, Milano, 2000.
TUNKS E. & LERA S. & PESARESI F., Terapia cognitivo-comportamentale in riabilitazione. Edi. Ermes, 1998.
VEGLIA F., Storie di vita: narrazione e cura in psicoterapia cognitiva. Bollati Boringhieri, Torino, 1999.
WHITESIDE RICHARD G., L’esercizio del controllo nella relazione psicoterapeutica.
McGraw Hill, Milano, 2000.
YOUNG J.E., KLOSKO J.S. & WEISHAAR M.E. Schema Therapy: La terapia cognitivo comportamentale integrata per i disturbi di personalità, Eclipsi, Firenze, 2007.
YULE W., Disturbo post-traumatico da stress. Aspetti clinici e terapia. McGraw Hill,
Milano, 2000.
239
Scarica