MEDICINÆ 18-24 dicembre 2007 29 Avviso dal congresso nazionale degli endocrinologi: attenti alle sostanze usate nei cosmetici «Rischi la tiroide, bellezza...» Soia, alghe e ormoni alterano il funzionamento della ghiandola L e malattie della tiroide, nodulari e non, sono molto frequenti. E molto frequente sta diventando in tutto il mondo l’assunzione di prodotti dietetici e l’uso di prodotti cosmetici. Per questo motivo sempre più spesso l’endocrinologo e il laboratorista si trovano a gestire gli effetti di tali sostanze sulla tiroide e sugli esami tiroidei. A questo si aggiunge il fatto che i pazienti sono frequentemente convinti che questi prodotti “naturali” non abbiano effetti collaterali e quasi mai informano il medico di questa assunzione. Da queste considerazioni si è sviluppato lo «Spot in Endocrinologia clinica», presentato dal sottoscritto e da Mauro Maccario, professore associato di endocrinologia all’Università di Torino al VII Congresso nazionale dell’Associazione medici endocrinologi (Ame), svoltosi a Bologna a inizio novembre. Le relazioni hanno fatto il punto sull’impatto clinico laboratoristico dell’uso di prodotti cosmetici e dietetici sulla funzione tiroidea. Passando in rassegna le numerose sostanze presenti nei prodotti cosmetici e dietetici sulla tiroide che interferiscono con la funzionalità tiroidea, abbiamo sottolineato alcuni aspetti, a nostro avviso, importanti: Cosa interferisce con la tiroide ALIMENTI E FITOFARMACI ● Flavonoidi della soia; ● glucosinolati delle Brassicacee; ● piante, alghe medicinali (Fucus vesiculosus, Citrus aurantium); ● iodio e selenio, ferro e zinco. ORMONI TIROIDEI E DERIVATI (TRIAC) Per os; ● uso topico. ● RESIDUI CONTAMINANTI CIBI, TERRENI E ACQUE Bromuri, chimici sintetici (idrocarburi alogenati, fenoli, ftalati, perclorato ecc.); ● fumo. ● soia: proposta per un effetto protettivo nei confronti di coronaropatie, cancro e osteoporosi e per i benefìci per i sintomi della menopausa, può interferire con la funzione tiroidea e ridurre l’assorbimento degli ormoni tiroidei; ● alghe (fucus e altre): usate comunemente e intensamente in Estremo Oriente, si stanno diffondendo anche in Italia. Contengono iodio e possono causare ipertiroidismo e, se usate per lunghi periodi, ipotiroidismo. Il laboratorio trova frequentemente aumenti del Tsh e diminuzione del T3 in chi assume il fucus. Non sempre è possibile risalire al contenuto di iodio del tipo ● Edouard Manet, Davanti allo specchio (1876) di alghe del singolo prodotto. È stato infatti ricordato che la stessa alga raccolta in aree diverse può contenere una quantità di iodio diversa anche di centinaia di volte; diverso è anche il contenuto di iodio dell’alga raccolta sulla sabbia e di quella, soprattutto se giovane, raccolta nell’acqua. Anche l’assunzione per un mese di tè contenente fucus può causare ipertiroidismo clinico e laboratoristico; ● acido triiodoacetico (tiratricol, Triac): contenuto in alcuni prodotti usati per indurre perdita di peso è un metabolita del T4 e, nonostante l’intensa campagna promozionale di molte aziende su web, sono stati descritti casi di ipertiroidismo e di ipotiroidismo in chi lo assume; ● Somatoline®: la nota crema usata per ridurre la cellulite contiene ormone tiroideo. Anche se un autorevole studio ha dimostrato che non viene assorbita in circolo nei soggetti con cute indenne, non si può escludere che questo possa avvenire nei casi in cui essa sia alterata da patologie o da trattamenti estetici (stripping, peeling e altro). È stato descritto, per esempio, un caso di ipertiroidismo in una estetista che ha applicato alle sue clienti per molti mesi creme contenenti iodio e ormoni tiroidei. Sono stati documentati anche casi di adulterazione con ormoni tiroidei di alcuni dei prodotti “naturali” e omeopatici che hanno causato quadri di ipertiroidismo che si sono risolti solo con la sospensione dell’assunzione. Il vivace dibattito che ha seguito le due presentazioni ha dimostrato l’importanza e la frequenza del problema e la necessità che chi assume prodotti dietetici e cosmetici sappia che non sono prodotti esenti da effetti collaterali e ne informi il medico, l’endocrinologo e il laboratorista, soprattutto se è affetto da patologie tiroidee e assume farmaci con effetti sulla funzionalità tiroidea. Gran parte degli endocrinologi presenti al convegno ha avuto esperienza di pazienti con problemi tiroidei seguiti alla assunzione di sostanze di questo genere; è quindi verosimile che il fenomeno si stia espandendo. La rapidità con cui la commercializzazione di questi preparati si sta spostando sulla rete, come è emerso nel corso della sessione che si è svolta al congresso Ame di Bologna, comporterà infatti una diffusione sempre più ampia e meno “controllata” del loro impiego. Romolo M. Dorizzi Direttore Laboratorio analisi Ospedale di Forlì LA MEDICINA MINI-INVASIVA L a prima colecistectomia laparotomica (con incisione della parete addominale) venne eseguita in Germania da Carl Langenbuch, nel luglio 1882, su un paziente maschio, di 43 anni, che soffriva di coliche biliari. Due anni dopo, fu resa pubblica l’esecuzione della prima colecistectomia nel Regno Unito. Da allora, questa tecnica è rimasta indiscussa e venne ripetuta in milioni di interventi chirurgici, fino al marzo 1987, quando, con una vera e propria rivoluzione, Philippe Mouret e Francois Dubois introdussero l’approccio videolaparoscopico che, dopo un’iniziale diffidenza nell’ambiente chirurgico, ha preso velocemente piede ed è oggi considerato il trattamento “gold standard” della colelitiasi. La nascita e l’evoluzione della chirurgia mini-invasiva, con la quale ha perso significato l’assioma “grande taglio = grande chirurgo”, da un lato ha portato a estendere questo approccio chirurgico al trattamento di molte patologie gastro-intestinali e, dall’altro, ha spinto a cercare strade sempre meno invasive. Per ridurre al massimo l’invasività chirurgica sui pazienti, è nata la Notes (Natural orifices transluminal endoscopic surgery), che prevede l’utilizzo degli orifizi naturali per introdurre strumenti che permettano l’esecuzione di interventi chirurgici. «Notes», la nuova sfida del mondo chirurgico Quindi, dopo esperimenti sul modello animale, con passaggio transgastrico (dalla bocca), transanale e transvaginale, è stato eseguito con successo il primo intervento sull’uomo. Una data importante è il 20 marzo 2007: alla Columbia University di New York, è stato eseguito con tecnica ibrida il primo intervento per via transvaginale. In questo caso il chirurgo ha utilizzato, oltre l’accesso transvaginale, anche tre trocar come accessi dalla parete addominale. Il primo reale intervento transvaginale è, però, indiscussamente considerato quello eseguito da Jacques Marescaux, il 2 aprile 2007, presso l’ospedale universitario Ircad di Strasburgo: una colecistectomia per colelitiasi sintomatica in una giovane paziente di 30 anni. A questo intervento è stato dato il nome “Anubis”, in onore del personaggio della mitologia egizia che, per primo, utilizzò lunghi strumenti flessibili per mummificare. In Italia, pochissimi centri hanno praticato la colecistectomia transvaginale, alcuni si sono avvalsi della collaborazione di Strasburgo. Il centro della Chirurgia A dell’Ospedale San Giovanni Bosco dell’Asl 4 di Torino ha ini- La tecnica utilizza gli orifizi naturali ziato nel mese di ottobre, in piena autonomia, con una colecistectomia per colelitiasi sintomatica in una paziente di 58 anni. I tempi operatori intraddominali nei tre approcci chirurgici sono gli stessi. La grande differenza sta nel fatto che la via laparotomica prevede un’incisione di 15-20 cm e l’introduzione in addome degli strumenti chirurgici tradizionali e delle mani. La via laparoscopica prevede invece l’utilizzo di piccoli accessi parietali, normalmente quattro, con diametro tra i 5 e i 10 mm e l’uso di strumenti rigidi manovrati al di fuori della parete addominale. Nella via transvaginale, le stesse manovre vengono eseguite con strumenti flessibili della lunghezza di 120 cm e diametro di 2 mm. La colecistectomia transvaginale avviene in anestesia generale e necessita di una équipe multidisciplinare composta da tre operatori: un chirurgo, un gastroenterologo e un ginecologo. Il primo atto operatorio consiste nell’eseguire il pneumoperitoneo, a tale scopo si utilizza un ago di Veress o Verres (il suo ideatore si firmava indifferentemente con la doppia grafia) che fu descritto per la prima volta nel 1938 e la sua caratteristica peculiare è una protezione sulla punta che evita danni agli organi intraddominali. L’ago viene infisso al di sotto del fegato, si insuffla anidride carbonica fino a raggiungere la pressione di 14 mm di mercurio, in questa maniera si distaccano le anse intestinali e il grasso omentale dalla parete addominale anteriore. Quello che era uno spazio normalmente virtuale, diventa uno spazio reale nel quale operare. Rimosso l’ago, attraverso la stessa incisione, viene inserita una telecamera (diametro da 2 a 5 mm) con la quale si ispeziona la cavità peritoneale e si controlla che lo spazio tra il retto e la vagina sia libero. Si passa quindi all’apertura della vagina per 10-15 mm, eseguita sulla parete posteriore della stessa, dalla quale si accede direttamente alla cavità peritoneale. L’incisione vaginale permette l’introduzione di un fibroscopio flessibile, quello normalmente utilizzato per eseguire le gastroscopie, che viene spinto in alto sotto il controllo visivo sino a raggiungere la faccia inferiore del fegato. La caratteristica particolare del fibroscopio è che, oltre ad avere una telecamera, ha due canali del diametro di 1,5-2 mm, attraverso i quali si introducono gli strumenti operatori. Posizionando il paziente in “anti Trendelemburg”, inclinando cioè obliquamente il letto operatorio, il soggetto avrà testa in alto e piedi in basso, ottenendo così l’abbassamento dell’intestino, ma non del fegato e l’esposizione della cistifellea. Con una pinza da presa non traumatica, per non ledere i tessuti, e uno strumento coagulan- te si inizia la dissezione del triangolo di Calot, dove si isolano il dotto cistico e l’arteria cistica, che vengono sezionati tra clip. Con questa manovra, si stacca la cistifellea dal coledoco e dall’arteria epatica (che non devono essere lesionati). Una volta libera, la cistifellea viene staccata dal fegato. Dopo aver lavato e controllato l’emostasi, si introduce un sacchetto di protezione, dove viene messa la colecisti, che è poi estratta dalla vagina. Due punti di sutura sulla vagina segnano la fine dell’intervento. I tempi operatori per ora sono sovrapponibili a quelli impiegati nelle prime videocolecistectomie, ma comunque più lunghi di quelli necessari all’esecuzione di una colecistectomia videolaparoscopica. Perché allora utilizzare questo nuovo approccio chirurgico? I motivi più significativi sono la diminuzione o la totale assenza di dolore postoperatorio, spesso provocato dalle incisioni addominali; inoltre, minori traumi fisici e psicologici e, non ultimo, un miglior risultato estetico che, su pazienti di sesso femminile, assume un ruolo rilevante. Lo scoglio più grande da superare è la mancanza di strumentario dedicato. Quando negli anni ’90 si iniziò la via laparoscopica, le più importanti in- dustrie del settore avevano già a disposizione tutta l’attrezzatura necessaria che, nell’arco degli anni, è stata poi perfezionata. Oggi, con la via transluminale, si deve adattare lo strumentario che è normalmente utilizzato per la diagnostica e la terapia gastroenterologica: il gastroscopio a doppio canale, le pinze da presa e quelle coagulanti. Inoltre, è ancora indispensabile praticare anche un accesso addominale poiché le clip per sigillare il dotto cistico e l’arteria cistica sono le stesse utilizzate per la via laparoscopica. Anche se attualmente la tecnica Notes non è ancora standardizzata, con la sua diffusione si potranno raggiungere livelli elevati in rapidità e ottimizzazione, tanto da entrare negli interventi di routine. Perfezionando la tecnica, ideando lo strumentario ad hoc e acquisendo manualità ed esperienza, in futuro si conseguiranno gli stessi risultati che attualmente detiene la via laparoscopica, nonostante agli albori essa sembrasse utopia. Come la laparoscopia ha aperto nuove frontiere, negli anni ’90, anche questo approccio può rappresentare oggi una sfida per il mondo chirurgico. Minori traumi fisici e psicologici Leandro Moro Direttore vicario Chirurgia A Ospedale San Giovanni Bosco Asl 4 Torino