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Pubblicato il 18 Dicembre 2015
Il Rigoletto del Teatro dell'Opera di Firenze è stato proprio un ripiego
Brockhaus non l'imbrocca
servizio di Simone Tomei
FIRENZE - «Anche se Rigoletto si svolge alla corte di Mantova, l’aspetto storico non è la sostanza
dell’opera. L’essenza dello spettacolo risiede nell’ossessiva riflessione che Rigoletto fa, durante tutta la
vicenda della maledizione di cui è stato oggetto e nella successione di scelte sb agliate che lo
condurranno al suo tragico errore. La vera trama si focalizza sull’impossib ilità di armonizzarele due
diverse vite quella del padre e quella del b uffone... trattandosi di prob lematiche profondamente
interiori, ritengo necessario l’uso di un linguaggio scenico lib ero da connotazioni esterne alla vicenda,
esattamente come nelle intenzioni di Verdi, quando scelse il soggetto e lo musicò: visualizzare
dunque la vicenda e mettere in scena attraverso la musica. Il naturalismo o il realismo storicizzante
non fareb b e altro che seppellire la sostanza drammaturgica della musica di Verdi...»
Queste sono alcune riflessioni tratte dalle note di regia di Henning Brockhaus; ma perché dedico questo spazio alla
citazione? Mi sento in dovere di farlo per cercare di fare luce prima di tutto a me stesso, in relazione a queste parole, sul
probabile nesso che avrei dovuto trovare fra esse e quanto visto in questa produzione di Rigoletto all’Opera di Firenze. Dalle
cronache ho letto che la sera della “prima” all’uscita del regista sul proscenio si è scatenato un putiferio degno delle migliori
“baruffe ciosotte” al grido di vergogna! vergogna!
Come dare torto al pubblico? Non essendo presente a quel momento di dissenso mi limito a riportare quanto pubblicato in
più lochi, ma mi sento di dire che seppur io fossi stato presente, probabilmente avrei dato un forte sostegno al coro dei
dissenzienti. Molto spesso per giustificare le proprie azioni, si cerca di esporre le proprie ragioni con paginate di chiarimenti
e disquisizioni che il più delle volte non sarebbero necessarie a comunicare l’idea in cui si crede fermamente qualora questa
avesse un senso logico e un’armonia di intenti; le note di regia, in questo caso ai limiti dell’assurdo, hanno assunto il sapore
di una excusatio non petita che, come un boomerang si sono trasformate in una accusatio manifesta ed il pubblico
raccontato nelle cronache della prima, sembra averlo percepito ed espresso in maniera inequivocabile.
Questa regia molto datata - i cui natali parmensi al Teatro Regio, risalgono al 2001 - già all’epoca ebbe riscontri poco positivi
e questa ripresa ha confermato le impressioni di allora dove si sa, il pubblico era ed è notoriamente piuttosto tradizionalista
ed è molto arduo accontentarlo.
L’idea ottima di mettere in luce la distanza abissale tra i due mondi del protagonista, quello di padre e quello di giullare e
quindi di uomo di corte, alla fine ha trovato il suo riscontro e attuazione in un controsipario di colore rosso sangue, come quel
sangue in cui finisce tragicamente la vicenda; sipario che delimita i due mondi e dai quali ci si entra e si esce con estrema
facilità ruotando su se stessi (vedi l’entrata di Sparafucile e Rigoletto all’inizio del duetto del primo atto); la camera di Gilda
sospesa da terra e ricavata in un intaglio del grande telo rosso che delimita il palcoscenico, rappresenta ancor di più quella
parte di mondo, diversa e lontana da quella dei divertimenti di corte ed è quella che poi viene profanata, grazie alla
compiacenza di Giovanna, dal Duca; per esso infatti è facile entrare a profanare quel mondo candido e ingenuo come le
candide vesti bianche della giovane; ma a lui tutto è permesso. Continuando con le scelte registiche, mi viene naturale
commentare quella frase delle note iniziali, dove si enfatizza l’aspetto delle prob lematiche interiori che devono eliminare
connotazioni esterne: ebbene anche questo è qualcosa che è stato scritto sulla carta, ma non si è tramutato poi nella realtà;
ogni atto, ogni scena, sono sempre state accompagnate da strane figure e da soggetti femminili, in abiti succinti e molto
spesso impegnati in movimenti rozzi e volgari - senza nessuno scandalo per questo - che sono risultati sovente del tutto
inopportuni.
Si invoca l’aspetto intimistico e personale, ma persino nel duetto finale del secondo atto i due protagonisti si trovano a
parlare “da soli” come richiesto da Gilda stessa “arrossir voglio innanzi a voi soltanto ” mentre tutto intorno troviamo queste
figure in atto di ascolto della loro intimità; persino nel terzo atto nella fredda e tetra dimora sulle sponde del Mincio ci troviamo
queste donnine di bordello a fare da contorno al finale della vicenda.
Ebbene, anche per dovere di sintesi, quello cui ho assistito è ben lontano per il mio modo di vedere, da ciò che rappresenta
per me questo capolavoro del Cigno di Busseto e non mi sento di biasimarlo quando a suo tempo scrisse: «allo scopo di
impedire le alterazioni che si fanno nei teatri delle opere musicali, resta proib ito di fare nelle mie opere qualunque
intrusione, qualunque alterazione che richiegga il più piccolo camb iamento, sotto al multa di cento franchi che io esigerò
per qualunque teatro ove sia fatta l’alterazione.» (1841).
Tutte queste ammende probabilmente oggi sarebbero state una bella boccata di ossigeno per riuscire a risanare i disastrati
bilanci di molti teatri; mi preme comunque sottolineare il fatto che, a giustificazione delle scelte artistiche del teatro fiorentino,
questa è stata, obtorto collo, una soluzione di ripiego dell’ultimo minuto a causa della defezione a poche settimana dall’inizio
dei lavori del regista William Friedkin, incaricato di curare il Rigoletto in programma. Completo il mio giudizio sull’aspetto
visivo con i collaboratori del regista: quanto a scene completamente asettiche al limite dell’insignificante Ezio Toffolutti,
costumi atemporali con vago riecheggio comico circense Patricia Toffolutti e movimenti coreografici (più simili alle movenze
di un Drive-in) e assistente regista Valentina Escobar. Se sul versante scenico il mio giudizio non può che essere
estremamente negativo, avvilente e deludente, l’orecchio è stato maggiormente appagato da due cast di buon livello.
Avendo avuto modo di ascoltare tutti i cantanti come mio solito vi parlerò del primo ensemble ascoltato in cui tratterò anche
l’aspetto musicale per poi parlare del secondo solamente in relazioni agli interpreti che si sono succeduti.
Recita del 6 dicembre 2015 - Secondo cast - Nel ruolo eponimo il baritono Ambrogio Maestri non ha mancato di imporsi
vocalmente sulla scena fornendo una prova di gran valore e professionalità; si è destreggiato nell’impervia tessitura
musicale facendo percepire una potenza vocale e un buon fraseggio: la prima nei punti topici del dramma nell’esternazione
delle maledizioni sia alla fine del primo atto che in finale di opera, la seconda nel difficile duetto - ancorché tagliato - del
primo atto con Gilda dove le note stanno quasi sempre sopra il rigo e si necessita di grande leggerezza e maestria nel
domare fiato e gola; dal punto di vista scenico non mi sento di esprimere nessun giudizio in merito alla prova di Maestri in
quanto nessun atteggiamento “caratteristico” del personaggio è mai trapelato sul palcoscenico grazie a quella scelta
registica e la voce ha spesso supplito a questa gravissima mancanza.
Nel ruolo del Duca di Mantova - anche se da quello visto potrebbe essere stato anche il principe azzurro di Biancaneve o il
brutto Gargamella dei Puffi - il tenore Arturo Chacón-Cruz; mi ha dato impressione di essere riuscito a centrare il
personaggio da un punto di vista vocale riuscendo a domare la partitura con estrema saggezza e con una buona dose di
furbizia, senza mai strafare, ma riuscendo a conferire corpo, il giusto vibrato e i piacevoli accenti in tutti i momenti dove era
protagonista assoluto; un bello squillo nell’iniziale Questa o quella per poi ascendere con grandissima facilità e leggerezza
fino ai si bemolli acuti di È il sol dell’anima... d’invidia agli uomini sarò per te , senza mai perdere il controllo del fiato e della
potenza vocale, che non hanno ostacolato una certa leggiadria di suono; ha risolto molto bene anche i momenti topici del
secondo atto con un Parmi veder le lagrime e un Possente amor mi chiama molto convincenti.
La presenza femminile di Gilda è stata una grande sorpresa per me al primo ascolto di questa voce: il soprano Christina
Poulitsi ha riscosso totalmente il mio plauso per come ha saputo interpretare vocalmente questo personaggio che alla fine è
l’unico che ha veramente all’interno del dramma una evoluzione psicologica piuttosto forte: l’innocenza del primo atto ha
avuto il suo concretizzarsi in una vocalità fresca e leggera, senza mai inciampare o tentennare nelle insidiose note; l’aria che
le è propria - Caro nome - sprigionava freschezza e giovinezza, unite ad innocenza ed ingenuità ed anche i picchettati
sovracuti trasudavano questi stati d’animo; già il duetto del secondo atto metteva in evidenza vocalmente che qualcosa era
cambiato dove in Tutte le feste al tempio e poi nel duetto della vendetta già si percepiva il maturare di una situazione che
sarebbe arrivata all’epilogo tragico conosciuto, peccato che scenicamente la sua prestazione non era per nulla intonata al
personaggio risultando in molti momenti insignificante e totalmente decontestualizzata rispetto alle parole che venivano
cantate: ovviamente questa pecca non è da attribuire all’interprete che non poteva che eseguire le direttive registiche.
Personaggio di grande rilievo sia da un punto di vista vocale che scenico è stato quello di Sparafucile interpretato dal basso
toscano Giorgio Giuseppini; è stato sempre ritenuto un cantante di grandissimo spessore vocale ed anche in questa prova
fiorentina non posso che confermare le sensazioni avute in altri contesti; bella voce, timbro scuro, ma al contempo molto
agile e ben proiettato in tutta la sua gamma di suoni; magistrale nel duetto del primo atto nonostante abbia dovuto fare i conti
con movimenti poco agevoli e del tutto insignificanti: come si può far cantare un Fa grave mentre si deve soppesare una
sedia, piegarsi e farla passare sotto il controsipario; ancora una volta queste scelte avallano il mio giudizio negativo sulla
messinscena; nonostante il carattere da bastardo-canaglia del personaggio, l’eleganza vocale e il portamento scenico - in
giusto contrasto con le sue caratteristiche ontologiche - hanno fatto del terzo quadro una pittura da vedere ed ascoltare per il
Giuseppini, regalando un momento molto convincente della sua prestazione.
Una procace Maddalena interpretata dal mezzosoprano Anna Malavasi è stata anch’essa complice di questo terzo quadro
evidenziando una bella vocalità brunita e piuttosto imponente, molto ben dosata, amalgamandosi bene con le altre voci in
uno stupendo quartetto ed aiutata da una bella fisicità, ha riscosso un gran successo anche scenico con movenze e
atteggiamenti degni del ruolo.
Ho udito infine voci molto interessanti nel novero dei comprimari che completavano il cast e mi sembra doveroso spendere
più di una parola anche per loro; Konstantin Gorny è stato un solido e imponente Monterone nonostante il suo ingresso in
scena sia risultato al quando anonimo per il costume di scena pressoché uguale a quello di Rigoletto; la voce ha fatto la
differenza quando la potenza e l'intonazione hanno conferito al padre ferito, una grande incisività e carisma; il Marullo di Italo
Proferisce è stato corretto anche se piuttosto ordinario; un Borsa di buon colore quello di Luca Casalin; Nicolò Ceriani e
Sabrina Testa nel ruolo della coppia Ceprano molto ben definiti; Chiara Fracasso nel ruolo di Giovanna ha voluto strafare in
un ruolo così misurato e marginale con una vocalità irruente, quasi dovesse mandare gli anatemi di Amneris ai sacerdoti
egizi; buono l’ Usciere di Vito Luciano Roberti mentre molto debole il Paggio di Irene Favro.
Il coro diretto dal Maestro Lorenzo Fratini è stato molto attento alle dinamiche sonore regalando momenti di puro godimento
nell’ascoltare i bellissimi crescendo di Oh tu che la festa audace hai turb ato, come pure ottimi sono stati gli interventi fuori
scena dei rumori della tempesta del terzo atto.
Zubin Mehta è stato osannato dai fiorentini come il “loro” direttore e gli sono state tributate grandi ovazioni alle sue entrate ed
alla fine dell’opera; una prestazione musicale quella dell’orchestra di grande pregio, sonorità piuttosto importanti hanno
caratterizzato tutta l’opera: inizialmente alcuni passaggi degli archi hanno fatto percepire brividi inconsueti e un encomio
particolare va dedicato agli ottoni che sono stati grandi protagonisti; i tempi del direttore sono risultati talvolta un po’ rallentati
a favore di una cura maggiore per una ricercata sonorità; anche il duetto finale del secondo atto non è stato eseguito come di
prassi dapprima “in quattro”, poi “in due” per convergere poi nella stretta finale, bensì tutto con lo stesso tempo iniziale e ciò
ha conferito ancor più quel senso di drammaticità statica al momento, mancante nella visione. Una bella emozione è stata
quella del direttore che, salito sul palco, si è prima inchinato a mo’ di saluto verso i musicisti in buca poi ha stretto la mano a
tutti i cantanti ed infine si è concesso al suo pubblico per ricevere il meritato plauso.
Anche parlando dell’aspetto strumentale sono indotto a fare
un altro appunto alle scelte registiche; in questo capolavoro
ci troviamo davanti ad una partitura che nel primo atto
annovera tre complessi musicali: l’orchestra nel golfo
mistico, la banda fuori scena e l’orchestrina sul palco che
esegue il cosiddetto perigordino. Come ormai è noto dai
tempi di Rossini che ne fu l’inventore nella sua Ricciardo e
Zoraide, quando si parla di Banda questa non deve essere
visibile - si chiama infatti banda fuori scena - ma il suo
suono deve sembrare come se venisse da lontano e la sua
direzione è affidata ad una figura ben definita in teatro
chiamata
“maestro
dei
complessi
musicali
di
palcoscenico”: ebbene qui non è stato così in quanto
questo complesso musicale era in bella vista sul palco a
cui si è aggiunta poi davanti l’orchestrina al momento della
dipartita della Contessa di Ceprano; non per essere
petulante, ma mi continuo veramente a chiedere quale sia il
fine di tutto questo: mania di autocompiacimento? Voglia di
far parlare di sé al motto di “che se ne parli bene o male
l’importante è parlarne”?
In relazione ad un passo delle stesse note di regia mi
sovviene questo pensiero: se il naturalismo o il realismo
storicizzante non avrebbero fatto altro che seppellire la
sostanza drammaturgica della musica di Verdi, forse che le
scelte registiche di Brokhaus completamente avulse a
qualsiasi logicità, l’hanno fatta risorgere? Gran cosa che
sono la convinzione e la supponenza.
Recita del 15 dicembre 2015 - Primo cast - Il Rigoletto di
Vladimir Stoyanov è risultato molto credibile vocalmente ed
in parte anche scenicamente; voce di grande spessore e
con un’ottima estensione quella del baritono bulgaro che
non è stato mai avaro di particolarità interpretative eseguendo ottimamente i piccoli ma insidiosi virtuosismi vocali di cui è
intessuta buona parte della scrittura verdiana; ottimo nel duetto con Gilda e alquanto incisivo nell’aria più difficile Cortigiani
vil razza dannata; in questa aria che si può definire tripartita vi sono questi tre momenti a cui il compositore assegna un
tema, un tempo ed un’intenzione; elementi che mi hanno colpito e mi fanno giudicare positivamente la sua interpetazione.
Meno incisiva e convincente Julia Novikova nel ruolo della figlia del gobbo: non mi ha convinto la sua prova in quanto la
vocalità è risultata spesso priva di spessore con suoni molto statici in acuto e poveri di dinamiche, tali da far emergere poco
il carattere del personaggio che è risultato piuttosto ingrigito dalla sua interpretazione, ma non posso comunque non
sottolineare un’evoluzione positiva verso la fine soprattutto nel duetto V’ho ingannato dove è emerso anche vocalmente il
piglio caratteriale di Gilda.
Ivan Magrì - il Duca di Mantova - ha fatto annunciare prima dell’inizio una sua indisposizione nonostante la quale sarebbe
stato in scena; in effetti una febbre piuttosto consistente lo ha accompagnato per tutta la serata. Non ha dimostrato problemi
vocali anche se si è sentito un affaticamento soprattutto legato ai fiati e ai tempi comodi del maestro concertatore che lo ha
comunque aiutato soprattutto nel secondo quadro con una tempistica un pochino più sostenuta. Ha fatto ascoltare
comunque un bel timbro e un bello squillo, unitamente ad un fraseggio piuttosto delicato, nonostante qualche nota centrale
poco a fuoco, che gli è valso il riconoscimento di una discreta prova.
Su tutti gli altri fronti confermo le impressioni della prima serata, con un appunto per una sonora empasse temporale fra i tre
complessi musicali che ha mandato fuori carreggiata tutti i cantanti ed il coro. Il plauso della platea ricolma non è mancato
per tutti con qualche punta in più per il baritono Sotyanov, per il basso Giuseppini e naturalmente per il “loro” direttore Mehta.
Crediti fotografici: Michele Borzoni TerraProject Contrasto per il Teatro dell'Opera di Firenze
Nella miniatura in alto: il regista tedesco Henning Brockhaus (foto di repertorio)
Nella sequenza: protagonisti del secondo cast, Ambrogio Maestri ( Rigoletto), Christina Poulitsi ( Gilda), Arturo Chacón-Cruz ( Duca)
Più sotto: ancora Ambrogio Maestri e Christina Poulitsi nel finale dell'opera
Protagonisti del primo cast: Vladimir Stoyanov (Rigoletto) con Julia Novikova (Gilda)
In basso: Ivan Magrì (Duca) con Anna Malavasi (Maddalena)
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