N. 43 - Anno XXI - Settembre 2015 - Pubblicazione riservata ai soli Soci Diritti di giurisdizione e riti di possesso in un feudo monferrino *1 a cavaliere tra i secoli XVI e XVII «et cum titulo marchionatu» …ciò significando che, oltre al possesso della terra, passavano all’acquirente (concessionario) anche tutti i diritti attributivi relativi alla giurisdizione (specifici proprio ed in relazione a colui che risulta essere titolare di tutti quegli effettivi poteri in qualità di feudatario) compresa la potestà sopra i sudditi (gli abitanti del territorio medesimo). Allora, il giorno successivo alla stipulazione del contratto di acquisto del feudo, da parte del concessionario e della emissione del relativo atto di investitura (da parte della Camera Ducale, a nome del Sovrano), in una stanza attigua al campanile, furono convocati i rappresentanti della Comunità infeudata che prestarono il giuramento di fedeltà e l’omaggio nelle mani del procuratore del nuovo feudatario (che, per opportunità, chiamerò Giovanni Bianco) secondo una di quelle formule consuete che, i feudisti, definiscono con il fraseggio :«indicat praecipue qualitatem feudalem». Tutti questi contratti di vendita feudale erano consentiti, esclusivamente, se conosciuti dalla Camera Ducale (ente patrimoniale dello Stato) la quale, inoltre, doveva «sempre sapere» sia delle vendite che dei trasferimenti relativi alle terre dei vari feudatari ad essa sottoposti e dei castelli ed altri beni dotati di giurisdizione, al fine di essere informata delle qualità delle persone “vassalli del proprio stato”. Quand’anche della qualità giurisdizionale di ogni singolo feudatario, sia titolato che di semplice vassallo. Infatti, poiché, ogni terra, apparteneva alla Corona (e, quindi, solo a questa spettava la facoltà di concederla in beneficio, e, quindi, di, eventualmente, concederla in godimento o di trasferirla), il sovrano, tramite i propri organi istituzionali, doveva esercitarne il controllo. * Questo scritto è “facente parte” di uno studio più ampio e dettagliato, relativo ad un feudo monferrino, che verrà pubblicato “in seguito”; quindi, per ragioni di opportunità editoriale, non rivelo toponimi, né nomi di persone reali. 1 Formalizzate tutte le procedure conoscitive e ricevuti i pareri degli organi patrimoniali ed amministrativi dello Stato, al concessionario, venivano esplicitati (tramite l’atto di investitura) una serie di diritti di esercizio che vanno sotto la denominazione specifica di: “giurisdizione”. La giurisdizione detta piena si manifestava con la formula del «mero et mixto imperio» con o senza la “potestà della spada” (vale a dire, con il diritto di poter giudicare sia per le cause “civili” che per quelle “criminali” ed anche per quelle comportanti condanne “con spargimento di sangue”). La giurisdizione comprendeva anche “reati minori” e questa era definita una ”facoltà giurisdizionale”, poiché, in genere, il feudatario, non se ne degnava, ma, la delegava, ai giudici da lui stesso nominati. Il diritto d’archivio era invece costituito dalla percezione dei proventi derivanti dalle tassazioni fisse poste sopra gli atti processuali per le cause nate sul e nel feudo. Lo jus marchii (relativo al controllo sopra pesi e misure e -ove fosse contemplatoil diritto della zecca). Rientrava inoltre nella “piena giurisdizione del feudatario” il diritto di nomina dei vertici di quelle entità giuridico-amministrative che, tutti conosciamo, con il nome di “Comunità” e cioè: del Sindaco e di due collaboratori e controllori del sindaco medesimo. Quindi del Giudice Feudale (denominato, altresì, Podestà) e del Castellano la più alta carica militare e di polizia del feudo). Tutti questi personaggi costituivano il “corpo degli ufficiali feudali”. Il feudatario amministrava, ancora, lo ”jus prohibendi” cioè il diritto di vietare la caccia e la pesca -quando c’erano acque feudali-, di consentire “sotto condizione” il “diritto di pedaggio” sopra le strade feudali (cioè un diritto impositivo riguardante la circolazione di beni e persone) e, possedeva, “tutti i diritti di monopolio” relativi all’uso del forno, dei mulini e delle taverne poste sopra la propria terra. Riguardo ai poteri di “piena giurisdizione” dobbiamo specificare che, al feudatario tardo-cinquecentesco e secentesco, spettavano altresì i diritti relativi alla possibilità di ridurre le pene corporali o pecuniarie, di remissione dei delitti in primo e secondo grado di giudizio (qualche volta, dietro delega sovrana, anche in terzo grado); del diritto di confisca dei beni del condannato o di persone contumaci o bandite, dopo un anno di assenza. A tutta questa serie di diritti si sommavano quelli di natura economica relativi allo sfruttamento diretto delle terre del feudo, degli erbaggi e dei canoni attivi relativi alle concessioni enfiteutiche (affitto di fabbricati, concessioni dirette o indirette di impianti di trasformazione di prodotti agricoli. Le attività agricole di sfruttamento terriero, costituirono, tuttavia, la fonte principale della ricchezza feudale. Quella ricchezza, che variava da terra a terra, e che, lo stato, in parte, già si mangiava “in erba”, nel momento in cui chiedeva, al nuovo infeudato, l’esborso della tassa patrimoniale di infeudazione. Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole…! I rituali di realizzazione del possesso feudale Sappiamo molto bene quanto importante fosse stata la “ritualizzazione” quale linguaggio preminente per la società di Ancien Régime. Ciò che “si vedeva”, infatti, simbolicamente, dichiarava, all’osservatore, molto di più che “mille scritti”..!! Ecco dunque che, sia il potere civile, che, a maggior ragione, quello religioso (tramite la liturgia), si esprimevano, essenzialmente, “per rituali” (veri e propri linguaggi estetico-materiali espressivi di un ceto dominante. Seguire, pertanto, “la cerimonia di passaggio” di un possesso feudale tra un antico detentore (il venditore autorizzato) ed un nuovo investito (l’acquirente autorizzato) può essere, oltre che “affascinante”, per il valore simbolico manifesto, anche utile, al fine di poter comprendere, i ruoli sociali intercorrenti tra i due ceti: quello dominante e quello dominato. Tutta la comunità feudale, partecipava, infatti, a quell’evento rituale che era stato stabilito, meticolosamente, dal nuovo feudatario e che veniva esplicitato tramite un atto notarile pubblico. Il feudatario antico e quello subentrante erano sempre rappresentati “coram populo” da loro procuratori di fiducia che, per essi, cedevano e ricevevano la “pienezza dei poteri feudali”. Dopo un anno solare, infatti, dalla definizione degli accordi contrattuali ed ottenute le relative sovrane autorizzazioni, il procuratore del cedente feudatario (che, per opportunità, chiamerò Giuseppe Rosso) e quello del subentrante (che chiamerò, Giovanni Bianco), si prepararono ad espletare tutte le formalità della cessione e del nuovo possesso del feudo di fronte al notaio ed ai testimoni. Fu convocato, quindi il giorno..X.. il Consiglio della Comunità e tutti i capifamiglia del feudo, i quali dichiararono di essere “a piena conoscenza” della avvenuta cessione del Castello del feudo in questione con tutta la sua giurisdizione (così come risultava dall’atto notarile pubblico, letto dal notaio, in presenza di tutti i summenzionati organi comunitari). 2 Quindi il procuratore del nuovo feudatario, dichiarò di accettare ed il procuratore del vecchio feudatario effettuò la consegna del Castello. Terminato il Consiglio, gli uomini rappresentanti la Comunità, “giurarono fedeltà ed obbedienza” al nuovo signore secondo un antico rituale, cioè: «toccando ciascuno, con le proprie mani, il libro dei Vangeli e, inginocchiati a terra, a capo scoperto, facendo una riverenza, riconobbero i nuovi ufficiali feudali», quindi furono licenziati ed invitati a presentarsi presso la porta principale del castello. Da questo momento ebbe inizio la vera e propria liturgia della presa di possesso del feudo: Alla presenza del procuratore dell’antico feudatario (Giuseppe Rossi), furono consegnate le chiavi del Castello al procuratore del nuovo feudatario (Giovanni Bianco) il quale, ricevuta, in questo modo, la piena potestà, entrò dalla porta del castello, in segno di vero possesso; indi chiuse la predetta porta con le relative chiavi per riaprirla subito dopo. Il giorno successivo il procuratore del novo acquirente, il (m.se. B.), con il notaio e con il procuratore del venditore, (il m.se. P.), presente e consenziente, si recò presso tutti i poderi esistenti nel feudo e camminando e tirando zolle, estirpando l’erba e rompendo rami degli alberi, chiudendo ed aprendo cancelletti e cancellate, dimostrò di aver preso reale possesso dei poderi feudali. Il terzo giorno il procuratore del m.se. B. fece la stessa cosa, cavalcando ed attraversando tutto il territorio del feudo, toccò i confini di tutti i poderi. Quindi “finse”, in piazza, davanti al Castello, di “amministrare la giustizia”, confermando, così, anche la potestà del giudicare del suo signore. Sempre seguito dal notaio e dal procuratore dell’antico feudatario, entrò, di poi, nel borgo e visitò la taverna, il macello ed il forno e, fuori dal borgo, i due mulini. Il Castello, costituiva, in verità, simbolicamente, il bene principale del possesso feudale. In ragione di ciò il procuratore del marchese B. entrando in tutte le stanze, ai diversi piani del Castello medesimo, aprendo e chiudendo finestre e porte, dimostrò, a tutti, che, il suo signore, deteneva anche quello. Successivamente, affacciatosi ad una finestra, rivolse lo sguardo per ogni dove comprendendo, in questo modo, visivamente, tutto il paese (con gli edifici interni ed esterni). Per mezzo di tutte queste “ritualità” egli prendeva, così, il totale reale ed attuale possesso di tutto il feudo, sopra ogni cosa e luogo e camminando, ancora, in lungo ed in largo, sulla piazza, dichiarò: «di voler conservare il territorio intiero nel migliore dei modi». Il percorso ritualistico del possesso feudale, poteva dunque, considerarsi concluso ed, in questo modo, risultò a tutti manifesto che, il nuovo signore, poteva considerarsi legittimato, pienamente, al fine di poter esercitare, la propria futura e piena giurisdizione. Alberto Gamaleri Calleri Gamondi Duecento anni fa Sono passati 200 anni dagli eventi che scossero l’Europa che si stava appena rimettendo dalle ferite della lunga guerra che l’aveva sconvolta da quando prima la repubblica poi l’impero francese aveva cercato di assoggettarla ed è ora il tempo di liberarsi dai veli con cui gli storici del Risorgimento hanno coperto i fatti di quel periodo. Il ritorno di Napoleone dall’Elba riaprì il conflitto che si credeva concluso e del quale si cercava la composizione nel Congresso di Vienna e nel marzo al giugno del 1815 tutto tornò in discussione. Di quel breve periodo gli storici in Italia ricordano le vicende di Murat, che ingenuamente pensava col suo malandato esercito di poter aver ragione dell’Impero Austriaco. In genere la storiografia italiana è piuttosto generosa con questo generale e con il suo tentativo, spesso dandogli una connotazione patriottica che non aveva. Si nasconde in genere che il suo esercito era assolutamente modesto, che i suoi generali erano ancor meno capaci di lui, che quale unica qualità aveva il coraggio, ma quasi nessuna delle caratteristiche del condottiero, nessuna visione strategica o almeno tattica. Così il suo esercito senza nerbo e mal comandato dopo il primo scontro si dissolse. Su ipotetiche glorie e la resistenza che alcuni reparti fecero a Tolentino o in altre zone gli storici risorgimentali han scritto pagine e pagine, ma sono in genere pura fantasia, dovevano pure inventare degli eroi che si immolassero per l’Italia unita, cui nella realtà nessuno pensava. Quello che la storiografia italiana ignora totalmente e sulla quale non ha volutamente fatto mai neanche una parola è stato l’intervento del Regno di Sardegna a fianco degli Alleati contro il rinato esercito di Napoleone durante i cosiddetti 100 giorni. Il perché non ha nulla a che vedere con la storia, ma semplicemente con la politica, con la necessità di creare l’immagine di una Francia amica e di un Austria che voleva opprimere gli stati della penisola. Non si poteva così dire che nel 1815 il rinato Regno di Sardegna aveva partecipato alla guerra contro la Francia a fianco dell’Austria, per riprendersi la Savoia che l’esercito napoleonico aveva invaso nuovamente, e che le sue truppe avevano partecipato all’occupazione del Lionese e di Marsiglia. A maggior ragione neanche un cenno poteva citarsi sul fatto che anche le truppe dei ducati di Modena e Parma avevano partecipato a questa spedizione Tutto questo doveva essere semplicemente cancellato. Che orrore scrivere di essere stati alleati dell’Austria contro la Francia. Come se per i secoli precedenti l’alleanza con l’Austria non avesse salvaguardato il Piemonte dall’essere assogget-tato dal potente vicino d’oltralpe. Ripreso il potere in Francia dopo un ritorno che era stata un sorta di marcia semi trionfale, senza che nessuno vi si opponesse, Napoleone forse pensava che le grandi potenze avrebbero accettato lo stato di fatto, quando si rese conto che non era così, si organizzò a difesa. Per quel che interessa questa nota, basta ricordare che costituì la cosiddetta Armata delle Alpi 3 che dopo aver vinto, agli ordini del maresciallo Grouchy, la resistenza del duca d’Angouleme, affidò al maresciallo Suchet col compito di proteggere le provenienze dalla Svizzera e portarsi sulla cresta della catena montana per meglio assicurare la difesa. In sostanza, per quel che riguardava il Regno di Sardegna, occupare quella parte della Savoia che, dopo la pace di Parigi dell’anno prima, gli era stata restituita in modo da dare continuità allo schieramento difensivo Da parte piemontese, al comando del generale Nicolis di Robilant, presidiavano la Savoia circa 2000 uomini dei reggimenti Savoia, Piemonte, Monferrato, Ivrea ed il battaglione Cacciatori Italiani, privi di artiglieria e di cavalleria. Ama del generale Giovanbattista Nicolis di Robilant: Troncato nel 1° d’oro sparso di moscature d’ermellino di nero, all’aquila bicipite dello stesso, membrata, rostrata e coronata di rosso, al 2°d’azzurro a duefoglie di sega d’argento Nella notte fra il 14 ed il 15 giugno 12000 Francesi, senza alcuna dichiarazione di guerra invasero la regione, cogliendo del tutto impreparato lo schieramento avversario, con una colonna conquistarono Montmellian e risalendo la valle dell’Arc presero Aiguebelle, con una seconda colonna seguendo il corso dell’Isere si diressero verso Conflans, allora capitale della parte di Savoia restituita al Piemonte e con una terza muovendo lungo le rive del lago di Ginevra puntarono alla confluenza del Rodano nel lago per raggiungere il confine con la Svizzera. A contrastare i Francesi a Montmellian e Aiguebelle c’erano 400 uomini del reggimento di Savoia agli ordini del tenente colonnello Gaspare Marechal de Somont, Arma del cav. Gaspare Marechal de Saumont: D’oro alla banda di rosso carica di tre conchiglie d’argento ufficiale che si era distinto nella guerra delle Alpi e che durante l’occupazione francese si era ritirato a vita privata. La quasi totalità del reggimento venne sorpresa nella notte e fece una scarsa resistenza, solo la compagnia che presidiava Maltaverne,, comandata dal capitano Maurizio di Charboneau, neau, già decorato quando era tenente nel 1796 della croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, avvertita per tempo imbastì una forte resistenza, sino a quando non fu sopraffatta da un nemico che era 6 o 7 volte lte superiore di numero. I Cacciatori Italiani, comandati dal tenente colonnello Emilio Roberti di Castelvero, si scontrarono con la colonna diretta a Conflans e malgrado la sproporzione di forze in campo guadagnarono il tempo necessario a far sgomberare laa città e contrastarono efficacemente l’avanzata francese nell’alta valle dell’Isere, costringendolo a non andare molto oltre Conflans. Emilio Roberti di Castelvero, troppo giovane per essere arruolato nell’esercito sabaudo nel 1796, rifiutò di servire nell’esercito ell’esercito francese e considerando questo il nemico della sua patria si arruolò nell’esercito austriaco. Nel 1812, a seguito degli accordi fra Napoleone e l’Imperatore austriaco, venne però congedato, ma anche questa volta non si arruolò nell’ esercito francese rancese ove avrebbe conservato il suo grado di maggiore, preferì rimanere privato cittadino. Nel 1814 però fu richiamato dagli Austriaci per costituire e comandare un battaglione formato con italiani che presi prigionieri che avevano però espresso il desiderio desid di combattere contro la Francia. Questo battaglione quando l’Austria riconsegnò il Piemonte a Vittorio Emanuele I divenne l’unica forza militare che il sovrano sabaudo avesse in terraferma. Arma del generale Gabaleone Salmour d’Andezeno: D’ azzurro al leone d’oro, con il capo d’argento carico di un gallo di rosso accompagnato sui fianchi da una rosa di rosso a destra e a sinistra da un cardo di verde. Il suo reggimento era su due battaglioni, uno si trovava con lui, l’altro al comando del tenente colonnello c Giovanni Luigi Massel di Caresana era schierato sul lago di Ginevra. Combatté per contrastare gli invasori ed ebbe la fortuna quando stava per essere schiacciato dalla superiorità numerica del suo avversario di ricevere il rinforzo dell’avanguardia dell’avanguard austriaca, con la quale partecipò a respingere le truppe francesi rioccupando Evian e Thonon. Arma del cav. Gio. Luigi Massel (Macello) di Caresana: Caresana Di rosso a tre magli d’oro Arma del conte Emilio Roberti di Castelvero:Di Castelvero rosso con la corona all’antica d’oro con due rami di palma di verde intrecciati alla corona, la corona accompagnata in punta da un bordone da pellegrino, con il capo d’oro carico di un’aquila coronata di nero. A Conflans il battaglione sii batté con straordinario coraggio oraggio e le sue perdite furono notevoli, oltre 300 fra morti e feriti, e fra i primi anche un comandante di compagnia. Aveva il comando delle truppe nell’alta Valle dell’Isere il generale ale Luigi Amedeo Gabaleone Salmour Salm d’Andezeno, comandante del reggimento to Monferrato già ufficiale durantee la guerra delle Alpi, che dopo il 1798 si era ritirato a vita privata. Quando a Torino giunse la notizia dell’attacco francese alcune unità, peraltro ancora in via di costituzione si mossero per andare ad occupare le posizioni del Monginevro, del Moncenisio e del Grande e Piccolo San Bernardo ed iniziò la formazione di un Corpo Cor d’Armata da affidare al generale Vittorio Amedeo Sallier de la Tour.. Era questi un ufficiale che, col permesso del suo sovrano aveva servito Austria ed Inghilterra per continuare a battersi contro la Francia, uomo di assoluta fedeltà, di grande capacità e di provata esperienza, dava garanzia, pur nella difficile situazione del momento, con l’esercito in via di ricostituzione, di operare al meglio e contribuire efficacemente allo sforzo per ripristinare la pace in Europa. Generale Vittorio Amedeo Sallier Sal de la Tour 4 Arma: Partito di verde e di nero, al cavallo d’argento spaventato Il Corpo d’Armata piemontese si sarebbe dovuto affiancare all’Armata austriaca d’Italia Italia per riconquistare la Savoia e contribuire ad occupare il Lionese. L’armata austriaca si stava muovendo, con un contincontin gente di circa 50000 uomini agli ordini diretti del barobaro ne Frimont, per la strada del Sempione per raggiungere il Giura, e con un contingente ngente di 25000 uomini agli ordini del generale Bubna per entrare nel Delfinato transitando per Torino, Susa e con un’aliquota per il Moncenisio e la Val Moriana e con altra aliquota per il Piccolo San Bernardo e la Val d’Isere. Quest’ultima aliquota, già il 22 giugno si congiunse con le forze del generale d’Andezeno nell’alta valle dell’Isere e il 28 giugno riprese Conflans. Nel combatcombat timento ebbero a distinguersi sia i Cacciatori Italiani, sia il I/Monferrato ed il reggimento di Piemonte. Il Corpo d’Armata ta del generale de la Tour iniziò a muoversi il 25 giugno ed il 29 era già a Montmellian, fra gli altri componevano questa grande unità un battaglione per ciascuno del reggimenti delle Guardie, di Genova, di Saluzzo, della Legione Reale Piemontese e il battaglione taglione dei Cacciatori Piemontesi. Facevano parte di questa grande unità anche i reggimenti dei Cavalleggeri del Re e dei Cavalleggeri di Piemonte, costituenti una brigata di cavalleria al comando del maggior generale Ettore Veuilliet de la Saunière d’Yenne ne che nella fase iniziale del conflitto venne assegnato al Corpo d’Armata Austriaco, che cedette in cambio alcuni squadroni di ussari. Generale Ettore Veuilliet de la Saunière di Yenne. Arma: Troncato al 1° d’oro al levriere d’azzurro nascente dalla partizione, artizione, collarinato d’argento, bordato e chiodato di nero; nel 2° di rosso. Ufficiale di grande capacità ed esperienza che fu poi Viceré di Sardegna Quale Capo di Stato Maggiore il generale de la Tour si avvaleva di Giovanni Battista Nicolis di Robilant, Robila quali generali alle sue dipendenze aveva oltre Gabaleone d’Andezeno, il de Rege di Gifflenga, unico generale già al servizio della Francia che aveva chiesto di prendere servizio nel rinato esercito piemontese, a lui era stata affidato la responsabilità della marcia di avviavvi cinamento. 5 Generale Alessandro de Rege di Gifflenga. Arma: Scaccato d’argento e d’azzurro, con il capo del primo carico di un ramoscello di rosaio al naturale, fiorito di un pezzo. Il Corpo d’Armata piemontese raggiunse quindi gli Austriaci sull’Isere il 29 giugno, quando era stato dichiarato un armistizio ed allo scadere di questo, il 3 luglio si mosse per andare conquistare la piazza di Grenoble, mentre il Corpo d’Armata Austriaco avrebbe investito le posizioni francesi sul Giura Gi per puntare poi su Lione. Il 6 luglio venne investita Grenoble e dopo un duro combattimento i Piemontesi conquistarono i sobborghi della città che il giorno 8 si arrese. Nel frattempo da parte francese era cessata ogni resistenza e al Corpo d’Armata del de generale de la Tour venne affidato il compito di occupare una larga porzione del Delfinato, sino al fiume Rodano nel tratto fra Lione e Valence. Sul fronte della Contea di Nizza, i Francesi non tentarono attacchi di sorta, malgrado le forze a disposizione del generale d’Osasco fossero assai modeste, ma egli benché non compreso da Torino, dove doveva regnare la più grande confusione per mancanza di notizie su quali fossero le vere intenzioni degli Alleati, riuscì ad ottenere, agendo d’astuzia di salvare la Contea da conflitti, ed ebbe la possibilità di occupare una fascia di territorio sino ad Antibes, dove venne accettata una guarnigione piemontese. Un battaglione del reggimento di Asti prese parte, unitamente ad un contingente britannico alla conquista di Marsiglia. L’appena rinato esercito sardo-piemontese sardo in una circostanza assai grave come quella provocata dal ritorno di Napoleone in Francia, diede una buona dimostrazione di sé, merito di ciò va ai comandanti di allora, che riuscirono a superare perare un mare di difficoltà, dovute al fatto che era la macchina dello stato che ancora non girava a dovere: dove mancava il denaro, scarseggiavano le munizioni, i rifornimenti erano irregolari, da Torino giungevano ordini contrastanti o inattuabili, tanto da far pensare che la Corte e di ministri non fossero al corrente di ciò che stava avvenendo. Fortuna volle che comandasse le truppe sul campo uno dei migliori generali che il Piemonte abbia mai avuto, il Sallier de la Tour, che seppe sempre rimettere al loro ro posto ministri e sovrano, chiarendo perché agiva in un certo modo e perché erano inattuabili o già superate dagli eventi alcune delle disposizioni che gli venivano impartite. Per motivi di politica di questi avvenimenti non si fa quasi mai cenno nella storia. Aver combattuto contro la Francia a fianco degli Austriaci dava l’orticaria agli storici risorgimentali, allora niente di meglio che ignorare. Tanto più che Austriaci non erano così cattivi come venivano descritti, se si pensa che nel momento che stavano per rioccupare Chambery, sgombrata dai Francesi, il generale Bubna chiese al de la Tour di assegnarli un reparto piemontese in modo che fosse esso il primo ad entrare nella storica capitale del ducato, e così fu un battaglione del reggimento di Piemonte di entrare nella città che tornava a vedere, dopo 23 anni, la bandiera sabauda. ALFS GESTA, APOTEOSI E INSEGNE ARALDICHE DI UN “BRIGANTE” LEGITTIMISTA Il mio primo incontro con D. Josè Borjes avvenne quando ero ancora un bambino, negli anni della guerra. Eravamo andati a trovare certi parenti, anche loro ‘sfollati’ in case di campagna sulle rive della Calabria jonica e i loro figli, decisamente più spigliati e disinvolti di quanto mi sognassi di essere io, mi condussero un giorno in un luogo proibito, un vecchio cimitero abbandonato. Erano le rovine del secentesco convento del Crocifisso, negli immediati dintorni di Bianco, le cui mura per oltre due secoli avevano ricetto alle sepolture del luogo, sino a quando – nell’autunno 1861 – aveva subito un rovinoso incendio. 6 Da allora era divenuto una cava di materiale edilizio e le sistematiche devastazioni non avevano rispettato le tombe e il materiale lapideo. Resti umani, talora parzialmente mummificati, erano sparsi un po’ dappertutto (si diceva, da sacrileghi incettatori di fedi nuziali) e il macabro contesto esercitava ovvia attrazione su sprovveduti ragazzetti. Davanti alla spoglia cavità dell’ingresso, che presentava ancora tracce fuligginose, sedeva su un masso un vecchio, vestito di un saio bisunto e dalla incolta barba imbiancata, preceduto da un cesto, dal quale occhieggiavano alcune gualcite immaginette sacre e delle cartoline in stato non migliore. Gli demmo qualcosa e riportammo a casa una campionatura delle sue merci. Dopo l’onda dei rimproveri, l’attenzione degli adulti si portò sulle cartoline. Una di esse rappresentava dei ceffi sinistri, col cappello a pan di zucchero (“alla calabrese”, si diceva un tempo), armati di ‘tromboni’ e circondati da scenari selvaggi. Non ci furono fornite grosse spiegazioni sui come e i perché, ma ci fu detto che il convento era andato in fumo a causa dei briganti. Beh, come quasi sempre accade, qualcosa di vero c’era. Un’attendibile analisi storica del fenomeno “brigantaggio” è ancora al di là di venire, benché il saggio di Franco Molfese, mezzo secolo fa, abbia aperto il solco alla ricerca documentata, che – è vero – ha prodotto una apprezzabile serie di risultati, i quali, però, riflettono troppo sovente episodi locali, non organizzati in una visione di ampio raggio e, con non minore frequenza, indulgono a interpretazioni più passionali che rispettose della realtà storica e, talora, della ragione elementare. Può tranquillamente affermarsi, ormai, che dal 1861 al 1866, nelle regioni continentali del già regno delle Due Sicilie imperversò un’autentica guerra civile, che vide confusamente allineati e contrapposti malviventi, militari o civili fedeli all’antica dinastia, esercito italiano e guardia nazionale, popolazioni atterrite e affamate da entrambi. I ‘briganti’ appartennero alle due prime categorie. La legge Pica, istitutrice di consigli di guerra e di tribunali militari, finì con l’avere la meglio, ma quei metodi, che la stampa estera (francese, in particolare) definì ‘da guerra coloniale’, portarono (la stima sembra peccare per notevole difetto) a quasi diecimila fucilati, poco più gravemente feriti, quaranta donne e sessanta bambini uccisi, quattordicimila detenuti, mille abitazioni distrutte, sei paesi e dodici chiese o conventi dati alle fiamme e al sacco, oltre quattordicimila comuni insorti in armi. Secondo i calcoli del colonnello Cesari, solo tra la fine del 1862 e i primi del 1863, il neonato stato italiano impiegò nella repressione dei moti circa 120.000 uomini, vale a dire quasi la metà degli organici delle forze armate. Come in tutte le guerre civili, odi personali sfociarono in sanguinose vendette e il risultato globale fu l’ulteriore immiserimento del Mezzogiorno e, forse ancora più grave, un precario senso dii unità nazionale, diffuso in tutta la penisola, malgrado la retorica risorgimentale. Tra gli insorgenti occupa un posto di spicco José Borjes, non soltanto per il suo valore, ma per quella purezza di ideali che lo contraddistinse e che i suoi stessi avversari gli riconobbero. José Miguel Francisco Borjes (il suo autentico cognome, che d’ora in poi gli daremo, era Borgès) era nato a Vernet, presso Lérida, nell’ovest della Catalogna, dai coniugi Antonio Borgès e Antonia Grenulles il 28 novembre 1813. La famiglia, pur di antica nobiltà biltà e di tradizione militare, non doveva godere di cospicuo censo, visto che Antonio ricopriva originariamente il grado di sottufficiale. S’era però assai distinto nella guerriglia del 1808 contro le armate di Giuseppe Bonaparte e nel 1826, combattendo contro c i rivoltosi di Cadice. I Borgès, di convinta fede cattolica, vantavano attaccamento alla legittimità dinastica e Antonio, alla scomparsa di Ferdinando VII, si schierò per Don Carlos, che – dopo numerosi fatti d’armi – lo volle tra i suoi principali condottieri. c Nel 1835, fu costretto ad arrendersi al colonnello regio Antonio Niubo, che, dopo avere accettato la spada portagli dallo sfortunato cabecilla,, lo fece fucilare a Cervera qualche giorno più tardi. Il suo posto sarà preso tra breve da José, che diciassettenne, era entrato nella Scuola Sottufficiali di Lérida. Si unì all’armata carlista e fece prodigi di valore, attirando su di sé l’interesse ammirato del Pretendente. Nel 1837, agli ordini del conterraneo Tristany (anche lui si arruolerà, a suo tempo, mpo, tra gli insorgenti filoborbonici meridionali), avrà la soddisfazione di sconfiggere Niubo, che resterà morto sul campo e tre anni più tardi, nel 1840, mentre il proprio fratello Miguel, comandante di battaglione, cadeva in combattimento, Don Carlos premierà emierà il sacrificio e il coraggio dei Borgès, promuovendo José al grado di generale di brigata. Alla prima disfatta carlista, riparerà in Francia, assicurandosi la sopravvivenza con l’attività di rilegatore di libri prima e, più tardi, di commerciante di vini, ma sempre pronto a rispondere all’appello del rey Don Carlos, come farà nel 1846 e nel 1855. Era un uomo di bell’aspetto e di notevole prestanza fisica, con la statura (allora) ragguardevole di m. 1,72. A Lione venne contattato da emissari del ‘comitato ‘comi borbonico’ di Marsiglia e si recà in quella città marinara, dove, il 5 luglio 1865, incontrò due personaggi di rilievo: il 7 maresciallo di campo Tommaso Clary e il principe di Scilla, Fulco Salvatore Ruffo. Il primo, malgrado avesse dato sui campi di battaglia pessime prove di competenza militare (tanto da essere accusato di tradimento da Giacinto de Sivo), godeva tuttavia dell’appoggio del conte di Trapani, fratello del re; il secondo, alto funzionario di corte di fede immacolata, nutriva iva la innocente presunzione di essere fine politico. A nome di Francesco II, gli chiesero, in certo senso, di ripetere l’impresa che il cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara aveva vittoriosamente portato a termine nel 1799: riconquistare la porzione continentale contine del reame delle Due Sicilie, partendo dalla Calabria. Gli consegnarono un brevetto di maresciallo di campo, la gran croce dell’ordine di Francesco I, una somma di denaro e gli ordini regi, consistenti, in buona sostanza, di riportare l’ordine e la tranquillità anquillità nell’ex regno di Napoli, restituito al sovrano legittimo e al più assoluto rispetto della religione cattolica e dei rappresentanti del vicario di Cristo. Si poneva l’accento sul divieto tassativo di avallare o consentire vendette e di rispettare le proprietà dei privati, pena la morte per i trasgressori. Certamente il principe di Scilla, che riteneva tale punto altamente premiante, non avrà perduto l’occasione per raccomandare al Borgès di fare uso, non del ‘bianco vessillo’ dei Borbone, ma del tricolore t con la grande arme degli eredi di Carlo III, che re Francesco aveva adottato il 21 giugno 1860, al momento di concedere la costituzione, e che aveva sventolato sugli spalti di Gaeta e di Civitella del Tronto. Clary assicurò che l’insurrezione generale era un dato di fatto e che in tutte le province erano in corso di avanzata riorganizzazione dei reparti regolari dei ‘Reali Eserciti’, impeccabilmente equipaggiati e con gli organici della ufficialità al completo. Tanto per cominciare, al suo sbarco avrebbe potuto contare su duemila uomini in perfetto assetto di guerra, in attesa dei suoi ordini. Avrebbe dovuto prima passare da Malta, a ritirare un carico di armi e prelevare un battaglione napoletano, che gli avrebbe fatto da scorta Borgès fu il primo di quella ‘legione straniera’ di legittimisti, che combatterono per la causa borbonica, sacrificando non di rado la propria vita. Tra essi non mancarono esponenti della migliore aristocrazia europea, spinti talora da autentico lealismo verso il discendente di San Luigi, altre volte da spleen byroniano o da semplice spirito d’avventura. Per fare dei nomi: il non più giovane Freiherr prussiano Theodor Klitsche de La Grange; il sassone Edwin Graf von Kalkreuth (sarà fucilato nel 1862); il visconte Henri de Cathelinau, discendente del celebre capomassa vandeano; l’alsaziano conte Émile Théodule de Christen (sconterà dieci anni di carcere duro); il belga marchese Albert de Trazegnies de Namur, imparentato con mezzo Gotha (e fucilato pochi giorni prima del nostro eroe). Borgès non dubitò di nulla e accettò l’alto incarico, consentendo a un giovane reduce di Gaeta che l’aveva supplicato in tal senso, il tenente Achille Caracciolo dei duchi di Girifalco, di seguirlo nella impresa. Fece vela su Malta e alla Valletta la prima sorpresa: del battaglione neppure l’ombra e, quanto alle armi, stentò a rimediare venti fucili. Meno male che il neomaresciallo di campo si era fatto raggiungere da un pugno di suoi fedelissimi compagni d’armi, tutti catalani o spagnoli (16 in tutto), in compagnia dei quali e del Caracciolo prese terra sul lido della Locride, nei pressi di Brancaleone (la speronara avrebbe dovuto raggiungere Bovalino, ma una totale caduta dei venti lo impedì), nella tarda serata del 13 settembre 1865. La spiaggia era deserta, ma presto apparve un lume: era un pastore, un’anima generosa, che trovò loro un luogo di bivacco all’aperto e, il giorno dopo, li guidò a Precacore (oggi Samo), dove furono accolti dal fuoco di fucileria di un reparto della ‘Guardia Mobile’, che fu presto messo in fuga, ma con esso si dileguò anche la ventina di contadini, arruolatasi sotto le bandiere di Borgès. Si recò quindi proprio al convento del Crocifisso dei PP. Riformati di Bianco, il cui superiore, P. Samuele da Siderno, lo mise in contatto con il notaio Sculli di Natile e Francesco Violi da Platì, il quale guidò gli ‘spagnoli’ (così erano noti) al campo di Ferdinando Mittica (Mittiga sembra la forma corretta), un presunto combattente per la restaurazione di casa Borbone. Frattanto la prossima S. Agata era insorta, ma – sembra – senza versare una sola goccia di sangue: i borbonici si erano limitati a sostituire il sindaco Rossi, liberale, con il giovane barone Giuseppe Franco, 8 a sventolare drappi gigliati e a intonare il Te Deum. Il 20 settembre sopraggiungerà un forte contingente di bersaglieri, che il generale De Gori aveva condotto da Reggio. Al capitano Rossi, cugino del deposto sindaco di S. Agata, fu affidata la rappresaglia, che fu quanto mai spietata: fu dato alle fiamme il convento del Crocifisso e ucciso il superiore, mentre finirono al muro due fratelli Franco con un buon numero di trabanti e domestici, il notaio Sculli, il Violi e almeno un’altra dozzina di nostalgici dei Borbone. Abbiamo lasciato gli ‘spagnoli’ al campo di Ferdinando Mittiga. Era questi, all’origine, un violento, che la rivoluzione del 1848 aveva liberato dalla prigione, ov’era stato rinchiuso per una certa faccenda di coltellate. Godeva del soprannome di ‘Caci’ (dal greco cacòs = malvagio). Almeno dai disordini del 1860, si era dato alla macchia, radunando un numeroso gruppo (circa 200) di malavitosi e di renitenti alla leva. Era stato forse un graduato nell’esercito delle Due Sicilie, ma ora si autointitolava generale. Accolse freddamente Borgès e. lette le sue credenziali, dichiarò che si sarebbe posto ai suoi ordini solo dopo avere visto il suo comportamento in un’azione militare. Borgès e suoi erano divenuti di fatto prigionieri del Mittiga, con l’eccezione del Caracciolo di Girifalco, che, ottenuti da Borgès 200 franchi, s’era eclissato assieme alla sua ordinanza, il soldato napoletano Marra. S’è detto che fosse un delatore: in ogni caso era un vile. Il capo-brigante aveva già pronta la sua azione: l’attacco alla sua patria, Platì, dove intendeva compiere una sua antica vendetta nei confronti di un possidente del luogo, Rosario Oliva. Non fu un attacco, neppure un’assedio, ma una serie di scaramucce inconcludenti, se non per l’uccisione del povero Oliva, che s’era rinserrato nel suo palazzo e si difendeva, sparando dalle finestre. Mittiga attese il momento giusto e fece fuoco contro il lampo del fucile del suo nemico, stendendolo morto. Appagato, lasciò il paese, ma i bersaglieri di De Gori erano già alle loro calcagna. La banda si sfaldò ben presto e Mittiga, rimasto con un solo seguace, fu ucciso dalla Guardia Nazionale il 30 settembre, presso Natile. Gli ‘spagnoli’ di Borgès approfittarono della confusione per prendere le distanze da bersaglieri e da briganti e da qui in poi ebbe inizio la loro epopea, che doveva concludersi a Tagliacozzo, davanti al plotone d’esecuzione, l’8 dicembre 1865. Su di essa e sulla figura di José Borgès vale quanto insospettabilmente scrisse, quasi nell’immediatezza dei fatti, un suo cavalleresco nemico, il conte Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, capitano di S.M. del R. Esercito italiano, che, peraltro, dedicò il suo lavoro al generale Govone: Fu un illuso e un tradito, un capo partigiano convinto e di buona fede, non un brigante nello stretto e brutto significato della parola! … Con un pugno di spagnuoli attraversò la Calabria, la Basilicata, il Molise, l’Abruzzo, circondato ovunque da truppe, continuamente combattendo, sfuggendo al nemico, ritirandosi, nascondendosi, ed or mostrandosi ed audacemente marciando al nemico per poi deluderlo ancora con marcie, contromarcie, ritirate, falsi assalti e stratagemmi; compì una marcia meravigliosa, e sfuggì con singolare fortuna e talento a tutte le persecuzioni di sette Corpi, comandati da sette generali italiani espertissimi, attivi e infaticabili: Brunetta, Della Chiesa, Mazé, Villarey, Cadorna, Govone e Chiabrera, e uscì vittorioso dalle prove le più terribili e le più penose. Soffrì impavidamente la fame, la sete, il freddo, il caldo, la pioggia, tutti gli stenti, tutte le fatiche, tutte le disillusioni le più amare. … Borjès era un uomo di cuore e d’onore, aveva tutti i requisiti per fare uno dei più distinti capi partigiani: attività, perspicacia, tenacità, sodezza, valore, calma nel disordine, rassegnazione nei disastri, impavidezza nei maggiori pericoli e nelle peggiori sventure. Fu un tradito e un illuso. Tradito dalle promesse della Camarilla reazionaria di Roma. – Illuso dalla fede nel principio di legittimità. Egli vedeva nel suo operare e persistere un’azione grande e generosa ed a questa nobilmente si sacrificò. Egli fu il don Chisciotte di una causa perduta e screditata, combattè i molini al vento, ma li combattè con la fede del soldato d’onore e di convinzione, combattè da cieco e da pazzo sì, ma da generoso e da valente qual era, da vero discendente del gran cavaliere della Mancia, di Avalos, il famoso marchese di Pescara, d’el Pastor, d’el Capucino, d’el Trapisto, d’el Empecinado e di Castagnos (i quattro ultimi, noti comandanti di insorti nelle guerre napoleoniche e carliste).. La cattura e l’esecuzione avvennero a opera del maggiore Enrico Franchini, al comando di un distaccamento di 1° reggimento bersaglieri, che era stato informato da un delatore (un amministratore del principe Torlonia) che gli ‘spagnoli’ (poco più di una ventina) stavano bivaccando in una cascina di Luppa, a qualche chilometro dal confine pontificio. Non è il caso di soffermarci sulle tante incongruenze del rapporto ufficiale, ma, rifacendosi tanto ad esso, che alle (poche) fonti degne di considerazione, emerge che Borgès, quando le fiamme, appiccate dai bersaglieri al casolare in cui si era asserragliato con il suo pugno di uomini, lo costrinsero alla resa ‘a condizione’ (oggi diremmo incondizionata) si vide respingere con sgarbo e sdegno la spada offerta dal Franchini (Giacinto de Sivo affermò che l’ufficiale italiano dette uno schiaffo al prigioniero e aggiunse che la pronta esecuzione si dovette al fatto che il maggiore si era impadronito della pingue ‘cassa’ del cabecilla e avrebbe avuto, quindi, interesse a fare sparire i testimoni, ma lo storico di Maddaloni è troppo di parte per essere preso come oro colato), che delegò al disarmo un suo bersagliere. Sempre Franchini dichiarò che Borgès, alla sua proposta di rendere dichiarazioni, che, ove ritenute importanti, gli avrebbero salvata la vita, rispose, sogghignando, che le peggiori torture non gli avrebbero estorto una sola parola. Disse male di Crocco, forse fedele al Borbone, ma anche sanguinario indulgente a ruberie, e dell’equivoco de Langlois, ma era il meno che potesse proferire. Condotti a Tagliacozzo, furono fucilati alla schiena in diciotto (tredici tra catalani e 9 spagnoli e cinque napoletani), di cui sedici ufficiali. Affrontarono il plotone con eroica devozione, recitando i salmi in castigliano. Il giorno dopo, le salme dei giustiziati vennero incenerite tutte, a eccezione di quella di Borgés, nel probabile timore che i borbonici lo facessero ‘risuscitare’ o, addirittura, negarne l’avvenuto decesso. Due mesi dopo, su richiesta del principe di Scilla e del visconte de Saint-Priest, il generale Alfonso Ferrero della Marmora disporrà l’esumazione della salma del generale Borgès, che sarà consegnata a un medico, inviato dalla legazione francese presso la S. Sede. Condotta a Roma, funerali solenni furono celebrati nella chiesa del Gesù, ma ignoro il luogo della sepoltura definitiva. ASCO Notizie librarie È da poco uscito un libro illustrato intitolato Ordine di Malta, di due dei più autorevoli membri del Sovrano Ordine di Malta, il Balí Fra' Elie de Comminges e dil Balí Jean-Pierre Mazery, edito da Gangemi di Roma. Il libro di 216 pagine, consta di 200 fotografie su personaggi e la vita melitense dal 1880 al 1960. Sono riprodotte fotografie di cavalieri e dame ma anche di medici, infermieri e volontari. Ogni immagine è accompagnata da didascalie e testi esplicative. Il libro è in italiano e francese: peccato non sia anche in inglese dato la nazionalità degli ultimi due Gran Maestri. È disponibile sia in forma cartacea sia in format pdf (ISBN 13: 9788849230154 e ISBN 10: 884923015X) al costo rispettivamente di € 30.00 e € 25.00. (AMG-MDB) Attività dei soci Il nostro Presidente Emerito Carlo Gustavo di Gropello è stato insignito, il girono 26 settembre 2014, della Medaglia di Benerenza del Principe della Reale e Ducale Casa di Parma e Piacenza da parte di SAR il Principe Carlo Saverio di Borbone Parma, Duca di Parma Piacenza. Il giorno successivo, anche il nostro consigliere Maurizio Bettoja ha ricevuto la Medaglia di Benerenza. Complimenti ad entrambi! (AMG) Sul Giornale Araldico Genealogico Diplomatico Italiano Anno 1 N.1 Dicembre 2014 e apparso un interessante contributo araldico del nostro consocio Vincenzo Amorosi intitolato “Gli stemmi dei re Filippo II, Filippo III e Filippo IV di Spagna”. L’articolo è visibile online: https://drive.google.com/viewerng/viewer?a=v&pid=sit es&srcid=ZGVmYXVsdGRvbWFpbnxjbHViYW5ub2 JpdHxneDo3ZmY5ZmFjZjBiOTM1NWQ Si segnala che l’intero Giornale Araldico Genealogico Diplomatico Italiano in format pdf è scaricabile. (AMG) Il Premio alla Cultura “l’Arcangelo” al 10 Consocio Roberto Nasi Il nostro consocio Roberto Nasi ha ricevuto il XX edizione del prestigioso premio alla cultura “l’Aracangelo” che viene conferito dall’Associazione Immagine per il Piemonte. La motivazione per il conferimento è la seguente: come alto riconoscimento per l'attività di tutela e di valorizzazione dei valori della cultura e della storia del Piemonte sabaudo svolte da un maestro di tradizioni piemontesi, storia risorgimentale e gran Cavaliere oltreché di straordinaria umanità, negli ultimi decenni a favore dell'immagine del Piemonte in Italia e nel mondo Il Premio consiste in una Targa bronzea fusa appositamente per l'Associazione Immagine per il Piemonte (onlus) da Johnson (Milano). La cerimonia di premiazione, moderata dal Presidente di “Immagine per il Piemonte”, Vittorio G. Cardinali, si è tenuta al Circolo dell’Unione Industriale, ha visto la partecipazione di folto pubblico. Tra i vincitori delle edizioni precedenti del premio l’Arcangelo vi sono la Casa Editrice Andrea Viglongo, il Centro Nazionale di Studi Alfieriani (Asti), Segusium - Società di ricerche e studi valsusini (Susa), S.E.R. Mons. Germano Zaccheo (+) Vescovo di Casale Monferrato, il Generale Guido Amoretti (+), direttore del Museo Pietro Micca, Cav. del Lavoro Alberto Bolaffi, Presidente dell’omonima Casa Filatelica torinese. Complimenti e vivissime congratulazioni al consocio Nasi! (AMG) Il nostro vice-presidente Roberto SandriGiachino (assieme Ugo Grosso) ha dato alle stampe nel febbraio 2015 il libro Tavigliano e l’antica comunità di Andorno. Storia, famiglie, avvenimenti (pubblicato dal Comune di Tavigliano – ISBN 8897616011), il libro (di 432 pagine) è in grande formato ed ha più di 250 fotografie e cartine. Il volume è diviso in due parti: la prima narra le vicende dell'antica comunità di Andorno, la seconda quella di Tavigliano dal 1699, quando ebbe una propria amministrazione autonoma. Vi sono anche degli appendici ben documentati e ricci che elencano i nomi degli abitanti, dei chiavari e consoli di Andorno, dei sindaci di Tavigliano e dei proprietari censiti negli antichi catasti. Nuovo Cardinale Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta Il Sovrano Militare Ordine di Malta ha un nuovo Cardinale Patrono. L’8 novembre scorso, S.S. Papa Francesco ha nominato il Cardinale statunitense Raymond Leo Burke che in precedenza aveva rivestito il ruolo di Prefetto della Segnatura Apostolica, cioè il massimo tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Il Cardinale Burke subentra a Sua Eminenza il Cardinale Paolo Sardi, nominato Patrono nel 2009 da S.S. Papa Benedetto XVI. Negli Stati Uniti d’America il cardinale è stato vescovo di La Crosse (1994–2003) nello stato di Wisconsin e arcivescovo di St. Louis (2004–2008) nello stato di Missouri. Il Cardinale Patrono è il rappresentante del Pontefice presso il Sovrano Ordine e ha il compito di promuovere gli interessi spirituali dello stesso e dei suoi 13.500 membri, oltre ad essere responsabile delle relazioni con la Santa Sede. È elemento di forti legami che uniscono il Vaticano e il Santo Padre all’Ordine gerosolimitano. Lo stemma del Cardinal Burke è: d’oro alla croce di rosso con nel quarto destro un leone rampante di nero. Il motto è: secundum cor tuum. Gli ornamenti esterni sono quelli di un cardinale di Santa Romana Chiesa, ossia il galero rosso (che corrisponde alla dignità cardinalizia) con cinque ordini di fiochi. (Lo stemma qui illustrato è quando il Cardinale Burke era ancora il Prefetto della Segnatura Apostolica. Non abbiamo potuto reperire suo stemma come cardinale patrono, che dovrebbe avere il capo dell’Ordine [di rosso alla croce d’argento] con aggiunto dietro allo stemma la croce ad otto punte) è opera di Marco Foppoli, nostro consocio e uno dei più bravi disegnatori araldici contemporanei che sa cogliere e giustapporre l’antico col nuovo e, pensiamo con questo disegno abbia suscitato un senso di piacere al Cardinale Burke, (consigliamo una visita al sito: http:/ /www .marco foppoli.com/). 11 Armi di Francia Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, via IV novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] Segreteria della Società Arch. Gianfranco Rocculi. Via S. Marco 28 20121 Milano I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto magnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed even-tualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico. 12