Working Paper Series Nicola BELLINI In-Sat Lab L’immagine del territorio: da problema di marketing a strumento di politica Corresponding author: [email protected] IN-SAT Laboratory Piazza Martiri della Libertà,33 56127 Pisa (Italy) Phone: +39 050 883 805 Fax: +39 050 883 839 http://www.insat.sssup.it/ Scuola Superiore Sant’Anna WP-2005/04 SOMMARIO In questo paper sono sviluppate alcune riflessioni preliminari tese a collocare il tema dell’immagine del territorio, derivato dalla letteratura di marketing territoriale, all’interno dello strumentario delle politiche di sviluppo e di innovazione. Dopo aver sottolineato la rilevanza della dimensione cognitiva delle politiche in un’ottica di governance e il senso della metafora che sottende al marketing territoriale, si approfondisce il senso politico dell’immagine del territorio ed in particolare di due aspetti: il rapporto e i possibili gap tra immagine e realtà; la possibile coesistenza e concorrenza tra immagini diverse. 1 1 INTRODUZIONE La questione dell’immagine di un territorio (di una regione, di una città…) è sempre più spesso evocata nella discussione delle strategie di sviluppo locale e regionale. Essa è usualmente associata alle problematiche di marketing territoriale ed in particolare alle esigenze di comunicazione che ne derivano (Caroli, 1999; Bellini, 2000; Ulagaa et al., 2002). In questo paper intendo sviluppare alcune brevi riflessioni preliminari tese a collocare l’immagine del territorio all’interno dello strumentario delle politiche di sviluppo e specialmente delle politiche di innovazione, a partire dalla considerazione che l’immagine non è mai (solo) il risultato di azioni ad hoc, bensì riflette e interpreta in termini strategici le realizzazioni effettive e la visione prevalente riguardo al futuro (Bellini, Landabaso, 2005). Ciò non significa “dimenticare il marketing”, ma – al contrario – rileggere in modo potenzialmente innovativo i contributi alla riflessione ed all’azione che esso offre (Bellini, 2005). Dopo aver sottolineato la rilevanza della dimensione cognitiva delle politiche in un’ottica di governance e il senso della metafora che sottende al marketing territoriale, approfondirò il senso politico dell’immagine del territorio ed in particolare di due aspetti: il rapporto e i possibili gap tra immagine e realtà; la possibile coesistenza e concorrenza tra immagini diverse. 2 LE PREMESSE CONCETTUALI La prassi della politica (locale e regionale) dell’innovazione, componente essenziale di una moderna politica dello sviluppo locale, è sempre meno espressione di government e sempre più esercizio di governance, adottandone filosofia e strumentazione. Con il termine governance, facciamo riferimento ad una varietà di meccanismi di guida e indirizzo di altri soggetti, il cui utilizzo non è necessariamente ristretto agli attori pubblici e che, in situazioni di “poliarchia” e di interdipendenza tra gli attori, mirano ad indirizzare consapevolmente i processi sociali. Il concetto che pare meglio capace di descrivere il significato pratico e le implicazioni di un approccio di governance è quello di “policy network”, espressione con cui si fa identificano relazioni sociali più o meno stabili tra attori con riferimento a specifici problemi e/o programmi di policy (cfr. Kickert et al. 1997). La costituzione, la selezione e il mantenimento di relazioni con altri attori all’interno di policy networks costituisce, in altre parole, l’essenza stessa del “fare politica”. L’esistenza di policy networks come “infrastruttura” delle politiche industriali è da tempo nota almeno ad una parte della ricerca economica. E’ ad esempio presente in tutta la letteratura sui “sistemi nazionali dell’innovazione” e - probabilmente in modo più consapevole e pertinente 2 in quella sui “sistemi regionali dell’innovazione”, che ha implicato un’enfasi sui comportamenti basati sulla fiducia, sulla capacità di cooperazione, ma anche sullo stratificarsi di relazioni a-gerarchiche tra attori. L’analisi delle economie regionali e specialmente delle loro dinamiche innovative passa allora attraverso la valutazione del loro grado di institutional thickness e di “systemness” (Braczyk et al., 1998). Qualche autore, argomentando la necessità di un percorso di costruzione del consenso intorno alla creazione e diffusione di un progetto di innovazione, ha cominciato ad operazionalizzare questa visione, definendo come “socio-technical constituency” del progetto gli insiemi dinamici di elementi tecnici e sociali, i quali interagiscono e si adattano reciprocamente in un territorio durante il processo di creazione, produzione e diffusione di una specifica tecnologia (Molina, Kinder, 2000). E’ così possibile sia identificare i fattori di partenza e le condizioni che permettono l’attivazione della socio-technical constituency (ossia la percezione, le finalità, le azioni e le risorse degli attori coinvolti nel progetto di innovazione tecnologica, nonché la natura e la maturità della tecnologia), sia descrivere le dinamiche di allineamento e disallineamento delle diverse componenti rispetto agli obiettivi comuni. I policy network si caratterizzano allora per: • l’interdipendenza tra gli attori e la sostanziale assenza (o la rilevanza solo parziale) dei rapporti gerarchici: all’interno del network gli attori non possono conseguire i propri obiettivi se non utilizzando risorse altrui; • la varietà ed (eventualmente) la numerosità degli attori, ognuno portatore di un proprio set di obiettivi, valori, percezioni, modelli di comportamento e risorse; • la (maggiore o minore) stabilità nel tempo delle relazioni tra tali attori. Nella misura in cui le interazioni si ripetono, esse influenzano non solo i processi politici attuali, ma anche quelli futuri. Assistiamo cioè ad una loro progressiva istituzionalizzazione: “percezioni condivise, modelli di partecipazione e regole di interazione si sviluppano e sono formalizzate” (Kickert et al., 1997, 6); • un ruolo dell’attore pubblico, che non è più preminente, ma che ha caratteristiche proprie e spesso non surrogabili da altri attori (specifica missione, specifiche risorse e conoscenze, legittimazione politica, capacità di costruzione e gestione del consenso, etc.), oltre a vincoli particolari (legalità, social accountability, ridotte possibilità di selezione dei propri interlocutori etc.); • la presenza di attori (ad esempio, associazioni imprenditoriali, università etc.) che non hanno esperienze né competenze specifiche nella gestione di azioni collettive, ma che • entrano in gioco per perseguire obiettivi particolari, sviluppando progressivamente il necessario know-how relazionale “politico” (quindi con forti esigenze e problematiche di apprendimento); la centralità dei processi interattivi di integrazione tra gli obiettivi. le percezioni e le risorse dei diversi attori; 3 • la centralità nella gestione del policy network dell’obiettivo di miglioramento delle condizioni nelle quali avvengono le interazioni tra gli attori (capitale sociale). Visti dalla parte degli attori pubblici, i policy network si contrappongono e si sostituiscono alle tradizionali modalità di government (ed anche ad approcci contemporanei di public management) perché essi, attraverso la realizzazione e la costruzione di “giochi a somma positiva”, permettono di: • distribuire e quindi ridurre il sovraccarico decisionale; • reperire risorse aggiuntive, che possono essere di vario tipo: finanziarie, politiche, umane e relazionali; • attivare e gestire processi di apprendimento collettivo in condizioni in cui non esista consenso sugli obiettivi della policy e/o esista incertezza sulle “tecnologia della politica”, ossia sull’adeguatezza degli strumenti per il raggiungimento degli obiettivi (cfr. Christensen, 1999). La gestione dei policy networks può realizzarsi a due diversi livelli e con set di strumenti sostanzialmente differenti. Da un lato, si può incidere sulla struttura dei network, manovrandone ad esempio la composizione, la numerosità, il grado di apertura sull’esterno, le regole interne, l’introduzione di nuovi attori e l’esclusioni di alcuni degli attuali etc. Dall’altro lato, si può operare sulle dimensioni di ordine cognitivo, incidendo sulle percezioni, sulle visioni e sulle aspettative dei partecipanti, prevenendo l’esclusione di idee e visioni dissenzienti, facilitando interazioni e promuovendo linguaggi comuni, introducendo momenti e luoghi di riflessione collettiva che impediscano lock-in cognitivi etc. Lo strumentario delle politiche di innovazione e sviluppo territoriale tende così ad arricchirsi di strumentazioni di “seconda generazione” (Bellini, 2005), che operano in misura prevalente (anche se non esclusiva) sulle dimensioni cognitive dei network locali nel tentativo di governarne l’evoluzione attraverso la formazione di percezioni ed aspettative. E’ a questa prospettiva che ricolleghiamo l’uso “politico” dell’immagine di un territorio (di una regione, di una città…). 3 IL MARKETING TERRITORIALE: OLTRE LA METAFORA? In un arco di tempo di almeno una ventina d’anni il marketing territoriale (place marketing) ha vissuto una stagione di grande e crescente attenzione, sia sul piano della prassi che – con esiti forse più modesti – sul piano della ricerca sociale ed economica, ed oggi costituisce una componente immancabile dei processi di pianificazione strategica delle regioni e delle città. Azzardando una sintesi, questi processi hanno portato ad evidenza: • l’importanza di suscitare e gestire vasti processi partecipativi, a monte dei quali deve sussistere un certo grado di consenso su visioni di fondo e valori costitutivi; • l’importanza – specie nei contesti urbani - di alcuni grandi eventi e di alcune grandi operazioni di ridisegno del tessuto del territorio; 4 • la rilevanza politica e sociale della revisione dell’immagine del territorio in coincidenza con fasi di riconversione della struttura economica locale e di riorganizzazione della struttura produttiva; • l’importanza del tema dell’attrazione di risorse (imprese, risorse umane etc.), anche nei confronti di soggetti presenti ma suscettibili di emigrare (imprese, studenti etc.). In questo contesto il marketing territoriale si inserisce proponendo essenzialmente una metafora. Suggerisce, in altri termini, di immaginare che l'autorità o l'agenzia competente debba “vendere” il territorio - “prodotto” ad una gamma di “clienti” attuali e potenziali, tra cui tipicamente i residenti, i turisti, gli investitori etc. Suggerisce allora di assumere (in modo non acritico!) tecniche e linguaggi del marketing di impresa, sia sul piano strategico (contribuendo ad una migliore comprensione dei punti di forza e di debolezza del prodotto, segmentando i mercati, identificando i target delle attività promozionali etc.) sia sul piano operativo. Il marketing territoriale non sostituisce la definizione delle strategie di sviluppo, ma ne riceve come input i contenuti (gli assets nuovi e vecchi del territorio, gli obiettivi condivisi di sviluppo, i vincoli e le opportunità politico-istituzionali) restituendo un feed back di metodo, che è esplicitamente customer-oriented, ossia mirato alla comprensione prioritaria dei livelli di soddisfazione degli utenti della città e della formazione delle aspettative, ed un contributo di competenze specifiche nella identificazione dei bisogni e nella comunicazione, sia sul piano dei contenuti che su quelle delle metodologie e delle relazioni da attivare. Inoltre l’adozione di un approccio di marketing territoriale, quando esso viene perseguito con rigore e coerenza non solo di facciata, implica: • il passaggio da un atteggiamento reattivo (ossia di risposta ex post ad esigenze emergenti) ad uno pro-attivo ed interattivo, che permette di indirizzare e far aggiustare reciprocamente comportamenti ed aspettative; • uno sforzo di finalizzazione e di superamento della settorialità delle visioni e delle funzioni, riportando ad unità le diverse dimensioni dello sviluppo (economica, sociale, culturale). Quella del marketing è in effetti una metafora (il territorio non è in vendita), ma è straordinariamente potente, innanzi tutto perché integrata nella più ampia metafora, ossia quella del “mercato” delle opportunità di sviluppo e della conseguente “concorrenza tra territori”, che coglie e traduce in linguaggio moderno l’antica visione conflittuale dello sviluppo propria del mercantilismo1 , per diversi motivi: • • costringe ad abbandonare una visione gerarchica del rapporto tra Stato e industria a favore di un atteggiamento cooperativo; enfatizza, insieme all’aspetto competitivo, l’esigenza di una tensione continua all’eccellenza degli asset territoriali; 1 Ma anche in questo caso – sia chiaro – rimane una metafora, che ha il limite tra l’altro, enfatizzando in modo esasperato e persino caricaturale gli aspetti competitivi, di non apprezzare l’importanza delle politiche di cooperazione tra territori. 5 • ha una funzione ordinatrice e propulsiva dei comportamenti dei vari attori, evidenziandone le interdipendenze; • rende disponibili una serie di strumenti concettuali (sia sul piano analitico che normativo) e di indicazioni operative, in tutto o in parte nuovi per lo strumentario delle politiche industriali e di sviluppo economico; • nel suo riferirsi al paradigma del mercato entra in sintonia culturale con le spinte alla professionalizzazione e alla imprenditorializzazione (e alla depoliticizzazione?) dell’urban management (cfr. Caroli, 1999; Gold, Ward, 1994; Jensen, 2005). Aggiungiamo che il marketing territoriale si sintonizza bene anche con le nuove visioni dello sviluppo locale: sia con quelle che affiancano alla dimensione fisica del territorio quella di luogo di “esperienza”, sia con quelle che mettono in luce il carattere localizzato di processi di apprendimento che sono strategici per lo sviluppo (cfr. Jensen, 2005). Entrambe le visioni convergono nel porre la massima attenzione alle caratteristiche di attrattività del territorio, specie nei confronti delle risorse umane e di alcune in particolari (ad esempio, le “classi creative” à la Florida: cfr. Florida, 2005). Al tempo stesso, tuttavia, nel marketing territoriale sono riconoscibili ambiguità pesanti, che appare rischioso sottovalutare. Da un lato, i paradigmi del marketing richiedono significativi adeguamenti, a cominciare dall’impossibilità di essere orientato alla domanda in modo assolutamente coerente. Anzi il marketing territoriale è chiamato semmai a cercare una domanda adeguata ad un prodotto, che per definizione non è facilmente modificabile (almeno nel breve periodo). Dall’altro lato, il rapporto con la politica appare critico specie laddove quest’ultima (per malinteso neo-liberismo o per finzione) tenta di esternalizzare ai “professionisti” scelte strategiche di fondo che del marketing territoriale dovrebbero essere input e non output, riducendo i processi politici (e le realtive garanzie democratiche) ad esercizi di ricerca di mercato e di analisi SWOT (van Ham, 2002). Di queste ambiguità e tensioni è espressione il complesso tema dell’immagine del territorio. 4 L’IMMAGINE DEL TERRITORIO L’immagine di un territorio (regione, città) è l’insieme delle rappresentazioni affettive e razionali che di tale territorio vengono fatte da ciascun soggetto o gruppo di soggetti. In tali rappresentazioni si ritrovano i valori che i vari gruppi connettono al territorio, alle sue caratteristiche ed alla sua identità. Così facendo, questi gruppi si appropriano dello spazio geografico, sintetizzando la loro lettura del territorio in stereotipi, “etichette” e creando “miti” attraverso narrazioni selettive delle caratteristiche sociali, economiche e storiche del territorio2. 2 Questa definizione è ricostruita su spunti di: Jensen, 2005; Morelli, 2002; Grönroos, 2000; Kotler et al., 1993. 6 Questa selettività serve, ad esempio, a mettere in luce quegli elementi che supportano, secondo una vera e propria “ossessione” del marketing territoriale (Ward, 1998), la possibilità di definirsi come luogo centrale (“centro”, “capitale”, “cuore”, “gateway”) e non – come altri elementi, altrettanto e forse più oggettivi (come la posizione geografica), farebbero ritenere – luogo marginale e periferico. Ed è interessante rilevare come queste selezioni evolvano in una fase storica in cui il concetto di marginalità si ridefinisce non più in funzione delle gerarchie territoriali di tipo tradizionale, ma in funzione dei posizionamenti di rete. Al tempo stesso la selettività può comportare “silenzi” imbarazzati e magari inopportuni e dannosi, quando miti patinati, business-friendly e tecnocratici tacciono su fenomeni di marginalità sociale, di disagio ed antagonismo o di insostenibilità ambientale (Jensen, 2005). Si tratta quindi di operazioni che hanno ben poco di tecnico (se non per i mezzi e le metodiche che può talora adoperare), ma che sono essenzialmente ed inequivocabilmente politiche. In particolare distinguiamo due componenti dell’immagine di un territorio: una componente valutativa, che riflette le esperienze e ciò che percepiamo essere la realtà, ed una componente preferenziale, che rappresenta desideri e motivazioni e quindi ciò che vorremmo che il territorio fosse (cfr. Ashworth, Voogd 1995, p. 77 ss.). Ovviamente le due immagini si mescolano spesso. Così ad esempio, una classica rappresentazione di una struttura produttiva locale (la “valle”) può passare da una rappresentazione di risultati consolidati (“Silicon Valley”) ad una selettiva e programmatica (“Silicon Glen”) sino ad altre più spinte nel senso di delineare un futuro ancora lontano e incerto (“Arnovalley”, “Etnavalley”). L’immagine è d’altronde destinata – come ben ci insegna il marketing – ad avere effetti importanti, che può essere pericoloso non monitorare e lasciare a se stessi. Per un territorio essa può anche non essere considerata strumento di policy, ma effetti di policy (e di grande rilevanza) li avrà comunque. Infatti essa: • riflette e sintetizza le esperienze degli individui, di cui è funzione; • comunica e dà forma alle loro aspettative su cosa il territorio può o dovrebbe dare loro: non solo aspettative esplicite (ossia quelle che, seppur non necessariamente realistiche, definiscono con chiarezza problemi e soluzioni), ma anche quelle – ben più difficili da gestire – che sono implicite (ossia date per scontate e non soggette a discussione) o addirittura fuzzy (in quanto schematiche, ideologiche, emotive, prive di riscontri razionali)3; • 3 è un filtro che influisce sulla percezione del territorio attuale, della qualità di vita e dei servizi, del livello di sviluppo e delle prospettive future (individuali e collettive) e che ovviamente filtra anche le comunicazioni: un immagine positiva rafforza la credibilità dei messaggi, mentre un’immagine negativa la diminuisce; un immagine positiva permette di non enfatizzare eventuali problemi minori, ma può contribuire a sottovalutare minacce emergenti, mentre un’immagine negativa può servire a Per questa tipologia di aspettative cfr. Ojasalo, 1999 and 2001a 7 • drammatizzare oltre il dovuto questioni marginali, ma anche permettere di cogliere per tempo segnali “deboli” di allarme; tende a rafforzare se stessa attraverso le azioni degli attori conformi alle aspettative e attraverso le loro valutazioni, soggettivamente costruite sul rapporto tra percezioni ed aspettative (fig. 1). Una volta consolidata, l’immagine è destinata ad autorealizzarsi. Figura 1 Immagine, aspettative e meccanismi di feedback Immagine valutativa Valutazione del gap tra percezioni e aspettative Aspettative (esplicite, implicite, fuzzy) Azioni Immagine preferenziale In questo paper si suggeriscono due direttrici di riflessione e di ricerca, derivanti da due osservazioni fondamentali: - L’immagine è un prodotto di percezioni, che sono il risultato di diversi fattori interagenti tra loro, ma anche delle azioni specifiche di comunicazione e di branding del territorio, che potranno riflettere ma anche discostarsi dalla realtà; - L’immagine, proprio perché prodotto di percezioni, va sempre posta in relazione ad un “pubblico di riferimento”, così che dello stesso territorio potranno esservi immagine diverse, anche contrastanti e – nel processo politico – concorrenti. 4.1 Place branding L’immagine è certamente il risultato finale di attività specifiche di “costruzione” dell’immagine, che può avvenire sia sul piano della comunicazione di tipo più o meno tradizionale, sia (e in misura sempre più significativa) attraverso la gestione strategica di grandi eventi che segnino non solo la valorizzazione su scala più ampia (e specialmente su 8 scala globale) degli assets esistenti, ma anche momenti di grande e dichiarata discontinuità (si pensi ai giochi olimpici per città come Barcellona o Beijing, ma anche per la nostra Torino). La costruzione di una nuova immagine è poi legata sovente ad addizioni al “prodotto” – territorio, anch’esse portatrici di segnali di discontinuità. Caso emblematico resta l’apertura nel 1977 del Museo Guggenheim di Bilbao, punta di diamante di un’operazione più ampia di rinnovo e modernizzazione delle infrastrutture della città. Tuttavia è proprio il carattere culturale dell’investimento e la ricerca in esso di una elevata qualità artistica intrinseca, tale da renderlo un instant landmark, che ha maggiormente segnato l’immagine della citàà, contribuendo a cancellare rapidamente una visione depressa di luogo grigio di industria tradizionale e pesante ed affermando quella di una piccola metropoli moderna, orientata ai servizi ed aperta al turismo. Colpisca nel caso di Bilbao la forza e soprattutto la rapidità dell’impatto, ma anche si deve prendere nota delle lezioni che ne derivano. In breve che l’immagine può essere in alcune fasi storiche determinata in misura significativa da un grande investimento nella cultura (e nella bellezza tout court), ma a patto che l’investimento abbia una qualità riconoscibile su scala globale. Inoltre Bilbao insegna che il messaggio del cambiamento difficilmente può essere affidato alla accademica riscoperta del passato, ma che anche la cultura deve condividere e far propri i valori della modernità, dell’apertura globale e della sfida tecnologica. La costruzione dell’immagine avviene dunque sì attraverso la comunicazione, il branding etc. ma nel modo più efficace e chiaro attraverso interventi sostanziali, riempiti di significato strategico. E’ d’altronde la stessa letteratura di marketing che ammonisce da tempo che image is reality, che essa è prima di tutto il riflesso della realtà del prodotto, di chi lo gestisce ed anche del “club dei clienti” che lo utilizzano. Quindi, ripercorrendo la metafora, diremo che l’immagine del territorio è innanzi tutto il riflesso della realtà: del “prodotto” – territorio (e quindi della qualità di vita e dello sviluppo economico), del suo “management” (la politica, ma anche gli altri soggetti che partecipano alla governance dei processi di sviluppo) e del “club dei clienti” (ossia il contesto formato dai vari soggetti sociali ed imprenditoriali che vi sono localizzati) (fig. 2). 9 Figura 2 Fattori che determinano l’immagine del territorio IMMAGINE economia e qualità della vita (“prodotto”) politica (“management”) società (“club dei clienti”) attività specifiche per influenzare l’immagine E’ quindi centrale riflettere sulla coerenza o sulle incoerenze (intenzionali o meno) tra “immagine” e “prodotto”. Un ovvio rischio è quello dell’iperbole, che è talora il mediocre risultato di una visione superficiale e “pubblicitaria” del marketing territoriale e da un eccessivo peso di logiche di comunicazione slegate da una valutazione realistica degli assets effettivi del territorio. Così facendo, si creano dei gap pericolosi tra “immagine” e “realtà” del territorio, perché possono originare perdite di credibilità del territorio e delle sue prospettive di sviluppo in comunità di “clienti” che abbiano buoni canali di passaparola al loro interno (come certamente avviene nel turismo o tra i grandi investitori industriali: cfr. Stopford, 2000). In altri casi, invece, la creazione consapevole di questo gap può essere giustificata dalla volontà di anticipare una evoluzione che non si è ancora realizzata, costruendo l’immagine di un luogo futuro (una città immaginata) verso il quale far tendere le energie e le progettualità dei vari attori locali. In altre parole, l’immagine non serve tanto a definire una realtà da “vendere”, ma un’ideale situazione, collocata in un futuro ragionevolmente prossimo, a cui gruppi sociali più o meno ampi vogliono tendere: quella di un territorio (regione, città) “migliore”, perché più vivibile e/o più ricco e/o più moderno di quello che effettivamente è. La imagery si fonde qui con la vision, che lo società e la politica locale esprimono e che si impegnano a realizzare (cfr. Ward, 1998). Un gap tra immagine e realtà può realizzarsi tuttavia anche perché si vive una fase di mutamenti non ancora metabolizzati e non ancora percepiti in tutta la loro rilevanza ed allora il territorio (la regione, la città) risulta incompreso nella sua effettiva evoluzione. In altri termini, situazioni di lock-in politico e cognitivo in contesti territoriali “post-paradigmatici” (si pensi al caso di alcuni distretti industriali italiani) possono produrre immagini stereotipate nel riferimento alla struttura produttiva storicamente affermatasi, datate e – quel che è peggio - penalizzanti le dinamiche innovative in atto, che non vengono riconosciute, sono considerate 10 estranee, quali fenomeni transitori e non credibili ed affidabili come le configurazioni produttive conosciute. Un ulteriore problema di coerenza riguarda poi l’immagine che viene comunicata all’esterno e quella comunicata all’interno del territorio, dove ritroviamo considerazioni familiari al marketing, in particolare alla questione del cosiddetto “marketing interno”. Grande enfasi è oggi posta soprattutto sulla prima, che si indirizza i nuovi potenziali “clienti”: agli imprenditori potenzialmente interessati ad investire a Pisa, ai turisti interessati a visitarla, agli studenti interessati a venirvi a studiare ed a tutti coloro interessati a venirvi ad abitare. L’immagine è, in questa prospettiva, elemento essenziale dell’attrattività o della “investibilità” del territorio (Begg, 2002) ed ha un ruolo essenziale quando la dimensione di esperienza fa premio, ad esempio nei confronti delle “classi creative” protagoniste della “nuova geografia del talento” (Florida, 2005). Ma l’immagine deve essere oggetto di attenzione anche in riferimento agli imprenditori esistenti (che devono almeno essere “dissuasi” dal ricercare localizzazioni alternative), dei nuovi imprenditori (che devono vedere nel territorio un luogo in cui è possibile fare impresa) e dei cittadini (sia nella loro generalità, sia considerando quei casi di cittadini provvisori, come gli studenti universitari, che sono stati attirati dall’offerta formativa e che possono essere trattenuti, al termine del loro percorso di studio, come risorse del territorio). Anzi per molti aspetti è proprio l’immagine interna che dovrebbe essere studiata con particolare attenzione e per almeno tre motivi: perché la qualità della vita personale e le opportunità di carattere economico sono percepiti in modo più diretto e consapevole dai cittadini attuali; perché i loro comportamenti tendono a rafforzare l’immagine (è difficile pensare di “vendere” all’esterno un’immagine che non è credibile al proprio interno); perché gli elementi che costituiscono e sostanzialmente coincidono con le motivazioni per cui i “non-cittadini” possono essere attirati. 4.2 La competizione tra immagini Cosa accade però quando all’interno di un territorio coesistono immagini diverse e configgenti? Immagini diverse possono emergere per l’inerzia di una comunicazione, rivolta a pubblici diversi e non coordinata. Nel caso toscano, per molti versi esemplare, si è notato che” l’immagine “classica” costruita intorno al mito turistico “nasconde”, per così dire, le molte sfumature dell’immagine nuova, industriale, tecnologica della Toscana del dopoguerra, come se la terna cultura – artigianato – turismo di pavoliniana memoria avesse schiacciato solo sul passato e non nel presente e più ancora nel futuro l’attività manifatturiera richiamata dalla tradizione, invece di attualizzarla nella continua innovazione tecnologica, di processo e di prodotto che ha reso competitiva la struttura regionale. L’una, l’immagine classica, ignora l’altra; l’altra, la competitiva presenza dei prodotti manifatturieri sui mercati esteri, non 11 utilizza minimamente la prima per cercare di radicare al proprio territorio, così presente nell’immaginario collettivo, i prodotti mandati “nudi” nel mercato locale” (Cavalieri, 2001). E’ evidente tuttavia che ancora una volta non si tratta di un fatto meramente tecnico. Alla base di questi problemi stanno visioni effettivamente divergenti del territorio, ad esempio la contrapposizione tra visioni neo-industriali e post-industriali. Ed è anche evidente che in fasi storiche di transizione tra paradigmi produttivi e sociali diversi le varie immagini non solo possono coesistere, ma possono competere per acquisire una egemonia. La politics della politica dell’innovazione territoriale può essere letta proprio come rapporto competitivo tra possibili immagini, come lotta per egemonizzare la rappresentazione del futuro del territorio. Generalizzando i risultati di una recente analisi4, suggeriamo qui – a mero titolo di esempio che tre gruppi sociali (e tre corrispondenti immagini) si contenderanno il campo: • I visionari, espressione che utilizziamo nel senso inglese (positivo) del termine (colui che ha una visione e quindi idee per il futuro) e non in quello italiano (tendenzialmente dispregiativo), esprimono l’urgenza di un nuovo slancio progettuale per lo sviluppo e premono per approcci innovativi, nei confronti dei quali sono sinceramente e personalmente disposti ad impegnarsi. I loro “nemici” sono il provincialismo, la chiusura cognitiva, l’angustia relazionale, così come il deficit di imprenditorialità nella società e nell’economia. La speranza sta nelle nuove energie e nei nuovi attori che emergono e possono emergere in futuro. Essi sono disposti a riconoscerli e valorizzarli, ma lamentano l’incapacità di scelte forti e sottolineano le potenzialità inespresse, le aspettative deluse. Il nesso tra nuove tecnologie, internazionalizzazione, terziario, università / ricerca e prospettive di sviluppo è sentito con forza anche sul piano strettamente economico e sono quegli gli elementi che definiscono la possibile immagine nuova della città. All’opposto, temono lo svuotamento demografico e culturale dei centri urbani minori, che si manifesta anche nell’impoverimento e omologazione delle funzioni commerciali, ed è questa l’immagine valutativa che essi si dipingono; • I rassegnati condividono in linea di principio l’orgoglio della propria identità territoriale e la consapevolezza di alcune potenzialità inespresse, che farebbero fare al territorio un salto di qualità nel proprio sviluppo economico e sociale. Tuttavia essi sono sopraffatti dalle delusioni del passato, elencano le occasioni mancate, le potenzialità non sfruttate. Si abbandonano così al pessimismo ed allo scetticismo sulla tenuta delle nuove iniziative proposte. La loro visione è figlia anche della progettualità non realizzata, che finiscono per attribuire all’inadeguatezza dei gruppi dirigenti, ma anche a motivazioni strutturali, culturali, quasi antropologiche: spirito imprenditoriale mediocre, incapacità di aggregazione, etc. Di qui però anche i dubbi sulla ipotesi di una maggiore internazionalizzazione e sui settori nuovi dell’economia e quindi la 4 Trattasi di uno studio dell’immagine di una media città del Centro Italia, coordinata dall’autore di questo paper. 12 • 5 riproposizione di fatto del modello tradizionale di sviluppo, enfatizzando le inefficienze da superare e le risorse non sufficientemente valorizzate. Se i grandi disegni appaiono irrealistici, allora la via di sviluppo del territorio deve essere pragmatica e risultare dal miglioramento delle (molte) “piccole cose che non vanno”. L’immagine preferenziale non è in discontinuità col passato, ma innova senza scossoni e con realismo, alla ricerca di uno scenario meglio gestibile. Gli impauriti vanno oltre il pessimismo. Sono sulla difensiva, perché la loro visione è quella di un territorio che ha perso controllo del proprio destino, che è diventato incomprensibile, troppo complesso, troppo pericoloso. La questione dell’apertura è letta in termini negativi: il territorio è invaso. Dominano le percezioni di deterioramento della qualità del vivere sociale, a causa della necessità di convivenza con nuovi fenomeni di alta marginalità. Ma non è solo l’invasione del diverso (l’extracomunitario), che preoccupa. Anche turisti e studenti possono essere “invasori”: non portano ricchezza, ma “consumano” la città e il territorio. La città e il territorio sono abbandonati, sporchi, non curati, popolati di nuovi criminali e borseggiatori, con quartieri a rischio, un traffico impazzito e pericoloso, un sistema di trasporti pubblici inefficiente. Gli impauriti “vivono difendendosi”. Bibliografia Ashworth G.J., Voogd H. (1995) Selling the City: Marketing approaches in public sector urban planning, Chichester, Wiley Begg I. (2002), ‘Investability’: The Key to Competitive Regions and Cities?, Regional Studies, 36.2, 187-200 Bellini N. (2002) Marketing e governance nella politica dell’innovazione, L’industria, XXIII3, luglio-settembre, 441-455 Bellini N. (2005) Business Support Policies, in P. Bianchi and S. Labory (eds.), International Handbook of Industrial Policy (in corso di pubbl.) Bellini N. (cur.) (2000) Il marketing territoriale. Sfide per l’Italia nella nuova economia, Milano, Franco Angeli Bellini N., Landabaso M. (2005), Learning about innovation policy. 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We discuss the relevance of the cognitive dimension in policy-making and the meaning and implications of the metaphor that underpins place marketing. Later we analyze in depth the political relevance of image and we discuss two specific aspects: the relationship and the possible gaps between image and reality; the possible coexistence and competition between different images. 15