DRAGHI HA USATO IL BAZOOKA. ULTIMO COLPO? di Bancor - Mario Draghi ha convinto il board della BCE a superare le resistenze tedesche usando tutta insieme la potenza di fuoco di cui disponeva. Un maxi-piano di stimolo così sintetizzabile: • ha portato a zero il tasso sui fondi che le banche prenderanno a prestito dalla BCE; • il tasso sui depositi bancari in BCE passa da -0,30% a -0,40%; ciò per indurre le banche a investire nell’economia, penalizzando chi lascia i fondi nel c/c con BCE; • il “marginal lending facility” cioè il tasso per la liquidità a un giorno scende da 0,30 allo 0,25%: pure questo intervento sul costo del denaro “overnight” finalizzato ad aumentare la liquidità; • la novità più rilevante per l’Italia è il Quantitative Easing che sale da 60 a 80 miliardi al mese di titoli che la BCE acquisterà titoli dalle banche per liberare nuove risorse da investire nell’economia. Inoltre, per la prima volta la Bce potrà acquistare bond in euro di imprese non finanziarie, con un rating superiore a quelli speculativi; • Fino a marzo 2018 la BCE lancerà quattro nuove operazioni di finanziamenti a quattro anni per le banche (TLTRO) con tassi che potranno scendere fino a quello dei depositi (-0,40%). In buona sostanza, la BCE pagherà le banche per la liquidità a lungo termine che concederà loro e il tasso sarà tanto più negativo quanto più gli istituti faranno credito. Nella conferenza stampa Draghi ha precisato che la misura è per “tutte le banche, non è pensata per quelle italiane”. Quella del 10 marzo è stata una manovra imponente, forse l’ultimo colpo del bazooka in mano a Draghi, per cercare di far risalire l’inflazione, stimolare il credito e la ripresa economica. Una cura da cavallo che tuttavia mostra la dura realtà della situazione economica europea. La BCE si è mossa infatti sulla base di previsioni economiche preoccupanti. La ripresa nell’area Euro rallenta. Sono forti i rischi di ulteriori ribassi per il rallentamento dei paesi emergenti, per la volatilità dei mercati e per i vari focolai di guerra. L’inflazione non riparte affatto e il target del +2% sembra ormai una chimera. Aleggia lo spettro della deflazione, un fenomeno nuovo per l’Europa e per l’Italia in particolare, che nessuno sa come fronteggiare. Draghi ha convinto il board della Bce ad approvare la sua linea a schiacciante maggioranza – ma non all’unanimità – nonostante che, per la regola interna di rotazione dei diritti di voto non abbia votato il Governatore della Bundesbank Jens Weidmann, principale avversario della politica di Draghi. Weidmann esprime le voci critiche che da tempo arrivano dalla Germania e che si sono levate prima e dopo l’annuncio. Michael Kemmer, rappresentante delle banche tedesche ha commentato: “misure totalmente inutili” e che la Bce “esagera i rischi di deflazione”. Altre critiche vengono dall’ex Governatore della Bundesbank e da politici anche di altri governi del nord Europa. A queste critiche ha risposto Draghi nella conferenza stampa: “Immaginate se non avessimo fatto niente, se avessimo incrociato le braccia dicendo ‘nein zu allen’, no a tutto. Oggi ci ritroveremmo con una disastrosa deflazione”. La promessa di Mario Draghi del luglio 2012 “Whatever it takes” viene confermata. A un anno dal varo del Quantitative Easing, era prevista una revisione ma la Bce ha però sorpreso tutti, mettendo in campo più interventi congiunti. Finora gli strumenti di Draghi hanno evitato la crisi del sistema bancario, che avrebbe avuto effetti catastrofici per imprese e famiglie, ma non lo scenario deflazionistico. Anche con le nuove misure, i tempi per tornare alla normalità saranno lunghi. Draghi è mosso da grande attenzione alle imprese, con i prestiti Tltro e con l’acquisto di corporate bond. Serve però la collaborazione di un sistema bancario, più orientato a dare credito all’economia reale, e una politica attiva degli Stati membri, da cui la BCE si attende misure per stimolare l’economia europea. La reazione dei mercati è stata inizialmente euforica, ma l’effetto è rapidamente sfumato. Le principali borse europee hanno chiuso in negativo. A metà giornata dell’11, l’atteso rimbalzo, fino al 4%, dell’indice MIB della Borsa di Milano. Vedremo nei prossimi giorni se prevarrà l’ottimismo per il credito facile o il pessimismo per la situazione economica che ha reso necessario questo intervento senza precedenti. La vera difficoltà per Draghi è convincere i mercati di non aver esaurito le munizioni del suo bazooka. Il presidente della Bce lo ha detto esplicitamente: la migliore risposta a chi dice che le banche centrali non hanno più strumenti “sono le decisioni di oggi. È una lista piuttosto lunga di misure destinate a rafforzare la congiuntura. Abbiamo dimostrato che non ci mancano gli strumenti”. La Bce lascia intravedere alcune possibili nuove carte da giocare: sul fronte dei tassi, oggi a zero, Draghi ha assicurato che “resteranno ai livelli attuali o a livelli ancora più bassi, per un periodo ben al di là dell’orizzonte temporale del Quantitative Easing” che potrà proseguire “se necessario” oltre la scadenza di marzo 2017 e “in ogni caso fino a quando vedremo una sostenuta risalita della dinamica di inflazione”. In estrema sintesi, ancora “whatever it takes”. Resta viva però la questione sul reale potere della politica monetaria di stimolare l’economia europea dopo le tante iniziative già prese. Occorre un grande sforzo di tutti, una rinnovata fiducia: dei consumatori perché spendano di più, delle imprese perché investano per essere più competitive e del governo a tutti i livelli per adottare politiche di stimolo alla crescita. E’ questo che auspica anche Mario Draghi. LA POLITICA DELLA BCE. IN ATTESA DELLA NUOVA MANOVRA di Bancor - La politica monetaria espansiva della BCE è semplice. Bastano alcune nozioni di base per capire come funziona, gli ambiti dove è stata più o meno efficace e le motivazioni dell’ulteriore rafforzamento annunciato dal Presidente Mario Draghi. Con il termine Quantitative Easing (QE), traducibile in facilitazione quantitativa, si descrive la modalità con cui BCE crea moneta e la trasferisce al sistema finanziario ed economico con operazioni di mercato. Da un anno la BCE sta acquistando, fino a 60 miliardi al mese, titoli di stato dei paesi dell’Unione monetaria, immettendo moneta. Si tratta di una politica monetaria ultra espansiva. I passi fondamentali di tale politica sono rappresentati dall’immissione di nuova moneta da parte della BCE tramite l’acquisto di titoli. Ciò produce un aumento del prezzo dei titoli stessi e la riduzione del loro rendimento. Poiché il rendimento dei titoli di Stato è agganciato ai tassi bancari ne consegue un abbattimento degli interessi su mutui e debiti di famiglie e imprese. Il QE si accompagna a un costo zero (0,05 per la precisione) fissato per le banche che si indebitano con BCE e a un tasso negativo dello 0,3% sulle somme depositate in BCE. Con queste manovre, senza uguali nella storia europea, BCE si pone diversi obiettivi: 1. ridurre il costo del debito degli Stati dell’area Euro, riducendo i rischi di default dei paesi più indebitati. Senza la garanzia della BCE, gli investitori per finanziare questi Stati richiederebbero tassi ben più elevati; 2. l’aumento del valore dei titoli consente a chi li ha in portafoglio (banche, finanziarie, imprese, privati) di realizzare plusvalenze; 3. attraverso tali plusvalenze le banche hanno conseguito utili straordinari da titoli utili a svalutare le sofferenze e aumentare i patrimoni, anche per rispondere alle richieste della Vigilanza europea; 4. fornendo liquidità al sistema a tasso zero BCE stimola le banche a prestare più denaro a famiglie e imprese o altri impieghi; 5. la riduzione del costo dei debiti verso le banche dovrebbe stimolare una maggiore propensione alla spesa, una crescita dei consumi e quindi dell’economia; 6. tassi bassi aiutano pure a sostenere o “pompare” i corsi azionari; una parte del denaro, si indirizza in Borsa, creando una domanda artificiale di titoli quotati; 7. con il calo dei tassi diventa meno conveniente investire in Euro; la riduzione del flusso di capitali finanziari esteri favorisce la svalutazione e quindi rende più competitive le nostre economie. Dopo il QE, il cambio Euro Dollaro è passato dai massimi di 1,40 a 1,02 con effetti positivi sull’export, per tornare a 1,10 oggi; 8. il mandato della BCE prevede l’obiettivo di mantenere il tasso d’inflazione ad un livello vicino al 2% che la maggior parte degli economisti ritiene essenziale per stimolare i consumi e far crescere il PIL monetario (riducendo per questa via il rapporto debito/PIL). Questo obiettivo è fallito in pieno; infatti i dati sui prezzi di febbraio segnalano deflazione a un anno esatto da quando la BCE ha avviato il suo programma di acquisto titoli. N E L L A F O T O: MARIO DRAGHI Un Quantitative easing (quando funziona) accanto alle positività indicate, contiene un problema: con l’aumento dell’inflazione si rivalutano gli asset di chi li ha, ampliando il divario tra ricchi e poveri. Diventa quindi essenziale che i Governi compensino tali effetti sociali con politiche adeguate, per mantenere stabile o spostare verso i livelli più bassi la distribuzione del reddito e della ricchezza. Il QE della BCE è di tipo monetario, e radicalmente diverso dal Quantitative Easing nato negli Stati Uniti, in cui il Governo Federale ha largamente utilizzato i tassi zero sul debito per un massiccio programma di stimoli all’economia reale attraverso spesa pubblica diretta e minori tasse. E’ mancato in Europa lo sfruttamento da parte dei Governi del principale beneficio del Quantitative easing – la riduzione del costo del debito – per realizzare politiche espansive. Dalle statistiche europee il debito pubblico dell’Eurozona, continua inesorabilmente a crescere, sia in termini assoluti che in relazione al PIL, mentre il credito verso il settore privato langue anche per carenza di domanda di credito “buona”. Nell’Europa a 28 il rapporto tra debito e PIL è salito all’86,8 % alla fine del 2014, mentre nell’Area Euro, sempre a fine 2014, è salito al 91,9 %. I propositi dei Governi vanno verso una riduzione della pressione fiscale, invero molto alta in Europa, piuttosto che verso una spesa diretta o verso politiche di assunzione di giovani nella Pubblica Amministrazione che, in Italia, si trova in una situazione di invecchiamento, per mancato turn over, e di scarsa innovazione tecnologica ed informatica. I dati pubblicati il 1 marzo sui prezzi indurranno quasi certamente la BCE a rafforzare la manovra espansiva come da tempo annunciato da Draghi. Gli investitori tuttavia non nutrono grandi aspettative, soprattutto sul fronte degli acquisti di titoli. Nei dati sull’inflazione richiede attenzione il forte rallentamento dei prezzi industriali (escluso il settore energia) saliti dello 0,3% annuo dopo il +0,7% di gennaio. Comincia quindi a pesare il rallentamento della domanda globale e il ri-apprezzamento dell’euro da novembre a oggi malgrado l’orientamento espansivo della BCE; prende corpo l’ipotesi che la globalizzazione abbia creato un eccesso di offerta sui mercati e una pressione al ribasso dei prezzi spinta da produttori del mondo globalizzato, disposti a produrre beni a costi sempre minori. Il 10 marzo, giorno della riunione BCE, vedremo una nuova manovra sui tassi e forse anche, l’auspicato aumento degli acquisti mensili di titoli. Resterà viva però la questione sul reale potere, nell’attuale situazione e dopo le tante iniziative già prese, della politica monetaria. D&D – DEBITO E DRAGHI di Bancor - Inizio il commento di oggi dando alcuni numeri relativi a debito pubblico, PIL e altro. L’arco di tempo va dal novembre 2011 (inizio governo Monti) a oggi. Iniziamo. A novembre 2011 il debito pubblico era di 1.890 miliardi. Dopo 4 anni, novembre 2015, è salito a 2.212 miliardi. Cioè di 320 miliardi, il 17% circa in più. Il PIL del 2011 (rivalutato dopo le innovazioni nel sistema di calcolo) si attestava a 1638 miliardi. Da allora il PIL reale si è contratto (i primi tre anni di calo e il 2015 finalmente di crescita dello 0,8%) in presenza di una inflazione relativamente bassa. Una previsione a spanne del PIL 2015 (PIl del 2014: 1.614 miliardi, più 0,8% di crescita, più 0,3% di aumento dei prezzi) ci porta ad una cifra di 1.632 miliardi, molto vicina a quella del 2011. In sintesi dopo 4 anni il PIL italiano resta più o meno uguale in termini monetari, il debito invece cresce di 320 miliardi (dato di novembre 2015). Tutto ciò ha devastato il rapporto Debito Pubblico/PIL che è schizzato in 4 anni dal 116% al 135% circa (il minimo lo ha toccato, come noto, sotto il governo Prodi con un rapporto attorno al 100% considerando il PIL di allora rivalutato come sopra) E’ lecito dire che dal 2011 ad oggi ci sia stata una politica di rigore nei nostri conti? Per quanto nell’aumento di 320 miliardi abbiano giocato uscite straordinarie di vario genere (es. per impegni europei per prestiti e fondi salva stati, variazioni del saldo del conto di tesoreria, pagamento di debiti arretrati), 80 miliardi in più all’anno di debito (80×4=320) rappresentano al lordo il 4% circa di deficit per ciascuno dei 4 anni. Non è poco, e non lo è ancor più se si considera che solo grazie alle politiche della BCE sotto la Presidenza del prof. Draghi il costo del debito è sceso, malgrado la crescita dello stesso, dal 5,5% del PIL a meno del 4% annuo. Vediamo meglio questo dato, cioè il costo del debito pubblico, per capire quanto la politica “accomodante della BCE sia stata fondamentale per i conti pubblici italiani e anche per quelli privati dei cittadini. A fine 2011 (con lo spread dei BTP a 10 anni, rispetto all’analogo Bund tedesco, alle stelle) il costo per fare nuovo debito a lungo termine era superiore al 6%; oggi, pur con lo spread risalito all’1,5%, lo stesso costo è appena dell’1,7%. Ancor più positivo il costo delle nuove emissioni di Titoli di Stato per le varie scadenze è sceso all’1%, un valore mai registrato nel nostro Paese. In termini assoluti, grazie alle politiche BCE, la spesa per interessi (che ha toccato il massimo nel 2012 con 86,5 miliardi) scenderebbe, per il 2016, a 63,6 miliardi secondo le previsioni più recenti. 23 miliardi in meno rispetto al 2012 nonostante la grande crescita del debito. Se le cose continueranno così, l’ “effetto Draghi” costituirà per il nostro governo la migliore assicurazione per la sostenibilità del nostro debito pubblico. Come per qualunque debitore la fiducia (ne abbiamo parlato a lungo per le banche in altri) è l’elemento fondamentale per il costo del debito. La Germania, ad esempio, oggi è in grado di collocare il proprio debito a 10 anni allo 0,2% contro l’1,7% dell’Italia: 1,5% in più o meno di costo su un debito di 2.200 miliardi significa 33 miliardi in meno di spesa e 33 miliardi in più da destinare alla riduzione del debito stesso e/o a politiche di stimolo dell’occupazione e degli investimenti (questi ultimi crollati, come noto del 30% dalla crisi post Lehman Brothers). Anche per le imprese e le famiglie italiane che ricorrono al debito le cose sono migliorate. Secondo i dati della Banca d’Italia, i tassi sui nuovi prestiti da fine 2011 a oggi sono scesi per le famiglie (per acquisto di abitazioni) e per le imprese di oltre 200 punti base, attestandosi oggi sotto il 2%. Anche questo un minimo storico essenziale alla competitività delle nostre imprese ed anche al rilancio del mercato immobiliare attraverso i bassi tassi sui mutui. Ho dato molti numeri, forse troppi. Scusandomi per le inevitabili inesattezze (dovute sia ai dati presi qui e là sia a qualche elaborazione “casalinga”) credo però che emerga chiaramente quanto sia importante – per un paese con un alto debito come il nostro – presentarsi credibile di fronte a chi investe i propri denari per finanziarlo. Utilizzando la spesa pubblica per finanziare gli investimenti e stimolare la crescita dell’occupazione, essenziali per la crescita del PIL che è mancata in questi anni, e tuttavia mantenendo la reputazione di buon pagatore. Senza una buona reputazione sui mercati, senza una prospettiva credibile di rientro virtuoso, in tempi ragionevoli, verso le medie europee del nostro rapporto debito/PIL neanche l’azione di “SuperMario” (Draghi ovviamente) potrà bastare. Le istituzioni europee dovranno adottare scelte importanti per rafforzare la solidità e l’irreversibilità della moneta comune. A muovere la speculazione sugli spread è solo la possibilità ancorché remota di uscite di singoli stati dall’euro. Per fermarla non basta la politica monetaria, neanche con i tassi negativi. Iniezioni di fiducia importanti verrebbero dalla garanzia europea sui depositi, in aggiunta a quella dei fondi nazionali. In questi giorni si riparla dell’introduzione degli eurobond, insieme alla proposta di rafforzamento dei poteri centrali con un “superministro” dell’economia europeo. L’esperienza di questo inizio anno dell’entrata in vigore del “bail-in” nella soluzione delle crisi bancarie ha avuto un effetto devastante sulle banche europee. Un ripensamento per un approccio graduale verso tale innovazione così deflagrante sarebbe essenziale. La chiede il nostro governo, ma pure la Germania avverte i rischi sistemici della Deutsche Bank a causa dell’enorme posizione in derivati della stessa. L'EUROPA GEOPOLITICA di Alfonso Musci - In Europa il risiko delle posizioni si articola dando vita a una geografia politica che merita un tentativo classificatorio. Partiamo dalla fine. I banchieri centrali di Francia e Germania (introdotti in Italia da Mario Draghi e Giorgio Napolitano) possono considerarsi i rappresentati di un illuminismo franco tedesco, una posizione europeistica pura che punta a consolidare la “cooperazione rafforzata” additando nelle tentazioni nazionalistiche il male oscuro che starebbe minando le basi politiche e civili dell’Europa. La via d’uscita di questi tecnocrati illuminati potrebbe essere l’istituzione di un ministro europeo del tesoro (con contestuale cessione di sovranità) o un commissariamento di fatto delle politiche di bilancio nazionale. Sono due proposte lucide e astratte che non calcolano il costo politico intermedio di un’Europa impaurita e rimbozzolita negli idola romantici della terra e del sangue. Gli altri attori di questa Europa sono i populisti. Quella di populista di per sé è una classificazione neutrale, non è un giudizio di valore ma è la condizione di quel leader politico che rappresenta il conflitto come opposizione tra alto e basso e che stringe alleanze con il popolo contro le élites, responsabili di decisioni impopolari e antidemocratiche. Questo tipo di populismo in Europa è crescente e si diffonde in modo proporzionale all’incapacità degli ordinamenti dello Stato Nazione di ammodernarsi e adeguarsi alle nuove forme della sovranità e alla indifferenza di queste nuove forme di sovranità verso gli effetti sociali di questo processo e di questo ritardo. Il populista considera la tecnocrazia e la troika un processo senza popolo, capace di generare austerità e impoverimento. Il populista non espone pubblicamente questa teoria del conflitto ma la incarna e la crea. Entrando nel merito, il populista può essere di destra o di sinistra. Convenzionalmente, populismo di sinistra può considerarsi quello di Podemos o di Syriza, populismo di destra quello dell’ungherese Fidesz o del polacco PiS. Si tratta di partiti e movimenti ultranazionalisti ed euroscettici che alzano muri e avvelenano i pozzi del dissenso europeo con la paura e la xenofobia. Gli esiti di entrambi i populismi sono però analoghi e tendono a indebolire la federazione europea e subordinano l’interesse comune europeo alla congiuntura elettorale interna. I populisti di sinistra sono sovranisti tanto quanto quelli di destra e sono gli eredi di un positivismo giuridico di ordine medievale che può essere riassunto dal principio di una “libertas” di tipo municipale, intesa come assenza di imposizioni e vincoli esterni. Una terza posizione, più teorica delle altre, è quella della destra tedesca, prevalentemente bavarese, un tipico germanesimo che ispira un’idea d’Europa come “kern” o nucleo duro, esclusivo e eletto. La proposta di questo nucleo ristretto non a caso è una minischengen che finirebbe per far crollare l’architettura comunitaria, con danni irreparabili per la società e per l’economia. Il nostro premier è un frutto misterioso, capace di svolazzare su tutte queste posizioni e contaminarsi con esse col massimo dell’eclettismo. Non c’è dubbio, però, che il suo orizzonte privilegiato in questa fase è quello di un sovranismo o populismo progressista, mite, flessibile e calcolato, con evidenti vantaggi congiunturali per il governo e per la maggioranza che lo esprime, ma non di meno minaccioso per la coesione europea. Una via media, percorribile ad esempio da parte delle forze del socialismo riformista, potrebbe essere quella di un’integrazione tra la posizione illuminata dei tecnocrati bancari e quella dei populisti di sinistra, auspicabile anche per dare accesso a questi ultimi all’area di governo centrale dell’Unione. I mediatori di questo processo dovrebbero essere i socialisti europei. Per concludere questa rapida rassegna si tengano a mente le recenti parole di Napolitano. Nella sua apparente solitudine egli rappresenta ancora oggi l’ideale di una integrazione tra popolo ed élites nel nome di un europeismo classico e razionale. I passaggi salienti del suo ultimo discorso sono i seguenti: 1) “L’errore sarebbe, come sinistra, restare impigliati nella dimensione nazionale”. 2) “Mi sembra che la Cancelliera abbia compiuto un passo di straordinario valore politico con la sua apertura ai richiedenti asilo e che da allora non abbia fatto sostanziali passi indietro”. 3) “Assecondare gli impulsi e le paure collettive scivolando nel populismo è un rischio da cui guardarsi sempre” (dall’intervista a Giorgio Napolitano di Stefano Folli per Repubblica: 8/2/2016 ). UN'ALTRA EUROPA, SOCIALE E EGUALITARIA Gennaio 2015 sarà ricordato a lungo come il mese che ha cambiato l’Europa. Con l’inizio del nuovo anno una catena serrata di avvenimenti (l’attentato di Parigi, il bazooka/QE di Mario Draghi e le elezioni greche) ha schiuso nel nostro continente una fase di profonda trasformazione, che non fissa in modo preciso la destinazione, ma ci pone ogni volta dinanzi a un bivio cruciale. Bivio nel senso del mito, alternativa fatale tra bene e male, come quella di Ercole tra vizio e virtù. Ciascuno di questi fatti ha dato origine a duplici pulsioni, a duplici svolgimenti. Verso una strada per ripartire, o verso una strada per regredire. Al centro il destino fragile d’Europa. Dopo i fatti di Parigi, ad esempio, si sono levati scudi contro Schengen ma, simultaneamente, si è dato vita alla più imponente marcia di popolo per la libertà e la democrazia. Col QE di Draghi, allo stesso tempo, si è avviata una pesante iniezione di liquidità nelle banche per riaprire il circuito del credito, che in assenza di contrafforti potrebbe riattivare rischiosi processi speculativi. Infine le elezioni greche, con cui è stato scalfito l’equilibrio folle della ‘troika’ ma contestualmente è emerso il disimpegno greco verso precise responsabilità comuni. Europa al bivio dunque, Europa divisa. A tutto questo si è aggiunta la polveriera ucraina, che infrange e mette a rischio un altro dei pilastri europei: la pace. L’Europa ora trema perché il suo edificio di prosperità è minacciato. Prima che dagli eventi esterni e dalla congiuntura, dalla pigrizia e dalla miopia dei governi e delle classi dirigenti. Quello che manca ed è mancato all’Europa sino ad ora è stata la politica. Solo la politica può assumersi infatti il rischio della prosperità e il rischio della pace. E’ già accaduto nel dopoguerra e dopo l’89, ma quel processo si è interrotto. Se ad esempio i negoziati bilaterali tra USA e Russia non fossero condotti in queste ore da una ‘solitaria’ Merkel è da un ‘ancillare’ Hollande ma da un concerto di paesi – ben rappresentato ad esempio dal Commissario Mogherini – questo processo potrebbe ripartire. A riprova del peso che ha e potrebbe avere la condivisione delle scelte basti considerare gli effetti dell’insolito attivismo tedesco, sia rispetto alle sorti del debito greco che rispetto alla pace in Ucraina. Si tratta tuttavia di risultati effimeri. Il momento è ambivalente. Può essere esiziale e può essere propizio. L’incubo peggiore, soprattuto per la mia generazione (classe ’81), è proprio nella dialettica distruttiva Europa/AntiEuropa, una dialettica sfuggita al controllo politico e che ci assedia, a partire da Atene, diffondendo pessimismo e veicolando la convinzione che, dentro i confini del nostro continente, non sia possibile coltivare e costruire un’altra Europa, sociale e egualitaria. Imboccare questa strada alternativa e orientare il corso degli eventi verso il bene è compito ora delle forze del socialismo, non solo delle forze radicali cresciute dalle macerie dei grandi partiti della sinistra. Il PSE è oggi ingessato dalle ‘larghe intese’ e sembra incapace di invertire la rotta e invadere con la sua forza il terreno del disagio, della sfiducia e del malcontento delle masse popolari, lasciando che esso deragli e degradi in rifiuto totale dell’Europa. Un rifiuto dannoso ed esiziale. Gennaio è stato il mese del bivio. Febbraio sarà il mese delle scelte. di Alfonso Musci