2
Il libro
C
ome dare scacco matto alla crisi in tre anni? Con tre mosse:
1. Una forte politica di bilancio pubblico indicando “dove e
quante” risorse prendere per poi dire anche “dove” metterle, in
termini di “quanto” e “quando”.
2. Abbattimento del Debito Pubblico attraverso lo strumento del
Fondo Immobiliare Italia che sia in grado di anticipare
finanziariamente i tempi lunghi della alienazione del patrimonio
immobiliare pubblico, nonché il pagamento entro il 2015 dell’intero
stock di debiti delle PA verso le imprese.
3. Verificare gli effetti che si potrebbero produrre sull’economia
italiana qualora il cambio €/$ (e di conseguenza il cambio €/Y cinese)
si riallineasse nei prossimi tre anni verso un rapporto 1 a 1 sul dollaro.
Le recente decisioni della Banca Centrale Europea, infatti, mirano a
riportare l’inflazione “almeno” al 2%, evitando una pericolosa
deflazione, ed a spingere l’euro a condizioni di cambio più coerenti con
i fondamentali dell’economia.
3
L’autore
Mario Baldassarri si è laureato in Economia all’Università di Ancona
nel 1969 ed ha poi conseguito il Dottorato di ricerca (Ph. D.) in
Economics presso il Massachusetts Institute of Technology,
Cambridge, USA, con relatori Robert Solow, Franco Modigliani and
Paul Anthony Samuelson.
È professore ordinario di Economia dal 1979, presso l’Università di
Bologna fino al 1988 e, successivamente, presso l’Università di Roma
“La Sapienza” dove, attualmente è professore emerito. In precedenza,
come assistente ordinario e professore incaricato, ha insegnato
all’Università di Torino ed all’Università Cattolica del Sacro Cuore a
Milano.
È stato Viceministro dell’Economia e delle Finanze dal 2001 al 2006,
senatore della Repubblica dal 2006 al 2013 e presidente della
Commissione Permanente Finanze e Tesoro del Senato dal 2008 al
febbraio 2013.
I suoi lavori scientifici sono indirizzati verso analisi teoriche ed
empiriche in tema di ruolo ed effetti del bilancio pubblico sul sistema
economico sia in termini di controllo congiunturale, sia in termini di
sviluppo strutturale, di crescita economica e di redistribuzione del
reddito. Sì è occupato di problemi relativi alle politiche monetarie e alle
politiche industriali, nonché di problemi riguardanti la struttura del
mercato del lavoro e dell’occupazione.
Dal 2005 è fondatore e presidente del Centro Studi Economia Reale
con sede a Roma.
Autore di oltre cinquanta saggi scientifici in riviste nazionali ed
internazionali e di dieci Monografie scientifiche. Editor di cinquanta
Monografie della Collana “Central Issues in Contemporary Economic
Theory and Policy”, Palgrave/Macmillan, London e St. Martin’s Press
New York. Editor di ventidue Monografie della Collana RPE - SIPI,
Roma. Autore di oltre settecento articoli su diversi quotidiani e
settimanali come giornalista-pubblicista iscritto all’ordine dal 1976.
www.mariobaldassarri.it
www.economiareale.it
4
a cura di Mario Baldassarri
SCACCO MATTO ALLA CRISI
Tre mosse per far vincere l’Italia e l’Europa
Contributi di
Ferdinando ADORNATO, Michele BAGELLA, Fabrizio BALASSONE, Mario
BALDASSARRI, Alessandro BANFI, Carlo COTTARELLI, Stefano FOLLI, Giancarlo
GIORGETTI, Fiorella KOSTORIS, Massimo LEONI, Roberto MAZZOTTA, Myrta
MERLINO, Antonio PEDONE, Gustavo PIGA, Giuseppe ROMA, Emilio ROSSI,
Fabrizio SACCOMANNI, Filippo TADDEI, Danilo TAINO, Irene TINAGLI,
Salvatore TUTINO, Giuliano URBANI, Enrico VAIME
5
Scacco matto alla crisi
Tre mosse per far vincere l’Italia e l’Europa
Il Debito Pubblico: … dove ci porta?
Le Riforme: … quali, quante?
Fuori dalla crisi: … come, quando?
MONDO — EUROPA ED EURO — ITALIA
6
Introduzione
Roberto Mazzotta, Istituto Luigi Sturzo
L’VIII Rapporto di Previsione sull’Economia Italiana (2014–2018) del
Centro Studi Economia Reale ha quest’anno degli arricchimenti
significativi in termini di proposte ed indicazioni precise che vengono
offerte ad un più ampio confronto e dibattito, in relazione ad una fase
(anche della vita civile e politica del nostro Paese) nella quale possono
esserci alcune aspettative di cambiamento e di correzione nei confronti
degli elementi inerziali che hanno caratterizzato un lungo periodo alle
nostre spalle con gli effetti pesantemente negativi che tutti conosciamo.
Nel Rapporto, infatti, c’è una prima parte che riguarda le analisi sul
passato e le previsioni sul futuro sulla base di andamenti tendenzialiinerziali ed un’altra parte che riguarda delle indicazioni correttive allo
scopo di ottenere prospettive migliori e più sostenibili sul piano sociale
ed economico.
Su questo ampio scenario di riferimento, seguono poi contributi di
economisti, politologi, sociologi e giornalisti economici che possono fare
di questo “libro collettivo” un importante e serio riferimento per quanti
vogliano capire meglio l’Italia, il momento difficile che sta affrontando e
le decisioni politiche necessarie a fare uscire il nostro paese dal troppo
lungo tunnel della crisi economica, sociale ed istituzionale.
La sessione ANALISI E PROPOSTE DEGLI ECONOMISTI,
coordinata da Danilo Taino, contiene i contributi di Antonio Pedone,
Fiorella Kostoris, Gustavo Piga e Michele Bagella. Seguono poi i
contributi delle ANALISI ISTITUZIONALI di Fabrizio Balassone, Carlo
Cottarelli e Salvatore Tutino, coordinati da Alessandro Banfi. Stefano
Folli introduce gli interventi della sessione ECONOMIA E
MUTAMENTI SOCIALI E POLITICI con interventi di Giuseppe Roma,
Giuliano Urbani ed Enrico Vaime, oltre lo specifico contributo del
sottoscritto. Il volume si chiude poi con le PROPOSTE DELLA
POLITICA, coordinate da Massimo Leoni e Myrta Merlino, con le
riflessioni di Ferdinando Adornato, Filippo Taddei, Irene Tinagli,
Giancarlo Giorgetti, alle quali seguono, in chiusura del volume, le
CONSIDERAZIONI FINALI di Fabrizio Saccomanni.
Una riflessione che desidero fare come elemento che ritengo emerga
nettamente dalle indicazioni che il Rapporto contiene e che credo possa
essere questo uno dei contributi più rilevanti di questo impegno al
confronto ed all’approfondimento. Da tanto tempo, quella italiana è una
7
situazione sociale stanca e, se è possibile correggerla, bisogna modificare
duramente e pesantemente una litania che è andata percorrendo sempre
la comunicazione all’opinione pubblica in questi anni: i nostri problemi
nascono dai vincoli esterni dei trattati europei, della moneta unica, della
cattiveria altrui. Credo invece che il messaggio che debba essere
comunicato il più chiaramente possibile (e la serietà di un’indagine
tecnicamente inappuntabile è di grande ausilio) sia questo: il nostro
sistema è ammalato e rantola per eccesso di prelievo fiscale destinato a
finanziare spesa pubblica che non serve. Questo è, a mio parere, il punto
cruciale. I governi, le maggioranze, i cambiamenti in corso, sono
impegnati nelle riforme, questo è il termine complessivo che viene
utilizzato, ma bisognerebbe mettere meglio in evidenza, con impegno
anche di consapevolezza collettiva, qual è la finalizzazione delle riforme
che, ritengo, debba essere quella di modificare la dimensione e la
struttura della spesa pubblica e quindi rimuovere la necessità di
continuare ad aumentare un prelievo fiscale che ha ammazzato
l’economia di questo Paese e la capacità di spesa delle famiglie e che ci
porta ad un andamento tendenziale che è sempre al di sotto di quello
necessario per ricostruire i nostri equilibri complessivi. Penso che questa
possa essere una sintesi di comunicazione e quindi di contenuto sociale e
di contenuto politico.
Ragionamenti di questo genere, nell’Istituto Luigi Sturzo, hanno un
rilievo di straordinaria continuità, perché rappresenta proprio il
bagaglio sturziano tipico: come le istituzioni funzionano per servire e non
per asservire.
Ecco perché è nata la collaborazione tra il nostro Istituto ed il Centro
Studi Economia Reale e questa è la ragione per cui tra noi c’è un
matrimonio duraturo e permanentemente rialimentato da occasioni di
dibattito, confronto e proposte come quella rappresentata, a mio parere,
da questo volume.
8
Le prospettive dell’economia mondiale ed europea
Emilio Rossi, Oxford Economics
In questa presentazione sul quadro globale dell’economia mondiale ed
europea, cerchiamo di rilevare gli aspetti che in qualche modo
influiscono più direttamente sulle prospettive dell’economia italiana.
Nella Fig. 1 abbiamo sintetizzato i temi più rilevanti che emergono
dalle previsioni della Oxford Economics: dalla ripresa americana al
miglioramento di prospettive nell’Eurozona (con purtroppo un rischio
di deflazione) per poi passare alle previsioni che riguardano il
Giappone, la Cina e, tra i paesi emerging markets, quelli che vengono ora
chiamati “il gruppo degli inguaiati”.
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Fig. 1
Le Prospettive dell’Economia Mondiale ed i loro riflessi sull’Economia
Italiana
Rafforzamento dell’attività globale
Ripresa negli Stati Uniti, miglioramenti nella Eurozona con rischi di
deflazione?
Giappone – la “Abenomics” sta funzionando?
Cina – ci potrà essere una crisi?
Paesi Emergenti: un “grappolo” potrebbe farli deragliare?
Come si vede dalla Fig. 2 dove le barre blu si riferiscono al periodo
pre-crisi, quelle nere al periodo di crisi e le barre tratteggiate sono
relative alla previsioni della Oxford Economics per gli anni futuri, non
lontanissime da quelle che vanno per la maggiore tra le istituzionali
internazionali e tra i principali attori finanziari.
Una prima indicazione di fondo è che l’area occidentale sta uscendo
da quella che era una crisi molto rilevante, con una prospettiva per i
prossimi tre anni di crescita non spettacolare, ma decisamente migliore
del periodo della crisi: per l’Europa si prevede una crescita attorno
all’1,5–2% ed attorno al 3% per l’area Nord Americana.
Un altro elemento che emerge dalle previsioni è che invece nei paesi
emergenti si profila una crescita ancora sostenuta ma in riduzione
rispetto al decennio passato.
In un certo senso sembra profilarsi una staffetta tra paesi economie
avanzate e paesi emergenti in termini di propulsione all’economia
mondiale.
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Fig. 2. Economia Americana migliora, Paesi emergenti rallentano ma mantengono
una crescita sostenuta.
Fonte: Oxford Economics
Dal punto di vista dei rischi a livello globale ovviamente non
possiamo che essere felici del fatto che stiano svanendo i principali rischi
che ci hanno assillato per alcuni anni, primo fra tutti il rischio di break-up
dell’euro, anche se questa prospettiva appare riposta in un cassetto e
non si può escludere che non torni in campo nei prossimi anni. Sta di
fatto però che le politiche monetarie è fiscali che sono state adottate
hanno ridotto significativamente questo rischio e, in questo momento,
una prospettiva del genere appare non plausibile.
L’altro grande rischio riguardava l’area Stati Uniti-Nord America ed
era costituita dal cosiddetto fiscal cliff. Questa pericolosa prospettiva, che
ci aveva assillato fino a dicembre del 2013, appare ora avviata a
soluzione.
Pertanto, i due maggiori rischi per l’economia mondiale emersi negli
ultimi anni sono ora sicuramente in forte riduzione.
Ciò che appare oggi però è un aumento del rischio-medio, che la
Oxford Economics misura basandosi su una serie di scenari alternativi
che vengono pesati con una assegnazione di probabilità di realizzarsi.
11
Ebbene, negli ultimi mesi, tra febbraio a maggio di quest’anno, questo
indice di rischio-medio è aumentato in relazione a nuovi elementi che si
sono presentati: il rischio di deflazione in Europa, il rischio di collasso
del sistema cinese dovuto a una crisi potenziale nel settore bancario,
alcune crisi geopolitiche importanti come quella tra Russia e Ucraina, il
colpo di stato in Tailandia che potrebbe far partire anche un qualche
problema in tutta l’area, e anche la recrudescenza di quelli che sono i
rischi dei rapporti tra Cina e Giappone in relazione alle isole che sono in
discussione tra le due aree. In sintesi, i grandi rischi degli anni passati
sembrano, per ora, dissolti ma sono aumentati negli ultimi mesi i
cosiddetti rischi-medi, come ora indicato, vedi Fig. 3.
12
Fig. 3. Rischi Maggiori si dissolvono, ma Rischi Medi aumentano.
Fonte: Oxford Economics
Riferendoci ora ai dati riportati nella Fig. 4, si può essere oggi meno
pessimisti rispetto ad un anno fa. La produzione manifatturiera negli
Stati Uniti ed in Giappone è tornata a livelli pre-crisi, mentre
nell’Eurozona e nel Regno Unito va meno bene ma appare evidente
comunque una tendenza al recupero nell’area del manifatturiero anche
in Eurozona e Regno Unito. La previsione attuale è quindi di un tasso di
crescita al 4,5% ripeto per l’output manifatturiero del 2014, con un
rallentamento successivo legato soprattutto all’andamento dei tassi di
cambio.
13
Fig. 4. Produzione manifatturiera: andamenti recenti più ottimistici.
Fonte: Oxford Economics/Haver Analytics
Potrebbe anche essere una correlazione “spuria”, va però notato che
politiche monetarie espansive ed aggressive hanno accompagnato
questo andamento del settore manifatturiero negli Stati Uniti e ed in
Giappone, mentre al contrario negli ultimi trimestri la politica monetaria
della Banca Centrale Europea è stata relativamente restrittiva, vedi Fig.
5.
14
Fig. 5. Politica Monetaria Aggressiva in USA e Giappone.
Fonte: IMF, World Economic Outlook, April 2014
Rimanendo sugli Stati Uniti, si evidenzia che il rapporto tra debito e
redditi, il deleverage (la linea blu) è stato molto consistente.
Considerazione analoghe possono essere fatte fare anche per ciò che
riguarda le imprese non finanziarie e finanziarie ed anche qui tutto
questo è stato molto indotto dalle politiche monetarie e fiscali espansive.
L’indebitamento bancario è ai minimi dal 2001 ed il debito delle imprese
è sceso all’80% del Pil e questa forte capacità di deleveraging ha
sicuramente sostenuto i consumi.
15
Fig. 6. Il rapido Delevaraging degli USA sostiene i Consumi
Source: IMF, World Economic Outlook, April 2014
Circa l’andamento della competitività, la Fig. 7 evidenzia che dal 2000
il costo di lavoro per unità di prodotto negli Stati Uniti è rimasto
fondamentalmente costante, recuperando quindi competitività in
maniera significativa, anche nei confronti dei brics e della stessa
Germania (che è la più virtuosa in Europa) e questo ha consentito agli
Stati Uniti di presentarsi con una posizione di forza che emerge in tutta
evidenza, nonostante i meno positivi dati del primo trimestre di
quest’anno legati all’andamento atmosferico, nel secondo trimestre che è
stato decisamente positivo con una crescita media per il 2014 intorno al
2–2,5% e con una previsione intorno al 3% per il 2015 e 2016, vedi Fig. 8.
16
Fig. 7. Il Manifatturiero degli USA molto competitivo.
Source: Haver Analytics
17
Fig. 8. Crescita USA al 3% dal 2015.
Source: Oxford Economics
A ben vedere, c’è stato molto pragmatismo da parte delle autorità
americane e si potrebbe forse parlare di una vera e propria politica
industriale negli Stati Uniti come in campo energetico e nel settore
automobilistico. Al contrario, in Europa c’è molta “analisi” e poco
concreto “pragmatismo”.
Per il Giappone, occorre innanzitutto chiedersi quanto funzioni la
Abenomics. Come noto, questa politica (avviata più di un anno fa) è
basata su tre pilastri: politica monetaria espansiva, politica fiscale
espansiva e una terza freccia, detta delle riforme strutturali. Questo mix
ha come obiettivo quello di sconfiggere la deflazione, con un obiettivo
esplicito della politica monetaria in un consumer price index intorno al 2%,
e far ripartire in qualche modo l’economia. Il primo risultato ottenuto, di
fatto, è stato quello della svalutazione dello yen. E questo non è
sorprendente perché tutte le politiche monetarie espansive hanno, come
obiettivo più o meno dichiarato, quello di svalutare la moneta. Il
problema però è che non si possono svalutare “tutte” le monete e se più
o meno tutti puntano a svalutare la propria moneta allora il futuro che si
prospetta è quello di una guerra commerciale, anche se non nei termini
18
che magari conosciamo storicamente, ma certamente l’avvio di una
mancanza di collaborazione e di cooperazione si riflette anche su come si
comportano gli istituti internazionali preposti all’avvio e all’ottenimento
della cooperazione tra i paesi.
In Giappone vediamo comunque che la Abenomics, con il primo
risultato ottenuto della svalutazione dello yen, ha comunque consentito
una ripresa dell’inflazione. Per di più, dallo scorso mese di aprile, c’è
stato un aumento dell’imposta sui consumi dal 5 all’8% e questo ha dato
un’ulteriore spinta ai prezzi al consumo, anche se questa spinta sui
prezzi era in realtà già cominciata prima.
Pertanto la Abenomics, con la cosiddetta prima freccia rappresentata
da una politica monetaria espansiva, sta dando dei risultati vedi Fig. 9.
In realtà questa consumption tax, ha anche creato i presupposti per una
crescita maggiore dei consumi, in quanto gli stessi sono stati anticipati in
previsione dell’aumento dell’imposta.
19
Fig. 9. Giappone: la Abenomics aumenta l’Inflazione.
Source: Ministry of Internal Affairs and Communications/Haver Analytics
Gli ultimissimi dati sono stati rivisti anche rispetto a quelli presentati
nella Fig. 10, in cui il Pil del Giappone nel primo trimestre è stato rivisto
su base annua dal 5,9 al 6,7% con il grosso della revisione dovuta agli
investimenti in capitale. Evidentemente dietro questa ripresa giapponese
non c’è soltanto un primo trimestre spinto dai consumi anticipati a causa
dell’aumento dell’imposta, ma c’è anche una ripresa effettiva degli
investimenti.
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Fig. 10. Giappone: l’Imposta sui Consumi aumenta l’Inflazione.
Source: Cabinet Office of Japan / Haver Analytics
Quest’ultimo è un elemento da non sottovalutare, tanto più perché la
domanda interna, soprattutto quella delle famiglie, avrebbe bisogno di
più supporto, in quanto vediamo che sostanzialmente siamo ancora su
salari reali negativi e, nonostante la disoccupazione sia in calo di un paio
di punti negli ultimi due-tre anni e nonostante i bassi tassi di interesse,
sono peggiorate le aspettative delle imprese. La domanda interna
Giapponese, quindi, è a un bivio: da un lato ci sono dei risultati
incoraggianti, dall’altro le aspettative delle imprese non sono ancora
veramente volte al positivo e la domanda delle famiglie resta vincolata
da salari reali negativi. È evidente che lo yen debole da solo non basta a
risollevare l’economia giapponese, anche perché la competitività di
prezzo ormai non ha la stessa importanza sul mercato internazionale che
poteva avere quindici anni fa. Il Giappone non può pertanto essere
considerato fuori dal problema della deflazione in senso stretto.
Certamente sta migliorando, ci sono dei segnali positivi, ma, in assenza
di riforme strutturali che sarebbero la terza freccia, non appaiono
possibili performance notevolmente positive del Giappone, vedi Figg. 11
e 12.
21
Fig. 11. … ma occorre maggiore sostegno alla Domanda Interna…
Source: Ministry of Health, Labour and Welfare / Haver Analytics
22
Fig. 12. … la Crescita ha difficoltà a superare l’1%…
Source: Oxford Economics
Quindi abbiamo Stati Uniti molto forti, Giappone in miglioramento
ma non ancora fuori veramente da quello che è il loro andamento di
fondo che è quello vincolato al mercato di beni e servizi molto protetti.
Di conseguenza ci aspettiamo che il quantitative easing della Banca
centrale giapponese sarà esteso anche al 2015 nonostante fosse già di una
dimensione doppia di quella fatta negli Stati Uniti relativamente al Pil
rispettivo.
23
Fig. 13. Le Politiche espansive si estendono al 2015.
Source: Oxford Economics/Haver Analytics
Per la Cina abbiamo una previsione di crescita in decelerazione
rispetto a quella degli anni passati ed è stimata attorno a un 7%. Va
ricordato che il tasso di crescita minimo per la Cina, al fine di evitare
problemi interni di tipo sociale, va dal 5 al 6%. Pertanto, il 7% previsto
ora è ancora in un’area in cui la crescita appare sostenibile dal punto di
vista sociale. Potrebbe però essere una soglia-limite. Oltre al
rallentamento complessivo della crescita, appare inoltre necessario
valutare la necessità di un processo di ribilanciamento tra investimenti e
consumi. Gli investimenti erano arrivati ad essere oltre il 45% del Pil
cinese, quota chiaramente insostenibile nel lungo termine. Il Terzo
Plenum del Partito Comunista Cinese ha preso atto di questo problema
ed ha deliberato che gli investimenti dovranno ridursi e invece la
domanda interna dovuta ai consumi dovrà crescere in maniera
importante, Fig. 14.
24
Fig. 14. Cina – le previsioni indicano un riequilibrio “morbido”.
Source: Oxford Economics
Il processo è già avviato, ma chiaramente ci sono delle difficoltà,
perché se è “facile” ridurre l’investimento, non è altrettanto ovvio che si
possa spingere “automaticamente” sui consumi. Ecco perché, oltre al
problema del rallentamento della crescita, in Cina appare anche la
difficoltà, evidente, di spingere su i consumi. Tutto questo inoltre si
esprime in un contesto di un debito delle imprese non finanziarie molto
elevato ed il processo di deleveraging risulta molto lento.
Per dare una dimensione di quanto sia preoccupante questa
condizione, basta confrontare i dati con quelli dell’Eurozona per notare
che in Cina il debito è di circa quaranta punti percentuali di Pil più alto.
L’Eurozona a sua volta non ha fatto deleveraging negli ultimi anni, quindi
la situazione cinese in termini di debito delle imprese può comportare
problemi importanti sul settore bancario e finanziario in generale, Fig.
15.
25
Fig. 15. L’Indebitamento delle imprese peggiora.
Source: Oxford Economics / Haver Analytics BIS
Negli ultimi due anni c’è stata anche una forte crescita dello shadow
banking. Su questo aspetto le autorità cinesi sembrano ben coscienti ed
hanno già agito nel senso di una forte riduzione del fenomeno. Ma la
domanda che emerge è come si possa fare il deleveraging delle imprese e
allo stesso tempo ridurre lo shadow banking senza soffocare gli
investimenti che per altro sono già in riduzione per scelta “politica”.
(vedi Figg. 16 e 17)
26
Fig. 16. Come il Delevaraging e lo Shadow Banking…
Source: Oxford Economics / Haver Analytics
27
Fig. 17. … senza bloccare gli Investimenti?
Source: China National Bureau of Statistic / Haver Analytics
In un qualche modo, potrebbe pertanto emergere un non trascurabile
rischio di collasso improvviso di questo fragile equilibrio.
È un percorso di equilibrio molto stretto e quindi c’è un rischio di
coinvolgimento di tutto il sistema economico cinese.
Con il modello cinese della Oxford Economics, abbiamo fatto una
simulazione per valutare uno scenario alternativo basato sull’ipotesi di
una crisi economica che parta dal settore bancario e passi per l’intera
economia cinese. Nel caso dovesse veramente andare in crisi il sistema
bancario cinese, l’impatto sarebbe potenzialmente devastante: il tasso di
crescita potrebbe andare sotto al 2% e si aprirebbero prospettive
dirompenti sul piano sociale interno. Il nostro modello non è in grado di
valutare le conseguenze di una crisi sociale cinese che, però a quel
punto, potrebbe innescare una situazione che coinvolgerebbe l’intera
economia mondiale. E questo coinvolgerebbe tutte le economie avanzate
dell’occidente ma soprattutto i paesi emergenti.
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Fig. 18. I Paesi Emergenti sono influenzati dal rallentamento Cinese e
dall’assottigliamento USA.
Source: Haver Analytics
29
Fig. 19. … ed anche da Prezzi delle Materie Prime.
Source: Haver Analytics
I Paesi emergenti hanno già subito l’anno scorso un deflusso di
capitali, una flight to quality, di tutto il sistema finanziario globale che ha
portato in alto i rendimenti dei titoli in tutti i paesi considerati deboli e
fragili. Infatti, nell’estate scorsa in seguito all’annuncio del presidente
della Fed Bernanke dell’avvio del tapering, per alcuni di essi si è subito
determinata una situazione difficile e, fino a che non è stato avviato il
tapering vero e proprio secondo le tempistiche annunciate, non c’è stato
il rientro dei rendimenti, il reversal dei tassi di interesse, a condizioni più
normali (Figg. 20 e 21).
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Fig. 20. … ci sono ancora punti di vulnerabilità.
Source: Oxford Economics / Haver Analytics BIS
Bilancio partite correnti:
31
Fig. 21. … e le Riforme restano essenziali per molti Paesi Emergenti.
Source: World Bank. Doing Business Index 2013.
Facilità di fare business:
Ecco allora che, oltre alla eventuale crisi cinese, si profila il rischio che
il tapering americano, magari alimentato da motivi interni come un tasso
di disoccupazione negli Stati Uniti in riduzione più accelerata del
previsto, possa essere a sua volta accelerato e questo indurrebbe un
nuovo indebolimento delle posizioni finanziarie dei paesi emergenti,
rafforzato dal fatto che i prezzi delle merci sulle quali i mercati
emergenti contano molto sono piuttosto deboli negli ultimi anni.
Questo rischio conseguente a un eventuale flight to quality o a una crisi
cinesi, appare più evidente per quei paesi emergenti che nel 2013 hanno
avuto una posizione di conto corrente della loro bilancia dei pagamenti
assolutamente deteriorata rispetto a quella che avevano otto-dieci anni
fa. Il deterioramento delle bilance dei pagamenti è fenomeno comune
per tutti i paesi emergenti ma, evidentemente, quelli cosiddetti fragili
sono Indonesia, India, Brasile, Sud Africa, Turchia, cioè quelli che hanno
subito maggiormente il problema della flight to quality. Questa loro
vulnerabilità è basata anche sul fatto che le loro economie presentano
debolezze strutturali ed intrinseche, come messo in rilievo dal survey
32
della Banca Mondiale del ease of doing business dove vediamo che i Brics
sono in posizioni decisamente arretrate (la Russia è al 92esimo, l’India è
al 134esimo e gli altri stanno tra il 90esimo e il 134esimo). Ciò detto però,
una crisi che coinvolga tutta l’area dei paesi emergenti è improbabile
perché, anche escludendo la Cina, la media del loro conto corrente di
bilancia dei pagamenti è positiva rispetto al loro Pil. Quindi, anche se è
vero che ci sono alcuni paesi fragili che potrebbero essere soggetti ai
rischi crisi prima indicati, nel complesso non si dovrebbe innescare un
effetto epidemico sul resto degli altri e sul resto del mondo, Fig. 22.
33
Fig. 22. … ma una estensione della crisi è improbabile.
Source: Oxford Economics.
Mercati Emergenti, Bilancio partite correnti:
Nella Zona Euro la ripresa si sta gradualmente manifestando. Sia gli
ordini che il tasso di utilizzo della capacità produttiva in qualche modo
danno dei segnali incoraggianti, anche se paesi come l’Italia e la Francia
sul piano del livello di utilizzo della capacità produttiva sono
decisamente al di sotto dei livelli che avevano rispettivamente prima
della crisi, quindi restano con un’output gap importante e con rischi di
prezzi in discesa, Figg. 23 e 24.
34
Fig. 23. La ripresa dell’Area Euro si rafforza gradualmente.
Source: Markit.
Indice PMI:
35
Fig. 24. Gli Ordini e l’Utilizzo della Capacità indicano una svolta…
Source: Haver Analytics.
A sinistra: Eurozona, nuovi ordini manifatturiero.
A destra: Europa, capacità produttiva
Rimane però evidente il problema fondamentale dell’Eurozona che è
il livello di disoccupazione. Soltanto l’India, tra i paesi di una certa
dimensione, è al di sopra della media Eurozona che è intorno all’11%,
con l’eccezione della Germania, mentre quella mondiale è intorno al 7%,
Fig. 25.
36
Fig. 25. … ma la Disoccupazione resta un problema dell’Area Euro.
Source: Oxford Economics.
Tasso disoccupazione:
Nonostante i segnali positivi sul manifatturiero, infatti, l’accesso al
credito è ancora in forte riduzione (e non è un problema soltanto italiano
o spagnolo, ma riguarda anche la Germania) e addirittura il tasso di
variazione annuo dell’accesso al credito è negativo da parecchi trimestri,
mentre invece negli Stati Uniti è decisamente in crescita, Fig. 26.
37
Fig. 26. AREA EURO: accesso al credito ancora in riduzione.
Source: IMF, World Economic Outlook, April 2014.
Crescita credito aziende non finanziarie e famiglie:
Per ottenere un miglioramento di questa situazione (e quindi un
riavvio del credito), sarà importante vedere un aggiustamento nei
bilanci delle banche anche perché senza questo è difficile riavviare il
credito alle imprese.
Restano inoltre problemi di competitività in Europa. Il costo del
lavoro per unità di prodotto non è l’unico indicatore che determina la
competitività, però vediamo che dal 2005 è stato in crescita abbastanza
sostenuta quando dal 2000 in poi negli Stati Uniti e nei Brics è rimasto
pressoché costante, Fig. 27.
38
Fig. 27. AREA EURO: il costo del lavoro frena la competitività.
Source: Havor Analytics.
Eurozona: costo del lavoro per unità di prodotto
L’unico paese che ha veramente fatto un forte aggiustamento in
termini di Clup è la Spagna, però, come sappiamo, a scapito di un tasso
di disoccupazione oltre il 25%. È un processo complicato, ma non
possiamo non considerare questi numeri che chiaramente mettono
l’impresa europea in una posizione di svantaggio rispetto ai principali
competitori del mondo.
Chiudiamo questa nostra presentazione con un ultimo rischio che si
sta profilando in Europa, quello della deflazione.
Nella nostra previsione di base l’inflazione in Europa rimane bassa
intorno all’1–1,5% e quindi in linea con quello che ci ha confermato il
Presidente della Bce Mario Draghi. Vediamo però una lentezza nella
tempistica di intervento della stessa Banca Centrale Europea. Le
decisioni prese sono giuste, ma, a fronte di un euro troppo forte, una
domanda interna debole, un’output gap, il risultato non può che essere
un rischio di deflazione, a fronte anche delle difficoltà di accesso al
credito. Ad oggi abbiamo un tasso di inflazione dello 0,7% per il 2014 e,
39
se questa è la previsione, significa che da adesso in poi addirittura
scenderà ancora.
Il problema vero della deflazione, però, è che va anticipata. Una volta
che ci si trova dentro, si rischia di fare come il Giappone che è rimasto
per vent’anni a combattere questo mostro che si automangia l’economia.
Quindi la tempistica di quello che ha fatto finora la Banca Centrale
Europea ci sembra non adeguata ed anche le misure prese a giugno (che
sono sicuramente giuste) di fatto partiranno da settembre e la parte degli
interventi destinata al miglioramento dell’accesso al credito è basata
sull’accesso al credito risultante al 30 aprile 2014 e questo significa che,
proporzionalmente, alle banche tedesche verrà data più possibilità di
accesso al credito rispetto a quelle dei paesi periferici.
Quella della Bce, pertanto, è una politica monetaria giusta, ma non
tiene conto dei problemi di velocità nel tempo e di distribuzione tra le
varie aree degli interventi, Fig. 28.
40
Fig. 28. Bassa Inflazione vicina … alla Deflazione.
Source: Oxford Economics.
Eurozona: inflazione
Presentiamo pertanto, nella Fig. 29, le nostre Previsioni di Base.
In sintesi, si può dire che l’attività globale si sta rinforzando, le
economie avanzate stanno migliorando, mentre appare una staffetta tra
paesi emergenti e paesi avanzati in termini di crescita, con rischi che
sono ancora prevalenti sul lato negativo. Il Giappone con la Abenomics
da qualche segno di miglioramento. La Cina, che sta riducendo i rischi
che abbiamo indicato, potrebbe però, con una crisi bancaria, far detonare
un problema a livello globale, Figg. 30 e 31.
41
Fig. 29
Conclusioni
Attività Globale si rafforza:
Economia avanzate migliorano
Paesi Emergenti affetti da uscita di capitali
Rottura dell’Euro e baratro fiscale sono fuori agenda, ma i
rischi sono ancora rivolti al peggioramento
La ripresa in USA ed Europa migliora, ma con rischi di deflazione
Giappone – La “Abenomics” fa progressi, ma manca la Terza Freccia
Cina – La crescita rallenta, le riforme programmate possono evitare
una crisi severa, ma restano rischi di crollo degli investimenti e di crisi
bancaria
42
Fig. 30. PREVISIONI CRESCITA PIL.
Source: Oxford Economics
2012 2013 2014 2015 2016
US
2.8
1.9
2.4
3.3
3.2
Canada
1.7
2.0
2.2
2.6
2.7
Japan
1.4
1.6
1.1
1.1
0.8
Eurozone
-0.6
-0.4
1.1
1.5
1.5
of which:
—
—
—
—
—
— Germany
0.9
0.5
2.0
1.8
1.5
— France
0.0
0.3
0.7
1.1
1.3
— Italy
-2.4
-1.8
0.3
1.2
1.3
— Spain
-1.6
-1.2
1.1
1.6
1.8
UK
0.3
1.7
3.0
2.5
2.6
Russia
3.4
1.4
0.3
1.4
3.1
China
7.7
7.7
7.1
6.9
7.1
India
4.8
4.6
4.7
4.9
6.1
Other Asia
2.7
3.6
4.4
5.1
5.0
Mexico
3.7
1.3
3.4
3.8
3.9
Brazil
1.0
2.3
1.4
1.9
2.5
Other Latin America
3.7
3.2
2.6
3.0
3.7
Eastern Europe
2.1
1.6
1.9
2.1
3.3
MENA
4.2
3.7
4.2
4.6
4.8
World
2.4
2.2
2.7
3.1
3.2
World (PPP)
3.1
3.0
3.3
3.7
4.0
43
VIII rapporto sull’economia italiana, 2014–2018
Mario Baldassarri, Economia Reale
I. Le analisi
44
Premessa
All’inizio degli anni duemila, “austerità” e “rigore finanziario” sono stati
termini profusi a piene mani per indicare le linee di politica economica
che i vari governi intendevano perseguire. In aggiunta “ce lo impone
l’Europa” era ed è tuttora l’apparente “vincolo esterno” al quale l’Italia
dovrebbe soggiacere.
La realtà dei numeri ufficiali mostra invece che non si è fatta né
austerità né rigore finanziario. Al contrario si è avuto un continuo
aumento della spesa pubblica corrente che in specifiche voci contiene
sprechi, malversazioni e ruberie per almeno 50 miliardi di euro all’anno
e che vanno a “foraggiare” le tante congreghe, consorterie, lobbie e logge
variegate e trasversali rispetto a pressoché tutte le forze politiche e
sociali.
La necessità di almeno far finta di perseguire un qualche equilibrio
finanziario del bilancio pubblico (sia per i vincoli europei, sia per i
dirompenti effetti che la continua crescita del debito pubblico ha
determinato e può ancora determinare sui mercati finanziari
internazionali) si è pertanto “scaricata” su un continuo imponente
aumento delle tasse, associato a tagli di spesa effettuati esclusivamente
sugli investimenti pubblici.
La presenza di una evasione fiscale stimata da anni superiore a 100
miliardi di euro ha avuto come conseguenza che l’aumento delle tasse è
andato a gravare ancor di più e sempre più sui soliti noti tartassati.
Sta di fatto quindi che il pesante macigno del Debito Pubblico, ben
evidente all’inizio dello scorso decennio, non è stato minimamente
affrontato ed ha continuato a crescere senza freni. L’aumento delle tasse
infatti, nonostante la contestuale riduzione degli investimenti pubblici,
non è mai stato sufficiente a rincorrere l’aumento della spesa corrente. Si
è quindi continuato ad avere, anno dopo anno, deficit pubblico ed
accumulo ulteriore di Debito Pubblico.
È bene allora capire quando, come e perché l’attuale macigno del
Debito si è determinato.
Per questa ragione, nel primo paragrafo di questa prima parte di
analisi, si ripercorre il profilo del Debito Pubblico Italiano dall’Unità
d’Italia ad oggi, cercando di individuare le radici temporali e causali che
hanno costruito quel moloch che ci troviamo oggi di fronte e che stiamo
lasciando “ancora crescente” alle prossime generazioni.
45
Negli ultimi mesi, molti protagonisti di questi anni tentano di
contrabbandare l’idea che loro avevano previsto tutto correttamente e si
scagliano contro i “vincoli europei”, in particolare contro l’ottusità e
l’egoismo della Germania e della Signora Merkel, tentando
maldestramente di scaricare “all’estero” le colpe delle mancate “riforme
interne” italiane e delle loro decisioni di politica economica che si sono
dimostrate “per tabula” contrarie agli stessi apparenti annunci di
austerità e rigore.
Questa è la sintetica “tesi” che schematizza quel circolo perverso
costituito da più spesa corrente, più tasse, meno investimenti che ha
portato, nel corso dell’ultimo decennio, la crescita italiana sotto zero e la
disoccupazione ai livelli record del 13% nella media nazionale ed al 45%
tra i giovani.
Sulla base dei dati ufficiali del Ministero dell’Economia e delle
Finanze, nei successivi paragrafi 2–4 si riporta la “dimostrazione” della
“tesi”.
46
1
Il Debito Pubblico dall’Unità d’Italia ad oggi: quando,
come, perché abbiamo fatto debiti (1861–2013)
Dall’Unità d’Italia ad oggi il Debito passa da 1 milione di euro del 1861 a
100 milioni nel 1940 fino ad arrivare a 10 miliardi nel 1968. L’andamento
dirompente del Debito “appare” pertanto all’inizio degli anni settanta,
superando i 1000 miliardi nel 1994 ed i 2000 miliardi nel 2013, duecento
volte di più rispetto al 1968.
47
Fig. 1. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI EURO (1861–2013)
Negli stessi 152 anni, il PIL passa da 4 milioni di euro del 1861 a 113
milioni nel 1940 per poi salire a 28 miliardi di euro nel 1968, a 878
miliardi nel 1994 ed a 1560 miliardi di euro nel 2013, 55 volte in più
rispetto al 1968.
48
Fig. 2. PIL IN MILIONI EURO (1861–2013)
Pertanto l’andamento “storico” del rapporto tra Debito Pubblico e PIL
dall’Unità d’Italia ad oggi è il seguente.
49
Fig. 3. RAPPORTO DEBITO/PIL 1861–2013
Nel 1861 il rapporto Debito/PIL era pari a 37%. È poi salito anno
dopo anno fino a superare il 100% nel 1876 (quando raggiunse il 105%)
per poi scendere al 93% nel 1880 e riprendere a salire sopra il 100% tra il
1881 ed il 1904, con un picco del 126% nel 1894. Dal 1905 fino al 1913, il
rapporto scende al 74%.
Poi c’è la Prima Guerra Mondiale ed il rapporto sale dall’83% del
1914 al “picco storico assoluto” del 160% nel 1920. Nel 1926 si scende al
95% e fino alla fine degli anni trenta si oscilla un po’ sotto e un po’ sopra
il 100%.
Poi c’è la Seconda Guerra Mondiale. Entriamo in guerra con un
rapporto Debito/PIL dell’86% e nel 1943 si sale al 113%. La grande
inflazione dell’immediato dopoguerra riduce tale rapporto all’88% già
nel 1944 e al 25% nel 1947.
La successiva stabilizzazione impressa da Luigi Einaudi e continuata
nel successivo ventennio mantiene il dato oscillante attorno al 30%.
A partire dal 1969 inizia la continua ed inarrestabile esclation del
Debito Pubblico italiano ed il rapporto con il PIL raggiunge il 105 % nel
1992 (prima crisi della lira) ed il 121% nel 1996. Viene attuata un terapia
di contenimento che dieci anni dopo riduce il rapporto al 103% del 2007.
50
Dal 2008 però il Debito riprende a salire più del PIL ed il rapporto si
colloca al 137% del 2013.
Rispetto al 1968, il rapporto Debito/PIL risulta pertanto aumentato
di oltre quattro volte.
Dopo la sintetica analisi sui 152 anni passati, proponiamo qui di
seguito un maggiore dettaglio sui grandi sotto periodi della nostra storia
unitaria.
Dall’Unità d’Italia al 1914, il Debito Pubblico passa da 1 a 10 milioni
di euro.
51
Fig. 4. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1861–1914)
Nello stesso periodo il PIL passa da 4 a 12 milioni di euro.
52
Fig. 5. PIL IN MILIONI DI EURO (1861–1914)
Di conseguenza, il rapporto Debito/PIL cresce fino ad arrivare
attorno al 120% all’inizio del novecento, per poi tornare a scendere
attorno all’80% prima della Prima Guerra Mondiale.
53
Fig. 6. RAPPORTO DEBITO/PIL (1861–1914)
Con la Prima Guerra Mondiale (1914–1918) il Debito passa da 10 a 100
milioni di euro, poi si riduce della metà al 1932 ed all’inizio della
Seconda Guerra Mondiale (1940) ritorna verso i 100 milioni di euro.
54
Fig. 7. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1914–1940)
Nello stesso periodo il PIL cresce dai 12 milioni del 1914 ai 90 milioni
del 1926, per scendere ai 81 milioni nel 1929 subendo la grande
depressione degli anni trenta che lo riduce a 55 milioni nel 1934. Poi
riprende a salire fino a 113 milioni di euro nel 1940, prima dello scoppio
della Seconda Guerra Mondiale.
55
Fig. 8. PIL IN MILIONI DI EURO (1914–1940)
All’inizio della Prima Guerra Mondiale il rapporto Debito/PIL si
colloca all’83%. A fine guerra appare salito al 97% (1918). Ma è nel
dopoguerra che subisce una violenta impennata fino a salire al 160% nel
1920 ed oscillare attorno al 150% fino al 1924. Si ritorna sotto il 100%
soltanto nel 1926, si risale al 117% nel 1930 per poi riscendere all’86% nel
1940.
56
Fig. 9. RAPPORTO DEBITO/PIL (1914–1940)
Poi c’è la Seconda Guerra Mondiale, il Debito aumenta e passa dai
100 milioni del 1940 a circa 1 miliardo di euro del 1948, con un aumento
di circa dieci volte.
57
Fig. 10. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1940–1948)
Entriamo in guerra con un PIL di 113 milioni di euro che diventano
228 nel 1943 che poi si raddoppiano di anno in anno a seguito della
grande inflazione post-bellica ed arrivano a 447 milioni nel 1944, 829 nel
1945, 1860 nel 1946, 3597 nel 1947 e 4234 nel 1948. Pertanto, tra il 1940 ed
il 1948 il PIL italiano cresce in termini nominali di 37 volte.
58
Fig. 11. PIL IN MILIONI DI EURO (1940–1948)
Ed il rapporto Debito PIL sale dall’86% del 1940 al 113% nel 1943 per
poi scendere vorticosamente sotto il 30% in pochi anni (25% nel 1947 e
29% nel 1948).
Pertanto tale rapporto si riduce di poco meno che quattro volte.
59
Fig. 12. RAPPORTO DEBITO/PIL (1940–1948)
Certo, anche nel secondo dopoguerra si forma Debito, da 1 miliardo
del 1948 a 10 miliardi nel 1968, ma in quei primi venti anni del secondo
dopoguerra il PIL cresce in termini reali in modo sostenuto e passa, in
valore nominale, dai 4 miliardi di euro del 1948 ai 28 miliardi del 1968.
60
Fig. 13. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1940–1968)
61
Fig. 14. PIL IN MILIONI DI EURO (1948–1968)
Di conseguenza il rapporto Debito/PIL presenta un profilo pressoché
stabile ed oscilla tra il 30 ed il 35%, con una punta verso il basso sotto il
30% dopo il grande boom dei primi anni sessanta.
62
Fig. 15. RAPPORTO DEBITO/PIL (1948–1968)
Nel primo ventennio del dopoguerra pertanto si produce un aumento
di Debito Pubblico in valore assoluto, mantenendo però pressoché
costante il suo rapporto con il PIL sotto una soglia di tutta tranquillità.
Per di più, il Bilancio Pubblico presenta un Avanzo di Parte Corrente e
quindi quel Debito è relativo esclusivamente ad Investimenti Pubblici
che, per altro, furono in parte finanziati proprio dall’Avanzo Corrente di
Bilancio, ciò che in economia è chiamato Risparmio Pubblico. Ma … cosa
è avvenuto dopo?
Nel 1968 avviene anche in Italia la cosiddetta rivolta studentesca, nel
1969 l’autunno “caldo” delle forze sindacali. Sempre nel 1969 si adotta la
riforma pensionistica intestata al ministro del Lavoro Brodolini (Legge
40 aprile 1969, n.153) che introduce il sistema a ripartizione per tutti e
cioè il calcolo della pensione sulla base dell’ultimo stipendio percepito
indipendentemente dai contributi sociali versati. E poiché allora, a fronte
di un pensionato, esistevano quattro lavoratori attivi che pagavano
contributi si pensò che il sistema potesse essere in equilibrio fissando al
25% l’aliquota contributiva (oggi stiamo andando ad un rapporto 1 a 1
tra pensionati e lavoratori). Per di più si introdussero le pensioni di
anzianità con 35 anni di contributi e vincoli di età molto limitati. Un paio
63
di anni dopo il governo “centrista” Andreotti-Malagodi, seguito dal
governo di centro-sinistra Rumor-La Malfa, introduce le cosiddette
“pensioni baby”.
Nel 1970 si introduce lo Statuto dei lavoratori (Legge 20 maggio 1970,
n 300). Quasi contestualmente e sempre nel 1970, vengono eletti per la
prima volta i Consigli Regionali ed entrano in funzione le Regioni
Ordinarie.
Nel 1971–73 viene varata la riforma fiscale che assegna allo stato il
compito di raccogliere più del 90% delle tasse e trasferisce alle neonate
Regioni la facoltà di decidere quasi il 50% della spesa pubblica,
scollegando quindi la responsabilità politica tra spese ed entrate.
Nel 1974 lo Stato si accolla dei debiti delle mutue ed introduce il
Sistema Sanitario Nazionale assegnando alle Regioni in totale autonomia
di spesa la gestione della sanità italiana.
Infine, il 4 Febbraio 1975 Lama (CGIL) ed Agnelli (Confindustria)
firmano l’accordo sul punto unico di scala mobile.
Forse gli eventi appena evocati non sono direttamente e tra loro
collegati, ma certamente messi insieme possono aiutare a capire perché a
partire dai primi anni settanta appare nel Bilancio Pubblico Italiano un
drago silenzioso, soporifero e malefico, il Deficit di Parte Corrente
(distruzione di Risparmio Nazionale da parte del Bilancio Pubblico), cioè
il totale delle tasse non basta neanche a coprire la Spesa Corrente.
Il Debito passa da 10 miliardi del 1968 agli oltre 2000 miliardi del 2013
senza soluzione di continuità.
Per di più questo Debito si forma largamente per il finanziamento
della Spesa Corrente.
Il precedente ventennio (1948–1968), che aveva visto prodursi un
Risparmio Pubblico positivo che si aggiungeva al Risparmio Privato ed
assegnava all’Italia un record mondiale insieme al Giappone, viene
seguito da oltre quarant’anni di continua “distruzione di risparmio” da
parte del Bilancio Pubblico attraverso il pressoché continuo Deficit di
Parte Corrente.
64
Fig. 16. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1968–2013)
Ma questa continua erosione della base produttiva del paese che
avviene attraverso una struttura perversa del bilancio pubblico, non fa
rilevare i suoi effetti nel breve termine. Il PIL continua a crescere, anche
perché alimentato dalla grande inflazione degli anni settanta, dai 28
miliardi di euro del 1968 agli 806 miliardi del 1992. La grave crisi della
lira di quell’anno determina la necessità di manovre correttive, che però,
avvenendo in gran parte in termini di aumento della tassazione,
aggiungono un effetto frenante alla crescita economica. Il PIL pertanto
arriva a 1.000 miliardi nel 1996 fino ad un picco di 1567 nel 2008, per poi
ridursi e stagnare in termini nominali nel successivo quinquennio.
65
Fig. 17. PIL IN MILIONI DI EURO (1968–2013)
Di conseguenza il rapporto Debito/PIL si impenna e da circa 35% del
1968 vola al 122% del 1994 per poi ridursi al 104% nel 2004 e risalire
negli ultimi nove anni fino a sfiorare il 140%.
66
Fig. 18. RAPPORTO DEBITO/PIL (1968–2013)
A partire dal 2000, da quando cioè abbiamo cominciato a parlare di
RIGORE ed AUSTERITÀ, il Debito Pubblico è passato da 1300 ad oltre
2100 miliardi di euro.
67
Fig. 19. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (2000–2013)
Il PIL, che nel 2000 era attorno a 1.200 miliardi di euro, cresce nella
prima parte del periodo e si attesta poco sopra i 1.500 miliardi nel 2007.
Da quell’anno è pressoché fermo in valore nominale e si riduce di circa il
10% in termini reali.
68
Fig. 20. PIL IN MILIONI DI EURO (2000–2013)
Il rapporto Debito/PIL oscilla attorno e sopra il 105% fino al 2007,
dopodiché assume un pericoloso e continua andamento crescente fino a
sfiorare il 140% nel 2013.
69
Fig. 21. RAPPORTO DEBITO/PIL (2000–2013)
Il “circolo perverso” indicato in premessa erode, anno dopo anno, la
base produttiva dell’economia italiana.
Come indicato, il Pil cresce fino al 2007 poi si ferma e non riprende il
livello dello stesso 2007 se non oltre il 2018 … se tutto va bene. E
comunque avremo perso 708 miliardi di Pil che si sarebbero prodotti
secondo i trend di crescita verificatosi dal 2000 al 2007 pari ad un
incremento nominale annuo del Pil del 3,6%.
70
Fig. 22. PIL IN MILIONI DI EURO (1970–2013 E PREVISIONI AL 2018)
Di conseguenza il Rapporto Debito/Pil cresce da meno del 40% del
1970 ad oltre il 120% del 1994. Ed abbiamo la prima grave crisi della lira
del biennio 92/93.
Poi si riduce fino al 2007, torna a crescere, supera il picco del ’94 nel
2011 quando si è rischiato il punto del non ritorno con lo spread tra BTP
e BUND che sfiora i 600 punti base nel novembre 2011.
E, considerando anche i debiti della PA non pagati alle imprese,
continua a crescere verso il 140%!!!
71
Fig. 23. RAPPORTO DEBITO/PIL (1970–2013)
Come sarà più analiticamente illustrato nella parte Previsioni del
Rapporto, le prospettive di crescita per l’economia italiana tra il 2014 ed
il 2018 appaiono molto modeste e estremamente fragili. Per contro il
Debito Pubblico è destinato a continuare il suo andamento crescente che
lo collocherà un po’ attorno ai 2.300 miliardi di euro nel 2018.
72
Fig. 24. DEBITO PUBBLICO (1968–2013 E PREVISIONI AL 2018)
Il PIL in valore nominale tende a mantenersi in crescita molto
modesta ed il recupero dei valori reali del PIL del 2007 e il ritorno alla
disoccupazione del 7% di quell’anno appaiono collocarsi attorno al
2022/2023.
73
Fig. 25. PIL IN MILIONI DI EURO (1970–2013 E PREVISIONI AL 2018)
Pertanto, pur con una lieve riduzione rispetto al picco del 2014–2015,
il rapporto Debito/PIL tende a mantenersi oltre il 130% fino al 2018.
74
Fig. 26. RAPPORTO DEBITO/PIL. 1968–2013: DATI STORICI; 2014–2018:
PREVISIONI BASE
In conclusione, vogliamo qui proporre un “ragionamento” ed alcune
valutazioni rispetto a quanto la fase di recessione vissuta dal 2007 ad
oggi ci abbia fatto perdere in termini di PIL che avremmo potuto
potenzialmente ottenere solo se fossimo riusciti a mantenere la crescita
media della prima parte degli anni duemila.
Infatti, se avessimo mantenuto il trend di crescita del Pil della media
degli anni 2000–2007, avremmo ottenuto al 2018 un maggiore PIL pari a
708 miliardi di euro e se non avessimo perso questi 708 miliardi di Pil
dello stesso trend, il rapporto Debito/Pil avrebbe avuto un andamento
del tutto diverso: avrebbe avuto un picco massimo del 112,5% nel 2014 e
sarebbe sceso sotto il 100% nel 2018. Pertanto nel 2015, anno di partenza
delle prescrizioni del Fiscal Compact che impegnano l’Italia a ridurre il
rapporto Debito/Pil del 5% all’anno per venti anni, saremmo risultati in
perfetta linea con quelle prescrizioni senza dover effettuare ulteriori
manovre correttive.
75
Fig. 27. PIL GAP IN MILIONI DI EURO. 1968–2013: DATI STORICI E PREVISIONI
BASE; 2008–2018: DATI INCLUSIVI TREND CRESCITA PIL
76
Fig. 28. RAPPORTO DEBITO/PIL GAP. 1968–2013: DATI STORICI; 2008–2018:
DATI INCLUSIVI TREND CRESCITA PIL
77
2
Bilancio Pubblico: i dati “storici” 2000–2012 (BerlusconiTremonti, Prodi-PadoaSchioppa, Monti-Grilli)
In un paese normale il dibattito sui dati storici dovrebbe essere riferito
alla cruda realtà degli stessi dati storici. Per nostra fortuna questi sono
disponibili ufficialmente sul sito del Ministero dell’Economia e delle
Finanze e non possono essere più manipolati.
Si è riprodotto nella tav. 1 l’andamento dei dati di finanza pubblica
per il periodo 2000–2012, verificando i dati relativi ai tre diversi governi
che si sono succeduti in quegli anni.
Nel periodo, il totale delle entrate pubbliche è aumentato di 228
miliardi di euro a fronte di un aumento totale della spesa pubblica di 269
miliardi, con una spesa corrente aumentata di 274 miliardi ed una spesa
in conto capitale ridotta in valore assoluto di 5 miliardi di euro. Pertanto,
l’imponente aumento delle tasse è andato a finanziare totalmente
aumenti di spesa corrente e per di più si è ulteriormente alimentato
Deficit e Debito Pubblico. Poiché l’aumento di spesa ha riguardato le
spese correnti a fronte di un taglio di investimenti, abbiamo continuato
ad alimentare il Debito per fronteggiare spesa corrente e non
capitale/investimenti pubblici.
In queste condizioni strutturali di finanza pubblica è evidente che
l’impatto sull’economia reale non può che essere quello di ridurre
sempre più nel tempo la crescita dell’economia e i livelli di occupazione,
alimentando una crescente e dirompente disoccupazione che, trovando
vincoli e protezioni nel mercato del lavoro degli occupati più anziani,
scarica gran parte dei suoi effetti sul dilagare della disoccupazione
giovanile.
Negli otto anni di governo Berlusconi-Tremonti, le tasse sono
aumentate di 156 miliardi e la spesa corrente di 206 miliardi di euro, con
una media annua rispettivamente pari a 20 e 26 miliardi.
Nei due anni di Governo Prodi-PadoaSchioppa, le entrate totali sono
aumentate di 52 miliardi e le spese correnti di 60 miliardi, con una media
annua pari rispettivamente a 26 e 30 miliardi di euro.
Nell’anno di governo Monti-Grilli, le tasse sono aumentate di 20
miliardi e la spesa corrente 8 miliardi.
78
Tavola 1. RIGORE ED AUSTERITÀ NEGLI ANNI DUEMILA, 2000–2012
miliardi di
euro
TOTALE ENTRATE
PUBBLICHE
TOTALE SPESA
PUBBLICA
TOTALE SPESA
CORRENTE
ANNO 2000
536
536
485
ANNO 2012
764
805
759
MEDIA
PER
ANNO
VALORE
ASSOLUTO
MEDIA
PER
ANNO
24
274
25
233
29
206
26
26
29
15
60
30
20
7
7
8
8
miliardi di euro
VALORE
ASSOLUTO
VALORE
ASSOLUTO
AUMENTO TOTALE 2012 RISPETTO
A 2000
228
21
269
8 ANNI DI GOVERNO BERLUSCONITREMONTI (2001-2006; 2008-2011)
156
20
2 ANNI DI GOVERNO PRODIPADOASCHIOPPA (2006-2008)
52
1 ANNO DI GOVERNO MONTIGRILLI (2011-2012)
20
MEDIA
PER
ANNO
DI CUI:
79
3
Tre DEF a confronto: Monti-Grilli, Letta-Saccomanni,
Renzi-Padoan
3.1. Il quadro macro dell’economia e della finanza pubblica
Nel mese di Aprile del 2011 il governo Berlusconi-Tremonti presentò il
DEF-Documento di Economia e Finanza. A seguito dei dirompenti
andamenti dei mercati finanziari, nel corso di luglio e di agosto, lo stesso
governo varò due successivi decreti “tampone”. Nel settembre fu poi
pubblicata la Nota di Aggiornamento del DEF alla luce dei decreti varati
in precedenza e della Legge di Stabilità per il 2012.
Nel novembre 2011, a fronte della gravissima crisi finanziaria che
portò lo spread a sfiorare i 600 punti base, il governo BerlusconiTremonti si dimise e si varò il governo tecnico di Monti-Grilli seguito,
dopo le elezione politiche del febbraio 2013, dai governi LettaSaccomanni e Renzi-Padoan.
Pertanto, dopo aver visto i numeri del precedente decennio, vediamo
ora i “numeri” dei successivi tre governi espressi nei rispettivi DEF.
Nel complesso, i tre DEF a confronto mettono in evidenza una
successiva correzione al ribasso delle prospettive di crescita e di
occupazione (vedi Tavole 2–6)
80
Tavola 2. PIL IN VALORE ASSOLUTO NOMINALE
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
1642 1697 1755
NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011 1622 1665 1714
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
1566 1573 1624 1678 1731 1786
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
1566 1557 1603 1661 1718 1780
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
1566 1560 1587 1627 1677 1731 1789
— DIFF. B APRILE-SETTEMBRE
-20
-32
-41
— DIFF. M-B SETTEMBRE
-56
-92
-90
— DIFF. L-M
0
-16
-21
-17
-13
-6
— DIFF. R-L
0
3
-16
-34
-41
-49
81
Tavola 3. TASSO DI CRESCITA DEL PIL REALE
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
1,3
1,5
1,6
NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011
0,6
0,9
1,2
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
-2,4
-1,3
1,3
1,5
1,3
1,4
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
-2,4
-1,7
1
1,7
1,8
1,9
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
-2,4
-1,9
0,8
1,3
1,6
1,8
1,9
PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE
-2,4
-1,9
0,2
1,3
1,5
1,4
1,4
— DIFF. B APRILE-SETTEMBRE
-0,7
-0,6
-0,4
-3
-2,2
0,1
— DIFF. L-M
0
-0,4
-0,3
0,2
0,5
0,5
— DIFF. R-L
0
-0,2
-0,2
-0,4
-0,2
-0,1
— DIFF. ER-R
0
0
-0,6
0
-0,1
-0,4
— DIFF. M-B SETTEMBRE
82
-0,5
Tavola 4. TASSO DI DISOCCUPAZIONE
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
8,3
8,2
8,1
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
10,7 11,6 11,8 11,6 11,4 10,9
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
10,7 12,2 12,4 12,1 11,8 11,4
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
10,7 12,2 12,8 12,5 12,2 11,6 11,0
PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE
10,7 12,2 13,1 12,9 12,7 11,9 11,4
— DIFF. M-B APRILE
2,4
3,4
3,7
— DIFF. L-M
0
0,6
0,6
0,5
0,4
0,5
— DIFF. R-L
0
0
0,4
0,4
0,4
0,2
— DIFF. ER-R
0
0
0,3
0,4
0,5
0,3
83
0,4
Tavola 5. TOTALE OCCUPATI
2012
2013
2014
2015
2016
2017
2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
24438 24560 24707
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
22881 22789 22880 23040 23178 23363
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
22881 22469 22244 22444 22646 22872
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
22881 22469 22244 22444 22646 22872
PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA
REALE
22881 22483 22364 22443 22576 22709 22835
— DIFF. M-B SETTEMBRE
-1557 -1771 -1827
— DIFF. L-M
0
-320
-636
-596
-532
-491
— DIFF. R-L
0
0
0
0
0
0
— DIFF. ER-R
0
14
120
-1
-70
-163
84
Tavola 6. TOTALE DISOCCUPATI
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
2760 2757 2754
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
2827 3138 3144 3138 3132 3116
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
2827 3157 3163 3154 3144 3131
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
2827 3223 3276 3197 3118 3012
PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE 2827 3242 3393 3335 3190 3041 2899
— DIFF. M-B SETTEMBRE
67
381
390
— DIFF. L-M
0
19
19
16
— DIFF. R-L
0
66
113
43
— DIFF. ER-R
0
19
117
138
12
15
-26 -119
72
29
A fronte di questo peggioramento dell’economia reale, gli andamenti
di finanza pubblica riproducono la “struttura” della politica economica
del precedente periodo 2000–2012 e cioè aumenti di tasse che vanno a
finanziare ulteriori aumenti di spesa corrente con tagli di investimenti
pubblici. In questi ultimi anni però, ed in prospettiva anche nei prossimi,
l’aumento delle tasse supera l’aumento della spesa corrente ed in parte
va a contenere il Deficit Pubblico, che comunque non si azzera mai, e
pertanto continua l’aumento del Debito Pubblico e solo tra tre o quattro
anni, nelle previsioni del MEF, si potrà vedere una lenta riduzione del
rapporto tra Debito Pubblico e PIL (vedi Tavole 7–10).
85
Tavola 7. DEFICIT PUBBLICO VALORE ASSOLUTO
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
45
46
46
NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011
25
2
-3
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
48
45
28
29
23
18
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
48
49
37
30
21
12
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
48
47
42
33
25
15
6
PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE
48
47
47
41
35
30
26
-20
-44
-49
23
43
31
— DIFF. B APRILE-SETTEMBRE
— DIFF. M-B SETTEMBRE
— DIFF. L-M
0
4
9
1
-2
-6
— DIFF. R-L
0
-2
5
3
4
3
— DIFF. ER-R
0
0
5
8
10
15
86
20
Tavola 8. DEFICIT PUBBLICO %PIL
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI APRILE 2011
2,7
2,7
2,6
NOTA DEF BERLUSCONI SETTEMBRE 2011
1,6
0,1
-0,2
DEF MONTI APRILE 2012
3,1
2,9
1,7
1,7
1,3
1,0
DEF LETTA APRILE 2013
3,0
3,1
2,3
1,8
1,2
0,7
DEF RENZI APRILE 2014
3,0
3,0
2,6
2,0
1,5
0,9
0,3
PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE
3,0
3,0
3,0
2,5
2,1
1,8
1,5
-1,1
-2,6
-2,8
1,5
2,8
1,9
— DIFF. B APRILE-SETTEMBRE
— DIFF. M-B SETTEMBRE
— DIFF. L-M
-0,1
0,2
0,6
0,1
-0,1
-0,3
— DIFF. R-L
0,0
-0,1
0,3
0,2
0,3
0,2
— DIFF. ER-R
0,0
0,0
0,4
0,5
0,6
0,9
87
1,2
Tavola 9. DEBITO PUBBLICO VALORE ASSOLUTO
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
1930 1955 1995
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
1989 2051 2095 2106 2101 2095
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
1989 2069 2129 2149 2147 2138
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
1989 2069 2141 2169 2177 2165 2156
PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE 1989 2041 2105 2159 2198 2230 2258
— DIFF. M-B SETTEMBRE
59
96
100
— DIFF. L-M
0
18
34
43
46
43
— DIFF. R-L
0
0
12
20
30
27
— DIFF. ER-R
0
-28
-36
-10
21
65
88
102
Tavola 10. DEBITO PUBBLICO %PIL
2012 2013
2015
2016
2017
2018
118
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
127 130,4
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
127 132,9 132,8 129,4
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
127 132,6 134,9 133,3 129,8 125,1 120,5
— DIFF. M-B SETTEMBRE
115
2014
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
114
129 125,5 121,4 117,3
125 120,1
10
15
15
— DIFF. L-M
0
2,5
3,8
3,9
3,6
2,8
— DIFF. R-L
0
-0,3
2,1
3,9
4,8
5
Pressoché simili appaiono i DEF del governo Monti e del governo
Letta, con la sola rilevante differenza che, mentre il governo Monti aveva
stimato la spesa per interessi sul debito con una ipotesi di spread a 250
punti base, il governo Letta l’ha stimata con una ipotesi di 150 punti
base. Ne consegue che la minore spesa prevista per interessi va a
compensare le minori entrate conseguenti alla riduzione delle
prospettive di crescita del Pil.
A seguito della ulteriore riduzione delle prospettive di crescita
indicate dal DEF di Renzi-Padoan, l’aumento delle entrate previste al
2017 è pari a 70 miliardi di euro che andrebbero a finanziare aumenti di
spesa corrente al netto degli interessi per 45 miliardi, con una riduzione
ulteriore di interessi sul debito per 2 miliardi ma anche con una
riduzione di Spesa in conto capitale pari a 8 miliardi di euro.
La differenza di 43 miliardi di maggiori entrate andrebbe pertanto a
contenere, ma non ad azzerare, il Deficit.
L’andamento del rapporto Debito/Pil sarebbe comunque in crescita
fino al 2015, attorno al 134%, e comincerebbe successivamente un lento
percorso di riduzione che comunque non si mostra pari a quanto il Fiscal
Compact richiederebbe e cioè una riduzione del 5% all’anno (vedi
Tavole 11–13).
89
Tavola 11. DEF MONTI-GRILLI 10 APRILE 2013
2012 2013 2014 2015 2016 2017
DIFFERENZA
2017-2012
ENTRATE TOTALI
753
765
787
803
830
852
99
SPESA TOTALE
801
811
815
837
853
870
69
SPESA CORRENTE TOTALE
753
755
770
791
810
828
75
87
84
90
93
104
109
23
667
671
679
693
706
713
52
SPESA IN CONTO CAPITALE
43
55
45
46
43
43
-5
DEFICIT PUBBLICO
48
45
29
29
23
18
-30
127
130
129
126
121
117
-10
INTERESSI
SPESA CORRENTE AL NETTO DI INTER.
RAPPORTO DEBITO/PIL
90
Tavola 12. DEF LETTA-SACCOMANNI 20 SETTEMBRE 2013
2012 2013 2014 2015 2016 2017
DIFFERENZA
2017-2012
ENTRATE TOTALI
753
759
775
798
819
842
89
SPESA TOTALE
801
808
812
828
840
854
53
SPESA CORRENTE TOTALE
753
757
767
783
798
811
59
87
84
86
89
92
93
6
666
673
680
694
706
719
53
SPESA IN CONTO CAPITALE
48
51
45
46
43
42
-6
DEFICIT PUBBLICO
48
49
37
30
21
12
-36
127
133
133
129
125
120
-7
INTERESSI
SPESA CORRENTE AL NETTO DI INTER.
RAPPORTO DEBITO/PIL
91
Tavola 13. DEF RENZI-PADOAN 8 APRILE 2014
2012 2013
2014
2015
2016
2017
2018
DIFFERENZA DIFFERENZA
2017-2012
2018-2013
ENTRATE TOTALI
753
752
767
785
803
823
846
70
94
SPESA TOTALE
801
799
809
818
829
838
852
37
53
SPESA CORRENTE
TOTALE
753
756
764
772
785
796
810
43
54
87
82
83
82
85
85
85
-2
3
666
674
681
690
699
711
725
45
51
SPESA IN CONTO
CAPITALE
49
43
45
46
44
42
41
-8
-2
DEFICIT PUBBLICO
48
47
42
33
25
15
6
-42
-41
127 132,6 134,9 133,3 129,8 125,1 120,5
-6,5
-12,1
INTERESSI
SPESA CORRENTE AL
NETTO DI INTER.
RAPPORTO DEBITO/PIL
3.2. Le singole voci di spesa ed entrata del Bilancio Pubblico:
dove sono le differenze.
Ulteriori elementi di confronto tra gli ultimi tre DEF possono essere
rilevati dalle seguenti tavole che riportano in modo analitico le principali
voci di spesa e di entrate.
92
Tavola 14
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DIFFERENZA
2017-2012
SPESA PUBBLICA TOTALE
MONTI
801
811
815
837
853
870
69
LETTA
801
808
812
828
840
854
53
RENZI
801
799
809
818
829
838
MONTI
753
765
787
808
830
852
99
LETTA
753
759
775
798
813
836
83
RENZI
753
752
767
785
803
823
852
37
ENTRATE TOTALI
846
70
La spesa si riduce nello stesso anno, ma aumenta negli anni successivi
e di fatto l’aumento slitta … di un anno.
Le tasse diminuiscono nello stesso anno perché diminuisce la crescita,
in realtà aumentano sempre negli anni…
La pressione fiscale rimane ferma nello stesso anno e ferma … negli
anni.
Il rapporto Spesa Totale/Pil aumenta nello stesso anno e diminuisce,
poco, di anno in anno … se la crescita fosse quella prevista.
Il rapporto Entrate Totali (tasse)/Pil resta fermo in ogni anno: oggi si
pagano più tasse, domani meno … poco meno e forse.
93
Tavola 15
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DIFFERENZA
2017-2012
PRESSIONE FISCALE
MONTI
44 44,4 44,3 44,1 43,9 43,8
-0,2
LETTA
44 44,3 44,2
44 43,7 43,3
-0,7
RENZI
44 43,8
44 43,7 43,5 43,3
-0,5
44
RAPPORTO SPESA TOTALE/PIL
MONTI
51,1 51,6 50,2 49,9 49,3 48,7
-2,4
LETTA
51,1 51,9 50,7 49,8 48,9
-3,2
RENZI
51,1 51,8 51,2 50,9 50,1 49,3 47,6
-1,8
MONTI
48,1 48,6 48,5 48,2 47,9 47,7
-0,4
LETTA
48,1 48,7 48,3
-1,1
RENZI
48,1 48,2 48,3 48,2 47,9 47,5 47,3
48
RAPPORTO ENTRATE TOTALI/PIL
94
48 47,3
47
-0,5
SPESA
1. Stipendi restano fissi
2. Pensioni +40 MLD a) +30 b) +10
3. Interessi: Monti +22 (spread 250), Letta +5 (spread 150), Renzi -2
(sempre 85MLD, spread a 100)
4. Acquisti beni e servizi aumentano verso 140 MLD che contengono
20–30% di ruberie!!!!
5. Altre spese correnti … sempre 60MLD e non si sa cosa ci sia
dentro!!!
6. Fondi perduti restano poco sotto i 40MLD all’anno … per fare
cosa?
7. Investimenti fermi per Monti e Letta e -4 per Renzi
95
Tavola 16
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DIFFERENZA
2017-2012
SPESA PUBBLICA TOTALE
MONTI
801
811
815
837
853
870
69
LETTA
801
808
812
828
840
854
53
RENZI
801
799
809
818
829
838
MONTI
165
164
162
164
164
164
-1
LETTA
165
164
162
164
164
164
-1
RENZI
165
164
163
163
163
163
MONTI
311
320
330
339
347
356
45
LETTA
311
320
330
339
347
356
45
RENZI
311
320
328
335
342
351
MONTI
249
255
263
270
277
285
36
LETTA
249
255
263
270
277
285
36
RENZI
249
255
260
266
272
280
MONTI
62
65
67
69
70
72
10
LETTA
62
65
67
69
70
72
10
RENZI
62
65
68
69
70
71
MONTI
87
84
90
97
104
109
22
LETTA
87
84
86
89
92
92
5
RENZI
87
82
83
82
85
85
MONTI
132
130
130
132
136
139
7
LETTA
132
130
130
132
136
139
7
RENZI
132
130
130
131
134
137
MONTI
57
59
58
59
59
59
2
LETTA
57
58
59
59
59
59
2
RENZI
57
61
60
60
61
60
MONTI
39
47
37
38
34
34
-5
LETTA
39
43
37
36
33
34
-5
RENZI
39
35
40
41
39
37
MONTI
20
20
20
20
20
20
LETTA
20
20
20
20
20
20
RENZI
20
20
20
20
20
20
852
37
DI CUI:
1. SALARI E STIPENDI
163
2
2. PENSIONI TOTALI
360
40
2A. PENSIONI IN SENSO STRETTO
287
31
2B. ALTRE PRESTAZIONI SOCIALI
73
9
3. INTERESSI SU DEBITO PUBBLICO
85
-2
4. ACQUISTI DI BENI E SERVIZI
140
5
5. ALTRE SPESE CORRENTI ???
62
3
6. FONDI PERDUTI TOTALI
36
-2
6A. TRASFERIMENTI A FONDO
PERDUTO IN CONTO CORRENTE
6B. TRASFERIMENTI A FONDO
96
0
0
20
0
PERDUTO IN CONTO CAPITALE
MONTI
19
27
17
18
14
14
-5
LETTA
19
23
17
16
13
14
-5
RENZI
19
15
20
21
19
17
MONTI
29
28
28
28
29
29
0
LETTA
29
28
29
29
29
29
0
RENZI
29
27
26
25
24
25
16
-2
7. INVESTIMENTI FISSI LORDI
97
25
-4
ENTRATE
1.
2.
3.
4.
Tributarie +50, +25 dirette + 25 indirette
Contributi sociali +20
Altre entrate restano tra 60 e 65 MLD??? Cosa sono?
Altre entrate in c/cap 5/6 MLD..irrilevanti!
98
Tavola 17
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DIFFERENZA
2017-2012
ENTRATE TOTALI
MONTI
753
765
787
808
830
852
99
LETTA
753
759
775
798
813
836
83
RENZI
753
752
767
785
803
823
MONTI
472
478
494
508
523
538
66
LETTA
472
472
487
502
516
531
59
RENZI
472
468
482
494
506
520
MONTI
237
236
243
247
255
264
27
LETTA
237
234
240
244
250
258
21
RENZI
237
238
243
247
254
261
MONTI
234
241
250
260
267
274
40
LETTA
234
235
247
258
265
272
38
RENZI
234
226
238
245
251
259
MONTI
1
1
1
1
1
1
0
LETTA
1
1
2
2
1
1
0
RENZI
1
4
2
1
1
1
MONTI
217
220
225
232
238
243
26
LETTA
217
218
221
228
234
241
24
RENZI
217
215
216
221
227
233
MONTI
60
60
61
63
64
66
6
LETTA
60
62
61
63
64
65
5
RENZI
60
63
63
64
64
64
MONTI
5
6
5
5
5
5
LETTA
5
7
5
5
5
5
RENZI
5
5
5
6
7
6
846
70
DI CUI:
1. ENTRATE TRIBUTARIE
535
48
1A. IMPOSTE DIRETTE
269
24
1B. IMPOSTE INDIRETTE
266
25
1C. IMPOSTE IN CONTO CAPITALE
1
0
2. CONTRIBUTI SOCIALI
240
16
3. ALTRE ENTRATE CORRENTI
65
4
4. ENTRATE IN C/CAP. NON
TRIBUTARIE
99
0
0
6
1
Appendice: ulteriori dati analitici, differenze irrilevanti
SPESA PUBBLICA TOTALE
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
SPESA PUBBLICA TOTALE
MONTI
801
811
815
837
853
870
69
LETTA
801
808
812
828
840
854
53
RENZI
801
799
809
818
829
838
DIFF. L-M
0
-3
-3
-9
-13
-16
DIFF. R-L
0
-9
-3
-10
-11
-16
DI CUI:
100
852
53
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
1. SALARI E STIPENDI
MONTI
165
164
162
164
164
164
-1
LETTA
165
164
162
164
164
164
-1
RENZI
165
164
163
163
163
163
DIFF. L-M
0
0
0
0
0
0
DIFF. R-L
0
0
1
-1
-1
-1
101
163
-1
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
2. PENSIONI TOTALI
MONTI
311
320
330
339
347
356
45
LETTA
311
320
330
339
347
356
45
RENZI
311
320
328
335
342
351
DIFF. L-M
0
0
0
0
0
0
DIFF. R-L
0
0
-2
-4
-5
-5
102
360
40
DIFFERENZA
2017-2012 x M e
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
L
2018-2013 x R
2A. PENSIONI IN SENSO
STRETTO
MONTI
249
255
263
270
277
285
36
LETTA
249
255
263
270
277
285
36
RENZI
249
255
260
266
272
280
DIFF. LM
0
0
0
0
0
0
DIFF. R-L
0
0
-3
-4
-5
-5
103
287
32
DIFFERENZA
2017-2012 x M e
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
L
2018-2013 x R
2B. ALTRE PRESTAZIONI
SOCIALI
MONTI
62
65
67
69
70
72
10
LETTA
62
65
67
69
70
72
10
RENZI
62
65
68
69
70
71
DIFF. LM
0
0
0
0
0
0
DIFF. R-L
0
0
1
0
0
-1
104
73
8
DIFFERENZA
2017-2012 x M
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
eL
2018-2013 x R
3. INTERESSI SU DEBITO
PUBBLICO
MONTI
87
84
90
97
104
109
22
LETTA
87
84
86
89
92
92
5
RENZI
87
82
83
82
85
85
DIFF. LM
0
0
-4
-8
-12
-17
DIFF. RL
0
-2
-3
-7
-7
-7
105
85
3
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
4. ACQUISTI DI BENI E SERVIZI
MONTI
132
130
130
132
136
139
7
LETTA
132
130
130
132
136
139
7
RENZI
132
130
130
131
134
137
DIFF. L-M
0
0
0
0
0
0
DIFF. R-L
0
0
0
-1
-2
-2
106
140
10
DIFFERENZA
2017-2012 x M e
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
L
2018-2013 x R
5. ALTRE SPESE CORRENTI
???
MONTI
57
59
58
59
59
59
2
LETTA
57
58
59
59
59
59
2
RENZI
57
61
60
60
61
60
DIFF. L-M
0
-1
1
0
0
0
DIFF. R-L
0
3
1
1
2
1
107
62
1
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
6. FONDI PERDUTI TOTALI
MONTI
39
47
37
38
34
34
-5
LETTA
39
43
37
36
33
34
-5
RENZI
39
35
40
41
39
37
DIFF. L-M
0
-4
0
-2
-1
0
DIFF. R-L
0
-8
3
5
6
3
108
36
1
DIFFERENZA
2017-2012 x
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
MeL
2018-2013 x
R
6A. TRASFERIMENTI A FONDO
PERDUTO IN CONTO CORRENTE
MONTI
20
20
20
20
20
20
LETTA
20
20
20
20
20
20
RENZI
20
20
20
20
20
20
109
0
0
20
0
DIFFERENZA
2017-2012 x
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
MeL
2018-2013 x
R
6B. TRASFERIMENTI A FONDO
PERDUTO IN CONTO CAPITALE
MONTI
19
27
17
18
14
14
LETTA
19
23
17
16
13
14
RENZI
19
15
20
21
19
17
110
-5
-5
16
1
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
7. INVESTIMENTI FISSI LORDI
MONTI
29
28
28
28
29
29
0
LETTA
29
28
29
29
29
29
0
RENZI
29
27
26
25
24
25
DIFF. L-M
0
0
1
1
0
0
DIFF. R-L
0
-1
-3
-4
-5
-4
111
25
-2
ENTRATE TOTALI
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
ENTRATE TOTALI
MONTI
753
765
787
808
830
852
99
LETTA
753
759
775
798
813
836
83
RENZI
753
752
767
785
803
823
DIFF. L-M
0
-6
-12
-10
-17
-16
DIFF. R-L
0
-7
-8
-13
-10
-13
DI CUI:
112
846
88
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
1. ENTRATE TRIBUTARIE
MONTI
472
478
494
508
523
538
66
LETTA
472
472
487
502
516
531
59
RENZI
472
468
482
494
506
520
DIFF. L-M
0
-6
-7
-6
-7
-7
DIFF. R-L
0
-4
-5
-8
-10
-11
113
535
77
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
1A. IMPOSTE DIRETTE
MONTI
237
236
243
247
255
264
27
LETTA
237
234
240
244
250
258
21
RENZI
237
238
243
247
254
261
DIFF. L-M
0
-2
-3
-3
-5
-6
DIFF. R-L
0
4
3
3
4
3
114
269
31
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
1B. IMPOSTE INDIRETTE
MONTI
234
241
250
260
267
274
40
LETTA
234
235
247
258
265
272
38
RENZI
234
226
238
245
251
259
DIFF. L-M
0
-6
-3
-2
-2
-2
DIFF. R-L
0
-9
-9
-13
-14
-13
115
266
40
DIFFERENZA
2017-2012 x M e
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
L
2018-2013 x R
1C. IMPOSTE IN CONTO
CAPITALE
MONTI
1
1
1
1
1
1
0
LETTA
1
1
2
2
1
1
0
RENZI
1
4
2
1
1
1
DIFF. LM
0
0
1
1
0
0
DIFF. R-L
0
3
0
-1
0
0
116
1
-3
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
2. CONTRIBUTI SOCIALI
MONTI
217
220
225
232
238
243
26
LETTA
217
218
221
228
234
241
24
RENZI
217
215
216
221
227
233
DIFF. L-M
0
-2
-4
-4
-4
-2
DIFF. R-L
0
-3
-5
-7
-7
-8
117
240
25
DIFFERENZA
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L
2018-2013 x R
3. ALTRE ENTRATE CORRENTI
MONTI
60
60
61
63
64
66
6
LETTA
60
62
61
63
64
65
5
RENZI
60
63
63
64
64
64
DIFF. L-M
0
2
0
0
0
-1
DIFF. R-L
0
1
2
1
0
-1
118
65
2
DIFFERENZA
2017-2012 x
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
MeL
2018-2013 x
R
4. ENTRATE IN C/CAP. NON
TRIBUTARIE
MONTI
5
6
5
5
5
5
LETTA
5
7
5
5
5
5
RENZI
5
5
5
6
7
6
DIFF. LM
0
1
0
0
0
0
DIFF. RL
0
-2
0
1
2
1
119
0
0
6
1
DIFFERENZA
2017-2012 x M e
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
L
2018-2013 x R
PRESSIONE FISCALE
MONTI
44,0 44,4 44,3 44,1 43,9 43,8
-0,2
LETTA
44,0 44,3 44,2 44,0 43,7 43,3
-0,7
RENZI
44,0 43,8 44,0
-0,5
44 43,7 43,5 43,3
DIFF. LM
0,0
-0,1
-0,1
-0,1
-0,2
-0,5
DIFF. R-L
0,0
-0,5
-0,2
0,0
0,0
0,2
RAPPORTO SPESA TOTALE/PIL
MONTI
51,1 51,6 50,2 49,9 49,3 48,7
-2,4
LETTA
51,1 51,9 50,7 49,8 48,9 48,0
-3,2
RENZI
51,1 51,8 51,2 50,9 50,1 49,3 47,6
-4,2
DIFF. LM
0,0
0,3
0,5
0,0
-0,4
-0,7
DIFF. R-L
0,0
-0,1
0,5
1,0
1,2
1,4
RAPPORTO ENTRATE
TOTALI/PIL
MONTI
48,1 48,6 48,5 48,2 47,9 47,7
-0,4
LETTA
48,1 48,7 48,3 48,0 47,3 47,0
-1,1
RENZI
48,1 48,2 48,3 48,2 47,9 47,5 47,3
-0,5
DIFF. LM
0,0
0,1
-0,1
-0,1
-0,6
-0,7
DIFF. R-L
0,0
-0,5
0,0
0,2
0,6
0,6
120
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DIFFERENZA DIFFERENZA
2017-2012
2018-2013
PIL MONTI
1566 1573 1624 1678 1731 1786
220
PIL LETTA
1566 1557 1603 1661 1718 1780
214
PIL RENZI
1566 1560 1587 1627 1677 1731 1789
165
PREV. ER DIC 2013 1566 1531 1541 1563 1587 1610 1650
44
DIFF. L-M
0
-16
-21
-17
-13
-6
DIFF. R-L
0
3
-16
-34
-41
-49
DIFF. ER-R
0
-29
-46
-64
-90 -121 -139
121
119
4
Da un governo all’altro: come frenare l’economia reale e
costruire la crisi di produzione e occupazione,
alimentando il Debito Pubblico e inseguendo fragili e
precari equilibri finanziari
Tavole 18–26 (N.B.: leggere i dati in verticale)
122
TAVOLA 18. LA CRESCITA VA SOTTOZERO E LA RIPRESA SI ALLONTANA NEL
TEMPO
TASSO DI CRESCITA DEL PIL REALE
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
1,3
1,5
1,6
NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011
0,6
0,9
1,2
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
-2,4
-1,3
1,3
1,5
1,3
1,4
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
-2,4
-1,7
1
1,7
1,8
1,9
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
-2,4
-1,9
0,8
1,3
1,6
1,8
123
1,9
TAVOLA 19. IL PIL DIMINUISCE IN VALORE ASSOLUTO
PIL IN VALORE ASSOLUTO NOMINALE
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
1642 1697 1755
NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011 1622 1665 1714
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
1566 1573 1624 1678 1731 1786
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
1566 1557 1603 1661 1718 1780
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
1566 1560 1587 1627 1677 1731 1789
124
TAVOLA 20. GLI OCCUPATI DIMINUISCONO SEMPRE
TOTALE OCCUPATI
2012
2013
2014
2015
2016
2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 24438 24560 24707
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
22881 22789 22880 23040 23178 23363
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
22881 22469 22244 22444 22646 22872
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
22881 22469 22244 22244 22646 22872
125
TAVOLA 21. I DISOCCUPATI AUMENTANO SEMPRE
TOTALE DISOCCUPATI
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 2760 2757 2754
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
2827 3138 3144 3138 3132 3116
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
2827 3157 3163 3154 3144 3131
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
2827 3223 3276 3197 3118 3012
126
TAVOLA 22. IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE AUMENTA SEMPRE
TASSO DI DISOCCUPAZIONE
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
8,3
8,2
8,1
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
10,7 11,6 11,8 11,6 11,4 10,9
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
10,7 12,2 12,4 12,1 11,8 11,4
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
10,7 12,2 12,8 12,5 12,2 11,6 11,0
127
TAVOLA 23. IL DEFICIT PUBBLICO NON VA MAI A ZERO … NÉ IN VALORE
ASSOLUTO
DEFICIT PUBBLICO VALORE ASSOLUTO
2012 2013 2014
2015
2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
45
46
NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE
2011
25
2
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
48
45
28
29
23
18
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
48
49
37
30
21
12
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
48
47
42
33
25
15
128
46
3 (SURPLUS)
6
TAVOLA 24. IL DEFICIT PUBBLICO NON VA MAI A ZERO … NÉ IN % DEL PIL
DEFICIT PUBBLICO %PIL
2012 2013 2014
2015
2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI APRILE 2011
2,7
2,7
2,6
NOTA DEF BERLUSCONI SETTEMBRE 2011
1,6
0,1
0,2 (SURPLUS)
DEF MONTI APRILE 2012
3,1
2,9
1,7
1,7
1,3
1,0
DEF LETTA APRILE 2013
3,0
3,1
2,3
1,8
1,2
0,7
DEF RENZI APRILE 2014
3,0
3,0
2,6
2,0
1,5
0,9
129
0,3
TAVOLA 25. IL DEBITO PUBBLICO AUMENTA SEMPRE, IN VALORE ASSOLUTO
DEBITO PUBBLICO VALORE ASSOLUTO
2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 1930 1955 1995
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
1989 2051 2095 2106 2101 2095
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
1989 2069 2129 2149 2147 2138
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
1989 2069 2141 2169 2177 2165 2156
130
TAVOLA 26. IL DEBITO PUBBLICO AUMENTA SEMPRE, IN % DEL PIL
DEBITO PUBBLICO %PIL
2012 2013
2015
2016
2017
2018
118
DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012
127 130,4
DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013
127 132,9 132,8 129,4
DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014
127 132,6 134,9 133,3 129,8 125,1 120,5
131
115
2014
DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011
114
129 125,5 121,4 117,3
125 120,1
Alle origini del persistente alto livello del debito
pubblico
Antonio Pedone, Università di Roma “La Sapienza”
Intervento alla Riunione Intermedia SIEP 2012 “La gestione di elevati
debiti sovrani in contesti di crisi finanziaria: quali insegnamenti dalla
storia”
Pochi anni fa, il 17 marzo 2011, l’Italia ha festeggiato i 150 anni dalla sua
nascita come Stato unitario. Nel corso di questi 150 anni è radicalmente
mutata la struttura demografica, economica e sociale del paese sotto
molteplici aspetti. È mutato il tasso di alfabetizzazione e il grado di
istruzione della popolazione e la sua partecipazione all’organizzazione
politica del paese. Cambiamenti rilevanti si sono avuti nelle strutture
istituzionali e di governo, negli orientamenti politici e nel grado di
integrazione economica e finanziaria internazionale.
Anche la finanza pubblica ha subito profonde e continue
trasformazioni per quanto riguarda il livello e la composizione sia della
spesa pubblica sia del prelievo tributario. L’intervento pubblico
attraverso il bilancio si è infatti enormemente accresciuto come
dimensione e diffusione, ha assunto forme nuove e molto diverse dal
lato sia della spesa sia del suo finanziamento, si è ispirato a principi e ha
perseguito obiettivi che spesso nel tempo sono radicalmente variati nei
fatti se non nelle dichiarazioni, ha influenzato in modo penetrante
l’andamento economico e i rapporti sociali e ne è stato a sua volta
influenzato.
Di fronte a tali profonde ed estese trasformazioni colpisce la
persistenza, nel corso praticamente dell’intero periodo (salvo una
parentesi nell’immediato secondo dopoguerra), di un elevato livello del
rapporto debito pubblico/PIL che non ha riscontro nelle contemporanee
esperienze dei maggiori paesi industriali con i quali peraltro l’Italia ha
largamente condiviso i grandi mutamenti nel livello e nella
composizione delle principali voci di bilancio, quali la spesa pubblica e
le entrate tributarie.
Nei primi decenni dopo l’unità, la spesa pubblica superava di poco il
10% del reddito nazionale; in questi ultimi anni ha spesso raggiunto e
superato largamente il 50% del prodotto interno lordo (tab. 1). Mentre
allora la spesa pubblica era destinata per la maggior parte alla difesa,
alla sicurezza interna e al pagamento degli interessi, oggi la maggior
132
parte va alla previdenza, alla sanità, all’istruzione e, ancora, al
pagamento degli interessi sul debito pubblico. Si può notare (tab. 1) che
l’Italia si pone costantemente nella fascia alta insieme agli altri maggiori
paesi europei e la differenza in più o in meno rispetto ad essi è
relativamente contenuta e non sembra avere carattere permanente e
generalizzato.
133
Tab. 1 - Spesa pubblica, pressione tributaria e debito pubblico in % del PIL
a) Spesa pubblica
1870 1913 1920 1937 1960 1980 1990 1995 2000 2005 2008 2010
Italia
13,7 17,1 30,1 31,1 30,1 42,2 53,4 52,2 45,9 47,9 48,6 50,3
Francia
12,6 17,0 27,6 29,0 34,6 44,0 49,8 54,4 51,6 53,6 53,3 56,7
Germania
10,0 14,8 25,0 34,1 32,4 48,0 45,1 54,8 45,1 47,0 44,1 48,0
Spagna
11,0
8,3 13,2 18,8 26,0 42,0 44,4 39,2 38,4 41,5 45,6
Regno Unito
9,4 12,7 26,2 30,0 32,2 45,6 39,9 44,1 36,5 44,0 47,9 50,6
Stati Uniti
7,3
7,5 12,1 19,7 27,0 34,5 32,8 37,1 33,9 36,3 39,1 42,5
Giappone
8,8
8,3 14,8 25,4 17,5 27,9 31,3 36,0 39,0 38,4 37,2 40,4
134
b) Pressione tributaria
1870 1913 1920 1937 1960 1980 1990 1995 2000 2005 2008 2010
Italia
12,5 14,7 24,2 31,1 24,8 29,7 37,8 40,1 42,2 40,8 43,3 43,0
Francia
15,3 13,7 17,9 20,5 37,3 40,2 42,0 42,9 44,4 44,1 43,5 42,9
Germania
1,4
3,2
8,6 15,9 35,2 36,4 34,8 37,2 37,5 35,0 36,4 36,3
Spagna
9,4 10,3
5,8 11,9 18,7 22,6 32,5 32,1 34,2 35,7 33,3 31,7
Regno Unito
8,7 11,2 20,1 22,6 29,9 34,8 35,5 34,0 36,3 35,7 35,7 35,0
Stati Uniti
7,4
Giappone
9,5
7,0 12,4 19,7 27,0 26,4 27,4 27,8 29,5 27,1 26,3 24,8
18,8 25,1 29,0 26,8 27,0 27,4 28,3
135
c) Debito pubblico
Italia
1870 1913 1920
1937
95,8 77,2 159,7
72,1
Francia
66,4 169,6
Germania
38,5
Spagna
37,9
2000
2005
2008
2010
31,4 56,1 95,2 121,6 109,2 105,8 106,1 118,4
28,5 20,7 35,2
55,4
57,3
66,4
67,6
82,4
18,4 31,3 42,6
55,6
59,7
68,0
66,4
83,2
20,5 15,2 42,5
63,3
59,3
43,0
39,7
60,8
Regno Unito
77,4 27,9 137,8 158,7 117,9 46,1 32,6
46,3
40,9
42,1
52,1
75,1
Stati Uniti
29,9
66,5
54,8
61,6
71,1
98,5
Giappone
76,7
19,3
1960 1980 1990 1995
3,3
27,9
39,6
55,2 32,6 55,3
53,6
25,6
57,0
8,0 52,0 68,7
92,4 142,1 191,6 194,7 219,0
Fonte: a), b) and c): Tanzi, Schuknecht (2000, 2007) fino al 1960; per Germania e
Spagna solo Amministrazioni centrali. Per gli anni successivi, per a) OECD
Economic Outlook vol. 2011/2, e per b) OECD Revenue Statistics 1965–2010; c) IMF
(2011).
Lo stesso può dirsi per il livello della pressione tributaria. Le entrate
tributarie, che all’inizio erano vicine al 10%, oggi hanno raggiunto e
superato largamente il 40%. Le principali forme di prelievo erano
costituite dall’imposta fondiaria, dai proventi doganali e da imposte su
specifici consumi popolari (in primo luogo, i tabacchi); nei decenni
recenti, la maggior parte delle entrate è assicurata, oltre che dai
contributi sociali, dalle due grandi imposte generali sui redditi e sugli
scambi. Neppure questo enormemente accresciuto volume di entrate è
quasi mai riuscito a coprire pienamente le spese.
L’intera storia dell’Italia unita è così caratterizzata fin dall’inizio da
un persistente elevato livello di debito pubblico in rapporto al prodotto
interno lordo, con dei processi rapidi (in occasione degli eventi bellici) o
lenti (in tempi di pace) di accumulo e poi di decumulo, pur rimanendo
sempre su livelli relativamente elevati. Sembrerebbe costituire
un’eccezione il venticinquennio seguito alla seconda guerra mondiale, e
lo è certamente rispetto alla precedente e successiva esperienza italiana,
ma lo è meno se confrontato con le contemporanee esperienze di altri
paesi e se si tiene conto dell’importanza di alcuni fattori che, ancor più
di una accorta politica di bilancio, contribuirono in maniera
determinante a contenere il valore del rapporto debito/PIL in quegli
anni, ponendo però le premesse per una sua vigorosa crescita negli anni
futuri.
Elevati disavanzi si erano venuti accumulando sin dalla metà degli
anni Trenta del secolo scorso, provocati dalle spese militari e per il
sostegno dell’economia in regime di autarchia. Essi furono finanziati
ricorrendo anche all’emissione di un prestito forzoso, la cui
sottoscrizione fu obbligatoria per i proprietari di terreni e fabbricati, e al
136
finanziamento monetario, ripristinando la facoltà del Tesoro di chiedere
anticipazioni straordinarie alla Banca d’Italia. L’aumento dei disavanzi e
del debito diviene ancora più rapido durante la guerra, pur non
raggiungendo valori particolarmente elevati (il picco è 103% nel 1943),
anche se va tenuto presente che, a differenza del finanziamento della
prima guerra mondiale, si tratta esclusivamente di debito interno.
L’abbattimento pressoché completo del debito avviene, nel corso
degli ultimi anni di guerra e soprattutto nell’immediato dopoguerra,
mediante una violenta inflazione. È stato osservato che “fu possibile ai
governanti di quel tempo azzerare, con l’inflazione, il valore reale del
debito di guerra perché il regime che l’aveva accumulato era stato
rovesciato dalla sconfitta militare ed essi che lo avevano apertamente
avversato potevano quindi addossargli anche la responsabilità del
dissesto finanziario del paese. È da sottolineare, tuttavia, che non fu
scelta la via del ripudio formale del debito perché la Repubblica italiana
si considerò successore, senza soluzione di continuità, del Regno
d’Italia” (De Cecco 1996), addossandosi anche “senza alcun indugio ed
esitazione i debiti contratti dalla repubblica sociale fascista” (Ministero
per la Costituente 1946, p. 108).
Per effetto soprattutto di una violenta e prolungata inflazione (il
contributo di alcuni prelievi straordinari fu prevalentemente simbolico),
il valore del rapporto debito/Pil si ridusse al 24% nel 1947, che è il
valore in assoluto più basso dell’intera storia del debito pubblico
italiano. La sua sostanziale cancellazione “comportò evidentemente un
grande trasferimento di ricchezza da chi possedeva titoli di Stato al resto
del paese: i possessori di titoli persero gran parte dei propri risparmi, chi
non li possedeva evitò le imposte che avrebbe dovuto pagare qualora il
debito non fosse stato cancellato. Guadagnarono soprattutto gli
agricoltori e i proprietari di immobili, perché il valore della terra e degli
immobili rimase invariato in termini reali, proteggendoli dall’inflazione”
(Giavazzi in Bresciani Turroni 2005, p. XXVIII). Il rapporto debito/Pil si
è poi mantenuto al disotto del 40% fino al 1970 e del 60% fino al 1981.
Così, nel trentennio post-bellico, l’Italia riesce a mantenere un livello
del rapporto debito/Pil che è eccezionalmente basso nella sua storia.
Esso è però notevolmente più alto di quello di tutti gli altri maggiori
paesi europei (eccetto il Regno Unito) e del Giappone nello stesso
periodo (tab. 3). E ciò che è più importante, sembra essere il risultato di
una serie di circostanze favorevoli piuttosto che di una deliberata
rigorosa politica di bilancio. Alcune di queste circostanze favorevoli,
nell’aspettativa che potessero perpetuarsi, hanno probabilmente indotto
ad abbassare la guardia nella tutela degli equilibri di bilancio futuri,
ponendo le premesse del successivo incontrollato aumento del debito
pubblico.
137
Il più rapido e prolungato aumento del Pil nella storia italiana
verificatosi in quel periodo ha fortemente contribuito a contenere il
valore del rapporto debito/Pil e ha migliorato il saldo di bilancio
assicurando un aumento automatico delle entrate tributarie. Il saldo di
bilancio è migliorato anche per la riduzione delle spese connesse alla
guerra e solo in parte compensata dalle spese per la ricostruzione, e dal
contenimento delle spese per interessi. Quest’ultimo è stato ottenuto
anche accrescendo il finanziamento monetario e con titoli a breve
termine e il ricorso a prestiti delle istituzioni finanziarie in una misura
che non ha precedenti nell’intera storia del debito pubblico italiano (tab.
A). Corrispondentemente la quota dei titoli a medio lungo termine è
scesa ai livelli più bassi, in molti anni ben inferiori al 20% del totale.
Ci si è così abituati a una comoda gestione del debito pubblico di tipo
amministrativo e non di mercato, e ci si è convinti che la struttura per
scadenze non fosse un problema e non esistessero rischi connessi ai
rinnovi, in quanto era sempre possibile ottenere finanziamenti e
collocare titoli presso la Banca Centrale e il sistema bancario e
finanziario.
Le origini dell’esplosione del debito degli anni Ottanta e Novanta
sono in larga parte in questa convinzione illusoria, formatasi negli anni
di basso livello del rapporto debito/Pil, che la rapida crescita economica
potesse continuare a lungo e che fosse possibile finanziarsi con debito
pubblico a breve termine, a basso costo e a basso rischio di rinnovo. Ciò
portò a sottovalutare gli effetti sugli equilibri complessivi del bilancio
pubblico derivanti dal forte aumento (a un tasso medio annuo composto
di oltre il 9% tra il 1948 e il 1962) della spesa pubblica, in particolare di
quella locale in conseguenza “delle migrazioni interne, della progressiva
urbanizzazione della popolazione e dell’estensione della gamma dei
servizi erogati dagli enti” (Brosio e Marchese1986); o gli effetti a lungo
termine delle leggi di spesa approvate negli anni Sessanta che
introducevano forme molto generose di trattamenti pensionistici e il
servizio sanitario nazionale e, sfuggivano, per la loro natura di
entitlements, a una esplicita decisione parlamentare per l’assegnazione
delle risorse.
Al forte aumento di spesa pubblica, soprattutto in prospettiva, non si
provvide ad assicurare la disponibilità di un aumento di gettito, ma anzi
si andò accentuando “un circolo vizioso che bisogna(va) recidere:
diffidenza precostituita del fisco rispetto alle dichiarazioni del
contribuente; tendenza naturale del contribuente ad evadere. In tal
modo tra fisco e contribuente si ingaggia una lotta dalla quale spesso tra
le due parti in causa riesce vincitore non il giusto ma il più abile o il più
forte. La mancanza di una moralità fiscale da parte del contribuente,
l’impreparazione professionale di molti funzionari delle imposte, la
138
cronica disorganizzazione degli uffici, la pratica (non teorica)
inadeguatezza delle sanzioni fiscali, l’incapacità del fisco di identificare i
nuovi contribuenti, ecc., sono altrettanti inconvenienti del nostro sistema
tributario che si aggiungono ad una politica delle spese del tutto
insoddisfacente (Cosciani 1950, p. 40–1). L’insuccesso del patto fiscale
con cui le riforme Vanoni si proponevano di superare questo circolo
vizioso mise in evidenza le difficoltà che si incontrano nel nostro sistema
per colmare le insufficienze rilevate da Cosciani e l’importanza dei
tradizionali limiti di sopportabilità da parte dei contribuenti dell’onere
del servizio e del rimborso del debito pubblico.
139
Tab. A – Debito delle Amministrazioni Pubbliche - Composizione % per strumenti
Moneta e depositi
di cui:
Raccolta
postale
Anno
Titoli a
breve
termine
Prestiti
Titoli a medio e
lungo termine
di cui:
prestiti di
IFM
Debito delle
Amministrazioni
pubbliche
1861
0,92
0,00
1,20
97,40
0,47
0,00
100,00
1861–
1896
7,15
1,23
2,05
87,41
3,39
0,83
100,00
1896
11,95
3,30
1,66
85,28
1,12
0,93
100,00
1897–
13,70
1906
5,31
1,39
83,16
1,75
1,06
100,00
1906
15,99
7,83
0,78
81,02
2,21
1,50
100,00
1907–
18,20
1913
10,42
0,89
77,38
3,53
2,14
100,00
1913
19,28
11,63
1,75
74,66
4,31
2,43
100,00
1914–
10,34
1919
5,76
11,99
57,27 20,40
9,39
100,00
1919
4,09
0,00
3,38
87,19
5,34
0,51
100,00
1920–
1928
7,21
5,45
8,74
64,31 19,75
15,35
100,00
1928
9,37
7,43
0,18
82,80
7,65
6,55
100,00
1929–
17,16
1938
13,99
1,70
74,40
6,74
4,28
100,00
1938
22,67
18,71
7,40
64,21
5,71
1,21
100,00
1939–
16,50
1948
12,20
18,12
28,92 36,45
0,80
100,00
1948
17,30
15,39
27,57
19,71 35,42
0,98
100,00
1949–
25,72
1963
23,78
22,08
25,79 26,41
5,82
100,00
1963
31,16
29,08
18,83
23,10 26,92
7,84
100,00
1964–
25,47
1971
23,36
12,76
19,69 42,09
28,72
100,00
1971
22,50
20,55
10,32
18,01 49,17
36,20
100,00
1972–
16,33
1978
15,04
23,35
23,59 36,73
27,42
100,00
1978
14,46
13,63
24,91
36,19 24,45
17,10
100,00
1979–
1992
8,11
7,33
26,17
51,54 14,19
7,22
100,00
1992
6,90
6,40
23,94
57,35 11,81
6,62
100,00
1993–
1998
7,31
6,94
16,29
69,13
7,26
6,53
100,00
1998
7,78
7,52
10,96
75,34
5,92
5,78
100,00
1999–
2007
9,39
6,31
8,21
75,29
7,11
5,43
100,00
2007
8,95
2,32
8,00
74,43
8,63
7,98
100,00
Fonte: Francese, Pace (2008).
Anche tenendo conto di questo intervallo, rimane il fatto che il
140
rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo supera il valore
del 60% in 111 anni su 150 e il valore del 90% in 75 anni su 150. Ciò non
accade in nessun altro dei maggiori paesi industrializzati per i quali
esistono serie comparabili (tab. 2): la distanza pur elevata nei confronti
del Regno Unito, è abissale nei confronti degli Stati Uniti.
141
Tab. 2 - Numero di anni in cui il Rapporto Debito/Pil supera il 60% o il 90% nel
periodo 1861–2011
Italia Francia Germania Spagna Regno Unito Stati Uniti Giappone
>60% (a)
112
56
12
53
81
32
49
>90% (b)
75
38
0
17
55
8
21
151
108
109
117
151
151
135
(a)/(c)
74
52
11
45
54
21
36
(b)/(c)
50
35
0
15
36
5
16
anni disponibili (c)
Fonte: IMF Historical Public Debt per gli anni 1861–2009. Per gli anni successivi i
dati sono proiezioni o stime e sono tratti da IMF, Fiscal Monitor update January
2012. Si noti che per alcuni paesi non sono disponibili i dati riferiti ad anni spesso tra
i più critici della loro storia finanziaria. Francia: 1861–1879, 1914–1919, 1933–1948,
1978–79. Germania: 1861–1879, 1914–1924, 1933–1948, 1976. Spagna: 1861–1879,
1914–1917, 1935–1939, 1948–1952. Giappone: 1861–1874, 1945, 1968.
Anche nei confronti degli altri paesi, per i quali esistono dei vuoti
nelle serie storiche, la maggior elevatezza del rapporto debito
pubblico/Pil riferito all’Italia appare evidente: se anche in tutti gli anni
mancanti per questi altri paesi il rapporto avesse superato il 90%, l’Italia
rimarrebbe in ogni caso il paese con il maggior numero di volte durante
l’intero periodo. La persistenza di un così elevato rapporto debito/PIL
per un periodo altrettanto lungo non si riscontra perciò in nessuno degli
altri maggiori paesi industrializzati, anche se alcuni di essi raggiungono
in alcuni periodi livelli notevolmente superiori a quelli massimi toccati
dall’Italia 1. È il caso, ad esempio, del Regno Unito che nel 1861 aveva un
valore del rapporto debito/PIL pari a circa tre volte quello italiano, ma
che riesce a ridurlo rapidamente o sostanzialmente fino a raggiungere
un valore inferiore al 30% alla vigilia della prima guerra mondiale
(quando quello italiano superava l’80%), per poi raggiungere
nuovamente picchi elevatissimi al termine delle due guerre mondiali (il
196% nel 1923 e il 270% nel 1946) dai quali poi ridiscende e dal 1973 si
mantiene sempre ben al disotto del 60% fino alla recente crisi (tab. 3). O
come nel caso della Francia che, pur mantenendo valori mediamente
elevati fino alla prima guerra mondiale (al termine della quale tocca un
valore del 237% nel 1921), a partire dal 1950 mantiene sempre valori
notevolmente inferiori al 60% fino all’inizio dell’ultimo decennio. O
come è il caso del Giappone che, salvo durante la seconda guerra
mondiale, aveva sempre mantenuto il rapporto debito/PIL bel al disotto
del 60% e che, soltanto a partire dalla fine degli anni Ottanta, inizia una
rapida crescita che lo ha portato a superare in questi ultimi anni il 200%.
Questi dati sono stati richiamati non per avviare un confronto delle
142
varie esperienze nazionali, ma solo per sottolineare la peculiarità italiana
di un livello elevato e persistente del rapporto debito pubblico/PIL nel
corso della maggior parte della sua storia e che differenzia l’Italia dagli
altri maggiori paesi industrializzati. Come può notarsi dai dati riassunti
nella tab. 3, l’Italia presenta nella maggior parte dei sottoperiodi valori
mediamente superiori a quelli di ciascun altro singolo paese.
143
Tab. 3 - Rapporto Debito Pubblico /PIL in alcuni paesi industrializzati
Italia
Francia Germania Spagna Regno Unito Stati Uniti Giappone
1861
39,42
1861–1896
95,43
106,27
38,83
123,05
105,14
1897–1906 109,05
1906
95,58
1907–1913
1913
1896
1914–1919
1919
108,47
1,94
91,11
67,01
17,31
28,51
43,77
95,90
41,10
7,99
24,63
92,95
39,74
110,56
37,88
5,83
32,72
85,21
37,17
107,98
37,41
3,79
70,47
83,13
75,18
39,70
90,34
32,82
3,68
62,30
77,24
66,35
38,50
76,73
27,90
3,25
53,59
93,19
35,00
81,97
11,19
39,33
132,25
31,31
142,77
33,28
22,58
1920–1928 125,53
188,15
8,86
55,52
175,21
24,73
32,85
1928
97,74
142,28
9,33
61,44
175,78
18,19
39,06
1929–1938
86,58
154,04
19,43
63,35
175,92
33,25
58,17
1938
71,44
155,08
43,16
66,89
1939–1948
68,88
194,04
79,03
87,62
1948
26,97
239,57
93,62
19,67
1949–1963
31,26
32,23
18,61
152,55
65,72
10,39
1963
27,17
22,17
18,09
108,55
50,24
4,52
1964–1971
34,21
17,48
19,83
14,60
85,87
40,70
9,04
1971
41,95
20,06
18,38
14,98
65,55
36,21
14,18
1972–1978
53,72
15,86
22,56
12,06
52,26
33,91
26,44
1978
59,45
28,39
12,02
51,63
33,84
41,69
1979–1992
79,92
30,53
38,74
34,38
42,64
45,14
65,39
105,49
39,77
42,06
45,36
32,80
63,14
72,56
1993–1998 118,82
54,63
54,64
62,61
45,17
65,49
97,19
1998
114,94
59,41
60,32
64,12
46,28
64,49
120,09
1999–2007 106,81
61,49
63,34
49,26
40,82
59,31
167,15
2007
103,47
63,76
64,91
36,12
43,94
62,15
187,65
2008–2011 115,42
78,76
76,14
55,93
69,11
88,97
216,18
2011
121,40
87,00
81,50
70,10
80,80
102,00
233,40
84,27
72,99
35,45
56,08
90,37
36,97
56,03
1992
1861–2011
20,10
47,21
22,16
Fonte: IMF, Historical Public Debt Database (2011). Nel calcolare i valori medi per
periodo si è tenuto conto degli anni mancanti nelle serie storiche di alcuni paesi.
Questo elevato persistente livello medio del rapporto debito
pubblico/PIL ha avuto un’evoluzione non lineare nel corso dei 150 anni
con forti oscillazioni tra fasi di accumulo e di riduzione più o meno
intense e rapide, e più o meno regolari o frastagliate. In ciascuna fase,
diversi ne sono stati i fattori e le modalità di accrescimento e di
riduzione, diverso il ricorso al risparmio interno e a quello estero (sia
pur talvolta “estero vestito”, ma di origine nazionale), diversa la quota
144
di finanziamento monetario prescelto o imposto e dei titoli o prestiti a
breve o lunga scadenza, e diversi, secondo la grande varietà delle
circostanze economiche e finanziarie nazionali e internazionali, i
presumibili effetti diretti e indiretti provocati dal disavanzo e debito
pubblico su variabili quali i tassi di interesse, il risparmio e
l’investimento privato, il tasso di crescita del prodotto interno lordo.
Si possono individuare cinque diverse fasi cicliche con valori minimi
e massimi (tab. 4) che presentano oscillazioni sia pur rilevanti ma
inferiori a quelle osservate nell’esperienza degli altri maggiori paesi.
Rinviando per una descrizione dettagliata alle considerazioni contenute
nell’ampia letteratura citata in bibliografia, si può osservare, a livello
aggregato, che un primo periodo di sostanziale accumulo del debito
pubblico, sia pure molto frastagliato e con molti picchi e avvallamenti, si
ha tra il 1861 e la fine dell’ottocento, seguito da una consistente ma
irregolare riduzione sino alla vigilia della prima guerra mondiale.
145
Tab. 4 – Italia: minimi e massimi del rapporto debito pubblico/Pil
1861
39,42
1897
1913
128
77,24
1920
1939
159,72
69,39
1943
1947
102,52
24,21
1994
121,84
2007 103,47
2011
121,4
Fonte: Francese, Pace (2008) fino al 2007.
In corrispondenza della prima guerra mondiale si ha la più forte
impennata del rapporto DP/PIL, il cui abbattimento nei primi anni
Venti è attribuibile, oltre che al venir meno delle spese belliche e a
qualche
prelievo
straordinario,
all’azione
dell’inflazione
e
prevalentemente alla fortissima riduzione del debito estero. Alla più
modesta impennata in corrispondenza della seconda guerra mondiale
segue un abbattimento del debito pubblico molto più consistente per
effetto della fortissima inflazione.
L’unico periodo a basso livello e a bassa crescita del debito pubblico è
stato, come si è accennato (riquadro 1), il secondo dopoguerra, tra il
1946–47, quando il debito venne praticamente azzerato dall’inflazione e
l’economia iniziò a crescere fortemente, e la metà degli anni Sessanta,
quando, per effetto di ricorrenti deficit di bilancio, riprese ad
accumularsi prima più lentamente e poi accelerando. Questa
accelerazione fu causata prima dalle politiche di bilancio dirette a
fronteggiare le turbolenze economiche e finanziarie degli anni Settanta e
poi dai mutati orientamenti della politica monetaria in assenza di
un’adeguata politica fiscale compensativa. La consapevolezza
dell’incompatibilità di livelli del rapporto debito/PIL pari al doppio del
limite fissato nel Trattato di Maastricht, con l’aspirazione all’ingresso
nell’Unione Monetaria Europea, hanno avviato, alla metà degli anni
Novanta, un processo di lenta continua riduzione, che si è interrotto con
il sopravvenire della recente Seconda Grande Crisi.
Qui preme sottolineare come le singole fasi siano molto diverse tra
loro l’una dall’altra, per quanto riguarda sia l’incidenza dei vari fattori
che hanno agito con intensità e modalità diverse nelle fasi di accumulo
del debito, sia il ricorso ai vari meccanismi messi in atto per la riduzione
più o meno rapida e consistente del debito. Rinviando anche qui
146
all’ampia letteratura disponibile 2, ci si limita a ricordare le difficoltà che
si incontrano nel ricostruire una completa e precisa contabilità della
dinamica del debito anche per la scarsa disponibilità in alcuni periodi di
informazioni significative e attendibili. Allo stesso tempo, si vuole
sottolineare l’importanza relativa, nei singoli casi, del ruolo svolto dai
principali fattori e le loro relazioni con i maggiori mutamenti verificatisi,
da un lato, nella situazione economica e finanziaria nazionale e
internazionale, nella struttura sociale, nell’organizzazione politica e
negli orientamenti ideologici delle maggiori personalità coinvolte;
dall’altro, negli obiettivi perseguiti, nei vincoli e negli strumenti della
politica di bilancio del momento.
Sembra difficile formulare e verificare un’unica ipotesi interpretativa
delle varie fasi di accumulo e riduzione del debito e della sua peculiare
persistenza a un livello comparativamente molto elevato. Proprio questa
caratteristica del debito pubblico italiano sconsiglia di affidarsi a
semplici ipotesi interpretative sia pur teoricamente attraenti. Infatti, un
elevato livello del rapporto debito/PIL si è avuto in presenza di una
popolazione molto giovane con vita media attesa molto bassa e di
popolazione invecchiata con vita media attesa molto lunga; quando
l’Italia era un paese di massiccia emigrazione e quando è divenuta un
paese che riceve immigrati; quando era molto povera e quando è
divenuto benestante; in tempo di guerra e in tempo di pace; in periodi di
piena integrazione finanziaria internazionale e di relativa autarchia; con
politiche monetarie accomodanti e restrittive; durante la monarchia e
durante la repubblica; sotto governi di destra e di sinistra; in regime di
democrazia parlamentare a suffragio (molto) ristretto e a suffragio
universale; quando la spesa pubblica e la pressione tributaria erano
basse o alte; quando il costo medio del debito e la sua struttura per
scadenze erano bassi o elevati; quando i titoli erano prevalentemente in
possesso di residenti o di stranieri, di famiglie o di imprese e
intermediariari; quando i responsabili della politica di bilancio erano
impegnati a rispettare un rigoroso principio di pareggio del bilancio o
una norma costituzionale che imponeva la piena copertura di ogni
nuova o maggiore spesa e quando si ispiravano implicitamente a
un’impostazione di vago stampo keynesiano.
In ciascun periodo e sottoperiodo, sia di aumento che di diminuzione
del rapporto debito/PIL, i vari fattori evidenziati nella tradizionale
letteratura sull’argomento hanno avuto un’importanza molto
differenziata e solo in pochi casi appare un rapporto diretto tra
andamento del debito e decisioni di bilancio in senso stretto
(eventualmente approssimate dal valore del saldo primario). Gli
orientamenti della politica di bilancio spesso possono essere risultati
importanti, più che per il contributo quantitativo, come segnali per la
147
stabilizzazione delle aspettative. E la loro efficacia, nel bene e nel male, è
stata influenzata, con intensità e modalità diverse, dalle caratteristiche
che in quel momento hanno il tasso di crescita economica e di inflazione,
il regime valutario e dei movimenti di capitale, gli orientamenti della
politica monetaria, la situazione dei mercati finanziari nazionali e
internazionali, il livello e la struttura dei tassi di interesse, la
composizione del debito per sottosettori (governo centrale, governi
locali, altri enti) e per strumenti, la struttura per scadenze e la
distribuzione del possesso dei titoli, le prospettive di stabilità politica e il
clima di fiducia, il livello e la composizione del prelievo tributario.
Ovviamente, tutti questi aspetti sono in qualche modo collegati tra loro e
con altre variabili e naturalmente esistono relazioni ricorrenti che
possono essere stimate, ma qui interessa sottolineare la profonda
diversità con cui tali fattori si sono concretamente combinati nel
determinare l’andamento del rapporto debito/Pil nel corso di queste
diverse fasi cicliche.
Per quanto vari e diversamente importanti (e, talvolta, anche al di
fuori della sovranità fiscale nazionale) possano essere i fattori che
contribuiscono all’accumulo del debito pubblico, essi in tutti i casi
portano a dover affrontare, prima o poi, lo stesso problema: come
diminuirlo. Anche nella riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, la
storia del debito pubblico italiano mostra una grande varietà di
esperienze e il concorso di una molteplicità di fattori: una rapida crescita
economica, un miglioramento del saldo primario (non sempre ottenuto
con un contenimento delle spese piuttosto che con un aumento delle
tasse, ivi compresi alcuni prelievi straordinari sul patrimonio), una
riduzione del costo del debito (spesso destinata solo in parte e un suo
abbattimento), una lieve o forte inflazione, una rinegoziazione o
conversione del debito più o meno volontaria o forzosa, il ricorso a
prelievi o dismissioni patrimoniali (privatizzazioni). Nonostante questa
grande varietà di esperienze, si riscontra una peculiare persistente
elevata propensione al debito pubblico. Dove se ne possono rintracciare
le origini? Forse in alcune “abitudini e mentalità del paese” formatesi
nella fase di costituzione dello Stato italiano? E quali sono?
Sin dalla costituzione del nuovo Regno d’Italia, la finanza pubblica
rappresentò il fulcro centrale del lungo e complesso processo di
unificazione economica del paese, e ne fu a sua volta condizionata,
attraverso l’unificazione amministrativa, tributaria, monetaria, doganale,
infrastrutturale e del debito pubblico. Basterà ricordare la difficilissima
situazione finanziaria che, nonostante qualche iniziale illusorio
ottimismo, si dovette affrontare per effetto del peso del debito ereditato,
dell’impellenza delle spese per la difesa e la sicurezza nazionale e le
infrastrutture di base, nonché delle difficoltà di reperimento delle
148
entrate a causa di carenze organizzative e di limiti strutturali legati
all’arretratezza economica e alla situazione sociale del paese. È
interessante esplorare, sia pure per grandi linee, come si sia riusciti a
superare una grave crisi finanziaria, ad assicurare il finanziamento delle
spese necessarie riuscendo anche ad aprire un qualche spazio a spese
per lo sviluppo economico e civile, e a costruire un sistema tributario
che, nelle sue strutture portanti, rimarrà in vita per circa un secolo.
Per comprendere la grandiosità, e al tempo stesso i limiti, di questa
opera, bisogna tener conto delle difficili condizioni ambientali in campo
politico, economico, sociale e finanziario, e della pesante eredità
trasmessa al nuovo Regno d’Italia da Stati divisi e indebitati. L’ostilità o
il sospetto con cui molti Stati stranieri guardavano alla nascita del nuovo
Regno d’Italia rendevano necessario e urgente allontanare il rischio di
dissesto e disintegrazione dello Stato appena costituito e consentirgli di
raccogliere i fondi necessari anche sui mercati internazionali. Anche sul
fronte interno, nonostante la sostanziale comunità di obiettivi e di
impostazione della politica economica di tutta la classe politica e
dirigente, la breve durata della maggior parte dei governi costituitisi
dopo l’Unità impedì spesso che le decisioni venissero prese secondo un
disegno coerente e complessivo e si ricorresse invece a misure urgenti
adottate sotto la pressione dell’emergenza. Il tutto in una situazione di
bassa crescita economica, con profondi squilibri territoriali e diffuse aree
di arretratezza profonda, in un clima di insicurezza in larghe zone del
paese (e non soltanto nelle parti in cui si manifestò il fenomeno
drammatico del brigantaggio), e con tensioni sociali alimentate o
sfruttate dagli oppositori del nuovo Stato. La prima legge
dell’unificazione finanziaria approvata subito dopo la proclamazione del
Regno fu la n. 94 del 10 luglio 1861, con la quale fu istituito il gran Libro
del debito pubblico. Questa legge rafforzava le garanzie dei creditori
verso lo Stato già contenute nello Statuto albertino 3, prevedendo che “il
pagamento delle rendite iscritte nel gran libro non potrà mai, in nessun
tempo, o per qualsiasi causa, anche di pubblica necessità, venire
diminuito o ritardato “ (art. 3) e che “la prima assegnazione da farsi nel
bilancio di ciascun anno sarà per il pagamento delle rendite che
costituiscono il debito pubblico” (art. 4).
I primi titoli di debito iscritti nel Gran Libro furono quelli degli Stati
entrati e far parte del nuovo Regno, cui seguiranno poi quelli degli altri
Stati che ne entreranno a far parte successivamente (il Veneto nel 1866,
Roma nel 1870). La maggior parte del vecchio debito iscritto riguardava
il regno di Sardegna (per oltre il 57%) e il Regno di Napoli (per circa il
30%).
Il problema del riconoscimento dei debiti degli Stati pre-unitari fu al
momento rapidamente discusso e risolto positivamente in base
149
all’esigenza di rendere evidente la continuità tra i vecchi Stati e il nuovo
Regno d’Italia e per assicurare a quest’ultimo la caratteristica di debitore
credibile cui poter affidare tranquillamente in futuro i propri risparmi.
Naturalmente, accanto alla sottolineatura di tali aspetti positivi, non
mancarono le polemiche circa l’aver trasferito su tutta l’economia
nazionale l’onere di un debito che originariamente non era
uniformemente distribuito tra le varie zone del paese così come non
erano uniformemente distribuiti gli eventuali benefici delle spese che
quel debito aveva finanziato nei diversi (e soprattutto nei due maggiori)
Stati pre-unitari. Come altri aspetti dell’unificazione finanziaria del
paese, anche quella del debito pubblico fu una scelta per molti aspetti
obbligata e opportuna, ma che contribuì ad alimentare persistenti
polemiche sulla distribuzione territoriale dei costi e dei benefici
dell’unificazione politica dell’Italia. Come ricorda Fausto (2005), ciò
diede luogo a una vivace polemica cui parteciparono molti autorevoli
studiosi, fra i quali, su posizioni opposte, Nitti ed Einaudi, e che avviò
un dibattito aspro e inconcludente sulla distribuzione territoriale dei
costi e dei benefici delle politiche di bilancio e del ricorso al debito
pubblico. Dibattito che spesso ha portato ad accentuare le recriminazioni
e i sospetti reciproci di presente o passato sfruttamento, anziché valutare
le politiche della spesa e dell’entrata pubblica in termini dei loro effetti
sulla crescita economica e la coesione sociale del paese.
6. Subito dopo l’Unità, il rapporto debito/Pil si accrebbe rapidamente
con brusche impennate e qualche isolato rallentamento (tab. 5), in
controtendenza rispetto all’andamento riscontrabile negli altri due paesi
per i quali si dispone di dati comparabili per quel periodo (Graf. 1). A
questo rapido aumento del debito pubblico nei primi anni dopo l’Unità,
accanto all’assunzione dei debiti dei vecchi Stati, vari altri fattori
contribuirono. In primo luogo, l’esigenza di finanziare le spese militari
dirette a fronteggiare eventuali attacchi e, soprattutto, a portare a
compimento l’unificazione del paese 4. C’era poi da coprire la spesa
necessaria per garantire l’ordine pubblico interno e la buona
amministrazione in tutte le province del regno e per la costruzione delle
infrastrutture nel settore dei trasporti e delle comunicazioni
indispensabili per la formazione di un grande mercato unico nazionale.
Fin dall’inizio, nell’esposizione finanziaria del 7 giugno 1862 5,
Quintino Sella, dopo aver cercato di fornire, sulla base delle scarse
informazioni disponibili, una descrizione sufficientemente attendibile
della precaria situazione finanziaria, indicava le vie da percorrere per
farvi fronte: economie di spesa, aumenti di entrate tributarie, prestiti
pubblici, ricorso a convenzioni con privati, vendite di beni. Vedremo più
avanti in dettaglio, ancorché in via esemplificativa, come queste diverse
strade siano state seguite dai governi della Destra storica con una forte
150
determinazione e una grande varietà di percorsi al fine non soltanto di
“assestare” le finanze pubbliche, ma anche di creare le precondizioni per
la crescita economica e di provvedere, per quanto possibile, ad un’equa
ripartizione dei benefici e dei sacrifici. Vedremo soprattutto come il
ricorso a quei diversi meccanismi, per contenere o ridurre il livello del
debito, e in particolare a quelli che influenzano il saldo primario di
bilancio (contenimento delle spese e aumento delle imposte), sia stato
ritenuto necessario ma non sufficiente per fronteggiare l’elevato e
crescente debito pubblico e per scongiurare il rischio di default del
nuovo Stato.
151
Tab. 5 – Rapporto Debito Pubblico / PIL in Italia, Regno Unito, Stati Uniti: 1861–
1876
Italia
Regno Unito Stati Uniti
1861
39,42
108,47
1,94
1862
40,91
106,62
9,51
1863
51,85
100,91
15,25
1864
61,1
95,23
19,06
1865
68,05
91,06
28,45
1866
69,26
86,95
30,11
1867
86,09
87,67
29,9
1868
82,46
84,58
29,76
1869
87,47
83,12
29,63
1870
95,78
77,35
29,88
1871
95,79
71,71
28,94
1872
88,76
67,41
23,62
1873
79,68
61,84
23,13
1874
78,62
63,08
24,98
1875
89,78
63,65
25,47
1876
101,31
65,43
24,54
76,02
82,19
23,39
media 1861–1876
Fonte: IMF, Historical Public Debt Database.
152
Grafico 1. Rapporto Debito pubblico/Pil in Italia, Regno Unito, Stati Uniti: 1861–1876
(fonte: IMF)
Sin dalla prima esposizione finanziaria citata, Sella delinea le linee
generali di una impostazione che verrà ripresa e approfondita in
numerosi successivi interventi e proposte operative. Si ritengono
“irriducibili” non soltanto le spese militari e per la sicurezza del nuovo
Stato, ma anche le spese per opere pubbliche necessarie per
l’unificazione del paese (come le ferrovie) e per favorire la crescita
economica. Questa scelta coraggiosa 6, una volta scartati risparmi di
spesa rilevanti (ma non quelli “esemplari”, sia pure di modesto
ammontare 7), comportava però, per coprire le spese “irriducibili”, il
ricorso a maggiori imposte o a prestiti o a dismissioni di beni pubblici.
Rinviando più avanti per alcune brevi considerazioni su come furono
concretamente perseguite, da un lato, le “economie fino all’osso” della
spesa pubblica e, dall’altro, la convinzione esposta da Quintino Sella
nella sua prima esposizione finanziaria del 7 giugno 1862 (e riaffermata
da tutti i responsabili delle Finanze dell’epoca) che, “per assestare le
nostre finanze occorrono imposte, imposte, nient’altro che imposte”, qui
ci si vuole soffermare brevemente sulle posizioni e sulle decisioni tenute
nei confronti del ricorso al debito pubblico. Nonostante gli sforzi
153
compiuti per ridurre le spese e aumentare le entrate, l’Italia, “dal
momento in cui si è costituita, non ha potuto raggiungere mai la prima
condizione della stabilità sociale, l’equilibrio fra le entrate e le spese
della sua finanza” 8. Si è dovuto perciò ricorrere a forme di finanza
straordinaria, ma “prestiti, vendite di beni, affrancamento di (imposta)
fondiaria, tutte queste cose che effetto hanno? Hanno per effetto di darci
certamente un capitale col quale far fronte a questo disavanzo, ma
hanno pure l’effetto di accrescere le spese annue (per interessi), oppure
di diminuire le entrate, e per conseguenza di accrescere il disavanzo”
(sempre Quintino Sella il 13 dicembre 1865, in Izzo 1962, p. 277).
154
Tab. 6 – Entrate tributarie e spese per interessi (milioni di lire)
Entrate tributarie Interessi Differenza Interessi su entrate tributarie (%)
1862
361
143
218
39,61
1863
412
176
236
42,72
1864
466
208
258
44,64
1865
613
258
355
42,09
1866
512
276
236
53,91
1867
601
288
313
47,92
1868
622
290
332
46,62
1869
818
353
465
43,15
1870
702
396
306
56,41
1871
924
414
510
44,81
1872
990
441
549
44,55
1873
985
450
535
45,69
1874
968
458
510
47,31
1875
997
453
544
45,44
1876
992
458
534
46,17
Fonte: Ministero del Tesoro – RGS (1969), Vol. III. Dal 1862 al 1870, riscossioni
complessive; dal 1871 al 1876, versamenti complessivi.
Per evitare o allentare il circolo vizioso disavanzo-debito-disavanzo,
occorre evitare che, una volta ottenuti tutti i possibili ma limitati
risparmi di spesa, l’aumento delle imposte serva solo a vanamente
rincorrere l’aumento degli oneri di bilancio dello Stato, di cui la parte
più rilevante e costituzionalmente garantita e irriducibile è costituita
dalle spese per interessi sui titoli del debito pubblico 9. Queste spese
hanno assorbito in tutti gli anni del periodo considerato una quota delle
entrate tributarie superiore al 40% e in alcuni anni, hanno superato
largamente anche il 50% (tab. 6). Anche se queste cifre possono oggi
apparire impressionanti, esse non sono da considerarsi eccezionali per i
bilanci pubblici di molti paesi dell’epoca. Esse confermano in ogni caso,
l’entità dei trasferimenti dai contribuenti ai possessori dei titoli del
debito pubblico e l’importanza delle forme di prelievo tributario
utilizzate.
7. L’elevatezza dei tassi di interesse, oltre ad aggravare il circolo
vizioso disavanzo-debito-disavanzo, ha l’effetto di spiazzare gli
investimenti privati: “le conseguenze di un bassissimo corso di rendita
sono disastrose; imperocché come volete che si trovino capitali per
l’industria, allorquando è aperto un mezzo di collocare con garanzia
dello Stato i capitali che danno tanto profitto?… Come dunque la nostra
agricoltura migliorerebbe; come le nostre industrie potrebbero sostenere
155
la concorrenza straniera quando il valore del denaro fosse cotanto
elevato, mentre si hanno paesi dove i fondi pubblici e per conseguenza il
danaro non valgono che il 3, il 4 per cento?” 10.
Tra i principali fattori determinanti la disponibilità e il costo del
credito vi sono certamente le condizioni in cui si trovano e i modi in cui
si comportano i mercati finanziari internazionali. La partecipazione dei
capitali internazionali al finanziamento del rapidamente crescente debito
pubblico italiano era stata massiccia (Luzzatto 1963, p. 54s.) e le relative
buone condizioni inizialmente ottenute dal nuovo Stato italiano,
nonostante la debolezza relativa della parte italiana nei negoziati, erano
attribuibili solo alle “condizioni di relativa abbondanza sul mercato
finanziario internazionale e di accesa concorrenza tra grandi
intermediari” 11.
Ma quando le condizioni dei mercati finanziari internazionali mutano
e peggiorano, si verifica il principio delle maree (oggi correntemente
denominato flight to quality secondo cui “i paesi periferici, quale era
l’Italia nei decenni dopo l’Unità sono lambiti dall’onda della finanza
internazionale quando essa più potentemente si allarga, e sono lasciati a
secco per primi quando la stessa accenna a ritirarsi” (De Cecco 1990, p.
23). Accadde così che “la crisi economica e finanziaria di marzo e
d’aprile 1866 produsse in tutta Europa un grandissimo sconcerto nella
condizione economica privata e pubblica. Quella crisi doveva aver
necessariamente effetto ancora più grave in Italia, poiché il credito
pubblico appresso di noi è più sensibile ancora a questi grandi
avvenimenti … tutti i nostri titoli di credito venivano in Italia per essere
riscossi o scontati, e la rendita pubblica ci ritornava a larghe partite. Nel
maggio e nel giugno il nostro credito pubblico era così giù che
qualunque operazione finanziaria all’estero ci sarebbe stata
impossibile” 12
A ciò si aggiunga che “contemporaneamente il nemico ingrossava
minaccioso alle nostre frontiere, e noi, con danaro più che scarso nelle
casse dello Stato, affrontavamo una guerra che poteva essere terribile
per le sue conseguenze e rovinosa per la sua durata” 13. Il governo fu così
autorizzato a rivolgersi alla Banca Nazionale nel Regno per ottenere una
anticipazione di 350 milioni di lire, concedendo in cambio la sospensione
della convertibilità in moneta metallica dei biglietti emessi dalla stessa
Banca.
Non ci si intende qui soffermare sull’ampio dibattito relativo
all’urgenza dei motivi economici e finanziari che portarono
all’introduzione del corso forzoso, né sulle modalità con cui fu
introdotto, né sugli effetti economici, finanziari e sociali che ebbe 14. Si
vuole soltanto accennare ad alcuni motivi per i quali l’introduzione del
corso forzoso fu accettato come mezzo temporaneo di copertura del
156
disavanzo (in alternativa al prestito volontario, che avrebbe comportato
insopportabili interessi, e a insopportabili maggiori imposte) da parte di
una classe dirigente che si ispirava a principi di liberismo economico, sia
pure pragmatico, e che aveva come obiettivo ideale quello del pareggio
tra entrate e spese pubbliche.
Non potendo qui richiamare le diverse posizioni espresse in materia
dai principali protagonisti, spesso in aperta contrapposizione fra di loro,
ci si limiterà a ricordare sinteticamente alcune opinioni di Francesco
Ferrara (1972), che possono chiarire l’apparente contraddizione fra la
dichiarazione “che, se vi sono in Italia avversari del corso forzato, io non
sarò certamente il più gagliardo di tutti, ma tra i più risoluti e costanti” e
che “è verissimo nondimeno che questo corso forzato io lo lodai da
principio, e lo lodo ancora l’unico ed il miglior espediente a cui si
potesse ricorrere nel momento in cui fu adottato” (p. 101). Premesso che
“in generale, io non ho attrazione verso gli imprestiti. Anche a discrete
condizioni, il più delle volte non divengono che una causa di penuria
perpetua per le nazioni … Quindi, in generale, l’imprestito io lo aborro.
Ma, nelle condizioni in cui oggi si trova l’Italia (di bassa crescita e alto
costo del debito), vi è più che aborrimento; l’imprestito, lo confesso, mi
fa spavento” (105).
Né ci si può illudere di contrarlo a miti condizioni rendendolo
coattivo, perché “l’imprestito coattivo, fra gli altri suoi enormi difetti, ha
questo, di appartenere a quella specie di tasse, nelle quali ciò che arriva
nelle casse dell’erario è molto minore di ciò che pagano i contribuenti” e,
in definitiva, si risolve in “un gran carnevale dei ricchi, celebrato a spese
dei poveri” (106–107).
Il corso forzato è “una calamità” e non può essere “un elemento di
prosperità” (108): i suoi presunti vantaggi sono apparenti o di breve
durata, perché “la carta, col mutabile suo valore, svaporando di giorno
in giorno, ha tolto all’energia economica degli italiani ogni base di
calcolo, ogni probabilità di avvenire” (126), anche se, “fortunatamente …
in Italia la moneta di carta non ha ancora degenerato in un cancro
incurabile” (114). Esso va perciò abolito appena possibile, anche se la
introduzione non fu un errore di chi la propose “né un suo capriccio” 15,
perché “all’epoca di cui parliamo, la fatale coincidenza di una crisi
bancaria e di una estrema penuria del tesoro modificava profondamente
il problema, e lo modificava fino al punto di spezzare la stessa
infallibilità di un principio” (103). Principio che, se è quello del pareggio
del bilancio, è necessario riprendere a perseguire con estrema decisione,
ma che non è sufficiente a ristabilire il credito del paese”, perché
pareggio e credito non sono poi due cose così intimamente connesse e
compenetrate che, data una, dobbiamo necessariamente aspettarci
l’altra” 16. Infatti, “se fossimo condannati a vivere una vita di agitazioni
157
continue” o apparissimo disposti a correre avventure finanziariamente
pericolose, “il mondo crederebbe ben poco al nostro avvenire; il danaro
non cercherebbe la nostra rendita, e noi, col bilancio il più pareggiato
alle mani, la vedremmo costantemente depressa” (121); d’altro canto, “la
guerra o qualche altra sventura consimile potrà tornare; ma se,
tornando, portasse il bisogno di chiedere nuovamente aiuto alla carta,
questo sarebbe l’effetto degli avvenimenti, non mi si dica che sia l’effetto
del disavanzo annuale” (122).
Ciò non toglie che “certamente (giova proclamarlo nel modo più
solenne), certamente eliminare il disavanzo dai nostri bilanci è bisogno
supremo, urgentissimo; e per eliminarlo, checché si dica, bisogna che la
somma delle nostre tasse si accresca” (127). Ma, all’aumento delle tasse
vi sono dei limiti, costituiti dalla sopportabilità del prelievo complessivo
e della sua ripartizione, dalla presenza di “tasse possibili”, come le
definisce Ferrara, in funzione dell’ammontare di basi imponibili legate
allo sviluppo della ricchezza (allora piuttosto basso e lento) e alla
disponibilità dei contribuenti di pagare imposte il cui gettito andava
trasferito ai possessori dei titoli per il pagamento del servizio del debito
pubblico.
8. Il processo di unificazione tributaria e doganale fu uno dei compiti
più complessi e difficili che si dovettero affrontare dopo l’Unità. Si
trattava di definire e applicare un sistema doganale e tributario
uniforme in un paese che era frammentato in stati e staterelli con regimi
doganali e tariffe daziarie estremamente differenziate, con diversità
fortissime di strutture economiche e fiscali, di codici, usi, abitudini, di
lingua, di amministrazioni finanziarie, di catasti (22, risalenti a epoche
diverse, con metodi di formazione e di valutazioni molto differenziati).
Inoltre, l’introduzione del nuovo sistema avvenne inevitabilmente a
tappe, senza un unico disegno generale unanimemente condiviso, con
ricorso a forme di prelievo dettate dall’emergenza e dall’urgenza di
produrre gettito immediato, sotto la spinta di esigenze settoriali e
territoriali. Sorprende ed è una testimonianza della competenza tecnica e
del coraggio politico dei responsabili delle finanze dell’epoca, che il
nuovo sistema tributario introdotto nei primi anni dopo l’Unità sia
risultato sufficientemente organico e innovativo rispetto ai sistemi
adottati negli altri paesi europei 17 e talmente solido da persistere per
oltre un secolo nelle sue linee fondamentali.
Va sottolineato che il problema di una ripartizione sopportabile e per
quanto possibile (tenuto conto delle condizioni economiche e sociali
allora prevalenti) equilibrata del carico tributario fu sempre presente. I
conflitti esistenti tra i diversi settori colpiti (proprietà fondiaria,
ricchezza mobiliare, imprese industriali, consumi popolari) e
soprattutto, all’interno di ciascuno di questi gruppi, vennero affrontati
158
con provvedimenti complessi che tendevano a realizzare compromessi
ragionevoli anche tra forme di tassazione estreme (ad esempio, tassa sul
macinato e ritenuta sugli interessi dei titoli del debito pubblico).
A livello aggregato, può notarsi la prevalenza delle imposte sul
reddito e il patrimonio praticamente lungo l’intero periodo (Graf. 2),
seguite dalle imposte sui consumi. Entrambe queste categorie di imposte
vedono diminuire la propria incidenza sul totale nel corso del periodo
(tab. 7): le imposte sul reddito e patrimonio in maggior misura
(soprattutto per il crollo relativo dell’imposta fondiaria sui terreni,
superata alla fine del periodo dall’imposta di ricchezza mobile), mentre
tra le imposte sui consumi si riducono fortemente le tasse sui tabacchi,
che nei primi anni dopo l’Unità costituivano la seconda principale forma
di entrata dopo la fondiaria. Crescono, invece, fortemente i proventi
delle dogane e dell’imposta di registro (Graf. 2).
159
Graf. 2. Entrate tributarie statali: composizione percentuale
Senza entrare nelle caratteristiche proprie di ciascuna principale
forma di imposizione, e sui loro presumibili effetti distributivi, qui si
vuole sottolineare un aspetto generale che sembra riguardarne la
maggior parte, e cioè l’essere caratterizzate fin dall’origine da una
diffusa e differenziata non-compliance, considerata come una
“conseguenza quasi naturale della difettosità del sistema e
dell’elevatezza delle aliquote 18. L’entità dell’evasione, anche nel solo
campo dell’imposizione diretta, apparve fin dall’inizio molto alta 19.
160
Tab. 7. Entrate tributarie statali
milioni di lire
1862
Terreni
1876
composizione %
media
1862–76
1862
1876
46,40
variazione
media 1876–1862
1862–76
167,69 128,08
135,98
12,91
21,09
54,36
49,29
5,48
6,01
183,40
116,51
18,48
13,59
Fabbricati
Ricchezza mobile
–33,49
Successioni
7,12
31,37
21,85
1,97
3,16
2,98
1,19
Altre imposte
7,72
0,19
5,80
2,14
0,02
0,86
–2,12
182,53 397,40
298,82
50,50
40,04
40,83
–10,46
Totale categoria I
Registro
2,40
55,74
39,51
0,66
5,62
5,32
4,95
13,58
37,68
26,59
3,76
3,80
3,67
0,04
4,56
3,27
0,46
0,41
4,49
2,75
0,09
0,45
0,28
0,36
16,30 102,47
71,53
4,51
10,32
9,65
5,81
Dogane
1,85 100,88
70,71
0,51
10,16
9,27
9,65
Totale categoria III
1,85 100,88
70,71
0,51
10,16
9,27
9,65
8,31
5,98
Bollo
Concessioni
Surrogazione
Totale categoria II
0,32
Macinato
56,46
Tabacchi
64,38
82,52
80,09
17,81
8,59
12,08
–9,22
Sali
35,28
85,27
64,13
9,76
8,04
9,04
–1,72
79,83
2,05
50,02
Altre monopolio
Fabbricazione
1,45
3,03
Altri consumi
24,38
70,03
0,40
0,31
6,75
7,06
226,41
34,72
32,31
31,35
–2,41
71,00
63,33
9,75
7,15
8,90
–2,60
0,02
0,02
0,03
0,02
71,02
63,34
7,16
8,90
Totale categoria IV 125,49 320,68
Lotto
35,25
Altre att. di gioco
Totale categoria V
Tot. Ent. tributarie
35,25
0,31
361,42 595,24
9,75
6,73
–0,10
0,31
–2,60
730,80 100,00 100,00
Fonte: Ministero del Tesoro – RGS (1969), Vol. III. Dal 1862 al 1970, riscossioni
complessive; dal 1871 al 1876, versamenti complessivi1864. La diminuzione dei
redditi tassabili con ruoli dal 1864 al 1872 era stata, dunque, veramente enorme, e
può dirsi che, se la frode oculata dei contribuenti non avesse in codesto spazio di
tempo così limitato il campo imponibile, la sola imposta di ricchezza mobile avrebbe
dato non solo il pareggio, ma un avanzo vistoso che avrebbe permesso la
diminuzione dell’aliquota” (Corbino 1931, p. 311–2). Una stima quantitativa, riferita
ai tempi recenti, sui rapporti tra evasione, disavanzi di bilancio e debito pubblico è in
Alesina e Marè (1996).
Il livello e la composizione delle imposte e il grado di adempimento
tributario possono essere considerati irrilevanti ai fini della sostenibilità
del debito pubblico finché si assume la collettività composta da
individui perfettamente omogenei o da un solo individuo. Se, invece,
161
realisticamente si assume che i contribuenti, i possessori dei titoli del
debito pubblico e i beneficiari della spesa pubblica che il debito serve a
finanziare non coincidono del tutto, allora gli effetti distributivi tra
questi tre gruppi, e all’interno di ciascuno di questi tre gruppi, possono
divenire estremamente rilevanti ai fini della sostenibilità del debito
pubblico.
Spaventa (1987) ha richiamato l’attenzione sul fatto che, se ci sono dei
limiti sul livello di tassazione che una collettività è disposta a tollerare,
una regola fiscale che inizialmente rispetta il vincolo intertemporale di
bilancio può portare a una situazione di insostenibilità nel lungo
termine 20. Ma già De Viti De Marco 21 aveva affermato che col “prestito il
bilancio dello Stato si aggrava della spesa degli interessi a cui risponde
l’entrata per egual somma. È, per lo Stato, una partita di giro; ma non è
tale nel bilancio economico della collettività, come talvolta è stato
affermato. La collettività non è un ente omogeneo, che paga 50 milioni di
imposte e riceve 50 milioni di interessi; lo Stato riceve dagli uni 50 milioni
di imposta, e paga agli altri 50 milioni di interessi” (De Viti De Marco
1932, p. 18–19). Col progredire dell’accumulazione capitalistica, si avvia
un processo di democratizzazione del debito pubblico, perché cresce “il
numero delle persone che cercano ai propri risparmi investimenti
modesti e sicuri”, acquistando titoli del debito pubblico che, una volta
nel loro portafoglio, fanno sì che “il debito d’imposta si compensa, anche
nel loro bilancio, col credito di interessi In questo momento il debito
pubblico si può considerare come estinto di fatto … Restano le cifre
paurose degli originari debiti pubblici e degli interessi, ma il giuoco
delle partite di giro tende gradualmente a svuotarne il contenuto
economico” (De Viti De Marco 1932, p. 21).
Ma un tale processo di ammortamento automatico del debito
pubblico è sempre molto parziale e limitato, dipendendo
sostanzialmente dal grado di concentrazione dei vari tipi di redditi e
patrimoni, dalle loro forme di impiego, dalle modalità specifiche della
loro tassazione comparata anche con quella di altre basi imponibili come
i consumi o gli scambi. In realtà, la coincidenza tra singoli contribuenti e
rentiers è molto limitata e variabile, e il contrasto può divenire evidente
e drammatico quando gli oneri del debito pubblico “assorbano una
proporzione esorbitante del reddito nazionale” o del prelievo tributario
complessivo, come abbiamo visto essere stato il caso nel primo periodo
dopo l’Unità d’Italia. Perché “in nessuna società, antica o moderna, gli
elementi attivi e produttivi acconsentirono mai a cedere alla classe dei
rentiers o portatori di obbligazioni più di una certa proporzione del
frutto del loro lavoro. Quando il servizio del debito accumulato ne
richiede più di una tollerabile proporzione, si cerca un sollievo
generalmente in uno di due – sui tre – metodi possibili. Il primo è il
162
ripudio del debito Il secondo metodo è il deprezzamento del medio
circolante … (e il terzo) è l’imposta sul capitale” (Keynes 1925, pp. 81–
82). Senza entrare qui nell’esame dei motivi a favore o contro l’adozione
dell’uno o l’altro dei metodi possibili, interessa qui la considerazione di
Keynes circa il fatto che il “compromesso tra l’aumento delle imposte e
la diminuzione delle spese da una parte e la riduzione di quanto è
dovuto ai suoi rentiers dall’altra” (come si immaginava avrebbe dovuto
fare la Francia del tempo) sarebbe dipeso dalle “abitudini e la mentalità
del paese” (Keynes 1925, pp. 92–3).
Si può ritenere che alcune caratteristiche originarie del
funzionamento del sistema tributario nei primi quindici anni dopo
l’Unità abbiano influenzato a lungo le “abitudini e la mentalità della
nazione” e perciò il modo in cui affrontare il problema del debito
pubblico.
Sono stati fin qui richiamati alcuni aspetti delle vicende originarie di
formazione del debito pubblico fruttifero e monetario svoltesi nel primo
quindicennio dopo l’Unità d’Italia e che possono avere influenzato in
misura e modi diversi nei vari periodi, la peculiare prolungata
persistenza di un elevato livello del debito pubblico italiano. In
particolare, ci si è soffermati in primo luogo sulle circostanze che hanno
portato a coprire la spesa pubblica ricorrendo alle imposte o ai capitali
disponibili sul mercato interno e internazionale. Si è rilevata la
dipendenza del costo del debito dalla condizioni prevalenti sui mercati e
l’avvio di un circolo vizioso disavanzo-debito-disavanzo, che ha spinto
ad un certo punto all’adozione del corso forzoso dei biglietti di banca 22.
In secondo luogo, si sono richiamate alcune caratteristiche originarie
del nuovo sistema tributario introdotto dopo l’Unità, relative al livello e
alla composizione del prelievo tributario complessivo ai limiti
dell’adempimento tributario, per sottolineare l’importanza che la
sopportabilità delle imposte, attraverso gli effetti distributivi legati alla
loro riscossione e al pagamento del servizio del debito, può avere sulla
sostenibilità del debito pubblico. Il modo in cui si sono svolte le vicende
relative a questi due aspetti nel primo quindicennio dopo l’Unità d’Italia
può avere influenzato, in misura e modi diversi che in altri paesi,
l’evoluzione del debito pubblico nei periodi successivi.
Accanto a questi due aspetti, conviene, prima di chiudere, elencarne
altri che, assumendo una specifica caratterizzazione originaria nel
periodo considerato, hanno poi improntato, con intensità e modalità
diverse nei vari sottoperiodi, la peculiare dinamica del debito pubblico
italiano.
Un primo ulteriore aspetto riguarda alcune carenze e opacità del
processo di bilancio e la precarietà o inattendibilità delle previsioni di
bilancio. Ovviamente, è comprensibile che, nelle fasi iniziali
163
dell’unificazione, i risultati di bilancio siano stati considerati per lungo
tempo provvisori e abbiano subito modifiche e assestamenti sostanziali
anche dopo un quinquennio. Ma l’abitudine a rivedere a distanza di
tempo e in misura rilevante i risultati di bilancio sembra essere persistita
a lungo ed essersi accentuata nei periodi di crisi. Ad esso è in qualche
modo legata la precarietà delle previsioni, inizialmente formulate in
modo molto ottimistico (basta pensare alla durata dei conflitti bellici,
grandi e piccoli, in cui periodicamente ci si imbarcava), e in genere,
proprio a motivo delle loro comprovata inattendibilità, quasi mai
proiettata con convinzione sul medio-lungo termine, che è quello che
conta ai fini del rispetto degli impegni assunti dallo Stato con il ricorso al
debito pubblico. Anche questo è fenomeno comune a molti paesi, ma nel
caso italiano ha subito fin dall’inizio una accentuazione maggiore che è
poi persistita per lungo tempo. Un ulteriore secondo aspetto è
rappresentato dalla definizione dei rapporti finanziari tra i diversi livelli
di governo. La scelta sostanzialmente accentratrice del nuovo Stato si
basava su motivi finanziari (Volpi 1962, p. 19 e 26) e sull’esigenza di
ridurre gli ostacoli agli scambi e alla produzione, favorendo l’uniformità
degli ordinamenti, anche al fine di mantenere una equilibrata
ripartizione degli oneri tributari tra le (allora) principali categorie di
contribuenti. La limitata autonomia tributaria locale ha ridotto
l’autonomia politica degli enti territoriali (come, forse, era inizialmente
desiderato e opportuno), creando un continuo rapporto di complicitàconflitto tra governo centrale e amministratori locali che, in molti casi,
sono stati deresponsabilizzati sotto il profilo finanziario. E anche questo
ha contribuito alla formazione delle “abitudini e mentalità del paese”.
1. È da notare che, nonostante la recente costituzione di una banca dati sul debito
pubblico presso il Fondo Monetario Internazionale (IMF 2011), i confronti
internazionali sono resi difficili sia per alcuni vuoti delle serie storiche relativi ad
anni “cruciali”, sia per la non sempre contemporanea corrispondenza o la diversa
intensità del verificarsi di eventi eccezionali (da finanziare con debito) nei singoli
paesi sia per l’assenza di informazioni complete e comparabili su aspetti
importanti, quali la struttura per scadenze, il costo o tasso di interesse medio, la
residenza e la natura dei sottoscrittori e possessori dei titoli, la quota di titoli
variamente indicizzati o emessi in valuta notevolmente superiori a quelli di tutti
gli altri paesi considerati, con l’eccezione del Giappone nell’ultimo decennio.
2. Nell’ampia letteratura disponibile, tra le più recenti ricostruzioni e interpretazioni
dell’evoluzione del debito pubblico italiano, si segnalano: Spinelli 1989, Toniolo e
Ganugi 1992, Zamagni 1992 e 1998, Fratianni e Spinelli 2001, Artoni e Biancini
2004, Fausto 2005, Francese e Pace 2008, Balassone, Francese e Pace 2011, Forte
164
2011. Interessanti spunti sono contenuti in ricerche ancora in progress: Bartoletto,
Chiarini e Marzano 2011; Conti e Mastromatteo 2011; Piergallini e Postigliola 2011.
3. L’art. 31 dello Statuto del 1848 sanciva che “Il debito pubblico è garantito. Ogni
impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile”. È da notare che, nel
secondo dopoguerra, questa norma non venne inserita nella nuova Costituzione
repubblicana perché sarebbe stato paradossale fornire una garanzia di
inviolabilità formale del debito pubblico nominale mentre ne veniva abbattuto il
valore sostanziale mediante una violenta inflazione.
4. Appena insediato alla Presidenza del Consiglio dei ministri come successore di
Cavour, Bettino Ricasoli, nel suo discorso d’investitura alla Camera dei deputati
del 12 giugno 1861, affermò “Prima cura del Governo, anzi suo primo debito
adunque sarà di proseguire con alacrità indefessa l’armamento nazionale. Le
somme necessarie agli apparecchi militari, quelle pure necessarie al compimento
delle grandi opere pubbliche, dalle quali deve svolgersi la potenza economica
della nazione, non possono raccogliersi con le imposte. Voi, o signori, siete
chiamati a votare una legge che autorizzi il Governo a contrarre un prestito, col
quale far fronte alle necessità presenti” (cit. in Romani 1982, p. 214–5).
5. Le citazioni da questo, come dagli altri interventi di Quintino Sella, sono tratte,
salvo che non sia altrimenti indicato, dai documenti raccolti in Izzo (1962).
6. “Vi erano due strade – aveva proclamato il Sella alla Camera il 14 aprile 1865 – da
tenere nella formazione del Regno d’Italia […] Alcuni […] ed erano i più paurosi
[…] hanno potuto credere che si dovesse mettere una specie di spegnitoio sopra il
bisogno prepotente di lavoro, di movimento sorto in tutto il Regno […] e si
dovessero continuare le spese in corrispondenza alle piccole risorse che avevano
gli antichi Stati […] Noi abbiamo scelto una via diametralmente opposta; noi ci
siamo gettati animosamente a soddisfare i bisogni di civiltà, di progresso che
trasparivano da tutte le parti della popolazione italiana” (cit. in Zamagni 1992, p.
11).
7. “Non è soltanto con economie che si può far fronte al disavanzo, e non basta dire:
disarmate, riducete le spese dell’esercito e della marina; poiché, quand’anche si
licenziasse tutto l’esercito e tutta la marina, e non si dessero gli assegnamenti di
disponibilità e di aspettativa a quelli che sono ora in attività di servizio, non si
otterrebbe il pareggio. Ciò non ostante è pur sempre d’uopo fare tutte le economie
possibili; non si dee spendere un centesimo che si possa risparmiare”: Quintino
Sella, Esposizione finanziaria del 13 dicembre 1865, in Izzo 1962, p. 192.
8. “Ha tentato incessantemente ogni mezzo per trarsi fuori da uno stato così
anormale e pericoloso; e sarebbe una crudele ingiustizia verso gli antecedenti
governi il supporre, come troppo leggermente si fa, ch’essi siano stati negligenti o
insensibili all’urgenza di questo supremo bisogno di guarire la piaga del
disavanzo. Chi si dia la pena di sostituire alle vane e volgari declamazioni l’esame
coscienzioso delle cifre, sarà costretto di riconoscere, che, nello spazio di cinque
anni soltanto, ministri e Parlamento hanno saputo ingrossare di 270 milioni le
entrate, diminuire di 100 le spese: hanno complessivamente arricchito il reddito
165
pubblico di ben 370 milioni all’anno. Nondimeno, è un fatto altrettanto vero, che
da un lato il costante disquilibrio fra le spese e le entrate, dall’altro la
sopravvenienza di straordinari avvenimenti politici, generando la necessità di
ricorrere, o, se così vorrà dirsi, la facilità con cui si è ricorso, all’infido aiuto del
credito, riuscirono a divorare un buon terzo del patrimonio che la nazione
venivasi con questi sforzi creando, e ci hanno imposto, quasi inesorabile fato, una
ragguardevole cifra di disavanzo, estrema parola, come tutti i nostri bilanci
annuali costantemente si chiusero” (dal discorso sulla finanza italiana
pronunziato alla Camera dei deputati il 9 maggio 1867 dal ministro delle Finanze
Francesco Ferrara, ripr. In Izzo 1962, pp. 370–1).
9. “Per provvedere a(l) disavanzo, se voi ricorrete a mezzi straordinari, se vi
rivolgete ai capitali, allora bisogna sottostare ad oneri così gravi, che io non esito a
dire che ogni cittadino italiano prudente debba dirci: chiedeteci quello che
occorre, ma non continuate con questo sistema, imperocché quello che voi non ci
chiedete oggi, ce lo chiederete domani con un aumento ben più grande di quello
che noi dovremmo oggi sopportare. Io quindi credo che si debba provvedere a
questo troppo notevole disavanzo, e che non vi sia altro modo di provvedervi con
utilità del paese se non aumentando le imposte esistenti o stabilendone delle
nuove” (Q. Sella, 13 dicembre 1865, in Izzo 192 p, 278).
10. Quintino Sella, Esposizione finanziaria 7 giugno 1862, cit. in Are 1962b, p. 508.
11. De Cecco 1990 (p. 23), che contiene una amplissima documentazione sul debito
pubblico estero.
12. Scialoja A., Discorsi parlamentari, vol. II, Roma, p. 88.
13. Scialoja A., Discorso sul corso forzoso, tenuto a Firenze nella seduta del 4 ottobre
1867 del I Congresso della Camera del commercio del regno, in Izzo 1962, p. 338.
14. L’introduzione del corso forzoso ebbe riflessi importanti anche sul dibattito
relativo alla struttura del sistema bancario, alla questione della banca unica e della
libertà di concorrenza nel settore bancario, nonché al ruolo della banca Nazionale
e ai suoi rapporti con il Governo, tanto da far individuare, alla maggioranza della
Commissione d’inchiesta del 1868, “la vera ragione dell’introduzione del corso
forzoso nella comune volontà della Banca Nazionale e del Governo, una volta
falliti i tentativi parlamentari del 1865, di arrivare per via di fatto alla banca unica.
Si trattava naturalmente di una forzatura, che però la dice lunga sul clima del
periodo e sull’ostilità nei confronti della Banca Nazionale” (Cardarelli 1990, p.
133). Riflessi pratici altrettanto importanti e largamente risentiti ebbe il corso
forzoso con riferimento alla circolazione delle monete divisionali argentee, che
erano quelle correntemente adoperate dalla popolazione per gli scambi quotidiani
e che furono largamente esportate all’stero per essere cambiate in oro, reintrodotto
poi in Italia sfruttando l’aggio sui biglietti provocato dal corso forzoso.
15. “Fu l’effetto naturale e inevitabile delle circostanze d’allora. E se, ad ogni costo, si
vuole trovare l’uomo che possa dirsene responsabile, non vogliate cercarlo in uno
Scialoja, molto meno vogliate risalire sino ad un Sella; cerchiamolo insieme
piuttosto al di là delle Alpi; forse lo troveremo a Berlino, forse si chiamerebbe
166
Bismarck” (Ferrara 1972, p. 104).
16. La non corrispondenza tra i saldi di bilancio, il corso della rendita (o costo del
debito) e la variazione dello stock del debito pubblico durante l’intero periodo
considerato appare molto elevata e variabile e risulta differenziata nell’ambito dei
più recenti tentativi di ricostruzione delle serie storiche. Senza entrare qui in una
discussione sul peso relativo dei diversi fattori influenzanti la dinamica del debito
pubblico nei singoli anni, che pur sarebbe indispensabile per valutare le varie
decisioni in materia di bilancio e di debito pubblico via via assunte nelle diverse
circostanze, per sottolineare la citata non corrispondenza basterà ricordare che,
quando nel 1876 Marco Minghetti annunciava senza particolare enfasi il
raggiungimento del pareggio di bilancio fino ad allora ostinatamente ma
vanamente perseguito, il rapporto debito/Pil superava per la prima volta nella
nostra storia il 100% del prodotto interno lordo.
17. Cfr. l’ampia e documentata analisi tecnico-tributaria contenuta in Marongiu
(1988). Va ricordato che il dibattito sugli effetti che le modalità con cui fu attuata
l’unificazione tributaria e doganale ebbe sugli squilibri territoriali e settoriali del
paese fu subito accesissimo. Una prima dettagliata e discussa analisi quantitativa
è in Nitti (1900, 1958), seguita poi da numerosissime ricerche. Sotto l’aspetto
tecnico-tributario, si rinvia alla ampia e documentata analisi di Marongiu (1988)
18. Manestra (2011, p. 20), che contiene un’ampia documentazione sul dibattito
dell’epoca relativo alle misure da adottare per contrastare il mancato
adempimento tributario, e alla sua persistenza nel tempo fino ai nostri giorni.
19. “Le indagini (della Commissione d’inchiesta nominata nel 1875) dimostrarono
che il continuo studio della occultazione dei redditi per parte dei contribuenti era
stato coronato da prospero successo: basti l’accennare che, mentre i redditi
imponibili del 1864, fra i quali non è credibile che figurassero in qualche entità le
rendite del debito pubblico e molte altre facilmente occultabili, e senza le province
venete e romane, ascendevano a 957 milioni, nel 1872, assoggettati in modo sicuro
al tributo i redditi pagati dallo Stato e dagli enti morali ed annesse le provincie
suindicate, la massa totale dell’imponibile non sorpassava i 1196 milioni,
quantunque vi fossero oltre 580 milioni di redditi colpiti per ritenuta e per la
massima parte sfuggiti all’accertamento.
20. “There are at least two conditions needed to rule out the existence of a limit to the
sustainable level of taxation. First, a continuously rising tax burden must be
without consequences for the individuals’ incentive to work and for the tax base.
Second and more important, the individual distribution of income must not be
affected by the simultaneous rise in the tax burden and in interest payments on
the growing debt: if it is, as will be the case unless very restrictive assumptions on
the initial distribution of income and wealth hold, the required increase in
taxation may become unsustainable because of the social and political reactions
that it raises” (Spaventa 1987, p. 382).
21. I riferimenti sono a De Viti De Marco (1932), che è poi stato sostanzialmente
ripreso dall’autore, con alcune modifiche, nelle varie edizioni dei Principi di
167
economia finanziaria.
22. In termini contemporanei diremmo in che misura l’andamento del debito è stato
influenzato dalla foreign dominance o dalla fiscal dominance (cui si è ricorso
eventualmente come reazione alla foreign dominance). Il dibattito sull’importanza
relativa di questi due regimi e sugli effetti della loro variabile configurazione è
continuato fino ai nostri giorni. Posizioni diverse ampiamente documentate sono
in De Cecco (1990), Fratianni e Spinelli (2001), Savona (2000)
168
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173
VIII rapporto sull’economia italiana, 2014–2018
Mario Baldassarri, Economia Reale
II. Le previsioni
174
5
Le previsioni “tendenziali” dell’Economia Italiana 2014–
2018, se tutto va bene restiamo in fondo al pozzo per
altri sette anni … fino al 2022/23
Tutte le simulazioni presentate in questo rapporto sono state effettuate
con il modello econometrico della Oxford Economics relativo
all’economia italiana.
Gli andamenti dell’economia mondiale ed, in particolare, di quella
europea che interagiscono con il sistema economico italiano sono quelli
previsti dalle più recenti analisi prodotte dalla stessa Oxford Economics.
I provvedimenti presi dal governo italiano a tutto il mese di maggio
2014 e gli andamenti indicati nel Documento di Economia e Finanza
dell’8 aprile 2014 sono stati stimati ed incorporati nella ipotesi BASE che
esprime, ad oggi, le previsioni “tendenziali” 2014–2018.
Il quadro degli andamenti economici e finanziari che si profila appare
fragile ed insufficiente a fronteggiare le gravi condizioni economiche,
occupazionali e sociali che si prolungano in Italia sin dall’inizio della
crisi apparsa sul finire del 2007 e che si protrae da ormai sette anni.
La ripresa dell’attività produttiva e della crescita del Pil dovrebbe
attestarsi ad un modesto +0,3% in questo 2014 e potrebbe portarsi all’1%
nel 2015, rimanendo però poco sopra questo livello per tutto il periodo
della previsione fino al 2018. Sulla base di questo andamento il livello
reale del Pil del 2007 potrebbe essere raggiunto soltanto al 2022/23. Qui
va subito precisato che la nostra previsione di una crescita al +0,3% nel
2014 è basata su una ipotesi ottimistica che si esprime in una crescita tra
lo 0,3 e lo 0,4% nel secondo trimestre dell’anno. È evidente che, se così
non fosse, allora il tasso di crescita per il 2014 potrebbe portarsi verso lo
zero o anche lievemente inferiore allo zero, innescando quindi
tecnicamente una ulteriore fase di recessione.
Il tasso di disoccupazione, dopo il picco del 13% di quest’anno,
dovrebbe ridursi lentamente, ma sarebbe ancora sopra l’11% tra quattro
anni. Per tornare al livello del 7% del 2007 occorrerebbe aspettare, se
tutto va bene il 2023. Il totale dei disoccupati che ha raggiunto i 3,5
milioni in questa metà del 2014 tenderebbe a ridursi lentamente, ma
sarebbe appena sotto i 3 milioni nel 2018, ben lontano dall’ 1,5 milioni
del 2007.
La finanza pubblica appare in lento e costante riequilibrio, sia in
termini di Deficit che di Debito.
Il Deficit pubblico si riduce nell’arco del periodo, ma pur
mantenendosi al di sotto del 3%, non raggiunge mai quel deficit zero
175
introdotto come vincolo costituzionale nel 2012.
Il Debito pubblico in valore assoluto continuerebbe ad aumentare fino
oltre i 2.200 miliardi di euro nel 2017/2018, anche se il suo rapporto con
il Pil subirebbe una lenta riduzione che dal valore di circa il 134% (al
netto dei debiti pregressi delle P.A.) di questo 2014 scenderebbe al 130%
nel 2017 ed al 128% nel 2018, ben lontano da quanto prescriverebbe il
Fiscal Compact europeo.
Appaiono infine segnali di deflazione, contro i quali sta agendo in
modo determinato la BCE del presidente Draghi, che si esprimono
quest’anno in un andamento dei prezzi al consumo ed un deflatore del
Pil attorno allo 0,5% e negli anni successivi sempre ben al di sotto
dell’obiettivo europeo del 2%.
Questi andamenti sono riportati in modo analitico nella seguente
Tavola 1 e nelle Figure 1–11.
176
Tav. 1. PREVISIONI TENDENZIALI: BASE
2013
2014
2015
2016
2017
2018
CRESCITA
-1,9
0,3
1
1,3
1,3
1,3
DISOCCUPAZIONE %
12,2
12,9
12,7
12,1
11,7
11,3
TOTALE DISOCCUPATI MIGLIAIA DI UNITÀ 3124,2
3304,1
3246,2 3107,3
2995,8
2913,3
TOTALE OCCUPATI MIGLIAIA DI UNITÀ
DEFICIT PUBBLICO IN MILIARDI DI EURO
22421 22266,2 22385,3
22571 22724,9 22850,4
-46,8
-48,7
-41,7
-36,7
-32,6
-29,3
-3
-3,1
-2,6
-2,2
-1,9
-1,7
DEBITO PUBBLICO IN MILIARDI DI EURO
2050
2093,9
2134,4 2169,4
2200,3
2228.8
DEBITO PUBBLICO IN % DEL PIL
DEFICIT PUBBLICO IN % DEL PIL
132,6
133,8
132,9
131,5
129,9
128,1
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
1,2
0,5
0,9
1,2
1,3
1,5
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
1,4
1
1,4
1,4
1,4
1,4
1560
1580
1621
1664
1709
1756
PIL NOMINALE
177
Fig. 1. TASSO DI CRESCITA (Base)
178
Fig. 2. TASSO DI DISOCCUPAZIONE (Base)
179
Fig. 3. TOTALE DISOCCUPATI (Base)
180
Fig. 4. TOTALE OCCUPATI (Base)
181
Fig. 5. DEFICIT PUBLICO IN % DEL PIL (Base)
182
Fig. 6. DEFICIT PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO (Base)
183
Fig. 7. DEBITO PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO (Base)
184
Fig. 8. DEBITO PUBBLICO IN % DEL PIL (Base)
185
Fig. 9. INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO (Base)
186
Fig. 10. INFLAZIONE – DEFLATORE PIL (Base)
187
Fig. 11. PIL NOMINALE (Base)
188
6
Proposte per una Legge di Stabilità del governo Renzi:
riforme economiche ed effetti sull’economia italiana,
una strada per uscire dalla crisi entro il 2018, cioè …
cinque anni prima
Le previsioni “tendenziali” dell’economia italiana, presentate nella
precedente sezione, indicano tutta la lentezza e la fragilità della fase che
si prospetta nei prossimi anni per la nostra economia e per la nostra
società. Quegli andamenti appaiono inoltre del tutto insufficienti ad
affrontare la pesante crisi che si prolunga da ormai sette anni e non
possiamo aspettare altri otto o nove anni per riportarci ai livelli di
reddito e di occupazione del 2007, all’inizio della crisi.
Gli andamenti dell’economia e della finanza pubblica, indicati anche
nell’ultimo DEF del governo Renzi lo scorso 8 aprile, non prefigurano
riforme strutturali e cambiamenti significativi, in quantità e qualità, tali
da poter modificare quelle previsioni “tendenziali”. Come ben più
analiticamente indicato in questo Rapporto nella sezione delle Analisi,
dove abbiamo posto a confronto gli ultimi tre DEF (Monti-Letta-Grilli) le
differenze, nei numeri e nella struttura del documento, appaiono
relativamente trascurabili.
Pertanto se, da una parte, non possiamo subire passivamente gli
“eventi” espressi nelle previsioni “tendenziali” (ipotesi BASE),
dobbiamo allora, dall’altra parte, porre il problema di quale strategia di
riforme strutturali e di spostamenti significativi nelle poste del bilancio
pubblico (tra le diverse voci di spesa e di entrata) sono necessari per
accelerare la ripresa dell’attività produttiva e dell’occupazione al fine di
anticipare i tempi del recupero e riottenere i valori del 2007 almeno
“cinque anni prima”, cioè nel 2017/2018 invece che attendere il lontano
biennio 2022/2023 espresso dal profilo delle previsioni tendenziali.
In questo senso occorre “rottamare” i numeri del DEF che in tutti gli
scorsi anni non hanno fatto altro che indicare andamenti “inerziali” con
modifiche minimali e pressoché irrilevanti nei percorsi della politica
economica e soprattutto negli andamenti dell’economia reale e delle
condizioni di finanza sia pubblica che privata, salvo sovrastimare ogni
volta le previsioni di crescita ed il percorso di riduzione del Deficit
Pubblico con ottimistiche ma poco fondate previsioni di riduzione del
rapporto Debito/Pil.
Se da un lato, non si può e non si deve supinamente seguire una
“inerzia senza speranza”, dall’altro lato, la prospettiva di attese migliori
e di speranze più concrete non può basarsi su metodi e tempi
189
miracolistici come se qualcuno potesse avere la bacchetta magica. Questa
“speranza” deve poggiare sulla credibilità ed il coraggio delle scelte di
politica economica che debbono trovare il loro pilastro di appoggio in
“numeri” precisi che indichino la quantità e la qualità della azioni da
intraprendere.
Sulla base di questo approccio, abbiamo articolato una “proposta” al
fine di contribuire ad un concreto e positivo confronto sulla impalcatura
che dovrà assumere la prossima Legge di Stabilità del governo Renzi, da
presentare in Parlamento entro il prossimo settembre, con l’auspicio che
possa anche essere delineata in tempi più rapidi e magari anticipata
rispetto alle scadenze previste dal calendario della politica.
L’obiettivo di tale proposta è quello di indicare in primo luogo “dove
e quante” risorse prendere per poi indicare “dove” metterle, precisando
anche il “quanto” ed il “quando”. Occorre cioè una manovra che
“sposti” le risorse e miri a mantenere l’equilibrio del bilancio pubblico
verso una riduzione del rapporto tra Debito e Pil ottenuta non
accrescendo ancor più lo “stock” di Debito a causa di ulteriori “flussi” di
Deficit e, soprattutto sostenendo una crescita del Pil più sostenuta e più
accettabile anche sul fronte delle prospettive occupazionali.
Non si tratta allora di pensare di avere più risorse a disposizione
chiedendo deroghe all’Europa sui vincoli sul Deficit pubblico o sugli
impegni di rientro del Debito. E questo non semplicisticamente perché ci
farebbe incorrere nelle procedure di infrazione dell’Unione Europea, ma
soprattutto perché le precarie e fragili condizioni finanziarie italiane con
un moloch di Debito Pubblico che è già volato oltre i 2.000 miliardi di
euro e, se consideriamo gli oltre 80 miliardi di debiti delle pubbliche
amministrazioni da pagare alle imprese, rischia di avvicinarsi al 140%
del Pil che rappresenterebbe il “picco storico” dall’Unità d’Italia ad oggi,
se si esclude quel 160% raggiunto nel 1920 (dopo la prima guerra
mondiale) e che sarebbe di molto superiore al 114% raggiunto nel 1945
(dopo la seconda guerra mondiale).
Nella successiva Tav. 2 indichiamo le linee portanti della manovra
con la quale intendiamo simulare una possibile Legge di Stabilità.
190
Tav. 2. IPOTESI LEGGE DI STABILITÀ (RISPETTO A DEF)
2015 2016 2017 2018
TAGLIO ACQUISTI
-6
-13
-16
-20
TAGLIO TRASFERIMENTI
-20
-25
-25
-25
MAGGIORI INVESTIMENTI
5
8
11
15
MINORE IRPEF
-10
-15
-15
-15
MINORE IRAP
-11
-15
-15
-15
Sulla base di questa strategia di politica economica, le previsioni
sull’economia italiana che ne conseguirebbero, con profili
strutturalmente diversi da quelli indicati nel DEF di aprile, sono riportati
nella seguente Tav. 3, mentre le “differenze” rispetto alle previsioni
“tendenziali” BASE sono indicate nella Tav. 4.
191
Tav. 3. PREVISIONI IPOTESI LEGGE DI STABILITÀ
2013
2014
2015
2016
2017
2018
CRESCITA
-1,9
0,3
2,6
1,9
1,9
1,8
DISOCCUPAZIONE %
12,2
12,9
11,7
9,8
8,4
7,3
3124,2
3304,1
2997,6
2517,1
2160,2
1886,4
TOTALE DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
22421,0 22266,2 22635,4 23169,9 23577,7 23901,4
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
-46,8
-48,7
-25,8
-13,2
-4,0
4,5
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
-3,0
-3,1
-1,6
-0,8
-0,2
0,3
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
2050,0
2093,9
2124,9
2140,2
2146,4
2145,3
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
132,6
133,8
131,2
128,5
125,2
121,4
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
1,2
0,5
0,4
0,7
1,1
1,3
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
1,4
1,0
0,8
0,9
1,1
1,2
1560
1581
1634
1680
1730
1783
PIL NOMINALE
192
Tav. 4. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: IPOTESI LEGGE STABILITÀ
2013 2014
2015
2016
2017
2018
CRESCITA
0,0
0,1
1,6
0,6
0,6
0,5
DISOCCUPAZIONE %
0,0
-0,0
-1,0
-2,3
-3,3
-4,0
TOTALE DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
0,0
0,0 -248,6 -590,2 -835,6 -1026,9
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
0,0
0,0
250,1
598,9
852,8
1051,0
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
0,0
0,0
15,9
23,5
28,6
33,8
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
0,0
0,0
1,0
1,4
1,7
1,9
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
0,0
0,0
-9,5
-29,2
-53,9
-83,5
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
0,0
0,0
-1,7
-3,0
-4,7
-6,7
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
0,0
0,0
-0,6
-0,4
-0,3
-0,2
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
0,0
0,0
-0,6
-0,5
-0,3
-0,2
0
1
13
16
21
27
PIL NOMINALE
La ripresa dell’attività produttiva e della crescita del Pil dovrebbe
attestarsi sopra ed attorno il 2% all’anno a partire dal 2015 e sulla base di
questo andamento il livello reale del Pil del 2007 potrebbe essere
raggiunto al 2018.
Il tasso di disoccupazione, dopo il picco del 13% di quest’anno, si
ridurrebbe in modo significativo ed al 2018 si riporterebbe al 7% del
2007.
Il totale dei disoccupati tenderebbe a ridursi di circa 300/400.000
unità all’anno e si porterebbe sotto i 2 milioni entro il 2018, tornando nel
2019 all’1,5 milioni di disoccupati del 2007.
Le condizioni di equilibrio dei nostri conti pubblici sarebbero ottenute
con più consistente solidità fino ad azzerare il deficit pubblico nel 2018
ed a ridurre di oltre dodici punti il rapporto Debito/Pil, che si
collocherebbe al 121% nel 2018. In queste condizioni non sarebbe
rispettato alla lettera il Fiscal Compact, ma sarebbe ben difficile
assegnare all’Italia una procedura di infrazione alla luce dei progressi
solidi e strutturali così realizzati.
Rimarrebbero le incertezze collegate ai rischi di deflazione, ma su
questi c’è da contare, come detto in precedenza, sulla lungimiranza e
determinazione della BCE del Presidente Draghi.
Come indicato in precedenza però, la riduzione dello stock di Debito
Pubblico non è semplicisticamente una mera prescrizione dell’Unione
Europea. È in realtà una esigenza “interna” italiana al fine di liberare
ulteriori risorse a favore di crescita ed occupazione svincolandole dalla
necessità di pagare ogni anno il 5% del PIL sotto forma di interessi sul
debito.
193
Per questo fine, abbiamo prodotto una ulteriore simulazione che
poggia su una nota proposta che indica l’abbattimento del Debito
Pubblico attraverso lo strumento del Fondo Immobiliare Italia che sia in
grado di anticipare finanziariamente i tempi lunghi della alienazione di
quote importanti del patrimonio immobiliare pubblico, nonché il
pagamento entro il 2015 dell’intero stock di debiti delle PA verso le
imprese.
Nella seguente Tav. 5 abbiamo indicato i tempi e le quantità di una
azione di questo tipo.
194
Tav. 5. IPOTESI ABBATTIMENTO DEBITO PUBBLICO E PAGAMENTI DEBITI P.A.
FONDO IMMOBILIARE ITALIA CON TRASFERIMENTO IMMOBILI PUBBLICI OPE
LEGIS, EMISSIONE DI OBBLIGAZIONI CONVERTIBILI DA COLLOCARE SUL
MERCATO, PAGAMENTO DEBITI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI NEL
2015 PER 80 MLD DI EURO, 40 DEI QUALI GIÀ CONTABILIZZATI
NELL’INDEBITAMENTO DI COMPETENZA PREGRESSO
2015 2016 2017
RIDUZIONE DEBITO
(al netto dei pagamenti debiti P.A.)
40
100
100
Come indicato nelle seguenti Tav. 6 e 7, gli effetti di tale manovra,
misurati sempre rispetto agli andamenti “tendenziali” dell’ipotesi BASE,
sarebbero lievemente positivi sulla crescita e sull’occupazione, sia a
seguito delle minori spese per interessi, sia per la maggiore liquidità
delle imprese. Ciò che però appare con tutta evidenza è la forte
riduzione del Debito che si determinerebbe che condurrebbe il rapporto
Debito/Pil al 102% nel 2018, non solo rispettando le prescrizioni del
Fiscal Compact ma andando oltre il profilo previsto a tutto vantaggio
dell’economia italiana che avrebbe più risorse a seguito del risparmio di
interessi e più credibilità a seguito della strategia aggressiva
sull’abbattimento
del
Debito,
non
trascurando
l’effetto
intergenerazionale che verrebbe a crearsi a favore delle giovani
generazioni che sarebbero gravate da un più ridotto debito pregresso.
195
Tav. 6. IPOTESI ABBATTIMENTO DEBITO PUBBLICO E PAGAMENTI DEBITI P.A.
2013
2014
2015
2016
2017
2018
CRESCITA
-1,9
0,3
1,3
1,5
1,5
1,4
DISOCCUPAZIONE %
12,2
12,9
12,7
12,0
11,5
11,1
3124,2
3304,1
3241,7
3087,5
2952,9
2846,4
TOTALE DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
22421,0 22266,2 22389,8 22590,9 22768,3 22918,3
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
-46,8
-48,7
-39,8
-29,6
-22,4
-19,1
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
-3,0
-3,1
-2,5
-1,8
-1,3
-1,1
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
2050,0
2093,9
2088
1977,4
1875,3
1802,9
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
132,6
133,8
129,9
119,6
110,0
102,4
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
1,2
0,5
0,9
1,2
1,5
1,8
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
1,4
1,0
1,4
1,4
1,5
1,8
1560
1580
1622
1669
1720
1776
PIL NOMINALE
196
Tav. 7. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: ABBATTIMENTO DEBITO E
PAGAMENTI P.A.
2013 2014 2015
2016
2017
2018
CRESCITA
0,0
0,0
0,3
0,2
0,2
0,2
DISOCCUPAZIONE %
0,0
0,0
-0,0
-0,1
-0,2
-0,3
TOTALE DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
0,0
0,0
-4,5
-19,8
-42,9
-66,9
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
0,0
0,0
4,5
19,9
43,4
67,9
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
0,0
0,0
1,9
7,1
10,2
10,2
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
0,0
0,0
0,1
0,4
0,6
0,6
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
0,0
0,0 -46,4 -192,0 -325,0 -425,9
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
0,0
0,0
-3,0
-11,9
-19,9
-25,7
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
0,0
0,0
0,0
0,1
0,2
0,3
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
0,0
0,0
0,0
0,1
0,2
0,4
PIL NOMINALE
0,0
-0,0
1,1
4,6
11,0
20,4
La recente decisione assunta dalla Banca Centrale Europea in termini
di tassi di interesse ed iniezione di liquidità da far confluire ad imprese e
famiglie ha come obiettivo finale quello di sostenere la ripresa
dell’attività produttiva in tutta Europa ed anche quello di evitare una
pericolosa deflazione riportando l’inflazione “almeno” al 2%, nonché
quello di riportare l’euro, palesemente sopravvalutato, a condizioni di
cambio più coerenti con i fondamentali dell’economia.
Per questa ragione abbiamo voluto verificare quali effetti si
potrebbero produrre sull’economia italiana qualora il cambio €/$ (e di
conseguenza il cambio €/Y cinese) avesse un profilo di riallineamento
verso la parità sul dollaro come indicato nella seguente Tav. 8.
197
Tav. 8. IPOTESI EURO/DOLLARO VERSO PARITÀ
2014 2015 2016 2017 2018
CAMBIO €/$
1,37 1,27 1,17 1,07
1,0
Gli effetti estremamente positivi che si determinerebbero sono
indicati nelle seguenti Tav. 9 e 10.
198
Tav. 9. IPOTESI EURO/DOLLARO VERSO PARITÀ
2013
2014
2015
2016
2017
2018
CRESCITA
-1,9
0,3
1,8
2,1
2,2
1,6
DISOCCUPAZIONE %
12,2
12,9
12,5
11,6
10,8
10,1
3124,2
3304,1
3204,6
2976,5
2763,3
2612,0
TOTALE DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
22421,0 22266,2 22426,6 22700,0 22952,9 23143,6
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
-46,8
-48,7
-37,6
-24,6
-9,6
3,9
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
-3,0
-3,1
-2,3
-1,5
-0,5
0,2
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
2050
2093,9
2132,6
2159,5
2173,6
2173,8
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
132,6
133,8
131,9
128,1
121,9
113,5
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
1,2
0,5
1,3
2,5
4,1
6,2
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
1,4
1,0
1,5
2,1
3,4
5,7
1560
1580
1632
1702
1799
1933
PIL NOMINALE
199
Tav. 10. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: VERSO PARITÀ $/€
2013 2014 2015
2016
2017
2018
CRESCITA
0,0
0,0
0,8
0,9
0,9
0,4
DISOCCUPAZIONE %
0,0
0,0
-0,2
-0,5
-0,9
-1,2
TOTALE DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
0,0
0,0 -41,6 -130,8 -232,5 -301,3
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
0,0
0,0
41,3
129,0
228,0
293,2
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
0,0
0,0
4,1
12,1
23,0
33,2
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
0,0
0,0
0,3
0,8
1,4
1,9
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
0,0
0,0
-1,8
-9,9
-26,7
-55,0
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
0,0
0,0
-1,0
-3,4
-8,0
-14,6
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
0,0
0,0
0,4
1,3
2,8
4,7
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
0,0
0,0
0,1
0,7
2,1
4,3
PIL NOMINALE
0,0
0,0
10,8
37,3
90,5
177,4
Certamente, le responsabilità prioritarie della politica economica
italiana fanno riferimento ad una Legge di Stabilità che incorpori le
riforme strutturali e la strategia indicata nella nostra prima simulazione
alternativa agli andamenti “tendenziali-inerziali” dell’ipotesi BASE. Un
ulteriore forte impegno sarebbe quello indicato in una strategia di
abbattimento del debito pubblico attraverso l’enorme patrimonio
immobiliare pubblico che può essere rafforzata da una strategia di
privatizzazioni.
D’altro canto, un andamento del cambio dell’euro verso la parità sul
dollaro non può certo essere determinato da singole entità nazionali
europee. C’è però da confidare che l’impegno, la saggezza e la
determinazione della BCE possano guidare i mercati verso una
condizione di cambi coerenti con i fondamentali delle diverse aree del
mondo.
Vogliamo pertanto concludere questo nostro Rapporto di Previsione
con una simulazione finale che incorpora contemporaneamente tutte e
tre le strategie prima proposte. Indichiamo questa ipotesi come Manovra
Complessiva e riportiamo i possibili effetti nelle Tav. 11 e 12.
200
Tav. 11. PREVISIONI MANOVRA COMPLESSIVA
2013
2014
2015
2016
2017
2018
CRESCITA
-1,9
0,3
3,3
3,2
3,4
3,0
DISOCCUPAZIONE %
12,2
12,9
11,5
9,0
6,7
4,6
3124,2
3304,1
2948,4
2315,0
1727,1
1183,6
TOTALE DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
22421,0 22266,2 22685,3 23369,0 24001,4 24583,9
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
-46,8
-48,7
-19,8
7,4
34,6
61,1
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
-3,0
-3,1
-1,2
0,4
1,9
3,3
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
2050,0
2093,9
2076,5
1937,6
1790,7
1653,1
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
132,6
133,8
127,4
114,2
101
89,5
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
1,2
0,5
0,7
1,4
2,1
2,3
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
1,4
1,0
0,8
0,9
1,1
1,2
1560
1581
1645
1712
1788
1865
PIL NOMINALE
201
Tav. 12. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: MANOVRA COMPLESSIVA
2013 2014
2015
2016
2017
2018
CRESCITA
0,0
0,1
2,3
1,9
2,1
1,8
DISOCCUPAZIONE %
0,0
-0,0
-1,2
-3,1
-4,9
-6,7
TOTALE DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
0,0
0,0 -297,8 -792,3 -1268,7 -1729,7
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
0,0
0,0
300,0
798,0
1276,5
1733,5
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
0,0
0,0
21,9
44,1
67,2
90,4
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
0,0
0,0
1,4
2,7
3,9
5,0
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
0,0
0,0
-57,9 -231,8
-409,6
-575,7
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
0
0
-5,5
-17,3
-28,9
-38,6
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
0,0
0,0
-0,2
0,3
0,7
0,8
INFLAZIONE DEFLATORE PIL
0,0
0,0
-0,6
-0,5
-0,3
-0,2
0
1
23
47
80
109
PIL NOMINALE
A seguito di una strategia complessiva di politica economica,
affiancata da un linea europea che miri ad un cambio dell’euro che volga
verso la parità sul dollaro al 2018, la ripresa dell’attività produttiva e
della crescita del Pil sarebbe sostenuta e si collocherebbe in modo stabile
sopra il 3% all’anno e pertanto il livello reale del Pil del 2007 potrebbe
essere raggiunto verso la fine del 2017.
Il tasso di disoccupazione, dopo il picco del 13% di quest’anno, si
ridurrebbe in modo significativo e già si riporterebbe al livello del 2007
nel 2017 ed attorno al 5% nel 2018.
Il totale dei disoccupati tenderebbe a ridursi di circa 400/500.000
unità all’anno e si porterebbe sotto 1,2 milioni di unità entro il 2018.
Le condizioni di equilibrio dei nostri conti pubblici sarebbero ottenute
più rapidamente e con più consistente solidità fino ad azzerare il deficit
pubblico al 2016. Il Debito Pubblico comincerebbe a ridursi in valore
assoluto già dal 2016 fino a ridursi a poco più di 1.600 miliardi nel 2018.
Di conseguenza il rapporto Debito/Pil si ridurrebbe al 100% nel 2017 per
poi scendere sotto il 90% nel 2018. In queste condizioni, non solo sarebbe
rispettato il Fiscal Compact, ma potremmo realizzare progressi solidi e
strutturali che consentirebbero di liberare risorse con un risparmio di
interessi pari a circa 25 miliardi di euro all’anno per tutti gli anni
successivi.
Anche in questo caso, rimarrebbero le incertezze collegate ai rischi di
deflazione, ma su questi, ancora una volta, c’è da contare, come detto in
precedenza, sulla lungimiranza e determinazione della BCE del
Presidente Draghi.
202
Nella precedente sezione delle Analisi abbiamo stimato quale sia stata
la perdita di Pil e le conseguenze in termini di equilibri di finanza
pubblica misurata rispetto ai dati storici ed a quanto l’economia italiana
avrebbe potuto conseguire solo se la crescita fosse continuata secondo la
media non certo esaltante del periodo precedente la crisi (2000–2007).
Pertanto anche in chiusura di questa sezione vogliamo dare un
quadro di sintesi di quanto l’economia italiana potrebbe conseguire nei
prossimi anni qualora venissero adottate le manovre illustrate in
precedenza come effetti “cumulati” al 2018 rispetto ai valori del 2014.
Tali stime sono riportate nella Tav. 13.
Qualora infatti si adottassero i provvedimenti indicati nella nostra
ipotesi di legge di stabilità, tra il 2014 ed il 2018, si otterrebbero i
seguenti risultati “cumulati” (vedi Tav. 13):
una crescita del Pil dell’8,5% rispetto al livello di Pil del 2014;
una minore disoccupazione del 5,6% con 1.418.000 disoccupati in
meno;
una maggiore occupazione pari a 1.635.200 unità;
un minore Deficit pubblico di 53,2 Mld di euro, con un bilancio in
pareggio e poi in avanzo dopo il 2016;
un minore Debito pubblico per 135 Mld con una riduzione del
rapporto con il Pil di 12,4 punti;
un maggiore Pil nominale di 202 miliardi di euro.
203
Tav. 13. EFFETTI CUMULATI 2018-2014
BASE
TENDENZIALE
CRESCITA
LEGGE
STABILITÀ
ABBAT. DP +
PAG. PA
€/$ VERSO
PARITÀ
MANOVRA
COMPLETA
4,9
8,5
5,8
7,9
13,5
-1,6
-5,6
-1,8
-2,8
-8,3
TOTALE
DISOCCUPATI
(in migliaia di
unità)
-390,8
-1418
-457,7
-692,1
-2121
TOTALE
OCCUPATI
(in migliaia di
unità)
584,2
1635,2
652,1
880,4
2120,5
DEFICIT
PUBBLICO
(in miliardi di euro)
-19,4
-53,2
-29,6
-52,6
-109,8
-1,3
-3,4
-2
-3,3
-6,4
134,9
51,4
-291
79,9
-440,8
DEBITO
PUBBLICO
(in % del PIL)
-5,7
-12,4
-31,4
-20,3
-44,3
PIL NOMINALE
176
202
196
353
284
DISOCCUPAZIONE
%
DEFICIT
PUBBLICO
(in % del PIL)
DEBITO
PUBBLICO
(in miliardi di euro)
Le differenze rispetto agli andamenti “tendenziali dell’ipotesi BASE
sono indicate nella Tav. 14.
Rispetto agli andamenti “inerziali” dell’ipotesi BASE gli effetti
sarebbero i seguenti:
una crescita superiore pari all’3,6%;
un minore tasso di disoccupazione del 4%;
un minore numero di disoccupati pari a 1.027.000;
una maggiore occupazione di 1.051.000 unità;
un minor Deficit Pubblico di quasi 34 miliardi di euro e di oltre il
2% del Pil;
un minore Debito Pubblico di circa 84 miliardi di euro e un
rapporto con il Pil inferiore di 6,7 punti.
204
Tav. 14. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: EFFETTI CUMULATI 2018-2014
LEGGE
STABILITÀ
CRESCITA
DISOCCUPAZIONE %
ABBAT. DP + PAG.
PA
€/$ VERSO
PARITÀ
MANOVRA
COMPLETA
3,6
0,9
3
8,6
-4
-0,2
-1,2
-6,7
TOTALE
DISOCCUPATI
(in migliaia di unità)
-1027
-66,9
-301,3
-1730
TOTALE OCCUPATI
(in migliaia di unità)
1051
67,9
296,2
1536,3
DEFICIT PUBBLICO
(in miliardi di euro)
-33,8
-10,2
-33,2
-90,4
DEFICIT PUBBLICO
(in % del PIL)
-2,1
-0,7
-2
-5,1
DEBITO PUBBLICO
(in miliardi di euro)
-83,5
-425,9
-55
-575,7
DEBITO PUBBLICO
(in % del PIL)
-6,7
-25,7
-14,6
-38,6
26
20
177
108
PIL NOMINALE
205
Fig. 12. TASSO DI CRESCITA
206
Fig. 13. TASSO DI DISOCCUPAZIONE
207
Fig. 14. TOTALE DISOCCUPATI
208
Fig. 15. TOTALE OCCUPATI
209
Fig. 16. DEFICIT PUBBLICO IN % DEL PIL
210
Fig. 17. DEFICIT PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO
211
Fig. 18. DEBITO PUBBLICO IN % DEL PIL
212
Fig. 19. DEBITO PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO
213
Fig. 20. INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
214
Fig. 21. INFLAZIONE – DEFLATORE PIL
215
Fig. 22. PIL NOMINALE
216
Allegati: tabelle dati di tutte le simulazioni
217
TASSO DI CRESCITA
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
-1,9
-1,9
-1,9
-1,9
-1,9
2014
0,3
0,3
0,3
0,3
0,3
2015
1,0
2,6
1,8
1,3
3,3
2016
1,3
1,9
2,1
1,5
3,2
2017
1,3
1,9
2,2
1,5
3,4
2018
1,3
1,8
1,6
1,4
3,0
218
TASSO DI DISOCCUPAZIONE
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
12,2
12,2
12,2
12,2
12,2
2014
12,9
12,9
12,9
12,9
12,9
2015
12,7
11,7
12,5
12,7
11,5
2016
12,1
9,8
11,6
12,0
9,0
2017
11,7
8,4
10,8
11,5
6,7
2018
11,3
7,3
10,1
11,1
4,6
219
TOTALE DISOCCUPATI
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
3124,2
3124,2
3124,2
3124,2
3124,2
2014
3304,1
3304,1
3304,1
3304,1
3304,1
2015
3246,2
2997,6
3204,6
3241,7
2948,4
2016
3107,3
2517,1
2976,5
3087,5
2315,0
2017
2995,8
2160,2
2763,3
2952,9
1727,1
2018
2913,3
1886,4
2612,0
2846,4
1183,6
220
TOTALE OCCUPATI
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
22421,0
22421,0
22421,0
22421,0
22421,0
2014
22266,2
22266,2
22266,2
22266,2
22266,2
2015
22385,3
22635,4
22426,6
22389,8
22685,3
2016
22571,0
23169,9
22700,0
22590,9
23369,0
2017
22724,9
23577,7
22952,9
22768,3
24001,4
2018
22850,4
23901,4
23143,6
22918,3
24583,9
221
DEFICIT PUBBLICO IN % DEL PIL
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
-3,0
-3,0
-3,0
-3,0
-3,0
2014
-3,1
-3,1
-3,1
-3,1
-3,1
2015
-2,6
-1,6
-2,3
-2,5
-1,2
2016
-2,2
-0,8
-1,5
-1,8
0,4
2017
-1,9
-0,2
-0,5
-1,3
1,9
2018
-1,7
0,3
0,2
-1,1
3,3
222
DEFICIT PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
-46,8
-46,8
-46,8
-46,8
-46,8
2014
-48,7
-48,7
-48,7
-48,7
-48,7
2015
-41,7
-25,8
-37,6
-39,8
-19,8
2016
-36,7
-13,2
-24,6
-29,6
7,4
2017
-32,6
-4,0
-9,6
-22,4
34,6
2018
-29,3
4,5
3,9
-19,1
61,1
223
DEBITO PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
2050,0
2050,0
2050,0
2050,0
2050,0
2014
2093,9
2093,9
2093,9
2093,9
2093,9
2015
2134,4
2124,9
2132,6
2088,0
2076,5
2016
2169,4
2140,2
2159,5
1977,4
1937,6
2017
2200,3
2146,4
2173,6
1875,3
1790,7
2018
2228,0
2145,3
2173,8
1802,9
1653,1
224
DEBITO PUBBLICO IN % DEL PIL
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
132,6
132,6
132,6
132,6
132,6
2014
133,8
133,8
133,8
133,8
133,8
2015
132,9
131,2
131,9
129,9
127,4
2016
131,5
128,5
128,1
119,6
114,2
2017
129,9
125,2
121,9
110,0
101,0
2018
128,1
121,4
113,5
102,4
89,5
225
INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
1,2
1,2
1,2
1,2
1,2
2014
0,5
0,5
0,5
0,5
0,5
2015
0,9
0,4
1,3
0,9
0,7
2016
1,2
0,7
2,5
1,2
1,4
2017
1,3
1,1
4,1
1,5
2,1
2018
1,5
1,3
6,2
1,8
2,3
226
INFLAZIONE - DEFLATORE PIL
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
1,4
1,4
1,4
1,4
1,4
2014
1,0
1,0
1,0
1,0
1,0
2015
1,4
0,8
1,5
1,4
0,8
2016
1,4
0,9
2,1
1,4
0,9
2017
1,4
1,1
3,4
1,5
1,1
2018
1,4
1,2
5,7
1,8
1,2
227
PIL NOMINALE
Anni
Previsione Base
Tendenziale
1
Manovra Ipotesi
Legge Stabilità
2
3
4 = 1+2+3
Verso
Abbattimento D.P. + Pagamento
Effetti
Parità €/$
Stock Debiti P.A.
Complessivi
2013
1560
1560
1560
1560
1560
2014
1580
1581
1580
1580
1581
2015
1621
1634
1632
1622
1645
2016
1664
1680
1702
1669
1712
2017
1709
1730
1799
1720
1788
2018
1756
1783
1933
1776
1865
228
Interventi e dibattito
229
Analisi e proposte degli economisti
DANILO TAINO, Corriere della Sera
Questo VIII Rapporto di Economia Reale è quest’anno ancora più
tempestivo del solito. Credo infatti che negli ultimi mesi si sia aperta
una finestra di opportunità per l’Italia che non abbiamo avuto per molti
anni.
Dalla metà del 2013 ci sono stati movimenti di flussi finanziari,
provenienti anche dai paesi emergenti, molto significativi verso l’Europa
ed anche verso paesi considerati come periferia dell’Eurozona. Non
credo però che questi flussi siano permanenti e che questa finestra di
opportunità resterà aperta per sempre. Ritengo che, dopo le elezioni
europee, investitori finanziari ed investitori nell’economia reale siano
pronti e vogliano entrare in Europa ed anche in Italia con investimenti
seri a condizione però che queste opportunità teoriche vengano
confermate da una certa stabilità politica.
Il risultato elettorale che si è avuto in Italia, al di là di chi ha vinto o ha
perso, indica nettamente, con il 40,8% preso dal PD di Matteo Renzi, che
gli italiani vogliono “cambiare”. Ecco allora che occorre dare una
risposta a questa domanda “di stabilità e di cambiamento” e credo che
questa risposta debba andare nella interessante direzione indicata da
Mario Baldassarri nel Rapporto di Previsione del suo Centro Studi
Economia Reale.
La prima domanda che intendo proporre a tutti i partecipanti a
questo panel è quella di dare una valutazione sulla possibilità, non tanto
di realizzare i numeri finali conseguibili con la proposta di Economia
Reale, quanto nel cambio di mentalità e di logica che mi pare siano alla
base della stessa proposta. A me pare che il ribaltamento di logica sia
sostanzialmente questo: si parte da una rigorosa riduzione degli sprechi
e delle malversazioni su specifiche voci di spesa pubblica, si parte da
una riduzione dell’IRPEF e da una riduzione dell’IRAP, si parte dalla
necessità di privatizzare o comunque di vendere parti del patrimonio.
Sulla base di questo schema, si va a fare poi una legge di stabilità che
non sia in linea con i vecchi ragionamenti pseudo-rigoristi che stanno
sempre all’interno di vecchi numeri fatti e scritti sempre dalle stesse
mani, come i confronti tra i vari DEF presentati nella prima parte del
Rapporto certificano in modo inoppugnabile.
230
Credo che questa finestra di opportunità per il Paese sia aperta ma, se
non si faranno quelle cose, ritengo che entro pochi mesi si chiuderà. Le
decisioni di politica economica infatti vanno prese “prima” e quindi
credo che nell’autunno prossino avremo la possibilità di verificare in
concreto se ci sarà la volontà e la capacità politica di fare qualcosa di
nuovo e di diverso o si resterà all’interno di un quadro di lento ma
inesorabile declino.
All’interno di questo quadro, c’è anche un forte elemento di dibattito
sulla questione fiscale e si pone la necessità di intervenire in maniera
radicale, anche dal punto di vista della semplificazione e della chiarezza
delle regole che è sicuramente uno degli elementi che tiene gli investitori
stranieri lontani dall’Italia e che crea problemi seri agli stessi investitori
italiani.
Non a caso, su questi temi, ci richiamiamo subito alla esperienza ed
alla saggezza del Prof. Pedone.
ANTONIO PEDONE, Università di Roma “La
Sapienza”.
Vorrei partire da una mia profonda convinzione: il livello assoluto della
pressione tributaria è un fattore estremamente importante
nell’influenzare le possibilità di ripresa, sono però altrettanto importanti
le modalità e le forme con cui si effettua il prelievo tributario. Questo è
un punto centrale della manovra e della legge di stabilità proposta nel
Rapporto di Economia Reale, dove infatti si prevede che, di fronte a un
taglio di alcune specifiche voci di spesa, ci sia una riduzione consistente
di circa 15 miliardi all’anno a regime, sia dell’IRPEF sia dell’IRAP.
Questo è un punto importante e centrale e ritengo che sia obiettivo che
vada assolutamente perseguito, come ha ben detto Roberto Mazzotta
nella sua introduzione quando ha ricordato che l’eccessiva pressione
tributaria è un rilevante fattore di freno della ripresa economica in Italia.
Uno dei difetti maggiori del nostro sistema tributario che produce
effetti negativi sull’economia italiana è il mancato rispetto della seconda
delle quattro massime di Adam Smith di cui vorrei provare a leggere
qualche punto perché credo che sia di grande attualità. Dice Adam
Smith: “L’imposta che ogni individuo è tenuto a pagare deve essere
certa e non arbitraria. Il tempo del pagamento, il modo di pagare, la
somma dovuta (provate a calcolarlo per la Tasi, inciso di Antonio Pedone).
Questi tre aspetti il tempo del pagamento, il modo di pagare, la somma
dovuta dovrebbero essere tutti chiari e semplici per il contribuente e per
ogni altra persona”. Ribadisce Adam Smith: “Quando non sia così, ogni
persona soggetta all’imposta è più o meno sottoposta all’arbitrio
231
dell’esattore, il quale può gravare l’imposta su un contribuente cui vuole
nuocere o può estorcergli, con il timore di qualche aggravamento,
qualche regalia o vantaggio per sé stesso. L’incertezza del sistema fiscale
incoraggia l’insolenza e favorisce la corruzione di una categoria di
persone per natura impopolari – come gli esattori o la guardia di finanza
o quello che sia – anche quando non sono né insolventi né corrotte. La
certezza di ciò che ciascuno deve pagare è, nella tassazione, una
questione così importante che a quanto io ritengo risulti dall’esperienza
di tutte le nazioni un alto grado di ineguaglianza non è male tanto grave
quanto un piccolissimo grado di incertezza”.
Ora, tutti concordiamo che si debba fare una seria lotta all’evasione
ed alla corruzione. Ebbene Adam Smith “dice” che il nostro attuale
sistema tributario, non rispettando alcuno dei tre principi prima indicati,
crea un ambiente favorevole alla corruzione. Ecco perché ritengo
fondamentale affrontare questo problema ed affrontarlo concretamente
più delle considerazioni molto popolari e spesso populistiche sulle
semplificazioni.
I sistemi tributari moderni non possono essere semplificati, debbono
invece essere gestiti molto meglio dando certezza partendo dalla
formulazione delle norme tributarie e dalla responsabilità di chi deve
applicarle. Anche qui l’arbitrarietà di cui parla Adam Smith è andata
crescendo inevitabilmente. Per di più oggi siamo di fronte ad un sistema
tributario di massa e quando i soggetti da sottoporre a controllo sono
circa 40 milioni, diciamo 30 quelli effettivamente da controllare, è chiaro
che c’è una scelta da fare comunque e la si può fare sulla base di certi
indicatori. Rimane però in ogni caso un margine di discrezionalità.
Questa discrezionalità va certamente regolata ed in qualche modo
vincolata. Altrettanto certamente però margini di discrezionalità
rimangono pur sempre mentre in Italia facciamo finta di niente e, come
per l’obbligatorietà dell’azione penale, facciamo finta che non ci siano
motivi di scelta o criteri da rendere espliciti, salvo quando scoppiano
eclatanti e palesi conflitti magari anche interni all’amministrazione.
Spero che ci si concentri su questo aspetto molto più che su altri
aspetti, meno importanti ma magari di maggiore appeal sul piano
politico della comunicazione mediatica.
Vengo ora ad altri tre temi: 1) come ridurre il livello della pressione
tributaria complessiva; 2) come modificare la composizione del prelievo
per grandi categorie di imposte (dirette, indirette, sul lavoro, sul
capitale, sulle rendite, sui consumi e così via); 3) come modificare la
struttura dell’imposizione per modificare alcuni aspetti dell’IRPEF e
dell’IRAP.
1. La riduzione della pressione fiscale complessiva viene in genere
condizionata alla riduzione della spesa pubblica, come fa anche la
232
proposta di Economia Reale. Infatti, i 30 miliardi che si debbono ottenere
per ridurre l’IRPEF e l’IRAP richiedono una riduzione della spesa di
circa 35 miliardi, per destinare 5 miliardi all’aumento degli investimenti
pubblici. Ricordo che Mario Baldassarri ha sempre proposto dettagliate
riduzioni di spesa in specifiche voci quali “acquisti di beni e servizi” e
“Trasferimenti a Fondo perduto”. Sono quindi molto fiducioso che si
possa ridurre la spesa pubblica in misura tale da poter avere questa
riduzione di imposte di 30–40 miliardi all’anno. So però, e non perché
non condivida l’impostazione, che sarà molto arduo realizzare quei tagli
e, come direbbe Smith, questa mia cautela poggia sulla base
dell’esperienza non di tutte le nazioni ma certo della nostra. Per questo
non mi sento così fiducioso.
2. Ecco perché pongo il problema di verificare se, anche con un livello
di pressione tributaria non molto ridotto, si possa modificarne la
composizione in modo da favorire la crescita ed, eventualmente, ridurre
alcune sperequazioni che inducono a forti situazioni di disagio sociale.
Su questo piano il problema è quello di vedere quanto utilizzare le
grosse voci d’imposta e poi modificarle al loro interno. Il fatto è che le
nostre due principali fonti di entrata, l’IRPEF e l’IVA, sono un colabrodo
inestricabile. Nell’ultimo rapporto presentato dalla Corte dei Conti sul
coordinamento della finanza pubblica, il lungo capitolo sull’IRPEF
italiana è una cosa impressionante in termini di confusione, distorsioni,
cose incomprensibili. Ne deriva che, così com’è nella realtà, l’IRPEF
serve molto poco alla progressività all’interno di alcuni redditi da lavoro
e per di più è di una complessità aggravata dal modo in cui, per
esempio, si sono configurati gli 80 euro di sgravio fiscale introdotto dal
governo Renzi che modifica le aliquote marginali, le aliquote medie
effettive per i contribuenti, creando una serie di disincentivi, problemi di
iniquità per tutti i non capienti e per quelli che hanno altri tipi di reddito
o redditi misti da lavoro ed altro.
Per questo usare queste imposte è ormai diventato un problema
estremamente complesso e porta ad effetti indesiderati nel senso che se
l’effetto “desiderato” può essere quello di migliorare gli incentivi alla
produzione, agli investimenti e altro o ridurre le diseguaglianze e così
via, si ottengono invece effetti opposti o comunque molto diversi da
quelli iniziali.
3. Il terzo tema che voglio affrontare è quello di agire all’interno di
queste forme d’imposta. L’IRAP, ma anche l’IRPEF che grava sulle
imprese perché ci sono imprese soggette a IRPEF e poi le società e le
imprese soggette all’imposta sui redditi delle società. Anche qui si tratta
di affrontare il problema di un confronto sistematico e trasparente dei
vari trattamenti tributari e differenziati. Pertanto, non si può più pensare
di modificare la struttura del sistema tributario per grandi categorie che
233
rimangono quelle che sono. Il problema è che la costanza di queste
proporzioni tra i vari tipi di imposte per grandi aggregati nasconde una
trasformazione profonda della struttura al loro interno. È come vedere la
foresta dall’alto: rimane sempre una bella foresta ma quello che succede
all’interno della foresta, nel sottobosco, è un continuo germogliare di
intrecci vari ed è quello che succede se guardiamo le singole imposte.
Dobbiamo allora guardare “dentro” la foresta, ma come?
La proposta che vorrei fare è adottare il meccanismo, proposto sin
dalla metà degli anni ’70 copiando una legge del 1978 in materia di
bilancio, di una revisione sistematica dei vari trattamenti tributari
differenziati in termini di detrazioni, deduzioni, tax-expenditures di varia
natura, trattamenti privilegiati di vario tipo, e valutarne l’efficacia
rispetto agli obiettivi per i quali sono stati concessi. Si tratta cioè di
introdurre un meccanismo sistematico di verifica della tax expenditure,
delle varie tax provisions in materia di imposte (IRPEF, IRES, IRAP e così
via).
I regimi di imposta, per esempio in materia di IVA, sono una
grandissima varietà. Quando fu introdotta all’inizio degli anni settanta
era un’imposta per la quale si disse che sarebbe stato facile
amministrarla perché si sarebbe “autoamministrata”. L’IVA fu
introdotta così perché si disse che un soggetto ha interesse a dichiarare
da chi ha acquistato perché così deduce l’IVA sugli acquisti che
altrimenti rimarrebbe a suo carico. Ma l’IVA ha dato luogo al maggior
sistema di frodi, anche a livello internazionale, con lo sviluppo di una
fantasia enorme. Intendo dire che un conto è parlare di un modello
ideale di imposta, altro conto è il modello legale, altro conto ancora è
l’imposta effettiva così come viene pagata.
Aggiungerei anche un ultimo importante aspetto: l’imposta percepita.
Per tornare ad Adam Smith, cioè al modo in cui le modifiche di imposta
vengono introdotte, faccio esplicito riferimento all’esperienza dell’IMU
ed alla più recente TASI, ma anche al caso degli 80 euro. Questo aspetto
è molto importante perché quello che conta poi è la reazione del
contribuente rispetto al comportamento dell’Amministrazione
Finanziaria ed al modo in cui viene percepita una certa imposta. E
questo dipende dalle modalità con cui l’imposta viene disegnata,
applicata e amministrata concretamente.
TAINO
In questo dibattito ho apprezzato fino a questo momento il fatto che
nessuno abbia parlato di cambiare sostanzialmente la politica economica
europea. Al contrario, in questi ultimi mesi si è fatto un gran clamore
234
sulla necessità di uscire dall’austerità. Qui invece si parla molto di
riforme strutturali e non di lotta all’austerità. Personalmente li vedo in
contraddizione: o si fa la lotta all’austerità o si fanno le riforme
strutturali. Vediamo cosa ne pensa Fiorella Kostoris.
FIORELLA KOSTORIS, Anvur
Vorrei tornare alle domande di fondo poste all’inizio del Rapporto. È
stato infatti detto che questo VIII Rapporto di Economia Reale è
tempestivo ed io concordo con questa valutazione. Ciò che può anche
apparire paradossale è che il Rapporto è tempestivo e allo stesso tempo
non si concentra sui dati congiunturali, non si riferisce al dibattito
recente che c’è stato sul Pil del primo trimestre di quest’anno. Qualcuno
ha detto che il -0,1% di crescita non era corretto, altri hanno invocato
motivi per correggerlo quali, ad esempio, il controllo della qualità del
dato o anche quello sulla produzione industriale e così via.
Ebbene, il Rapporto non è tempestivo in questo senso, è tempestivo,
paradossalmente, perché guarda a problemi strutturali e invoca
soluzioni di tipo strutturale. Ad esempio, l’analisi delle caratteristiche
delle manovre degli ultimi tre governi è importante da questo punto di
vista perché ci mette in evidenza delle continuità che, come intende
sostenere Economia Reale, sono una delle spiegazioni del perché siamo
in crisi strutturale e congiunturale contemporaneamente.
Se guardiamo agli elementi di queste ultime tre manovre (che sono
elementi da criticare e io li critico come fa Mario Baldassarri) e cioè il
fatto che si sono basate su aumenti di spesa, tagli di investimenti,
aumenti di imposte di tutti i tipi e, per quanto riguarda la spesa per
interessi, andamenti in qualche caso stabili, in qualche caso in
diminuzione ecc. Per altro, queste caratteristiche delle manovre di
politica economica si ritrovano in Italia anche in riferimento alle
precedenti manovre varate prima delle ultime tre. Ad esempio, nel
primo governo Prodi il cambio di passo che ottenemmo fu quello di
ridurre in un anno solo – lo fece Ciampi da Ministro dell’Economia per il
primo governo Prodi tra il ’96 e ’97 – di quattro punti il rapporto DeficitPil. Fu fatto (e ci consentì poi di entrare nell’euro) esattamente con gli
stessi elementi: si aumentarono le imposte, si ridusse la spesa in
investimenti e si ridussero gli interessi sul debito pubblico, anche se
questi si ridussero in un altro modo. I governi Monti e successivi infatti
hanno ridotto la spesa per interessi attraverso la contrazione dello
spread, invece il governo Prodi-Ciampi –ottenne questo risultato
cambiando le aspettative italiane, sostanzialmente le aspettative
inflazionistiche che fino al 1995 erano state rivolte su livelli molto alti di
235
aumento dei prezzi. Queste aspettative furono piegate verso il basso e la
caduta delle aspettative di inflazione fece cadere l’inflazione effettiva e,
di conseguenza, si ridussero i tassi d’interesse. Questa è la diagnosi un
po’ diversa che mi sento di esprimere.
Il punto fondamentale che voglio sostenere è che noi in Italia abbiamo
sbagliato “in modo sistematico” perché ci siamo concentrati nelle nostre
manovre su provvedimenti che sono criticabili. In certi casi non
potevamo fare di meglio, non credo infatti che il governo Prodi-Ciampi
poteva farci entrare nell’euro dove volevamo entrare in un modo
sostanzialmente diverso. Il problema è che abbiamo continuato ad usare
lo stesso sistema anche dopo ed ormai da quasi venti anni.
Ecco perché ritengo il Rapporto tempestivo e, allo stesso tempo,
evidenziatore di cose che dovremmo sapere da vent’anni.
Ma il Rapporto dice anche come dobbiamo cambiare e lo dice
semplicemente facendo un confronto tra i tassi di crescita che potremmo
ottenere (e quindi di aumento dell’occupazione, di riduzione del
rapporto Deficit-Pil, di riduzione del debito) rispetto all’1%, che è quello
che sta nelle previsioni di base. Se fossimo capaci di ridurre tutte le
spese, salvo quelle per investimento (e quindi se cambiassimo
totalmente rotta) e riducessimo i più importanti fardelli di imposta,
IRPEF e IRAP in particolare e quindi il cuneo fiscale, eccetera.
Ora questo chiaramente sarebbe in linea anche con alcuni vincoli
europei che, tuttavia, lo stesso Baldassarri ci ha detto di criticare: il fiscal
compact non è una cosa che piace a lui ma non piace neanche a me. In un
certo senso, se ho capito bene, lui lo ha espresso critiche anche dal lato
delle regole che impongono sul debito una riduzione di 1/20 all’anno
della differenza tra il debito osservato e il 60% che è il nostro target.
Effettivamente questa può essere una cosa non accettabile, anche perché
il 60% stesso, così come il 3% di deficit nasce da una regola “aritmetica”,
come lui stesso ha sostenuto. Oggi ci sono anche alcuni economisti
francesi che dicono di essersela inventata negli anni ’80 prima che fosse
adottata a Maastricht e hanno anche ribadito il concetto di essersela
inventata un po’ occasionalmente. Quella regola ha una forza
matematica intrinseca perché è chiaro che, se il tasso di crescita nominale
del Pil è del 5% e il deficit è al 3% rispetto al Pil, necessariamente il
debito resta fermo al 60%. Forse si può aggiungere che c’è una forza
ancora più grande che era evidente all’inizio degli anni ’90 quando fu
approvato il trattato di Maastricht, e cioè che il deficit del 3% fu scelto
perché in una golden rule che dice che vuole che il deficit deve essere
unicamente legato alle spese di investimento, va tenuto conto che
all’inizio degli anni ’90 il rapporto investimenti pubblici sul Pil era
precisamente del 3%. Oggi però continuare a mettere come target il 60%
è sbagliato perché non corrisponde più ai dati. La mia critica del fiscal
236
compact è però collegata soprattutto ad un altro elemento del fiscal
compact che pure abbiamo adottato, e cioè che nel medio periodo
dovremmo portare il bilancio strutturale in pareggio, salvo qualche
piccola ipsilon in più o in meno. Questa regola non ha nessuna base
teorica, proprio zero.
Cerco di motivare brevemente questa mia affermazione facendo
notare che, fondamentalmente, tutto dipende dal tipo di shock, più o
meno congiunturale o strutturale, a cui è sottoposto il sistema
economico. Se lo shock viene dalla domanda e quindi, sostanzialmente,
ci si ritrova con una domanda inferiore a quella corretta per arrivare al
pieno impiego, allora il deficit pubblico, come diceva già Keynes, può
aiutare a fronteggiare la crisi. Certamente, non tutto quello che diceva
Keynes era giusto ma qualche volta aveva ragione anche lui. Pertanto, se
lo shock viene dalla domanda, va contrastato con un deficit pubblico
perché gli stabilizzatori automatici non bastano e quindi in quel caso il
pareggio non ha senso. Se, invece, lo shock negativo è dal lato
dell’offerta, certamente il deficit pubblico va tenuto più limitato
possibile e, in quel contesto, si può anche immaginare una regola di
bilancio pubblico più o meno in pareggio. Ora, poiché non sappiamo
prevedere se avremo nel breve, nel medio e nel lungo periodo shock da
domanda o da offerta o magari contemporaneamente entrambi, questa
regola a cui ci siamo sottoposti per ragioni politiche è priva di senso. Per
ragioni politiche intendo dire che abbiamo subìto un punto di vista che
viene dall’opinione pubblica tedesca storicamente terrorizzata
dall’inflazione. Tutti i Paesi dell’Unione Europea, salvo due, si sono
sottoposti a queste regole per il pareggio strutturale che sono
tecnicamente sbagliate.
Ma quello che Baldassarri propone nel Rapporto del Centro Studi
Economia Reale è qualche cosa che è compatibile col fiscal compact, anche
se lo ritiene criticabile da certi punti di vista. Perché compatibile? Perché
propone una manovra sulla carta che è da bilancio in pareggio, cioè di
tanto riduco le spese e di tanto riduco le imposte e poi riduco anche il
debito e poi, come terzo elemento, cambio anche il tasso di cambio eurodollaro.
Il problema principale della prima componente “di tanto riduco le
spese, di tanto riduco le imposte” pone una questione di fattibilità
perché bisogna anche domandarsi: ma come mai in tutti questi anni,
mentre parlavamo di rigore ed assistevano ad una opinione pubblica che
si lamentava del rigore, in realtà facevamo aumenti di spesa pubblica? In
realtà, gli interessi che contrastano la riduzione di spesa sono enormi ed
i benefici di aumenti di spesa sono estesi. Se così non fosse le teorie da
Olson in giù ci spiegherebbero che sarebbe anche facile ottenere queste
misure. Ritengo invece che il problema di ridurre le spese correnti è un
237
problema di stipendi pubblici che, invece di essere congelati come
attualmente sono dovrebbero diminuire, di gente che dovrebbe andare
in cassa integrazione, di mobilità nel pubblico impiego che diventerebbe
obbligatoria, il part-time non sarebbe a cura di chi lo domanda come
attualmente è, etc.etc.
C’è anche un problema più recente, che è quello della diseguaglianza
crescente, nel nostro Paese e non solo nel nostro Paese. In una
condizione di crisi con una coperta molto stretta (quando il bilancio
pubblico, per vincoli che magari vengono dall’Europa, non è
utilizzabile) si rischia di avvitarsi in un ciclo perverso. Anche se, come
dice Renzi che secondo me ha perfettamente ragione, certe riforme le
dobbiamo fare non perché ce lo chiede l’Europa, ma perché ce lo
chiedono i nostri figli, i nostri nipoti. Quindi, la coperta è stretta, la
situazione è difficile e, per di più, la variabilità nei redditi all’interno del
nostro Paese e fra il nostro Paese e altri paesi in Europa sta aumentando.
Questo è un elemento abbastanza nuovo perché la variabilità
all’interno dell’Europa è qualche cosa che prima del 2007 non c’era.
Infatti, dall’inizio della costruzione europea in poi e fino a pochi anni fa,
ci siamo trovati con una convergenza fra paesi che aiutava le politiche
economiche di natura europea. Oggi invece c’è un processo di
divergenza crescente e questo rende più difficili le politiche economiche
a livello dell’Unione Europea.
Ugualmente la variabilità con i ricchi che diventano più ricchi e i
poveri che diventano, almeno dal punto di vista relativo ma anche
assoluto, più poveri fa diventare tutto più difficile. E allora vengono
fuori soluzioni di tipo consolatorie quali quella di “cambiare” l’indice
del Pil e trasformarlo nell’indice della “felicità”. Oppure guadagnano
consenso e prestigio demagogico cose non consolatorie ma di tipo
antagoniste del genere “anche i ricchi piangeranno”.
Lì sta la fortuna del libro di Piketty che lo scrisse di fatto almeno 30
anni fa perché era la sua tesi di PhD all’MIT, che io ricordo di aver letto,
in cui sosteneva che occorre portare l’aliquota marginale dei ricchi a
livelli altissimi. Ma poiché i ricchi sono sempre meno, mettendo una
aliquota marginale altissima, li fai stare molto male, ma non è così che
puoi far stare meglio o bene i poveri visto che i ricchi sono sempre meno.
A mio parere, sono queste considerazioni che rendono, nell’insieme,
difficili le manovre di cui parla nel primo punto Baldassarri.
Vorrei ora telegraficamente dire perché ritengo difficili anche gli altri
due punti.
Quello di ridurre il debito usando il patrimonio immobiliare mi
sembra, in un certo senso, più fattibile perché è noto che, da stime che
avevo fatto anch’io tanti anni fa, l’insieme degli asset pubblici di natura
238
immobiliare sono paragonabili in valore ai debiti. Credo quindi che la
vendita immobiliare è qualche cosa che si potrebbe fare.
A me pare però molto difficile immaginare una modifica del tasso di
cambio euro-dollaro al punto da portarlo alla parità. Tutta la costruzione
della politica monetaria europea e lo statuto della Banca Centrale
Europea è basato sulla new classical economics, cioè sul concetto della
neutralità della moneta, della separazione dell’inflazione dalla parte
reale dell’economia. Il rapporto euro-dollaro, il cambio dell’euro, è, in
quella concezione, un prezzo di mercato in cui sostanzialmente non si
potrà fare molto. Quindi io non dico che non si possa cambiare, ma
questo chiederebbe cambiamenti dei trattati e, francamente, anche
guardando dal punto di vista politico su come si è formato questo nuovo
Parlamento Europeo e su come sono le opinioni pubbliche in Europa
ritengo che questo tipo di cambiamento sia difficile.
Mario Draghi sta facendo del suo meglio usando gli strumenti che ci
sono magari con nuove interpretazioni. Magari ci salva per quel che
può, ma non può andare molto oltre.
TAINO
Mi pare di aver capito, che la spending review seria e vera sarebbe
piuttosto difficile, forse anche impossibile. Anche su questo chiedo al
prof. Piga di esprimere le sue valutazioni.
GUSTAVO PIGA, Università di Roma “Tor Vergata”
Questa occasione di dibattito ha un merito che voglio evidenziare ed è
quello di aver finalmente rimesso in visibilità Carlo Cottarelli, dandogli
una seria occasione in cui intervenire. E questa è una questione
importante.
Molti interventi che mi hanno preceduto hanno giustamente
sottolineato che, in questi anni e per molti versi, nulla è cambiato.
In realtà non è proprio così perché, rispetto a due anni fa, una cosa è
cambiata. Qualcuno potrebbe infatti riferirsi al fatto che è crollato lo
spread. In realtà non è vero nemmeno questo perché se si guarda allo
spread che influenza le finanze pubbliche e cioè che tiene conto dei
differenziali anche di inflazione, lo spread reale non è crollato così tanto.
È vero che se si parla con gli operatori di mercato si sente dire che, di
fatto, le aspettative non sono più per una fine dell’euro o per una uscita
di qualche paese dall’euro. Ora però, poiché gli spread esistono, bisogna
239
chiedersi perché esistono ancora questi spread visto che non mettono
più in conto la svalutazione della liretta piuttosto che della dracma.
Da questo punto di vista mi sento di condividere ciò che Joe Stiglitz
ha sostenuto e cioè che quello che veramente l’Europa rischia in questo
momento è quella che lui ha chiamato “la sindrome europea”, e forse
poteva anche dire “la sindrome italiana”, pensando alla sindrome
giapponese che ha accompagnato quel paese per una ventina d’anni.
E questa sindrome è fatta di deflazione e stagnazione. Stiglitz ha
infatti detto che l’Europa rischia una stagnazione di vent’anni fatta di
deflazione e stagnazione. Ecco perché ci sono ancora degli spread elevati
perché, probabilmente ad un certo punto, si potrebbe materializzare la
possibilità di fare un bel consolidamento del debito visto che la crescita
non riesce a ripagare il debito. E, ovviamente, Stiglitz avvertiva tutti
“attenzione che il problema non è dove va il debito durante la
stagnazione, è dove va il Paese, dove vanno i giovani, dove vanno le
piccole imprese che sono destinate o a morire o a scappare e questo con
degli effetti non più ciclici, ma permanenti e di lungo periodo sulle
capacità di un paese di generare ricchezza, sviluppo e benessere”.
Allora poiché il nostro problema assomiglia sempre di più a una
sindrome giapponese, forse varrebbe la pena di chiedersi come si
affronta una simil-sindrome giapponese. La storia del Giappone è una
storia di fallimenti e successi ripetuti.
Oggi, prendiamo atto che c’è un signore che sta mostrando una
grande leadership e forza nelle sue politiche economiche, si chiama Abe,
ed Abe, a parte le riforme che ancora non ha fatto, al suo arco ha tre
frecce e una di queste due frecce si chiama “un cambio drastico di
politica monetaria”. Ha cambiato il governatore della Banca Centrale ed
ha cambiato l’obiettivo di politica monetaria. Ora qui c’è un problema –
che si è posto anche il Giappone –: come si fa politica monetaria in una
situazione di trappola della liquidità dove, anche se si inietta enorme
liquidità, i tassi d’interesse non scendono.
La risposta che ci saremmo dati vent’anni fa (una risposta ancora
interessante ma purtroppo puramente teorica) è che si prende il telefono
e, benché sia un mercato, il Governatore di una Banca Centrale punta la
pistola sulla testa delle banche e dice “non mi interessa se sei interessato
a prestare o no: a quell’impresa devi prestare”. All’epoca si chiamava
moral suasion, purtroppo era un’epoca diversa, purtroppo o per fortuna
non lo so. Adesso le banche sono private, le banche non sono più
pubbliche e devo dire che il clima attuale è, parafrasando Kennedy, “non
chiedere cosa la tua banca può fare per il paese” ma “chiedi cosa il paese
può fare per la tua banca”. Se si legge la lettera che la Banca Centrale
Europea ha mandato al governo Renzi sulla questione degli stipendi del
governatore o se uno soltanto cominciasse a fare un piccolo convegno,
240
che magari sarebbe il caso che ne parlassimo visto che è un problema in
Europa e che le cose le impariamo a cose fatte, magari cominceremmo a
discutere che si sta per preparare una mega emissione di più di 10
miliardi di euro, mentre non facciamo le emissioni per le piccole imprese
per ripagargli il debito, ed il debito sale per ripatrimonializzare sei o
sette banche.
Detto che la moral suasion non funziona (ma anche se funzionasse,
anche se mettessimo la pistola alla testa delle banche) c’è un altro
problema in una crisi come questa e cioè che molta gente non chiede
credito, non ci va proprio in banca. Perché? Perché non vede prospettive.
Il clima di una sindrome giapponese è infatti questo “perché devo fare
investimenti in un paese dove non c’è ripresa e non c’è domanda”. Le
aspettative sono terribilmente pessimistiche. Allora il secondo strumento
che ha una Banca Centrale, in un momento di trappola della liquidità e
Franklin Delano Roosevelt ce lo insegna dagli anni ’30, è influenzare le
aspettative.
Su questo differisco un po’ dall’ottimismo del bellissimo Rapporto di
Mario Baldassarri che ha il coraggio di ripetere delle cose che in Italia
non dice nessuno. Qui però vorrei leggere un passo tratto dall’ultimo
rapporto della Banca Centrale Europea del 5 giugno 2014 dove la Banca
Centrale Europea prende atto che nuovamente ha sbagliato le sue
previsioni, di tre mesi in tre mesi, e che, mentre a marzo diceva che
l’area euro sarebbe cresciuta dell’1,2%, ha preso atto che l’area euro nel
2014 crescerà dell’1%. E dov’è che ha sbagliato la Banca Centrale? Là
dove le aspettative contano di più, come sempre, cioè sugli investimenti
la cui stima era +2,1% tre mesi fa ed è oggi a +1,7%, quindi sbaglia
sempre sulle aspettative. La cosa interessante è leggere, dopo queste
stime, cosa dice la Banca Centrale quando afferma: “Le nostre stime di
crescita – quelle al ribasso – le abbiamo fatte tenendo conto dei
programmi di aggiustamento fiscale dei vari paesi (il riferimento
puramente causale all’Italia non c’è perché non può menzionare singoli
paesi ma è ovvio che si riferisce all’Italia) dove abbiamo tenuto conto
soltanto delle manovre fiscali approvate in Parlamento o sicure di essere
approvate . La BCE dice, quindi, “queste sono le nostre proiezioni – ma
sappiate bene che queste politiche fiscali, scritte sulla carta dai governi,
non vanno per niente bene perché sono terribilmente lasche e mancanti
di rigore”. E cosa fa la Banca Centrale, dice: “bisogna fare più politiche
fiscali restrittive rispetto a quelle previste”. Di quanto? “Dello 0,5% in
media sull’area euro”, quindi immaginate se è 0,5 in media vuol dire 0
Germania e 1 Italia, e poi correttamente – perché si vede che il modello
della Banca Centrale funziona, hanno dei moltiplicatori – dice: “queste
manovre fiscali genereranno nel 2015 e nel 2016 uno 0,7%, quindi un
moltiplicatore di circa 0,8 e 0,5 di crescita in meno.
241
Allora, giustamente, la Banca Centrale si preoccupa perché afferma
che le politiche fiscali generano recessione e tende subito a chiarire. Qui
arriva il passaggio chiave che, ovviamente, così come l’ho letto io lo può
leggere qualsiasi imprenditore europeo che deve decidere se fare
investimenti in Italia, in Germania piuttosto che nelle Filippine o in
Brasile, “dobbiamo ribadire che questa nostra analisi d’impatto fiscale,
che genera recessione, si concentra solo sugli aspetti di breve periodo di
queste probabili misure fiscali ulteriori, benché anche misure fiscali ben
disegnate hanno spesso effetti di breve periodo negativi sul tasso di
crescita del Pil, vi sono effetti positivi di lungo periodo sull’attività
economica”.
Qui però si pone un problema alla Banca Centrale Europea: non
appare evidente l’orizzonte temporale di lungo termine. Anche se ci si
proietta al 2016 nemmeno il loro modello neoclassico riesce a catturare
questi effetti positivi dell’austerità. E così continua la BCE: “dunque i
risultati della nostra analisi non devono essere interpretati come motivo
per dubitare della necessità di ulteriori sforzi di consolidamento fiscale”
e dicono cosa sono questi ulteriori sforzi: aumenti di tasse indirette e
riduzioni di spesa e non riduzione di sprechi ma di spesa e basta “anzi,
ulteriori sforzi di consolidamento sono necessari per restaurare finanze
pubbliche sane nell’area euro, senza questi consolidamenti vi è il rischio
che gli spread possano peggiorare; inoltre gli effetti sulla fiducia
potrebbero essere negativi tarpando le ali alla ripresa”.
Allora, se questo è un modo di agire sulle aspettative, mi dispiace ma
non ci siamo. Questa non è una lentezza nella tempistica di intervento, è
una lentezza micidiale, è un danno sulle aspettative perché so che vivrò
per i prossimi tre anni in un paese dove la Banca Centrale chiama al
telefono la Commissione Europea che chiama al telefono i singoli
governi e gli dice: “per favore fate ulteriori restrizioni fiscali”. Nessuno
investe in un continente di questo tipo. Tra l’altro assomiglia molto, e in
questo devo dire io ho criticato Monti tutta la mia vita ma una cosa
buona Monti l’ha fatta, assomiglia molto a un’assurdità che non è
nemmeno neoclassica: l’idea che si può scambiare, in un momento come
questo, una politica monetaria espansiva con una politica fiscale
restrittiva. Infatti, quando Monti ha resistito a Draghi dicendo “No, la
troika non la voglio” il dibattito era: “Ti dò la troika, se tu ti prendi la
troika io ti compro i titoli”. Purtroppo questo, in una deflazione alla
giapponese, come ci insegna Abe, non funziona. Qui arrivo alla seconda
freccia di Abe che è la manovra, che possiamo chiamare “alla Baldassarri
o Haavelmo a rovescio”, la possiamo chiamare Stiglitz che la raccontò a
Monti due anni fa a Piazza di Pietra quando gli disse “guarda tu devi
fare una manovra espansiva col bilancio in pareggio”. E la manovra
espansiva col bilancio in pareggio ce l’ha raccontata Mario Baldassarri,
242
prendo un anno: 2015, -6 tagli agli acquisti, sprechi, -20 tagli ai
trasferimenti, siamo a 26: come li usi questi 26? 5 per maggiori
investimenti, 10 per minore IRPEF, 11 per minore IRAP. Se io volessi
cambiarla io ci farei, e qui devo purtroppo citarvi dei dati, molti ma
molti più investimenti pubblici.
Ora, io vorrei ricordarveli i dati perché, ovviamente Mario Baldassarri
ha fatto una cosa molto importante, ha preso il periodo 2000–2013. Quel
periodo però è fatto di due periodi: è fatto da un periodo di espansione e
un periodo di recessione dove l’Europa ha sbagliato tutto perché ha fatto
sempre politiche pro-cicliche, non ha fatto austerità quando ce ne era
bisogno, ha fatto austerità quando non ce ne era bisogno.
Se uno va a vedere che cosa abbiamo fatto dal 2007 al 2013, in circa 7
anni, con circa il 14% di aumento dei prezzi in 7 anni: gli investimenti
pubblici, in termini nominali, sono scesi da 36 a 27 miliardi, con una
riduzione in termini reali ben più consistente. Come ricordato da
Fiorella Kostoris si parlava di 3% di investimenti pubblici in riferimento
al limite di deficit del 3%, indicando implicitamente uno zero deficit di
parte corrente. Ebbene, Letta-Saccomanni stavano all’1,6%, RenziPadoan l’hanno portato all’1,4.
Voglio ora riferirmi all’andamento della voce di spesa “Stipendi
pubblici”. Mi dispiace doverlo far notare, ma l’Università italiana ha
appena avuto un taglio di 60 milioni di euro. Ebbene, secondo me,
questa spesa è investimento in capitale umano quindi è, in parte,
investimento pubblico. In totale, eravamo a 164 miliardi nel 2007, siamo
fermi a 164 miliardi nel 2013, si tratta quindi di una diminuzione reale
del 14% che porta la spesa per stipendi pubblici in rapporto al Pil al
minimo storico del 9,4%, che è minimo storico rispetto a tutta l’Europa.
Anche la voce acquisti di beni e servizi intermedi crolla in termini
reali. Ma allora tutta la manovra che Mario Baldassarri propone da dieci
anni a questa parte e che si basa sui famosi sprechi, malversazioni,
ruberie varie dove la si poggia? Esiste lo spreco? Eccome se non esiste.
Abbiamo tutti i dati a disposizione di ricerche sofisticatissime per
scoprire che in quel 15% di Pil, ci sono i beni e servizi, ma il Mose di
Venezia non è beni e servizi, l’Expo di Milano non è beni e servizi. E gli
sprechi ci stanno anche là. Allora, cosa deve fare un primo ministro per
dare il segnale che quel famoso 2% di Pil di cui parla Mario Baldassarri
si riesce ad identificare e quindi a tagliare? Potremmo dire che intanto
esiste un’autorità nazionale anticorruzione che potrebbe agire in modo
efficace ed efficiente. Ad Hong Kong però l’autorità nazionale
anticorruzione ha 1.200 dipendenti e 600 di loro girano armati. L’autorità
nazionale anticorruzione italiana di Cantone ha 12 dipendenti, sono
studenti dottorandi e se prendono una pistola si sparano sui piedi. Per
di più, adesso, abbiamo mandato Cantone a Milano per il caso Expo, ma
243
adesso che facciamo, chi mandiamo a Venezia per il caso Mose visto che
non c’è più disponibile Cantone che si deve occupare di Milano Expo?
Altro elemento è la spending review ed il commissario Carlo Cottarelli
che per altro dà, proprio qui, un suo contributo di grande interesse.
Carlo Cottarelli però negli ultimi mesi è sparito: doveva andare alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri mentre invece gli è stata messa a
disposizione una stanza di 12 metri quadrati al Mef in Via XX Settembre
e solo cinque dipendenti per fare la cosa più importante di cui ha
bisogno il Paese. Ebbene questo è un secondo segnale poco rassicurante.
In realtà la vera fonte dei cosiddetti sprechi e ruberie è la formazione
di ristretti “cartelli” che negli appalti sono molto pervasivi e potenti
tanto che in tutti i Paesi si combattono. L’autorità garante per la
concorrenza del mercato ha scoperto 22 cartelli in 22 anni, un cartello
l’anno. Perché così pochi? Perché non ha personale sufficiente e capace.
A sua volta la Ragioneria Generale dello Stato dovrebbe fare la
contabilità analitica, ma quali strumenti ha per questo ruolo? La Corte
dei Conti dovrebbe controllare che tutte le pubbliche amministrazioni
rispettino le convenzioni CONSIP, ma quanti controlli ha fatto la Corte
dei Conti per quelle amministrazioni che hanno comprato fuori delle
convenzioni CONSIP.
Ebbene, se questo è il contesto, appare praticamente impossibile
combattere sprechi e malversazioni varie per decine e decine di miliardi.
Ma si potrebbe comunque fare? Credo proprio di sì. Occorre però partire
dalla testa. Se il Primo Ministro manda un segnale forte che … la festa è
finita, allora la spending rewiev si fa e si fa bene.
Voglio concludere con un riferimento al Rapporto di Economia Reale
che ho apprezzato moltissimo. Nel Rapporto infatti si presenta una
accurata analisi che prende a riferimento gli andamenti “tendenziali” e
quelli “programmatici” del Def e, mettendone in evidenza le ipocrisie
contabili previsive, propone di “rottamare il Def”. Per di più si dimostra
che i numeri del Def Monti-Grilli, Letta-Saccomanni, Renzi-Padoan sono
sostanzialmente gli stessi. Infatti il Def è sempre lo stesso perché quei sei
signori non hanno mai influito come avrebbero dovuto fare sul
documento più importante di politica economica del nostro Paese. Quel
documento infatti è scritto altrove, cioè è scritto in Europa. Quindi il
problema è che la politica si fa in Europa, con una sola mano che è quella
europea. Alla Banca Centrale Europea interessa semplicemente quello
che chiede il fiscal compact cioè aumentare gli avanzi primari, sempre e
comunque, anche se sono sempre più ottenuti con aumenti di tasse e
riduzioni lineari di spesa che hanno generato il quadro tendenziale di
crescita asfittica e di disoccupazione in aumento che è stato presentato
da Mario Baldassarri.
Qualcuno ha giustamente detto che la risposta a questi problemi deve
244
essere politica. Ecco perché allora, quindici di noi hanno formato un
comitato promotore ed hanno presentato in Cassazione quattro quesiti
referendari sulla legge 243/2012 che introduce nell’ordinamento italiano
il fiscal compact che, ovviamente, non può essere modificato
unilateralmente, ma certamente si possono e si debbono “depennare” le
aggiunte di maggior ottuso pseudo rigore fatte unilateralmente
dall’Italia e non richieste dallo stesso fiscal compact. Questo Comitato
Promotore è composto da Mario Baldassarri, Danilo Barbi, Leonardo
Becchetti, Mario Bertolissi, Melania Boni, Flaviano Bruno, Rosella
Castellano, Massimo D’Antoni, Paolo De Joanna, Antonio Pedone,
Nicola Piepoli, Gustavo Piga, Riccardo Realfonso, Giulio Salerno, Cesare
Salvi. Le firme che dovranno essere raccolte hanno come obiettivo quello
di salvare l’Europa, salvare l’euro e permettere finalmente che quello che
oggi appare un “dibattito proibito”, cioè quella analisi e quelle proposte
contenute nel Rapporto di Mario Baldassarri, diventi finalmente il
dibattito fondamentale per le future generazioni.
TAINO
Chiedo ora al Professor Bagella di commentare anche quanto sosteneva
in precedenza la Professoressa Kostoris sulle questioni valutarie e sulla
deflazione, cioè sulla possibilità di disegnare uno scenario di parità tra
euro e dollaro e quali relazioni con gli Stati Uniti questo scenario
dovrebbe prefigurare.
MICHELE BAGELLA, Università di Roma “Tor
Vergata”
I commenti precedenti sul Rapporto di Economia Reale fanno leva su
due questioni di carattere generale.
Una prima questione riguarda la possibilità, la sostenibilità per
meglio dire, di una manovra di bilancio che contenga quei tagli che sono
stati indicati in precedenza sui trasferimenti, sulla spesa improduttiva,
sull’IRPEF, e sull’IRAP, secondo la strategia, meno tasse- meno spesa. A
questo proposito, a sostegno della sua tesi, Mario Baldassarri ha citato
alcuni dati contenuti nell’ultimo DEF, dove si parla, mi pare di ricordare,
di 64 miliardi di spese non specificate e di altrettanto 60 miliardi di
entrate non identificate, anche se è evidente che poi nella
rendicontazione si sa qual è il centro di spesa, da una parte, e qual è la
fonte di entrata, dall’altra.
Cifre notevoli e consistenti sulle quali si possono fare degli interventi
245
da ambo i lati, ma sui quali si innesta quel dubbio, non di principio, ma
secondo me, operativo sottolineato anche dalla Professoressa Kostoris,
che diceva prima “ fate attenzione che qui si va incontro a delle barriere
non facili da superare”.
La seconda questione riguarda la politica del cambio, cioè l’idea di
orientarla perché si giunga a una inversione di tendenza del rapporto tra
euro e dollaro, e vedere l’euro progressivamente tendere verso livelli più
bassi rispetto a quelli attuali. Non oso pensare alla parità, perché mi
sembra veramente un wishful thinking, però credo che possa giungere a
1,20 dollari per euro, posto che le politiche economiche e monetarie di
UE e USA lo rendano possibile.
Sulla prima questione riguardante l’impostazione, il Rapporto propone
una strategia di Politica Economica fondata su robusti tagli fiscali dal
lato delle entrate e dal lato delle spese, per consentire una maggiore
crescita del PIL e della occupazione. Di fatto, il Rapporto propone una
rivoluzione della strategia di Politica Economica fin qui seguita,
orientando il bilancio pubblico verso un ridimensionamento cospicuo
per consentire alla economia privata di disporre di più risorse per farla
ripartire a tassi più elevati. Un insieme di numeri sul fronte delle entrate
e delle uscite che sembrano assumere la caratteristica di un modello
paradigmatico per una Politica Economica che intende ridimensionare il
peso dello Stato sulla economia.
Viene allora naturale porsi innanzitutto la domanda su quanto una
simile impostazione sia fondata, quali teorie la supportano, quali
debolezze la contrastano. La risposta in ambito accademico spingerebbe
alcuni a considerare scenari teorici alternativi e non socialmente
compatibili con i tagli fiscali proposti. Altri auspicherebbero che detti
tagli si attuassero nel nome del primato della libertà di mercato. Altri
ancora, pur condividendo l’obiettivo finale di rilanciare i consumi e gli
investimenti privati, consiglierebbero più prudenza perché ogni singola
voce del bilancio dello Stato non è solo un numero, ma nasconde
situazioni sociali non sempre facili da gestire e condizioni giuridiche
complesse con cui i “tagli” devono fare i conti. Ma la proposta del
Rapporto non è solo quella di indicare numeri con il segno negativo
(tagli). Essa implica il principio che le scelte di politica economica
vengono prima di leggi e regolamenti, i quali vanno resi compatibili con
esse. Significa dire che se la Politica economica desidera andare
effettivamente oltre la conservazione dell’esistente o del voler cambiare
poco, deve mostrare di avere la forza di superare la barriera psicologica
e operativa del “non si può fare”, perché incapace di liberarsi dei “lacci e
lacciuoli” che il bilancio dello Stato insieme alle burocrazie
autoreferenziali oppongono al suo rinnovamento, come un recente libro
246
ha ben evidenziato (R. Mania M. Panara, Nomenklatur: Chi comanda
davvero in Italia, Laterza 2014)
Come è stato sottolineato in precedenza, nel bilancio dello Stato ci
sono voci oscure, che un governo che intende cambiare marcia dovrebbe
rendere trasparenti, mostrando ai cittadini non solo l’intenzione ma
anche la decisione di rottamare oltre che le persone anche i metodi fino a ora
adottati nella gestione della “cosa pubblica” e del suo bilancio.
Non c’è dubbio che se questo è l’obbiettivo, esso è molto ambizioso.
Non è facile scardinare un sistema che è venuto consolidandosi nei
decenni passati e che oggi mostra tutta la sua inadeguatezza a
fronteggiare la crisi di struttura di cui è vittima l’economia italiana. Ma
proprio per questo, ridimensionarlo, appare un’impresa tutt’altro che
semplice.
Come ha detto Gustavo Piga, il Governo deve prendere iniziative
concrete per fugare l’aspettativa che il prossimo DEF sia copia conforme
dei Documenti che lo hanno preceduto. Ecco, io credo che sulle scelte di
Politica Economica il Governo gioca la sua credibilità, se non è capace di
mostrare che è in grado di superare metodi, regole e gruppi che si
oppongono al cambiamento. Se non sarà capace di farlo, Il Paese subirà
una brusca accelerazione del declino che ormai da anni lo
contraddistingue, che è espresso dai tre gap negativi della economia
italiana rispetto alla economia della Germania e della media UE: il gap
di produttività (Banca D’Italia, Relazione, Maggio 2014), il gap crescente
di disoccupazione e il gap di crescita del PIL (M. Bagella, La Trilogia della
Sfida competitiva della economia italiana. Fiducia, Trasparenza Merito, WP
AISES 2014). Il cambiamento di queste tendenze richiede una ripresa
dello spirito di impresa, una ripresa della fiducia sul futuro del Paese e
sulla valorizzazione delle sue competenze e del suo capitale umano.
Riprendendo un altro punto già richiamato, per far si che le
aspettative delle Imprese e delle famiglie vengano invertite e orientate
dall’area negativa verso l’area positiva, è necessario che le scelte di
politica economica comincino a dare risultati chiari sui tre gap. Allora il
cambiamento di clima e di sentimento dei mercati, non solo finanziari
ma soprattutto reali, potrà esserci e la situazione si orienterebbe verso “il
bello”. E non solo le aspettative a breve, ma quelle di più lungo termine
potranno cambiare segno, richiamando investimenti anche dall’estero..
2. Se si favorisce la ripresa della produttività nel medio termine,
l’economia italiana può ritornare a crescere a tassi più elevati di quelli
attuali. Purtroppo, questo è un Paese dove il lungo periodo è qualcosa di
normalmente sconosciuto perché il dibattito politico-economico si
concentra sempre sulla congiuntura: si è fatto questo, non si è fatto
questo. Ora quando la congiuntura è negativa, come accade oggi, è
importante parlarne perché colpisce nell’immediato gli interessi e quindi
247
tutto ciò che ha a che fare con essi (produzione e occupazione), però non
si sottolinea abbastanza quanto sia cruciale guardare alle ragioni che la
determinano.
Il più delle volte, ma soprattutto oggi, esse sono dovute non a fattori
del momento, ma dipendono da ragioni che vengono da lontano, come
la cattiva regolamentazione dei mercati e ancora di più la difesa di
interessi particolari a scapito degli interessi generali od ancora il
cambiamento intervenuto negli ultimi decenni nelle relazioni
economiche internazionali, ovvero la globalizzazione.
Il punto cruciale sul quale va richiamata l’attenzione della opinione
pubblica è questo: la contrapposizione fra interessi particolari e generali,
sia fuori che dentro il bilancio dello Stato, sta indebolendo il ruolo della
Politica Economica, che finisce per inseguire i primi a scapito dei secondi
per creare consenso, ridurre i conflitti, sostenere posizioni diventate
indifendibili. In ultima analisi, proponendo soluzioni che accrescono e
non riducono la spesa pubblica e che di conseguenza richiedono più
tasse, riproponendo il circolo vizioso che il Rapporto suggerisce di
spezzare per riavviare consistentemente la crescita del PIL.
Senza entrare nella questione dei moltiplicatori della spesa sul PIL,
considerati più elevati di quelli della riduzione delle tasse, un dato è
certo che la riduzione del debito pubblico non è più rinviabile per i
nostri impegni europei. Se la Politica Economica non si ponesse questo
obiettivo, la macroeconomia ne mostrerebbe tutte le implicazioni
negative, al di là delle discussioni sulle politiche più o meno liberiste. La
macroeconomia di bello ha anche questo: consente di proiettare sul
futuro gli effetti delle scelte attuali e ne mostra le conseguenze, positive
o negative che siano. Come tale, la macroeconomia non è solo una
tecnica di previsione, ma, in virtù degli scenari di crescita e di
occupazione che consente di elaborare, appare come una filosofia del
possibile futuro della Società. Una filosofia coerente con i presupposti
dell’economia di mercato, che permette di guardare oltre il quotidiano,
di vedere più in là. Se in Italia il dibattito politico economico si
orientasse un po’ di più su questi scenari di lungo periodo, sarebbe più
chiaro ai cittadini e alle loro rappresentanze quale futuro attende le
nuove generazioni, i nostri figli, i nostri nipoti. I media italiani tengono
normalmente a sottovalutare questo aspetto, forse perché è più opinabile
e forse perché fa “poco notizia”.
Emilio Rossi ha presentato un quadro articolato della crescita
dell’economia mondiale, ha parlato del Giappone ma anche della Cina, e
degli altri paesi emergenti, dove stanno andando, dove sono. Se oltre al
rapporto di Oxford Economics si prendono in considerazione altri
rapporti di istituzioni internazionali come l’OCSE, il Fondo Monetario
Internazionale, la Banca Mondiale, si può avere una misura dei profondi
248
cambiamenti economico e sociali verificatisi in poco più di un decennio
nel mondo, che stanno rivoluzionando la classifica dei Paesi produttori
di beni e servizi.
Non entro nei dettagli della crescita della Cina, che è diventato il
primo paese produttore del mondo, o della avanzata dei BRICs o
dell’eccesso di offerta di lavoro che sta rivoluzionando le strutture
salariali, le scelte allocative degli investimenti, le politiche di welfare fin
qui seguite. anche se mi piacerebbe farlo. Aggiungo solo che in Italia
questo tipo di problematiche vengono lasciate ai commenti degli esperti
e non vengono presentate abbastanza alla attenzione della grande
opinione pubblica, come esse richiederebbero. E così, mentre i parametri
di Maastricht li conoscono tutti, i dati sull’aumento della occupazione in
Romania o in altri Paesi dell’est europeo vicini all’Italia, non li conosce
praticamente nessuno, inducendo a pensare che la disoccupazione in
Italia sia aumentata solo causa di detti parametri e non di ragioni interne
e internazionali.
Il Rapporto di Economia Reale, come ho indicato all’inizio, vede nell’euro
forte una delle fonti del rallentamento della ripresa della economia
italiana ed europea. La Banca Centrale Europea, come noto nel rispetto
del suo mandato che non prevede tra gli obiettivi la stabilità del tasso di
cambio, ne lascia la determinazione “ al mercato”. Mario Draghi ha
espresso il suo pensiero in un convegno a Londra nel 2012, dicendo che
avrebbe fatto qualunque cosa per salvaguardare l’euro, Whatever it takes,
adottando anche misure non convenzionali, ovvero non proprio
ortodosse. Ma una cosa è difendere l’euro dalle insidie dei debiti
sovrani, altra cosa è intervenire nei mercati valutari per stabilizzarne il
cambio a favore della economia reale. Per fare ciò bisognerebbe fare
delle modifiche ai Trattati, cosa non semplice e rapida. Nel frattempo la
BCE potrebbe accrescere la collaborazione con la FED su questa materia.
C’è infatti all’orizzonte un evento che potrebbe favorire un simile
percorso. Si sta discutendo tra gli Stati Uniti e la Commissione Europea
il cosiddetto TTIP, il Trattato Transatlantico per la creazione di un
mercato comune tra gli Stati Uniti, i Paesi dell’America del Nord, e i
Paesi europei appartenenti all’Unione, e sono in corso trattative tra le
due sponde dell’Atlantico che porteranno, si prevede, ad accordi sulle
riduzioni tariffarie e delle barriere non tariffarie (leggi e regolamenti
specie in materia ambientale). Il processo per giungere all’Accordo
segue la strada dei “piccoli passi”, come è scontato in trattative così
complesse, ma il risultato finale è prevedibile che ufficialmente o no
coinvolgerà anche discussioni e linee di azione sul tasso di cambio.
L’Europa infatti può trovare dei vantaggi specifici, aprendo i suoi
mercati ai prodotti americani, sempre che i suoi prodotti possono essere
competitivi nei mercato d’oltre Atlantico. Il che dipenderà in buona
249
parte anche dal tasso di cambio euro-dollaro. Se alla BCE non verranno
dati strumenti di intervento simili a quelli della FED, come potrà essa
bilanciare politiche monetarie espansive, che diminuendo il valore del
dollaro finirebbero per ridimensionare od annullare i vantaggi derivanti
dalle riduzioni tariffarie e non tariffarie? Il premio Nobel, Robert
Mundell, in una conferenza del 2010 all’Università di Pechino, ha
auspicato che si giunga ad un Accordo tra le principali potenze
economiche del mondo, USA, UE, e Cina, riprendendo nella sostanza la
proposta di J.M. Keynes dopo la seconda guerra mondiale di adottare
una valuta comune il Bancor . Se appare prematuro parlare di una nuova
moneta, certamente non lo è parlare di un accordo di cambio tra le due
principali Banche Centrali, FED e BCE. Anche su questo tema è
auspicabile che si vada avanti.
In conclusione, il Rapporto di Economia Reale ha il merito di indicare
una strada e sono d’accordo anch’io sull’idea che il Rapporto sia
tempestivo, perché giunge in un momento in cui l’opinione pubblica è
spaventata, stressata dai dati sulla congiuntura, e ha bisogno di
guardare al futuro con più fiducia. Mi auguro che venga ripreso, che
vengano mostrati i vantaggi della strategia proposta e che abbia anche la
capacità di richiamare l’attenzione dei responsabili di Governo.
Nelle sessioni successive avremo dei contributi che potranno indicare
se la strategia meno spesa-meno tasse sia socialmente sostenibile,
valutando anche se la tempistica proposta sia una tempistica
compatibile. Sul piano della politica economica operativa tagliare la
spesa pubblica significa tagliare la domanda interna, ma per evitare gli
effetti recessivi, bisogna tagliare simultaneamente anche le tasse,
verificandone i moltiplicatori. Non voglio andare oltre, però aggiungo
che la tempistica degli interventi è cruciale perché questi diano risultati
positivi e come tale va accuratamente predisposta.
250
Analisi istituzionali
ALESSANDRO BANFI, TG COM
Come indicato nel Rapporto di Economia Reale e come già emerso dagli
interventi del precedente panel, il taglio della spesa pubblica corrente
rappresenta la cosa più importante da fare. Ai partecipanti a questo
panel tocca quindi il compito di affrontare nel merito l’argomento chiave
di ciò che è stato giustamente definito il Piano Baldassarri.
In precedenza Mario Baldassarri ha avanzato in modo articolato e con
numeri precisi un’analisi approfondita dei conti pubblici e delle ultime
tre manovre degli ultimi tre governi. Ha inoltre offerto una chiave di
interpretazione ed una vera e propria “proposta” di manovra con modi,
tempi e numeri definiti. La “chiave di volta” della proposta è certamente
il taglio della spesa pubblica, la spending review.
Ora uno dei meriti di questo workshop, come è stato detto in
precedenza da Gustavo Piga, è stato quello di offrire a Carlo Cottarelli,
che è il Commissario Straordinario per la spending review, una occasione
pubblica per fare il punto sul suo operato ma anche, come è stato detto,
in quali condizioni si trova ad operare.
Pertanto nel chiedere a Carlo Cottarelli di dare il suo contributo,
ricordo innanzitutto a me stesso che i tagli alla spesa proposti nel
Rapporto di Economia Reale sono più o meno nell’ordine di grandezza
che Carlo Cottarelli ha già accennato in qualche uscita pubblica e si
aggirano complessivamente intorno ai 33/35 miliardi, spalmati fra il
2014 ed il 2018. Una domanda viene immediata e spontanea: è possibile
davvero fare quello che in Italia è stato impossibile fare negli ultimi
vent’anni e, in particolare, con gli ultimi tre governi e cioè andare a
toccare quelle voci di spesa che in molti ritengono siano luogo di
sprechi, malversazioni e ruberie che, come le ha già definite Mario
Baldassarri, danno pesanti elementi di opacità del bilancio pubblico?
CARLO COTTARELLI, Commissario Straordinario per
la Revisione della Spesa
Il mio intervento sarà focalizzato ovviamente sulla parte del Rapporto in
cui si discute, citando appunto il Rapporto stesso, come rottamare i
251
numeri del DEF e raggiungere tassi di crescita del Pil molto più
consistenti di quelli che sono presentati nel Documento di Economia e
Finanza.
Il Rapporto di Economia Reale propone di ottenere questo aumento
del tasso di crescita del Pil con una strategia che ha tre componenti.
La prima componente è un’azione di finanza pubblica mirata a
tagliare tassazione e spese correnti ed a rilanciare gli investimenti.
La seconda componente è un’azione per ridurre il debito pubblico
attraverso le dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato.
La terza componente è un’azione a livello europeo che porti al
raggiungimento della parità di cambio tra l’euro e il dollaro.
Ora, non ho molto da dire sul secondo e terzo punto e non credo di
essere stato invitato qui per parlare di questi due punti, però vorrei dire
comunque alcune cose su questi aspetti, per poi passare a quello
principale che riguarda l’operazione di riduzione delle spese e della
tassazione.
Sulla riduzione del debito attraverso le dismissioni e in generale la
valorizzazione del patrimonio immobiliare non posso che essere
d’accordo, non è questa l’area su cui sto lavorando, per cui mi è difficile
dire se gli obiettivi proposti sono adeguati, però occorre muoversi con
decisione in questa direzione.
Sul tasso di cambio credo che sarebbe senza dubbio utile per le
imprese europee se il tasso di cambio fosse di 1 a 1 con il dollaro. Questo
obiettivo mi sembra però un valore piuttosto lontano da quello che viene
considerato (e qui mi metto un po’ il mio cappello che avevo prima
quando lavoravo al Fondo Monetario Internazionale) un tasso di cambio
di equilibrio sulla base di quelli che gli economisti chiamiamo
fundamentals, cioè le determinanti fondamentali. Credo che il Fondo
Monetario Internazionale indichi come valore di equilibrio qualcosa
intorno all’1,3. Mi rendo conto che le stime dei tassi di cambio sono
molto incerte, però ipotizzare che il cambio appropriato sia 1 mi sembra
abbastanza fuori da quello che la maggior parte degli economisti
riterrebbero qualcosa di sostenibile nel lungo periodo. Ed in ogni caso il
cambio non è uno strumento facilmente controllabile.
Prima di passare al punto principale del mio intervento circa le
proposte in tema di spesa e di tassazione, vorrei anche sottolineare una
questione di metodo nella preparazione dei quadri macroeconomici. Il
Rapporto nota, giustamente direi, che il quadro di crescita del DEF non è
particolarmente ambizioso e non è troppo diverso da quello dei due
governi precedenti. Credo però che questo sia il risultato di una
decisione presa volontariamente dai responsabili del DEF e in ultima
analisi dal Ministro Padoan, e credo che lo abbia detto anche
esplicitamente di voler assumere un quadro di crescita prudente.
252
Credo sia importante fare questo anche per una questione di
credibilità, soprattutto di fronte a quadri eccessivamente ottimisti che
erano stati presentati in passato. È meglio essere prudenti e essere
sorpresi verso positivamente, piuttosto che presentare un quadro
eccessivamente ottimista ed trovarsi una sorpresa negativa. Fra l’altro si
sa che il quadro di crescita è anche utilizzato per prevedere l’andamento
delle entrate tributarie, quindi del deficit e del debito. È meglio allora
essere prudenti e magari essere sorpresi positivamente ad esempio
rispetto all’andamento delle entrate. Se le entrate risulteranno più
elevate del previsto il deficit e il debito scenderanno più rapidamente.
Questo avverrà automaticamente se vengono introdotti nel nostro
ordinamento dei tetti di spesa pluriennali come credo dovrebbero essere
introdotti. L’introduzione di un quadro di finanza pubblica di medio
termine in cui ci sono i tetti di spesa vincolati sarebbe una importante
innovazione istituzionale. Questo si fa in tutti i paesi dove ci sono quelli
che in inglese si chiamano medium-term expenditure frameworks. Si
possono avere anche alcune eccezioni ad esempio per escludere le spese
che sono più cicliche, ma avere un quadro di riferimento con dei tetti di
spesa di medio termine è molto importante e consente, nel caso di una
sorpresa positiva, di raggiungere una riduzione più rapida del deficit e
del debito.
Ora veniamo alle proposte relative alla manovra fiscale presentate nel
Rapporto di Economia Reale ed, in particolare, a quelle presentate nella
tavola 2. Queste proposte sono aggiuntive rispetto al quadro del DEF e
comportano essenzialmente una manovra a saldo “zero”, con un taglio
della spesa corrente di circa 38 miliardi entro il 2016 che servono a
finanziare una spesa aggiuntiva per investimenti di 8 miliardi e un taglio
della tassazione di 30 miliardi ugualmente divisi tra IRAP e IRPEF.
Questo quadro mi spinge a diverse considerazioni.
Prima di tutto non è troppo diverso, come è già stato detto, dalle
proposte di revisione della spesa con cui era partito il mio lavoro e non è
troppo diverso da quello che viene considerato nello stesso DEF in
termini di obiettivi di riduzione della spesa primaria nel triennio rispetto
al quadro tendenziale. Il DEF indica in 32 miliardi il risparmio di spesa
ipotizzabile per il 2016, contro appunto i 38 miliardi proposti da
Economia Reale, quindi non è una cifra drammaticamente diversa.
Queste risorse dovrebbero appunto, e lo si dice esplicitamente nel DEF,
essere reperibili tramite il processo di revisione della spesa.
Quindi, inevitabilmente io sono d’accordo con questa strategia di
progressiva e significativa riduzione della dimensione della spesa
pubblica corrente per finanziare una detassazione e un aumento degli
investimenti.
Sugli investimenti pubblici occorre però muoversi con una certa
253
cautela perché sappiamo che non tutti gli investimenti sono ugualmente
buoni. Un loro incremento di 8 miliardi sono una cifra abbastanza
elevata, però credo che occorra lavorare prima anche sul miglioramento
della qualità degli investimenti. È noto, per esempio, che la spesa per
investimenti in Germania è stata significativamente più bassa rispetto al
Pil di quella italiana senza che questo abbia causato un deficit di
infrastrutture. Quindi l’importante è spendere bene e non soltanto
spendere tanto.
Torno ora alle proposte della tavola 2 del Rapporto.
Un primo commento riguarda la spesa per beni e servizi per cui si
propone una riduzione per il 2016 di 13 miliardi. La recente riduzione
della spesa nel D.L. 66, per intenderci il decreto legge degli 80 euro, è
essenzialmente per buona parte una manovra di riduzione di spesa per
gli acquisti di beni e servizi, almeno 2,5 miliardi sono infatti tagli sulla
voce beni e servizi. Credo che si possa andare ben al di là di questa cifra
nel 2015 e nel 2016, arrivando forse a cifre vicine appunto a quelle di
questi 13 miliardi che sono ipotizzati nel Rapporto.
Nelle mie proposte, nel documento che è stato pubblicato sui giornali
con le mie proposte di revisione della spesa, avevo ipotizzato un
risparmio di 7 miliardi nel 2016, incluso il settore della sanità, per effetto
della riforma del sistema di acquisto di beni e servizi implicitamente
assumendo che questi risparmi potessero essere prevalentemente
ottenuti attraverso prezzi più bassi. Prezzi più bassi dovuti
all’aggregazione degli acquisti, quindi acquisti fatti non soltanto per
importi maggiori ma soprattutto acquisti fatti da specialisti e anche forse
con un miglior controllo rispetto a possibili fenomeni di corruzione, e
acquisti che si ipotizzava, ed è quello che si sta cercando di fare, che
saranno accompagnati ad un più rapido pagamento e i pagamenti più
rapidi e meno incerti comportano anche prezzi più bassi.
Ho indicato quei 7 miliardi incluso il settore della sanità, ma questo
però non includeva risparmi sulle quantità, riguardava soltanto i prezzi.
Occorre però agire anche sulle quantità e riduzioni nei volumi di
acquisti possono essere ottenute attraverso un insieme di altre misure
che venivano comunque proposte quali l’efficientamento nella gestione
degli immobili, affitti, varie provvigioni pagate dallo Stato alle banche,
le sinergie dei corpi di polizia, la riforma della presenza territoriale dello
Stato e delle Regioni ecc..
La realizzazione di tutte queste riforme, nelle proposte che ho
avanzato, avrebbero portato e porterebbero, se venissero adottate, ad
una riduzione dei volumi di acquisto. Quindi tenendo conto dei 7
miliardi per quanto riguarda possibili minori prezzi e qualche altro
miliardo per i volumi, si arriva a una cifra che non è troppo lontano da
quei 13 miliardi che sono ipotizzati nel Rapporto.
254
Queste riforme naturalmente, sia per quanto riguarda quelle che sono
volte a ridurre i prezzi di acquisto su cui stiamo lavorando che quelle
che dovrebbero portare a una riduzione dei volumi di acquisto,
richiedono tempo e quindi occorre muoversi il più rapidamente
possibile in queste aree perché comunque sappiamo che per avere i
risultati occorrerà tempo.
La seconda proposta presentata nella tavola 2 riguarda la riduzione
dei trasferimenti in conto corrente ed in conto capitale (fondi perduti)
per 25 miliardi entro il 2016. A me pare una cifra molto elevata ed,
infatti, nelle mie proposte la cifra prevista in termini di riduzione dei
trasferimenti era di circa la metà e si indicava però in modo esplicito
quali erano le componenti di questa riduzione dei trasferimenti. Quindi
sarebbe interessante sapere di più su quelle che sono le intenzioni degli
autori del Rapporto nell’indicare come ripartire questi 25 miliardi di
riduzione dei trasferimenti.
Ho già detto che questa è prima di tutto una domanda in qualche
modo politica perché con i trasferimenti si tocca la distribuzione del
reddito tra diversi soggetti ed aree territoriali, quindi è chiaramente una
domanda politica. Però è anche una domanda fortemente economica
perché le politiche di trasferimento, come le politiche di tassazione, sono
politiche che influenzano in maniera fondamentale i comportamenti del
sistema economico, quindi fa una grossa differenza dire che taglio per
esempio le pensioni piuttosto che dire che taglio i trasferimenti alle
imprese oppure taglio i trasferimenti a questo tipo di imprese. Anche
qui quindi c’è la necessità di una maggiore specificità proprio per
valutare qual’é l’impatto di queste operazioni sulla crescita sul Pil e in
generale sull’efficienza economica.
A questo proposito occorre considerare (di questo non si parla nel
Rapporto ma credo sia importante in quanto simili ai trasferimenti
seppure con segno opposto) le cosiddette spese fiscali che sono le varie
agevolazioni fiscali di cui beneficiano famiglie e imprese e sono
trasferimenti con il segno opposto. Anche qui credo si potrebbe
intervenire. Nel D.L. 66 si riducono le spese fiscali che andavano a
favorire l’agricoltura per circa 400 milioni. Credo che sia stato un primo
passo importante e forse si potrà andare avanti in futuro perché occorre
tenere presente questa miriade di agevolazioni fiscali che comportano,
per altro, distorsioni ed iniquità nel sistema di tassazione.
Il grande assente nelle proposte della tavola 2 è però il pubblico
impiego. Infatti, non si ipotizzano risparmi dal pubblico impiego. Il DEF
assume la continuazione, per il 2015 e il 2016, del blocco dei contratti,
quindi mi sembra che questa sia la stessa ipotesi che venga fatta nel
Rapporto e per questo, appunto, non ci sono risparmi aggiuntivi rispetto
a quelli ipotizzati nel DEF. Per ottenere risparmio occorrerebbe ridurre
255
gli stipendi, il che non appare possibile per la grande massa dei
dipendenti pubblici.
Nelle proposte che ho presentato c’è invece una riduzione abbastanza
consistente nelle remunerazioni dei dirigenti pubblici che si è realizzata
soltanto in parte e soltanto attraverso la fissazione di un tetto di
retribuzione per i dirigenti apicali, i famosi 240 mila euro. Mi sembra di
capire che anche gli autori del Rapporto non ritengono che ci si possa
muovere ulteriormente in questa direzione o nella direzione di una
riduzione complessiva nel totale degli occupati della pubblica
amministrazione, quindi anche qui credo sia un’ipotesi implicita, però
chiaramente tutta la manovra è concentrata su beni e servizi e
trasferimenti.
Passiamo al lato della riduzione delle tasse.
Si fanno due proposte: la prima è la riduzione dell’Irap per 15
miliardi; la seconda è la riduzione dell’Irpef per lo stesso ammontare di
15 miliardi. Per l’Irap la proposta è abbastanza chiara e ben identificata.
Per l’Irpef credo che occorra invece una maggiore chiarezza per valutare
l’impatto della manovra sulla crescita. Credo che, dal mio punto di vista,
la priorità dovrebbe essere in questo momento la riduzione del cuneo
fiscale che si è cominciata a fare nel D.L. 66. Prima di quel decreto legge
il gap nel livello del cuneo fiscale, cioè nella tassazione del lavoro,
rispetto all’Europa era di circa 32 miliardi compresa la componente Irap.
Ora, riducendo l’Irap si riduce il cuneo fiscale, però lo stesso non vale
per l’Irpef in generale. Cioè l’Irpef viene pagata da tutti, non viene
pagata soltanto dai lavoratori, e quindi la domanda che si pone è che nel
decidere quale componente dell’Irpef si vuole andare a toccare, occorre
anche chiedersi perché si vuole ridurre l’Irpef, perché si vuole ridurre la
tassazione. E rispondere a questa domanda è essenziale proprio perché
ci dice quale tasse è prioritario ridurre.
Se si pensa che il problema che si intende risolvere è quello del cuneo
fiscale, allora è essenziale ridurre la tassazione sul lavoro e non per
esempio quella su altri redditi come le pensioni. Quindi di nuovo la mia
domanda agli autori del Rapporto è anche qui una domanda di
chiarimento: quali riduzioni dell’Irpef ritengono più appropriate per
stimolare la crescita. Qui di nuovo il punto non è tanto quello di
stimolare la domanda perché se l’obiettivo fosse stimolare la domanda
allora si sarebbe proposto un pacchetto che aumenti il deficit. No, qui è
un pacchetto di riforme strutturali in cui c’è una riduzione della
tassazione e una riduzione della spesa per stimolare il supplies side
dell’economia, il lato dell’offerta dell’economia. Ma allora diventa critico
– questo è il mio commento generale – andare ad identificare
esattamente quali sono le componenti della spesa che si vogliono
tagliare, quali sono le componenti della tassazione, e in modo più
256
specifico di quello che viene fatto nel Rapporto, che si vogliono tagliare
per stimolare l’offerta e il cambiamento strutturale dell’economia
Italiana.
MARIO BALDASSARRI, Economia Reale
Vorrei sgombrare il campo da eventuali equivoci. Carlo Cottarelli ha
ragione nel dire che nel Rapporto non siamo entrati in tanti dettagli.
Vorrei però dare alcuni chiarimenti su come abbiamo svolto l’esercizio
di previsione e di impatto delle nostre proposte.
Un primo punto di chiarezza è che noi ci riferiamo ai Trasferimenti
alle imprese in conto corrente ed in conto capitale.
Per quanto riguarda i trasferimenti correnti (circa una ventina di
miliardi) essi sono “nascosti” dentro la voce “Altre spese correnti”. Quel
generico calderone riferisce di un ammontare di spesa oscillante negli
ultimi dieci anni tra i 60 e gli 80 miliardi di euro all’anno, il 7/8% della
spesa pubblica totale. È come se in un bilancio di una qualsiasi azienda
fosse indicata una voce di pari dimensioni come “altre spese”. Non
credo che un consiglio di amministrazione ed una assemblea dei soci di
qualunque azienda privata affronterebbe una qualunque discussione sul
bilancio della società senza pretendere un maggiore dettaglio circa il
contenuto di tale stessa voce. Ebbene, la Ragioneria Generale dello Stato
sa perfettamente cosa ci sia dentro i 60 miliardi di “Altre spese correnti”
e quindi basterebbe chiedere un più decente dettaglio di queste “altre
spese”.
Poi ci sono i trasferimenti in conto capitale che sono precisamente
indicati nel Def, che sono attorno a 16/17 miliardi di euro all’anno.
Di questi “trasferimenti”, per quello che sappiamo, circa 12 miliardi
su un totale di circa 36, sono quelli che vengono dati ad Anas, Ferrovie e
Trasporti pubblici locali, che potremmo anche mettere in discussione ma
nel Rapporto noi abbiamo immaginato che continuino ad essere erogati.
Quindi dei 36 rimangono 24 miliardi di euro. Di questi, 17 miliardi
all’anno sono distribuiti direttamente dalle Regioni e 7 miliardi circa dal
Governo centrale. Nei giornali li trovate scritti come corsi di formazione
per parrucchieri, per estetisti e varie altre faccende.
Allora la nostra ipotesi è che quelli in conto capitale occorra
trasformarli in credito d’imposta. Questo comporterebbe un risparmio di
spesa per 4–5 anni finché non si va a regime. Questo credito d’imposta
sarebbe spendibile nell’arco di 4–5 anni e significherebbe che
l’erogazione non avviene più “in contante a fondo perduto all’inizio del
progetto”. Il soggetto beneficiario deve realizzare il progetto e renderlo
profittevole, poi recupera quei fondi come credito d’imposta.
257
Per i trasferimenti correnti abbiamo immaginato che siano
effettivamente tagliati.
Da qui viene il ragionamento e vengono i numeri che abbiamo
presentato su quella tabella 2 citata da Carlo Cottarelli.
Per quanto riguarda l’Irap è chiaro che se arrivassimo a 22 miliardi di
sgravio l’avremmo azzerata completamente. Tale è infatti il gettito
complessivo dell’IRAP al netto di quanto contabilizzato per le pubbliche
amministrazioni che rappresenta una semplice partita di giro.
La nostra proposta è invece cominciare ad azzerarla per dimensioni di
aziende, vale a dire: prima fino a 50 addetti, poi 100 addetti, poi 200
addetti, ecc. Proponiamo cioè di arrivare all’azzeramento dell’Irap a
regime incorporando prima le aziende piccole e medie e poi le altre.
Sull’Irpef invece abbiamo fatto l’esercizio immaginando la
moltiplicazione per 2,5 delle deduzioni per carichi familiari, e questo
costa circa 15 miliardi di minore imposta. Abbiamo proposto questo
meccanismo perché riteniamo che, oltre all’abbassamento del carico
fiscale sui lavoratori, occorra anche tenere conto dei carichi familiari in
termini di equità orizzontale.
I risultati che abbiamo ottenuto e che abbiamo illustrato nel Rapporto
sono quindi conseguenti a queste specifiche proposte di manovra.
BANFI
Passiamo ora la contributo di Fabrizio Balassone, Vice Capo del Servizio
Struttura Economica della Banca d’Italia.
FABRIZIO BALASSONE, Vice-capo Struttura
Economica, Banca d’Italia
Essendo stato invitato a partecipare alla sessione “analisi istituzionali”,
ho preparato una presentazione che cerca di riferire quale sia il punto di
vista della Banca d’Italia sulla situazione economica italiana e quindi
parlerò poco di spending review, se non alla fine facendo un accenno alle
politiche per il prossimo triennio, anche perché mi sembra giusto
lasciare questo tema a Carlo Cottarelli che sicuramente è la persona più
qualificata a farlo e lo ha egregiamente fatto nel suo precedente
intervento.
Comincerei il mio intervento con le buone notizie, anche per cambiare
un po’ il tono della discussione precedente che ha sottolineato aspetti in
gran parte preoccupanti.
La buona notizia principale è che nell’ultimo anno, ma già anche nel
258
2012, le condizioni finanziarie nell’area dell’euro sono molto migliorate e
sono migliorate anche nel nostro Paese, come si vede decisamente
dall’andamento dei divari tra i rendimenti dei titoli sovrani dell’area. La
politica monetaria ha giocato un ruolo molto importante in questo
miglioramento. Come illustrato nel grafico 1, in coincidenza dei due
cambiamenti di tendenza degli spread nell’area, ci sono due importanti
interventi della Banca Centrale Europea: il primo è duplice, sono le due
operazioni di rifinanziamento più a lungo termine fatte a cavallo tra la
fine del 2011 e l’inizio del 2012; il secondo è l’annuncio delle operazioni
monetarie definitive nell’estate del 2012.
259
Grafico 1. L’area dell’euro: 1. condizioni migliorate.
Le condizioni finanziarie sono migliorate.
Il contributo della politica monetaria è stato determinante…
Questo contributo della politica monetaria è stato possibile ed efficace
perché si è inserito nel contesto di una strategia portata avanti insieme
da un largo numero di attori, sia a livello nazionale che a livello
europeo. Credo che l’esempio più evidente di questa strategia
concordata lo si possa avere guardando i prestiti che sono stati erogati ai
paesi in difficoltà durante la crisi, che ammontano a circa 350 miliardi
nel periodo qui indicato dal 2010 al maggio di quest’anno. Questi sono i
prestiti erogati da paesi europei o da istituzioni europee, ai quali
andrebbero aggiunti quelli del Fondo Monetario Internazionale non
inclusi in questi dati. Questa cifra è tanto più sorprendente se pensiamo
che al momento in cui esplose la crisi, cioè nel 2010, non c’erano gli
strumenti né legali né tecnici per erogare questi prestiti. C’è pertanto
voluto uno sforzo notevole da parte dei paesi dell’area per mettere in
piedi il macchinario che consentisse di effettuare queste operazioni. E
non si tratta solo del “macchinario tecnico” ma anche della necessità di
contrastare il clima che si era venuto a creare al momento dell’esplosione
della crisi che sicuramente non era favorevole a sforzi di solidarietà
260
all’interno dell’area. Quel clima ostile è stato cambiato grazie a una serie
di accordi internazionali che hanno profondamente rivisto e rafforzato la
governance dell’unione economica e monetaria ed anche grazie agli sforzi
fatti a livello nazionale per riportare sotto controllo le finanze pubbliche
lì dove era necessario, contrastando gli squilibri macroeconomici nei
paesi dove questi erano più forti (vedi Grafico 2).
261
Grafico 2. L’area dell’euro: 1. condizioni migliorate.
Le condizioni finanziarie sono migliorate.
Il contributo della politica monetaria è stato determinante nell’ambito di una strategia
articolata, nazionale ed europea.
Sostegno finanziario ai paesi in difficoltà:
2010 2011 2012 2013
Irlanda
Portogallo
Grecia
Spagna
22,0
14,7
7,6
0,8
21,0
19,3
6,6
3,0
49,9
21,0 31,9 108,3 25,3
6,3
192,8
39,5
Cipro
Totale
2014
Totale
(maggio)
1,9
45,1
41,4
4,6
0,2
4,8
21,0 74,9 181,8 46,0
10,3
334,0
Questo sforzo ha sicuramente migliorato le condizioni finanziarie
dell’area però non è stato uno sforzo fatto senza costi. Infatti, alla
recessione abbiamo sommato politiche restrittive e quindi
evidentemente questo ha avuto un impatto sull’economia e sulle
persone soprattutto. I dati sulla disoccupazione sono evidentemente dati
che non possono lasciare soddisfatto nessun policy maker. Nell’area
dell’euro siamo ad una media di quasi il 12%, l’Italia è quasi al 13, in
Spagna siamo sopra il 25 (vedi Grafico 3).
262
Grafico 3. L’area dell’euro: 2. costi elevati per evitare il peggio.
I costi di recessione e politiche restrittive sono stati elevati ma la correzione di
bilancio nei paesi in crisi era inderogabile
Tasso di disoccupazione:
Totale*
Germania
15–24**
5,1
7,9
Francia
10,4
24,8
Italia
12,7
40,0
Spagna
25,3
55,5
Area dell’Euro
11,8
24,0
* marzo 2014, al netto dei fattori stagionali
** media 2013
263
Rendimento dei BTP decennali (dati giornalieri; valori percentuali):
Questa scelta non è certo stata fatta a cuor leggero o scegliendo tra
numerose alternative.
Sempre nel grafico 3 si riporta l’andamento del rendimento dei nostri
titoli di stato decennali tra la fine del 2010 e la fine del 2011: siamo partiti
da meno del 4% ed eravamo arrivati a quasi il 7,5. E con tassi al 7,5
diventa dubbia anche la possibilità di accedere al mercato. Non voglio
qui rievocare lo scenario di allora, però sicuramente quella era una
situazione di grande emergenza. E se c’è un dubbio sulla possibilità di
accedere al mercato semplicemente per rinnovare il proprio debito, c’è
da chiedersi come si possa pensare in quelle circostanze a manovre
espansive, nel senso tradizionale del termine, per sostenere l’economia
con più deficit pubblico.
In Banca d’Italia abbiamo provato con il nostro modello econometrico
a fare un esercizio contro fattuale, retrospettivo, per individuare cosa ha
causato la recessione ed abbiamo raggruppato le fonti di calo del Pil in
tre grossi blocchi: uno è la domanda estera; il secondo sono le correzioni
al bilancio pubblico; il terzo è una categoria un po’ più ampia e cioè il
clima di incertezza legato alla crisi con gli effetti sui tassi di interesse e
sull’offerta di credito.
264
Grafico 4. L’area dell’euro: 2. costi elevati per evitare il peggio.
I costi di recessione e politiche restrittive sono stati elevati ma la correzione di
bilancio nei paesi in crisi era inderogabile.
Determinanti della recessione:
2012 2013 Totale
Domanda estera
-0,7
-1,2
-1,3
Correzioni bilancio
-1,1
-1,2
-2,3
Tassi, credito e incertezza
-1,7
-0,8
-2,5
Totale
-3,5
-3,2
-6,7
Ora, se guardiamo a queste tre componenti nel biennio 2012–2013,
vediamo che le correzioni di bilancio hanno implicato una perdita di
crescita di Pil di più di 2 punti percentuali, ma comunque meno di
quello che è stato l’effetto della crisi finanziaria per se, che è di 2,5 punti.
Questo in un contesto in cui i tassi, dopo l’impennata mostrata nel
precedente grafico 3, hanno cominciato a scendere in un contesto in cui
le tensioni del credito, pur fortissime, sono diminuite rispetto a quelle
iniziali. Si può allora immaginare quale avrebbe potuto essere la perdita
di Pil (quel 2,5%) se non fossimo intervenuti per tempo.
Nel nostro Paese la recessione si è, peraltro, arrestata a partire dalla
fine dello scorso anno, ma già nella seconda metà dello scorso anno la
situazione mostrava chiari segni di miglioramento. Non è una situazione
che ci possa soddisfare, perché questo arresto della recessione
sostanzialmente si traduce in una stagnazione di fatto, il Pil non è
tornato a crescere a livelli pre-crisi e al contrario nell’ultimo trimestre è
stato negativo.
265
Grafico 5. L’Italia: 1. il lascito della recessione.
In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno.
Prodotto interno lordo dell’Italia (variazioni percentuali sul periodo precedente):
Peraltro il lascito della recessione è decisamente pesante. Il Pil è quasi
10 punti inferiore al livello raggiunto nel 2008 e che la preoccupazione
principale è che gli investimenti sono inferiori del 25% al livello pre-crisi.
266
Grafico 6. L’Italia: 1. il lascito della recessione.
In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno ma il suo lascito è
pesante.
PIL dell’Italia e principali componenti della domanda (indici: 1º trimestre
2008=100):
Qualche consolazione può invece arrivare dalle esportazioni che sono
l’unico elemento che è tornato quasi ai livelli precedenti la crisi, anche se
questa performance delle esportazioni non è omogenea sul territorio
nazionale. Se guardiamo le Regioni ce ne sono soltanto sei che hanno un
dato positivo, sono quelle sei che contribuiscono alla performance delle
esportazioni italiane, le altre sono in realtà ancora con il segno meno.
267
Grafico 7. L’Italia: 1. il lascito della recessione.
In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno ma il suo lascito è
pesante.
Esportazioni a valori correnti (variazioni percentuali, 2008=100):
268
Esportazioni a valori correnti (contributi alla crescita):
Nel grafico 8 sono riportati gli effetti sull’occupazione e sulla
disoccupazione, sui quali non mi dilungo ulteriormente.
269
Grafico 8. L’Italia: 1. il lascito della recessione.
In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno ma il suo lascito è
pesante.
Numero di occupati e tasso di disoccupazione (dati trimestrali destagionalizzati;
milioni di persone e valori percentuali):
270
Grafico 9. L’Italia: 1. il lascito della recessione.
In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno ma il suo lascito è
pesante.
PIL per macroarea (variazioni percentuali sul periodo precedente; medie annuali)
Sicuramente su questi andamenti ha influito il credito. Nel 2013 i
prestiti bancari si sono contratti del 3,7% e la contrazione ha riguardato
soprattutto le imprese. Cosa c’è dietro questa contrazione? Il fattore
principale, secondo noi, è la rischiosità del credito in questa fase. Le
banche sono preoccupate della rischiosità dei propri prenditori di fondi
e questo condiziona l’offerta.
271
Grafico 10. L’Italia: 2. le banche e il credito.
Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7 per cento.
Prestiti bancari (tassi di crescita sui 12 mesi):
Nel grafico 11 è riportato l’andamento delle sofferenze nel corso della
crisi. Nel 2013 abbiamo raggiunto il 4% dei prestiti come flusso di nuove
sofferenze. In questo quadro il sistema bancario ha compiuto uno sforzo
per rafforzare il patrimonio. È vero che i coefficienti sono alti perché si
sono ridotte le attività, ma è anche vero che il patrimonio è stato
accresciuto ed il coefficiente relativo al patrimonio di migliore qualità è
aumentato molto nonostante la crisi, vedi grafico 12.
272
Grafico 11. L’Italia: 2. le banche e il credito.
Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7 per cento.
L’offerta di credito è ancora condizionata dai rischi elevati.
Flusso di nuove sofferenze (dati trimestrali; in percentuale dei prestiti):
273
Grafico 12. L’Italia: 2. le banche e il credito.
Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7 per cento.
L’offerta di credito è ancora condizionata dai rischi elevati.
Il rafforzamento patrimoniale: determinante per preservare la fiducia.
Coefficiente relativo al patrimonio di migliore qualità (Core tier 1; percentuale):
Questa operazione, molto voluta anche dalla Banca d’Italia, è stata a
volte soggetta a critiche aspre. Si temeva infatti un effetto negativo di
questa operazione sull’offerta di credito. In realtà credo che sia stato
fondamentale per mantenere la fiducia dei mercati nei nostri istituti e
quindi nel non peggiorare le condizioni del credito, e soprattutto vorrei,
richiamando la vostra attenzione su questo grafico, ricordare che
nonostante quello che spesso si dice, il nostro è, tra i paesi europei,
quello che ha meno utilizzato fondi pubblici per sostenere le banche in
questo periodo. Per l’Italia, ho dovuto mettere una freccetta nel grafico
per far sì che fosse chiaro dove ci troviamo perché con questa scala non è
neanche visibile. Infatti è allo 0,3% del Pil.
274
Grafico 13. L’Italia: 2. le banche e il credito.
Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7 per cento.
L’offerta di credito è ancora condizionata dai rischi elevati.
Il rafforzamento patrimoniale: determinante per preservare la fiducia; realizzato
pressoché per intero con capitali privati.
Intervento pubblico nel settore finanziario (impatto massimo sul debito pubblico –
2007/2013; % del PIL):
In questo quadro abbastanza fosco non mancano però i segnali
positivi, primo fra tutti l’andamento della produzione industriale che è
in ripresa dalla fine dell’anno scorso ed anche gli ultimi dati sono
incoraggianti.
275
Grafico 14. L’Italia: 3. le prospettive.
Non mancano, anche da noi, segnali positivi: la produzione industriale è in lieve
aumento.
Produzione industriale in Italia (1):
Ci sono anche i giudizi degli imprenditori sui livelli degli ordini e
della produzione che sono in miglioramento netto, anche se, come al
solito, il nostro Paese non presenta mai un quadro uniforme: le Regioni
meridionali presentano dati meno positivi di quelli relativi al resto del
Paese. Ci sono anche altri indicatori qualitativi che migliorano, per
esempio il clima di fiducia tra le imprese. Però, è inutile negarlo, una
vera ripresa stenta ad avviarsi e lo vediamo anche nei piani di spesa
delle imprese. I piani di spesa delle imprese, per investimenti,
prevedono ancora, per il 2014, un segno negativo, in forte riduzione
questo segno negativo rispetto agli anni precedenti, ma comunque
permane.
276
Grafico 15. L’Italia: 3. le prospettive.
Non mancano, anche da noi, segnali positivi: la produzione industriale è in lieve
aumento; i giudizi sui livelli degli ordini e della produzione migliorano.
Livello degli ordini e della produzione (1):
277
Grafico 16. L’Italia: 3. le prospettive.
Non mancano, anche da noi, segnali positivi: la produzione industriale è in lieve
aumento; i giudizi sui livelli degli ordini e della produzione migliorano; così pure altri
indicatori qualitativi.
Indice di fiducia delle imprese (ISTAT), medie mobili a tre termini:
278
Grafico 17. L’Italia: 3. le prospettive.
Ma una vera ripresa stenta ad avviarsi.
Investimenti realizzati e piani di spesa per il 2014 delle imprese nell’industria in
senso stretto e nei servizi privati non finanziari (variazioni percentuali sull’anno
precedente):
Quali sono le prospettive? A breve termine, secondo i principali
analisti, la ripresa dovrebbe proseguire piuttosto lentamente nel corso di
quest’anno. Consensus prevede addirittura un rischio di un
rallentamento nella seconda metà del 2014. Nel medio termine c’è una
certa convergenza tra i principali previsori a una graduale accelerazione
nel 2015 della ripresa. Naturalmente questi dati sono precedenti alla
release dell’ultimo trimestre fatto dall’Istat qualche giorno fa, quindi in
qualche misura potrebbero essere soggetti a revisioni e sicuramente,
dato il segno del risultato del primo trimestre, non al rialzo.
279
Grafico 18. L’Italia: 3. le prospettive.
Nel breve termine, secondo i principali analisti, la ripresa procederebbe lentamente
nel prosieguo dell’anno:
2004
I
II
III
IV
Principali analisti 0,2 0,3 0,4 0,4
Consensus
0,3 0,2 0,1 0,1
Nel medio termine ci sarebbe una lieve accelerazione.
Rischi: rallentamento economie emergenti, tensioni geopolitiche, condizioni del
credito e del lavoro.
Possibili fattori positivi: riforme strutturali, miglioramento del clima di fiducia.
2014 2015
OCSE (nov 2013)
0,6
1,4
Commissione UE (inv 2014)
0,6
1,2
FMI (apr 2014)
0,6
1,1
Governo (apr 2014)
0,8
1,3
Banca d’Italia (gen 2014)
0,7
1,0
I rischi ed i possibili fattori positivi sono elencati nello stesso grafico e
sono quelli che sono stati anche discussi melle precedenti sessioni: un
rallentamento nelle economie emergenti, un acuirsi delle tensioni
geopolitiche e naturalmente, in casa nostra, le condizioni del credito e
del lavoro. Fattori positivi vengono dalle riforme strutturali.
Nelle considerazioni finali il Governatore della Banca d’Italia, il 30
maggio scorso, ha posto l’enfasi sulla necessità di una strategia che
coniughi domanda e offerta e, a me pare, che è anche ciò che è emerso
da questo dibattito: servono le riforme strutturali, ma le riforme
strutturali hanno dei costi, cerchiamo di sostenere, nel frattempo, la
domanda.
Per quanto riguarda l’azione sull’offerta, noi vediamo come
prioritario dare attuazione a tutti quei provvedimenti che sono stati
approvati nel corso degli ultimi due anni. Il grafico 19 da le percentuali
dei provvedimenti attuativi delle riforme approvate negli ultimi due
anni, che ancora sono da approvare. Sono quasi il 50% per quelli
approvati durante il governo Monti e sono quasi il 20% per quelli
approvati durante il governo Letta. Per una buona parte di questi
provvedimenti attuativi sono anche scaduti i termini, quindi si conferma
ancora una volta questa difficoltà nel nostro Paese di applicare le riforme
dopo averle concordate.
280
Grafico 19. L’Italia: 4. le politiche.
È necessaria una strategia che coniughi offerta e domanda, dando piena attuazione
alle riforme avviate.
Provvedimenti adottati e provvedimenti per i quali sono scaduti i termini
(percentuale sul totale dei provvedimenti da emanare; dati alla fine del 2013):
Questa strategia di accompagnare domanda e offerta si può fare,
secondo noi, sfruttando anche i margini che sono stati aperti per il
nostro Paese dai miglioramenti sui conti pubblici ottenuti negli anni
precedenti. In parte questi margini sono già in corso di sfruttamento. Il
fatto che noi in Europa siamo il Paese con il più alto avanzo primario,
anche se siamo il Paese con il secondo debito più alto, questo fatto ci da
dei margini e ci ha consentito di fare alcune cose. Insieme a questo non
dimentichiamoci i risultati che sono stati ottenuti nel contrastare
l’andamento della spesa più sensibile agli andamenti demografici come
le pensioni. L’Italia è in Europa il paese che ha l’aumento futuro previsto
di spesa per pensioni più basso rispetto a quello che si vede in altri paesi
dell’area.
281
Grafico 20. L’Italia: 4. le politiche.
È necessaria una strategia che coniughi offerta e domanda, dando piena attuazione
alle riforme avviate sfruttando i margini aperti dal miglioramento dei conti pubblici.
Avanzo primario delle Amministrazioni pubbliche nel 2013(percentuale del PIL):
282
Grafico 21. L’Italia: 4. le politiche.
È necessaria una strategia che coniughi offerta e domanda, dando piena attuazione
alle riforme avviate sfruttando i margini aperti dal miglioramento dei conti pubblici.
Projected change in strictly age-related expenditure AWG reference and risk
scenarios, 2010–60. Overall change in age-related expenditure (percentage
points of GDP):
È vero che questi margini li abbiamo già in parte sfruttati. Dovremmo
però essere un po’ più generosi con noi stessi per le cose che riusciamo
ad ottenere. Ad esempio, l’azione sulla riduzione del cuneo fiscale
avviata dal governo Letta, proseguita dal governo Renzi e,
sperabilmente, ancora intensificata, è sicuramente una cosa positiva ed è
una cosa che è stato possibile fare grazie ai sacrifici fatti in precedenza.
Lo stesso vale per l’accelerazione del pagamento dei debiti commerciali
da parte delle Pubbliche Amministrazioni.
283
Grafico 22. L’Italia: 4. le politiche.
C’è flessibilità nelle regole europee, può essere sfruttata nell’ambito di una strategia
convincente di riforme strutturali.
Cuneo fiscale per un lavoratore dipendente senza carichi familiari (1) (in
percentuale del costo del lavoro):
284
Grafico 23. L’Italia: 4. le politiche.
C’è flessibilità nelle regole europee, può essere sfruttata nell’ambito di una strategia
convincente di riforme strutturali.
Debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche (miliardi di euro):
Concludo con un solo accenno alla questione della spending review. Il
richiamo è, giustamente credo, all’efficienza della spesa. Vogliamo
ridurre la spesa per ragioni di bilancio e dobbiamo fare in modo che
questa spesa sia una spesa migliore. L’esempio secondo me più eclatante
è la spesa per investimenti pubblici, per le infrastrutture.
285
Grafico 24. L’Italia: 4. le politiche.
C’è flessibilità nelle regole europee, può essere sfruttata nell’ambito di una strategia
convincente di riforme strutturali.
Indici monetari e indici fisici di dotazione di infrastrutture nei principali paesi
europei:
Nel grafico 24 si presenta, a confronto con altri paesi, una valutazione
della dotazione di infrastrutture del nostro Paese basata sul calcolo
dell’inventario permanente, quindi prendendo i flussi finanziari, la
spesa che ogni anno è stata fatta negli ultimi 20–30 anni nel nostro Paese
e nei principali paesi europei (vedi barre blu). Come si vede l’Italia e la
media di Francia, Germania e Regno Unito più o meno si equivalgono. A
fianco ci sono invece delle barre che guardano alla dotazione fisica, cioè
quelli che sono gli indicatori materiali: chilometri di ferrovie, chilometri
di strade, naturalmente ponderati per la popolazione. Con tutte le
cautele del caso, è lì dove emerge il divario. Allora la domanda è: la
nostra dotazione di infrastrutture è un problema di risorse o è un
problema di come spendiamo poi le risorse?
Chiudo con un richiamo a quello che è il problema posto anche nel
Rapporto di Economia Reale ed emerso più volte nei precedenti
interventi: l’andamento del rapporto tra debito e Pil.
286
Grafico 25. L’Italia: 4. le politiche.
La riduzione del rapporto debito/prodotto resta la sfida.
La sua velocità dipende dal ritorno alla crescita.
Debito delle Amministrazioni pubbliche (percentuale del PIL):
È questa sicuramente la sfida principale che fronteggia il nostro Paese.
Sicuramente il successo in questa sfida dipende dal ritorno alla crescita,
non si può ridurre il rapporto tra debito e prodotto a dispetto di un Pil
che è stazionario o, peggio, se dovesse ritornare a ridursi. Voglio anche
dire però che la regola del ventesimo dettata dal Fiscal Compact non è
una follia in condizioni normali. Se noi avessimo il tasso di crescita
(anche solo quello che avevamo prima della crisi che vorrei era
comunque un tasso di crescita di un paese in difficoltà, intorno all’1%), e
una situazione di inflazione normale, il rapporto tra debito e prodotto,
con il pareggio strutturale, sarebbe in calo in conformità con le regole
europee. È la situazione attuale che è particolare e che rende questa
regola difficile da rispettare. Però torno a dire che i margini di flessibilità
nelle regole europee ci sono, le regole non sono così astruse come alle
volte le si vuole raccontare, e il punto è che questi margini si possono
sfruttare se ci si presenta con una strategia complessiva credibile e
questa è, come dire, “qui dove si parrà della nostra nobiltade”.
287
BANFI
Ringrazio molto Fabrizio Balassone perché ha aggiunto altri argomenti
molto interessanti che inducono a confermare quello che ha detto in
precedenza Danilo Taino e cioè che abbiamo una finestra di opportunità,
proprio nei prossimi sei mesi dovuta a una congiuntura internazionale
ma anche ad una specie di riscoperta delle nostre virtù, diciamo così fra
virgolette. Tutto sta a vedere se riusciremo davvero a sfruttare questa
finestra che comunque c’è.
Passiamo ora all’intervento di Salvatore Tutino, che con la Corte dei
Conti, è istituzionalmente colui che tutti i giorni dovrebbe pensare alla
spending review, o no?
SALVATORE TUTINO, Corte dei Conti
Devo dire che le simulazioni che ci offre Economia Reale sono molto
accattivanti. Sono simulazioni che, soprattutto se prese nel loro insieme
con i tre tipi di intervento (o meglio i due interventi veri e propri con la
manovra sulla legge di stabilità con tagli di spesa e tagli di prelievo e
con l’aggressione allo stock del debito valutati anche nell’ipotesi di una
convergenza del tasso di cambio dollaro-euro verso la parità),
chiaramente danno effetti eccezionali.
Riassumendo, abbiamo un tasso di crescita che si triplica rispetto al
tendenziale, una riduzione di due terzi del tasso di disoccupazione, la
riduzione di un terzo dello stock del debito pubblico e l’indebitamento
netto cambia di segno completamente da un deficit del -1,7% ad un
surplus del +3,3%, cinque punti di miglioramento.
È questo un panorama che tutti sarebbero disposti a sottoscrivere,
anche se per fare questo occorre mettere mano a un intervento che,
soprattutto dal lato della spesa, non penso che sia un intervento senza
lacrime e sangue.
Detto questo, penso però che, prima ancora di confrontarci sulla
tipologia di intervento delineata (che comunque mi sembra apprezzabile
e penso che sia ampiamente condivisibile), dovremmo provare ad
interrogarci sulla praticabilità di tale intervento e sul modo in cui il
quadro tendenziale effettivamente oggi si pone e quello che è realmente,
per capire poi come su questo quadro, si possa impostare una manovra
di vero rilancio della crescita e dell’occupazione associata ad un forte
riequilibrio dei conti pubblici.
Da questo punto di vista, bisogna tenere conto del forte intreccio che
c’è fra spesa e entrata, come sottolineato in precedenza da Carlo
Cottarelli.
288
Infatti, il quadro tendenziale su cui si innesta questa manovra include
già tagli di spese fiscali, come ricordava sempre Cottarelli, per 3 miliardi
nel 2015, 7 nel 2016 e 10 nel 2017, come risultato di una revisione delle
cosiddette agevolazioni fiscali.
In realtà quindi queste cifre bisogna farle per avere un tendenziale
come quello già delineato.
In secondo luogo, questo tendenziale non tiene conto della correzione
che pure lo stesso Def mette in campo: i 3 decimi di Pil per il 2015 e 6
decimi dal 2016 in poi per conseguire gli obiettivi programmati in
termini di indebitamento netto rispetto all’andamento tendenziale.
Terzo punto. Il tendenziale non tiene conto dell’impegno assunto dal
governo, perché bisogna trovare risorse per fare questo, per far
diventare strutturale la manovra sul cuneo fiscale che per il 2014 è stata
fatta in via sperimentale e temporanea.
Quarto punto. Non si tiene conto di un effetto di sostituzione che si ha
quando si tagliano i trasferimenti, in particolare ai trasferimenti degli
enti locali. Tagliare i trasferimenti agli enti locali finora ha significato,
non un semplice taglio di spese ma un taglio di spese a cui è seguito un
aumento di entrate, poiché gli enti locali hanno utilizzato la facoltà loro
concessa di aumentare le imposte di loro competenza quali addizionali
Irap e quant’altro piuttosto che tagliare le loro spese. In questo senso
quindi si può partire con una manovra che taglia la spesa ma che alla
fine diventa paradossalmente un aumento di entrate.
Infine bisogna tenere conto anche delle nuove tendenze, che vanno
manifestandosi ancora una volta e che erano tendenze molto forti nel
passato, di utilizzare forme di copertura come dire “improprie”.
Su questi cinque punti mi soffermerò molto brevemente.
I tagli alle spese fiscali. Noi le chiamiamo spese fiscali, come dire
all’americana, in realtà sono agevolazioni positive. Però bisogna capire
fino a che punto sono agevolazioni. Ci sono alcune cosiddette
agevolazioni che fanno parte della struttura stessa del sistema in
positivo e quali le detrazioni per lavoratore dipendente, le detrazioni per
carichi di famiglia, le agevolazioni – tra virgolette – che riguardano
l’Irap. Queste fanno parte del sistema. Voglio dire che il sistema Irpef,
per semplificare, è fatto di quattro gambe: ci sono gli scaglioni, ci sono le
aliquote, ci sono le detrazioni e ci sono le deduzioni. Eliminiamo e
riduciamo le deduzioni? Eliminiamo e riduciamo le detrazioni?
Benissimo, in un quadro complessivo delle due l’una, o interveniamo
modificando gli altri parametri, aliquote o scaglioni, oppure aumenta la
pressione fiscale. E guarda caso è un aumento che interesserebbe in
particolare i redditi bassi, in particolare per le detrazioni d’imposta.
Quindi si può immaginare quale blocco ci sarebbe quando qualcuno
dovesse provare a fare queste cose. E già un anticipo l’abbiamo avuto
289
con la legge di stabilità che prevedeva un taglio per 500 milioni per
quanto riguarda la percentuale di valorizzazione degli oneri detraibili,
per esempio le famose spese mediche, dal 19% al 18%. Ebbene, quelle
proposte sono state accantonate. Naturalmente potremmo dire che,
rispetto a 253 miliardi di agevolazioni fiscali, non dovrebbe essere
difficile recuperare 3 miliardi, 7 miliardi, 10 miliardi, così come sono
quantificati dalla Commissione Ceriani.
In realtà questo discorso del taglio alle agevolazioni fiscali parte da
molto lontano. Un primo tentativo ci fu negli anni ’90-’91, allora era
Ministro Formica che con la legge 408/91 prevedeva un taglio delle
agevolazioni fiscali e con le risorse recuperate, circa 7000 miliardi di lire,
si poteva finanziare una riforma dell’Irpef nel senso di tutelare la
famiglia parlando allora di introdurre il quoziente familiare. Da 7000
miliardi di lire si passò a 1700 miliardi in un ultimo tentativo di decreto
e poi non se ne fece nulla. Ed ovviamente non si fece neanche la
riduzione della tassazione delle famiglie.
Non voglio dire che anche oggi potrebbe ripetersi questo evento, ma
se ci furono opposizioni fortissime allora non sono da escludere che si
ripetano oggi.
Valutiamo anche altri aspetti. In un anno in cui abbiamo aumentato al
50% la percentuale di detrazione sulle ristrutturazioni edilizie o su opere
di questo genere, oppure interventi di contrasto all’evasione, che
facciamo li tagliamo improvvisamente, cioè cambiamo politica?
Possiamo farlo, certo, ma scegliamo di cambiare completamente politica,
scegliamo di aumentare l’imposta e quindi scegliamo di aumentare la
pressione fiscale.
Secondo punto. Dicevo prima che lo stesso Def prevede già una
manovra correttiva nel 2015 e poi dal 2016 in poi. Ed allora, questa
manovra correttiva su cosa si baserà? Porterà un aumento di entrate
oppure andrà a tagliare le spese? E se andrà a tagliare le spese queste
spese fanno parte già dei risparmi derivanti dalla spending review?
Perché se è così è chiaro che l’operazione dovrà diventare ancora più
ampia.
Terzo aspetto. Si è fatta l’operazione che chiamano “bonus Renzi”.
Riguarda una platea di contribuenti che è costata circa 7 miliardi. Si
propone ora di ripetere in via “strutturale” questa operazione dal 2015
in poi. Occorreranno qualcosa come 10 miliardi di euro all’anno. Di
questi 10 miliardi, circa 2,7 sono già stati accantonati nel fondo per il
riequilibrio e la riduzione della pressione fiscale. Ne mancano oltre 7
miliardi. Come si ottengono? Si ottengono aumentando il prelievo? Si
ottengono riducendo la spesa pubblica? O si ottengono, e qui arriverò
dopo, con i proventi cosiddetti dell’evasione fiscale? Ecco un problema
che complica maledettamente le cose e le prospettive.
290
Quarto punto, l’effetto sostituzione. Allora, il decentramento fiscale e
il federalismo in particolare, nel nostro Paese sono stati caratterizzati da
un messaggio: “Vedo, voto, pago”. In realtà non è stato così, ma: “vedo,
non voto e pago”. Non voto perché per esempio, nel caso della
tassazione degli immobili tutta la tassazione è stata orientata sulle
seconde case e sugli immobili strumentali delle imprese mentre le prime
case sono esonerate.
Taglio dei trasferimenti agli enti locali e Regioni. Sono stati fortissimi
e ripetuti ed in questo modo il bilancio dello Stato si è potuto
ridimensionare e si è andati verso un riequilibrio dei conti pubblici, ma
in cambio di cosa? In cambio della facoltà accordata agli enti locali,
Regioni e Comuni in particolare, di aumentare le imposte di loro
competenza. Sono stati posti dei limiti molto blandi, ognuno ha fatto
quello che poi ha voluto. Noi oggi abbiamo un prelievo locale che è
distribuito in questo modo: le realtà più povere sono quelle che pagano
di più perché chiaramente sono quelle che sono in situazione di dissesto
e quindi in base alle regole vigenti sono costrette ad aumentare l’Irap,
sono costrette ad aumentare le addizionali regionali e comunali. Quindi
queste realtà pagano di più. Oggi come oggi sul cuneo fiscale incide
l’Irpef sicuramente, che sul reddito medio pesa intorno al 20%, incide
però anche il prelievo locale, addizionale comunale e regionale, che pesa
mediamente per 2 punti, quindi il 10%. Negli ultimi 10 anni l’aumento di
prelievo sul reddito medio è stato per il 40% dovuto all’aumento delle
addizionali, non all’aumento dell’Irpef, all’aumento delle addizionali
non all’imposta madre. In realtà abbiamo un sistema fiscale parallelo che
è questo degli enti locali che in qualche modo amplifica il prelievo
centrale ma soprattutto lo distorce perché a livello locale ogni ente si è
mosso come gli è parso, ha individuato la struttura delle aliquote che ha
voluto, ha introdotto sistemi di progressività per classi o per scaglioni,
detrazioni in un modo o in un altro, insomma ognuno ha fatto come ha
voluto. Chiaramente il punto di arrivo è quello che leggiamo in questi
giorni in cui su Tasi e Imu dove abbiamo la bellezza di circa 200 mila
aliquote effettive e nascono ovviamente dalla combinazione di diverse
variabili.
Quindi, chiunque voglia intervenire sul futuro con delle simulazioni
deve tenere conto di queste difficoltà e complicazioni inestricabili.
Il professor Baldassarri con il Rapporto di Economia Reale ha fatto
un’opera meritoria non fosse altro perché capiamo dove è possibile
arrivare con una manovra virtuosa. Dico però che chi assume questi
stimoli deve anche calarsi un po’ nella realtà, deve tenere conto che ci
sono serie di vincoli che in qualche modo possono veramente essere
molto forti.
Ultimo punto. L’evasione fiscale. Negli anni passati il recupero
291
dell’evasione fiscale è stato utilizzato per coprire pezzi crescenti di spesa
pubblica. In pratica si è coperto con entrate incerte una spesa certa; e
questo in maniera strutturale. Il tutto è avvenuto senza che ci fosse il
minimo tentativo serio di valutare quanta parte del maggior gettito
registrato di anno in anno è dovuto al recupero di lotta all’evasione,
quanto parte di questo recupero è veramente strutturale e quindi
utilizzabile in prospettiva per coprire strutturalmente spese o riduzioni
di imposta.
Questo fino al 2011 è avvenuto in misura rilevante. Dal 2012 il
fenomeno è cessato e anche nel 2013 non si è verificato.
Adesso, e l’esordio è con il bonus, abbiamo che si riprende a lavorare,
come mezzo di copertura, utilizzando la lotta all’evasione. Sono già 300
milioni che sono stati utilizzati per coprire il bonus fiscale. E sono stati
già annunciati altri 2–3 miliardi ma non 2–3 miliardi che dovrebbero
provenire da un recupero dell’evasione fiscale nel 2014.
Se si va a vedere in cosa consiste questo recupero, sono esattamente i
miliardi che vengono ogni anno annunciati, si parla in genere di 12–13
miliardi, e vengono indicati come i recuperi dell’evasione. In realtà sono
quello che incassa Equitalia.
Sapete cosa c’è dentro? C’è un recupero di materia imponibile
dell’evasione, poi ci sono sanzioni e interessi, e questo non è recupero di
imponibile, poi ci sono le contravvenzioni dei comuni, poi c’è il recupero
di utili di Stato ecc..
Ci sono cioè diverse componenti che non rappresentano recupero di
evasione. Bisogna quindi stare molto attenti in futuro a ragionare su
queste cose. Infatti, il rischio qual è? Che si vada avanti su un equilibrio
instabile, in qualche modo melmoso e che si aggiunga instabilità ad
instabilità.
In conclusione, mi sento di dover dire: barra a dritta, nervi saldi, ma
ragioniamo tenendo fermi i fondamentali.
292
Economia e mutamenti sociali e politici
STEFANO FOLLI, Il Sole24Ore
Come ogni anno la lettura di questo interessantissimo Rapporto di
Economia Reale, grazie all’iniziativa e al coordinamento del professor
Baldassarri, è una lettura stimolante in una prima fase e sconfortante in
un’altra. Infatti, il quadro che emerge è … quasi agghiacciante. Inoltre,
nel Rapporto si fa vedere in riferimento all’ultimo decennio, come le
previsioni ufficiali sono quasi sempre state ottimistiche, mentre le
tendenze reali sono sempre state peggiori delle stesse previsioni ufficiali.
Nella seconda parte del Rapporto ci sono poi le proposte di Economia
Reale che sono proposte molto interessanti perché tentano di far vedere
come si possa evitare quell’andamento tendenziale inerziale secondo il
quale noi non torneremo ad avere i livelli del 2007 in termini di reddito e
di occupazione prima di altri 7–8 anni, cioè attorno al 2022–2023 fra
quasi dieci anni.
Allora la domanda che ci si pone, passando su un livello più politico e
istituzionale, è: innanzitutto qual è la fotografia del Paese su cui queste
cifre, che qui vengono così bene esposte, impattano? Qual è oggi, 2014, la
fotografia del cosiddetto Paese reale. C’è poi una domanda successiva e
correlata. Siamo in un momento in cui la politica sembra in una fase di
rinascita in cui ci sono fenomeni politici nuovi, sia pure asimmetrici,
riguardano il centrosinistra molto più che il centrodestra che invece vive
una fase di grandissima difficoltà. Allora la domanda è: questi fenomeni
politici sono reali, hanno radici nella società reale e tengono conto del
quadro economico che ci viene riassunto e spiegato in questo Rapporto,
oppure sono esclusivamente mediatici e quindi più effimeri e più legati
a circostanze particolari? Siamo di fronte ad una politica istituzionale
che ha ingranato una marcia in più per cercare di riavvicinarsi alla realtà
economica e sociale di questo Paese, oppure, viceversa, stiamo
assistendo ad un gioco di specchi e quindi il distacco è destinato ad
aumentare?
ENRICO VAIME, autore e regista Tv
Sono qui per giustificare la mia presenza che effettivamente può
293
considerarsi anomala in un consesso come questo fatto di economisti,
sociologi e politologi. Io sono quindi un referente, forse un interlocutore,
o comunque un bipede in plume, capitato in questa situazione
ideologica e tecnica con l’incompetenza tipica della mia generazione e
del mio passaporto.
Sono un italiano medio che non sa niente di quello del quale ci avete
parlato fino ad ora o, per lo meno, sa molto poco, sa quello che gli arriva
dai talk show, cioè il minimo: parole, chiacchiere, numeri buttati lì a caso
e ripetuti per pigrizia ma senza avere la consapevolezza di quello che si
sta dicendo.
Noi, parlo della mia generazione, siamo le vittime della riforma
Bottai. Non so se ho fatto un passo indietro anche troppo vigoroso, ma
insomma noi siamo degli incolti in qualche modo, gente che ha
privilegiato Carducci rispetto all’algebra e rispetto alla tecnica mentre il
mondo spingeva ad altre soluzioni. Diciamo quindi che siamo ignoranti
e siamo qui per capire.
Personalmente sono qui perché Baldassarri, che io voglio chiamare
Professore perché è un titolo che mi sento di concedergli assolutamente
con grande pertinenza, quando spiegava alcuni fenomeni di carattere
economico, nelle trasmissioni televisive alle quali ho partecipato anche
io, colpo di scena: io capivo. E questa era una delle prime acquisizioni
che mi hanno spinto a venire qui e a giustificarmi in qualche modo.
Alcune cose spiegate dal professor Baldassarri io le capisco. Le capisco
perché me le spiega, sono acquisizioni che non vengono da lontano ma
vengono da questa fonte.
Siamo ignoranti, la nostra cultura media è bassissima e quindi non ci
possiamo lamentare poi tanto se non riusciamo a venirne fuori da certe
difficoltà di carattere socio-economico. È dovuto all’ignoranza, è dovuto
alla scarsa preparazione, alla superficialità, a quell’atteggiamento così
scanzonato che ci rende popolari all’estero ma impopolari con i nostri
simili. Siamo abbastanza cialtroni, diciamolo francamente, però non
siamo contenti di come ci troviamo e quindi vorremmo capire.
Così come nei talk show con il professor Baldassarri riuscivo a capire
quello che diceva, vorrei capire anche qui quello che è stato detto da
parte di tutti coloro che hanno dato il contributo a questo confronto.
Vorrei soprattutto capire se si può intravedere una soluzione.
Teniamo presente che io sono un italiano medio e cioè sono inutilmente
laureato in una materia che si e no che mi ricordo, mi pare si trattasse di
giurisprudenza, ma non me ne fregava niente e pensavo che fosse
obbligatorio come un vaccino, come l’antitifica, come qualcosa da fare.
Non ci siamo mai preoccupati di prepararci all’impatto con un mondo
che era molto più avanzato rispetto a quello che noi avevamo
immaginato. Quindi sono qui per imparare, per capire, e molte cose
294
delle cose dette e delle cose che ho letto sfogliando questo pacco di
allarmanti nozioni che bisognerebbe diffondere in tutto il Paese,
spiegarle, dire che questi sono dati, sono numeri, sono cose che sono
veramente successe, non sono pettegolezzi.
Ecco, sono qui per dire contate su di me, nei limiti naturalmente della
mia maledetta cultura umanistica quanto inutile quanto velleitaria, ma
sappiamo che ci sono dei problemi che vanno risolti con la tecnica. Voi
siete la tecnica, scusate l’espressione è un po’ generica e forse vi può
spaventare, siete cioè le persone in grado di spiegarci una via di fuga, in
qualche modo, da questa tragedia.
Ho letto dei numeri, li ho letti più volte perché non ci potevo pensare
che fossero veri, eppure sono veri. Ecco, questi numeri e questi dati
bisognerebbe portarli a conoscenza di tutti, ma portarli a conoscenza
veramente, non a livello di pettegolezzo, non per sfruttarli per
polemizzare sul piano politico. Sono catastrofi che noi abbiamo
agevolato in qualche modo con la nostra insufficienza, con la nostra
cialtronaggine e dobbiamo fare qualcosa, se non altro capire perché e
fino a dove possiamo riparare ai danni fin qui fatti.
Lo so che è un discorso velleitario che lascia il tempo che trova, però
sono qui sperando che con me vengano tante persone, tante generazioni
illuse da una visione della vita che non corrispondeva alla realtà e che
stanno pagando un prezzo troppo alto rispetto agli errori fatti dai nostri
nonni, dai nostri padri e un po’ anche da noi, diciamocelo francamente,
perché non è che siamo nati ieri.
Quindi diciamo io sono qui per imparare, per cercare di capire, per
venire incontro a quanti, anche trattandoci con violenza, ci
rimproverano alcune debolezze, le debolezze che voi sottolineate nei
vostri fogli che mi hanno messo nella disperazione in questi ultimi
giorni di lettura spasmodica e stupefatta, perché chi poteva immaginare
che si arrivasse a tanto.
Quei numeri devono farci capire che esiste una tecnica per venirne
fuori, esiste comunque la possibilità di conoscere le ragioni, se non altro
quelle che ci hanno portato alla catastrofe. Catastrofe non scritta nel
grande libro del destino e come tale va accettata e buonanotte al secchio.
No, si deve poter reagire. Reagire non è facile per un popolo abbastanza
pigro come il nostro, però noi dobbiamo farlo se non vogliamo cadere in
quel pozzo per altri cinque anni, come viene detto in un foglio
allarmante di questo pacco che mi ha mandato Baldassarri e che è
risultato un incubo per questi notti.
Per cinque anni saremo ancora in fondo al pozzo. Speriamo proprio
di no, speriamo di capire perché ci siamo arrivati e come si fa a venirne
fuori. Sono qui per testimoniare la buona volontà e niente altro, non la
competenza perché non l’abbiamo, ma la buona volontà, la voglia di
295
capire e di lavorare insieme per uscire da questa cloaca nella quale,
anche per colpa nostra, ci siamo trovati.
GIUSEPPE ROMA, Censis
Che ci sia un cambiamento nel clima sociale lo ha rilevato anche
recentemente un rapporto del Censis sulle attese delle famiglie italiane
nei confronti dell’economia. Abbiamo registrato in marzo, già prima
delle elezioni europee, che, almeno guardando gli ultimi due anni, si è
invertita la proporzione fra ottimisti e pessimisti, cioè gli ottimisti sono
diventati in maggioranza, abbastanza rilevante, 13 punti in più dei
pessimisti. E siccome i pessimisti erano normalmente 10% in più degli
ottimisti, diciamo che c’è un quarto della popolazione che ha cambiato
atteggiamento (Fig.1).
296
Fig. 1. Tornano ad aumentare gli ottimisti ed a ridursi i pessimisti, ma è l’incertezza
che prevale e che descrive un quadro congiunturale ancora molto debole
297
Ora il direttore Folli giustamente ha detto è reale o non è reale? Direi
assolutamente non reale in quanto perché si determini un cambiamento
strutturale, forse non basta l’ennesimo governo, e anche perché il nuovo
esecutivo ha pochi mesi ed evidentemente ciò che registriamo è solo
l’andamento del clima, del tono sociale.
Però io rispondo: ma il clima è importante o non è importante? Perché
io credo che questo sia il primo punto. Dopo anni di stato depressivo,
sarà per un leader politico, sarà per un provvedimento che per la prima
volta ha detto agli italiani “invece di aumentarvi la tassazione ve le
riduco”, vero o non vero che sia se poi andiamo a fare i conti. C’è però
un vulnus a questo cambiamento rilevato anche dall’Istat e che registra
un periodo di altissima volatilità. Si può mutare molto rapidamente
d’opinione, la svolta positiva si è concretizzata nel giro di poche
settimane, ma non va considerata stabile e duratura.
La seconda cosa importante che però vorrei sottolineare (presente
nella stessa fig. 1) è la parte tratteggiata dell’istogramma che indica
come, oltre agli ottimisti, in blu, aumentano anche gli incerti. Questo
secondo me è il primo elemento su cui ragionare, perché c’è una quota
di popolazione, di società, di famiglie, che continuano ad avere un forte
senso di precarietà e incertezza. Questo deriva anche dai messaggi
ondivaghi che vengono dalle istituzioni e dalla politica, amplificato dal
298
quotidiano dibattito sui media. Dal pasticcio di Imu, Tasi, Tari, ecc., che
ha non poco danneggiato il Governo Letta, alle pensioni, ai tagli si vive
una condizione di assoluta incertezza. E questo fattore influenza molto i
comportamenti sociali, perché è quello che provoca, per esempio, un
atteggiamento cautelativo nella spesa delle famiglie, specie quelle del
ceto medio. Il mercato interno è una delle componenti stagnanti, anzi in
regresso. I consumi non ripartono e, dato il rilevante peso che hanno sul
Pil, tengono il prodotto interno “frenato”. Oltre alle obiettive condizioni
di difficoltà per una parte significativa del corpo sociale, causata dalle
ridotte opportunità di lavoro, a deprimere i consumi è anche il
comportamento prudente e rinunciatario anche chi ha disponibilità
reddituali, ma non spende. Per i beni durevoli come automobile, arredo,
elettrodomestici o anche per i lavori di ristrutturazione della propria
abitazione, prevale il rinvio e la rinuncia. (Figg. 2–3). Nel caso
dell’acquisto di un auto, la domanda potenziale, cioè quelli che dicono
“vorrei comprare la macchina e ho anche dei soldi per farlo”, riguarda
circa il 13% delle famiglie, però il 10% rinvia questo acquisto e solo il 3%
lo effettua.
299
Fig. 2. Un po’ più di ottimismo ma i consumi non crescono, prevale la tattica del
rinvio.
Ristrutturazione abitazione.
300
Acquisto di una nuova autovettura.
301
Fig. 3. Pochi consumi, prevale la tattica del rinvio.
Acquisto di nuovi mobili per la casa
302
Acquisto di nuovi elettrodomestici.
Quindi, su tre consumatori che spenderebbero, due rinviano
l’acquisto e solo uno procede a effettuarlo. Questo vale per tutti quei
beni che oggi costituiscono un volano importante sia per l’innovazione
che per dare dinamicità al sistema produttivo. All’incertezza va poi ad
aggiungersi un diffuso sentimento di precarietà delle famiglie e
soprattutto della middle class : per cui solo il 21% delle famiglie italiane
definisce la propria situazione economica solida, il 41% precaria e il 17%
addirittura ad alto rischio (Fig.4).
303
Fig. 4. Capacità d spesa ridotte al minimo. Oltre 4 milioni non hanno coperto le
spese con le entrate e più di 16 milioni di famiglie vanno in pari
304
Come definirebbe la condizione economica della sua famiglia?
Una componente molto sentita nel determinare una condizione di
vulnerabilità sociale è data dall’alta tassazione; per il 28% degli italiani
avere le risorse per pagare tasse e tariffe costituisce fonte di forte
preoccupazione (Fig.5)
305
Fig. 5. Famiglie attanagliate da preoccupazioni che depotenziano le capacità di
spesa
306
Si tratta, come è facile intuire, di una situazione assurda, visto che la
tassazione dovrebbe prevedere un peso ragionevole, e non esorbitante,
sul reddito disponibile. Per come si configura l’ampio ventaglio delle
forme di prelievo (diretto, indiretto, addizionali, contributi, accise sui
carburanti, ticket sulle prestazioni sanitarie etc.), il risultato complessivo,
per una quota non piccola di contribuente, è di destinare al fisco una
quota molto significativa delle proprie risorse.
Altro fattore che influenza le scelte dei consumatori è la situazione del
mercato del lavoro soprattutto per quel che riguarda le nuove
generazioni (Figg. 6–7). Ma questo è un argomento che non ha bisogno
di ulteriori approfondimenti.
307
Fig. 6. La mancanza di lavoro toglie ogni prospettiva e capacità di spesa agli italiani.
Quali sono le priorità che il governo dovrebbe immediatamente affrontare?
308
Quali sono i problemi che frenano la crescita dell’Italia?
309
Fig. 7. … e il deterioramento del mercato del lavoro tocca un numero ampio di
persone
Allora, è il momento di agire perché c’è un terreno favorevole; ci sono
fenomeni positivi, penso ad alcune cose che il Censis ha evidenziato
recentemente come, per esempio, il ruolo che sta assumendo il mondo
femminile;l’impresa femminile sembra resistere meglio alla crisi di
quella guidata da uomini . E poi c’è l’universo giovanile che oggi non è
solo un mondo demotivato e passivo di precari, disoccupati, ecc., perché
dobbiamo apprezzare l’atteggiamento di quel 1,2 milioni di giovani che,
non si fanno scoraggiare e vanno a soddisfare all’estero la loro volontà
di realizzarsi, È un fatto negativo per l’Italia perché perde 1,2 milioni di
persone generalmente di buon livello professionale, ma dal punto di
vista sociale indica che la generazione dei ventenni e trentenni, ha scelto
l’azione rispetto all’attesa, la sfida internazionale piuttosto che la
protezione familiare.
Il terzo aspetto positivo è la presenza della realtà degli immigrati che
non solo da un contributo in molti settori produttivi e soprattutto rende
possibile un welfare diffuso che non sarebbe alla portata né
dell’intervento pubblico né di un sistema imprenditoriale privato.
Poi ci sono i fatti che conosciamo, cioè l’industria manifatturiera. I
310
dati recenti lo confermano, è viva e vitale anche se non mancano gli
aspetti critici, le chiusure, se c’è cassa integrazione, indicatore di un
impatto differenziale della super competizione globale sul nostro
sistema produttivo. L’industria va comunque vista come un elemento di
forte vitalità non solo in quanto le esportazioni tengono nonostante
l’euro forte, ma anche per questa capacità di ristrutturare e di rigenerare
un tessuto produttivo.
Secondo me, tuttavia, oltre alle emergenze di cui si alimenta il
dibattito politico, vi sono due ragioni strutturali per i quali il nostro Pil
resta impantanato, oltre naturalmente l’enorme debito pubblico, cui si
riferiscono le proposte positive che Mario Baldassarri propone da tempo
. Il primo è la bassa dotazione di investimenti esteri residenti in Italia.
Non avevo mai visto recentemente il dato perché tutti parlano
esclusivamente dei flussi annuali, ma noi oggi siamo il Paese europeo
con il minor stock di investimenti stranieri pari a 360 miliardi di dollari,
la Svizzera ce n’ha più di 600 come la Spagna e l’Olanda, la Germania e
la Francia hanno 1000 miliardi.
FOLLI
Aggiunga qualcosa su questo punto specifico di come ci presentiamo nel
mondo rispetto agli investimenti esteri.
ROMA
Se vogliamo, questa ritrosia degli investitori esteri a rischiare i propri
capitali in Italia ci fa capire quali rischi e difficoltà trova qualsiasi
iniziativa produttiva nel nostro paese. Qui, non si tratta solo dei giorni e
dei costi per avviare un’azienda – l’impresa di fare un’impresa - ma
l’atteggiamento delle istituzioni, e anche dell’opinione pubblica nei
confronti di ogni nuova iniziativa : una fabbrica, come un’infrastruttura,
un parcheggio come un parco commerciale. Gli sforzi encomiabili per
risanare le finanze pubbliche, purtroppo non fanno ripartire l’economia,
anzi ci hanno consegnato alla recessione. Se la presenza in Italia di
investitori stranieri è così limitata, non utilizziamo che minimamente
una leva che in altri paesi contribuisce in modo determinante a creare
occupazione e Pil. Se siamo un paese che può contare sulla metà degli
investimenti esteri che attrae l’Olanda, e di un terzo di quelli presenti in
Germania, allora è più difficile sostenere i confronti in termini di crescita
e di occupazione. Penso quindi che non si possa lavorare solo sui conti
pubblici. Questa è anche la sfida della politica oggi: il paese deve
311
adeguare rapidamente agli standard internazionali il sistema delle
regole, nel senso della semplificazione e dell’apertura al mercato. Sono
operazioni non costose dal punto di vista finanziario ma costosissime
dal punto di vista degli interessi, dei gruppi di pressioni, delle lobby,
ecc. La sfida dei prossimi mesi sarà proprio su questo punto.
A marzo 2014 l’opinione pubblica si è affidata completamente alla
svolta politica: il 42% riteneva abbastanza probabile che il Governo
Renzi fosse in grado di tirarci fuori dalla crisi ed il 52% riteneva che
sarebbe riuscito a fare quello che stava dicendo (Fig.8). È evidente che
blindare il consenso ottenuto sul piano elettorale attraverso
provvedimenti efficaci e l’azione di governo, negli ultimi vent’anni non
è riuscito a nessun leader. Ed è la sfida, la messa alla prova, anche per
l’attuale Governo.
Faccio un ultimo esempio: le privatizzazioni, in particolare quello che
in gergo tecnico passa sotto la voce valorizzazione del patrimonio
immobiliare. È evidente, che se il problema principale è quello di
mettere mano alla riduzione del debito, una delle strade più ragionevoli
è quella di utilizzare il patrimonio nelle mani dello Stato. Non entro
nella problematica relativa alle imprese, ma solo in quello che attiene ai
beni immobili, poiché in effetti lì esiste una grande opportunità, ma al
tempo stesso questa opportunità non viene colta da più di dieci anni.
312
Fig. 8. Il Governo Renzi dispone di un rilevante capitale di fiducia utile a rimettere in
moto il Paese.
Quanto crede possibile che il governo Renzi possa permettere all’Italia di superare
l’attuale crisi economica?
313
Pensa che il governo Renzi riuscirà a realizzare il piano di riforme annunciato?
L’equivoco è dato dal fatto che edifici, caserme, castelli, terreni, isole,
caselli ferroviari etc. non sono valutabili in astratto (in euro per mq.), ma
solo in quanto hanno un mercato, possano interessare concretamente a
un investitore. Paradossalmente si potrebbe affermare che senza un
progetto il patrimonio dello Stato non vale niente. C’è da chiedersi,
infatti, chi acquisterebbe un castello o una caserma sottoposti a vincoli
urbanistici, di tutela e magari a un vincolo di destinazione in quanto
rinvenienti da passate donazioni (come nel caso dell’Ospedale San
Giacomo di Roma)? Per determinare valori economici in grado di
scolmare il debito pubblico gli immobili di Stato devono determinare
convenienze per una domanda solvibile che lo acquista o lo affitta. Senza
questa domanda solvibile che lo affitta e lo acquista si può fare poco
anche giustamente utilizzando l’ingegneria finanziaria, che prima o poi
dovrà confrontarsi con l’economia reale (ricordiamoci dei sub-prime).
Certo si possono ottenere risparmi razionalizzando i costi di
insediamento della Pubblica Amministrazione, riducendo gli affitti e
riconvertendo caserme a uffici pubblici. Ma per questa via si
contribuisce limitatamente alla riduzione del debito.
È mia opinione, quindi, che è prioritario mettere mano al debito, che è
necessario ristrutturarlo “finanziarizzando” il patrimonio di proprietà
pubblica, ma che contestualmente è indispensabile procedere a una
strategia di valorizzazione che ha più a che vedere con una capacità di
progettare nuovi assetti urbani e territoriali che con l’intermediazione
della finanza immobiliare.
314
Per concludere, oggi abbiamo un patrimonio di fiducia che non va
dissipato. Questo patrimonio di fiducia è trasversale rispetto agli
schieramenti
politici
trasversali,
aggrega
tutti
quelli
che
responsabilmente intendono mobilitarsi per rimettere in moto il paese.
Ma allora, che cosa si deve fare? Mettere mano seriamente e con
competenza alle due aree di maggior sofferenza per le imprese: giustizia
e burocrazia . Qui, però entra in campo la competenza dei politologi.
Allora chiedo al direttore Folli che leggo con grandissima attenzione:
ma la politica ce la farà? Ma i politici hanno davvero compreso che la
sequenza non è una sequenza nella quale approvare 725 decreti non
necessariamente cambia il contesto e lo rende più favorevole allo
sviluppo. In fin dei conti, tutto poi si riduce alla cultura politica
dominante e al modo in cui si esercita il potere.
FOLLI
Infatti le domande iniziali erano proprio queste perché io ho molti dubbi
che sia così e la lettura del Rapporto mi incoraggia a dubitare, anzi è
sconfortante come dicevo in precedenza.
Coinvolgo ora Giuliano Urbani. C’è un capitale di fiducia che si è
aggregato intorno a Renzi ma in un quadro, ci dice Giuseppe Roma, di
volatilità, di incertezza di fondo, con la sensazione che però poi la
politica ha difficoltà a capire dove si può svolgere un reale
rinnovamento degli strumenti politici. La politica, cioè, ha difficoltà ad
interpretare realmente le esigenze di un sistema paese nella sua
complessità e quindi di riforme che siano figlie di un progetto realmente
dinamico.
Questo è il punto: ma allora questo capitale di fiducia rischia anche di
evaporare rapidamente così come si è aggregato?
GIULIANO URBANI, Emerito Università Bocconi
Milano
Proverei a rispondere molto selettivamente a questa grande questione
toccando tre punti.
Devo dire che a questo tavolo Enrico Vaime ha dato un contributo
apparentemente anomalo ma che io ritengo importante perché, come
sapete, Vaime è un maestro dell’ironia e temo che se non si cerca di
rispondere con l’ironia a tutto questo, si sfiorano altre tonalità. Allora
non provo neanche a imitare Vaime, non ci provo nemmeno perché
315
siamo amici. ma abbiamo coltivato interessi e mestieri troppo distanti
l’uno dall’altro.
Allora, la mia preghiera, fatta con grande umiltà, è di trattare con
grande attenzione tre parole che usiamo sempre e queste tre parole sono
pericolose.
La prima parola è “tendenze” in atto. È iniziata una “tendenza”, lo si
dice in continuazione, per effetto dei risultati elettorali naturalmente
adesso si sono scatenati tutti. Io sono un sostenitore, sono un
ammiratore del vecchio Bauman che ci definisce società liquide. Ed
allora nel movimento liquido le tendenze sono quanto di più precario si
possa immaginare, provvisorio e, ahimè, approssimativo. Ricordiamo le
lezioni di Bauman, quindi non parliamo di tendenze prendendoci sul
serio.
Spesso e volentieri parliamo di tendenze perché etichettiamo così
delle nostre speranze. Speriamo che prendano una certa direzione i fatti
e quindi parliamo di tendenze. Ma attenzione a non illuderci, non è il
momento di parlare di tendenze, non ci sono tendenze degne di questo
nome in atto. Naturalmente ci sono orientamenti, è come in mezzo al
mare quando c’è una corrente, ma definirla tendenza è esagerato.
Quindi per favore non parliamo di tendenze.
Noi eravamo abituati a vivere in società prevalentemente ideologiche
e le ideologie erano delle meravigliose, sublimi, stupende boe ed attorno
a quelle ci muovevamo. Oggi non ci sono proprio veramente più. Quindi
teniamone conto.
Una volta l’avvocato Agnelli diceva “dobbiamo convivere con
l’inflazione”. Tutti lo irridevano ma era vero. Oggi dobbiamo convivere
con le società liquide.
Seconda parola chiave: istituzioni.
Qui ci stiamo innamorando delle istituzioni come passe-partout e
come soluzioni palingenetiche. Mi ricordo che un collega
particolarmente colto, mentre ero negli Stati Uniti, in questo caso
nell’Università di Princeton, mi regalò un libro che era intitolato “Non
fidarsi mai troppo delle istituzioni”. Era Samuel Huntington, non so se
mi spiego, perché è uno dei maggiori cultori contemporanei delle
istituzioni. Ma perché? Lui aggiungeva un’altra cosa, un’altra frase, e
diceva “Conta più la cultura”. Agli studenti faceva quell’esempio che
ormai varie generazioni di professori hanno usato nei confronti degli
studenti quando dovevano spiegare l’impatto delle istituzioni, l’impatto
della cultura sul funzionamento delle istituzioni, e avete visto, i sistemi
presidenziali, il sistema presidenziale americano al Nord, gli Stati Uniti,
e poi i sistemi presidenziali in Sud America, che sono stati copiati alla
lettera dal sistema istituzionale americano.
C’è stata una certa differenza sì o no? I caudillo non se lo sono
316
inventati a Princeton. Questo per dire che i modelli culturali con cui
leggere queste cose (seguito o non seguito, consenso o non consenso,
controllo o non controllo) hanno un impatto enorme. Quindi usiamo
naturalmente le riforme istituzionali perché sono naturalmente una
speranza. Ma trattiamole con grande cautela perché le istituzioni non
sono passe-partout e soprattutto non sono soluzioni buone a tutto.
Non che non dobbiamo fare le riforme istituzionali, ma se facciamo
“solo” le riforme istituzionali e poi non ci rendiamo conto di altre cose,
la corruzione si incancrenisce invece di diminuire, perché un dittatore
con tutti i poteri è più pericoloso di un paese semianarchico.
Ultima parola chiave: “implementation”. Sembra un termine inglese
ed invece è di origine latina e quindi in italiano dovremmo dire
“implementazione”.
Prendiamo la pubblica amministrazione italiana. Uno può fare tutte le
riforme che vuole – ve lo dice uno che ha dedicato una vita allo studio
delle pubbliche amministrazioni – di adeguamento, di cambiamento, ma
se non entriamo nel labirinto della “implementazione” facciamo al limite
una buona norma ma questa norma produce mostri applicativi, a
cominciare dalla discrezionalità e ahimè dalla corruzione.
Quindi grande attenzione anche su questo. Oggi, ad esempio,
abbiamo non solo troppe leggi in Italia, ma troppe leggi mal fatte, il che
vuol dire che sono leggi condannate ad avere una cattivissima
applicazione. Questa è una tragedia per il Paese, perché poi il magistrato
può essere il più bravo del mondo ma fa confusione, il burocrate può
essere il più onesto del mondo ma fa confusione, e il cittadino che ha a
che fare con tutto questo non può che cercare il ventre molle, cioè i punti
deboli, i punti di attacco. Quindi anche su questo facciamo grande
attenzione, ma non dimentichiamoci che le pubbliche amministrazioni
con le loro norme (che ne abbiano cinquantamila o cinquemila è
secondario) in ogni caso configurano un labirinto inesorabile,
inestricabile. Ebbene, per muoversi nel labirinto devi avere una bussola,
perché senza bussola non ne esci. Noi purtroppo rischiamo molto, non
voglio irridere i giovani Ministri che si interessano di questo, ma
francamente quando li sento parlare di queste cose provo in parte
tenerezza, molta, ma in parte paura, molta di più. Perché? Perché
dimostrano che loro il labirinto non lo conoscono. Ora, fare la riforma
della pubblica amministrazione non conoscendo il labirinto, c’è da
rimanere attoniti.
ROBERTO MAZZOTTA, Istituto Luigi Sturzo
Vorrei proporre tre argomenti per proseguire il ragionamento fatto in
317
precedenza da Mario Baldassari, utilizzando le sue riflessioni e cercando
di applicarle.
Prima considerazione.
Dopo tanti anni, una ventina secondo me, si sta ricostituendo un
soggetto politico. Abbiamo infatti passato vent’anni di sistema
rappresentativo privo di soggetti politici. Ora, si sta ricostituendo un
soggetto politico moderno, con caratteristiche interclassiste e
interopinioni, che può ambire ad essere il contenitore di una parte
rilevante abbastanza stabile di opinione pubblica amante della
continuità istituzionale e della soluzione dei problemi economici e
sociali, cioè di una opinione pubblica ragionevole. Questo soggetto
politico ha sconfitto l’irragionevole. L’irragionevole non sarebbe stato
sconfitto senza l’esistenza di questo soggetto politico. Quindi credo che
si debba considerare con interesse il fatto che probabilmente il periodo
della mancanza di politica strutturata può, in qualche maniera,
incominciare a dare l’idea di essere concluso. E mi guardo bene dal dire
che è una tendenza in atto perché altrimenti cado nella trappola di cui
parlava prima Giuliano Urbani.
Questa, a mio parere, è la prima cosa che vale la pena di considerare
perché è un elemento nuovo.
Seconda considerazione.
Qui utilizzo a man bassa il lavoro di Mario Baldassarri e del Centro
Studi Economia Reale. Ritengo infatti che l’unica politica economica
possibile è quella di stabilire la riduzione delle tasse, perché chi si vuole
imbarcare nella riforma della pubblica amministrazione, come diceva
Urbani, si perde. Chi vuole fare la ripresa giocando con i parametri dei
Trattati o con le stupidaggini del contenzioso europeo e cose di questo
genere di fatto prende tempo o forse perde tempo.
Se si vuol fare una operazione shock e se si ha a disposizione un
soggetto politico interclassista occorre dire qual è l’unica possibilità per
rimettere in moto la macchina evitando che continui ad essere distrutta
dalla tassazione.
La causa principale del rallentamento economico, della mancanza di
buona volontà, della mancanza di fiducia, della mancanza di
investimenti, della mancanza di tutto, è che siamo in presenza di una
tassazione che è andata largamente al di là del limite ed il limite è quello
che comporta distruzione di ricchezza, da una parte e, dall’altra parte,
riduzione di introiti complessivi dello Stato. Questo è dimostrato dal
fatto che negli ultimi quindici anni governi di buona volontà, guidati da
persone di larga esperienza, non avendo minimamente toccato questo
aspetto, ma avendo giocato con questo aspetto per varie ragioni hanno
fatto politiche economiche sostanzialmente identiche portando tutti al
formidabile aumento di spesa corrente e di tassazione. Infatti, gli ultimi
318
quindici anni hanno avuto tutti questi due elementi comuni: spesa
corrente dilatata e tassazione in crescita.
Allora se si vuole cominciare ad evitare la spesa corrente dilatata
occorre portare via l’acqua.
L’operazione shock che può rimettere in moto il Paese è fare un piano
preciso, scadenzato, di abbattimento della tassazione. Che non è
l’operazione più intelligente. È l’unica operazione efficace. In genere
l’efficacia nella vita non ha sempre molto a che fare con l’intelligenza.
L’intelligenza serve per spiegarla. Ma ha a che fare con la presa d’atto di
quello che funziona e di quello che non funziona, avendo la pelle adatta
a gestire la rozzezza.
Questa nostra è una realtà che può riprendere fiato e può riprendere
corpo se il passaggio è un passaggio che ha queste caratteristiche. Dai
dati presentati da Mario Baldassarri (elencati, precisi, puntuali) si trae
questa considerazione e questa conseguenza.
Condivido ciò che ha detto Giuseppe Roma e cioè che pensare di
valorizzare il patrimonio per farlo diventare movimentazione economica
è illusorio se non si è rimesso in moto il mercato. Il patrimonio ha un
valore in relazione alla capacità di mercato di dargli valore. E il mercato
non lo si rimette in moto se non si usano due strumenti che oggi sono
tramortiti: lo strumento della fiscalità e lo strumento del credito.
Il problema più rilevante, dal punto di vista politico, è quello della
fiscalità.
Il problema più rilevante, dal punto di vista dell’onestà, della
trasparenza e della verità, è quello del credito perché è ovvio che un
sistema bancario all’ottavo anno di recessione non può essere altro che
patrimonialmente debilitato, anche se ha il buon gusto di comunicare
l’opposto.
Ritengo che questi siano i passaggi ineluttabili. Se il soggetto politico
che mostra di essere nato e se, come io auspico, troverà compagnia sul
fronte del centrodestra, perché la solitudine nella realtà politica e
democratica porta male, allora possiamo sperare in una vera svolta. C’è
da sperare che anche da altre parti ci siano dei risvegli, però un soggetto
politico è comunque nato, e allora che tipo di politica può darsi per
costruire la fine del rallentamento e della debilitazione.
L’avvio di una svolta è infatti questo: non finanziare più lo spreco
pubblico che colpisce tutte le categorie sociali, tutte.
Questa è la verità!
Terza considerazione.
Noi siamo, come sappiamo tutti, un paese che vive con l’estero. Negli
ultimi tempi abbiamo dato una comunicazione devastante per chi lavora
all’estero, esporta, chiede soldi. Abbiamo fatto la comunicazione
dell’Expo e del Mose, che sono due strumenti di comunicazione
319
internazionale tipici, perché l’Expo chiama tutto il mondo qua e noi
abbiamo fatto vedere a tutto il mondo quello che abbiamo fatto vedere.
Dai cinesi del Yangtze, fino agli australiani e ai canadesi, se uno parla
dell’Italia magari non sanno cos’è, se gli dici Venezia lo sanno. E noi
abbiamo comunicato quelle vicende note.
Qui mi pongo un quesito che non mi pare ponga nessuno. Certo,
sarebbe bene che noi diminuissimo la quota di ladri e va benissimo. È
una cosa che può succedere, deve succedere. Intanto che siamo
impegnati nel vedere di fare questo sforzo, abbiamo però proprio
bisogno che le nostre procedure di rappresentazione in tutto il mondo
abbiano questa formidabile enfasi tipica dell’apertura della rivoluzione
di giustizia nel territorio punito? No, mi chiedo anzi se sia una realtà
normale quella in cui apriamo le procedure giudiziarie con operazioni
sistematicamente da mega scoop.
Tutti hanno il terrore di parlare di questo argomento perché può
sembrare copertura al peggio. Io invece sono del parere che questo Paese
ha avuto dei danni immensi e continua ad avere dei danni immensi per
colpa della corruzione e per colpa di come si organizza l’anticorruzione.
Magari poi la corruzione deve andare all’inferno e l’anticorruzione solo
in purgatorio, però nessuno deve andare in paradiso, perché sono due
elementi che creano forte danno reale alla vita complessa del Paese, che
vive anche di reputazione.
Non penso assolutamente che noi abbiamo un numero di scorrettezze
maggiori di quelle che hanno i tedeschi. Ma noi facciamo sempre di
queste mega rappresentazioni, commiste tra indagini giudiziarie e
moltiplicatore di comunicazione, che secondo me sono assolutamente
devastanti. Questo è un altro argomento che bisognerebbe mettere
nell’insieme delle cose che, con santa pazienza, dobbiamo cercare di
gestire meglio, se vogliamo cercare di trovare il bandolo dell’uscita dopo
quindici anni dal declino progressivo.
FOLLI
Una giustizia inefficiente ma spettacolare?
MAZZOTTA
No. Poiché la magistratura italiana è frequentata da un numero
considerevolissimo di persone di grande qualità ed io vedo nella
spettacolarizzazione come una richiesta di sostegno pubblico.
320
Comunichiamogli
che
ce
l’hanno
tutto,
spettacolarizzazione. Non so cosa bisogna fare di più.
anche
senza
FOLLI
Il direttore del Censis Giuseppe Roma aggiunge qualche riflessione sulla
questione welfare.
ROMA
Come hanno detto bene sia Urbani che Mazzotta, riconosciamoci tutti un
deficit di cultura, perché è come se fossimo stati investiti da un
grandissimo fenomeno che è il globale, il mondo che si globalizza.
Allora, ma è mai possibile che il tema della corruzione siano soltanto i
controlli? La ritengo una cosa completamente fuori luogo.
Sono le stazioni appaltanti che devono essere trasparenti. Non è che
possiamo pensare di lasciare le norme che ci sono, decine di decisori su
qualsiasi
operazione,
poi
però
mettiamo
l’anticorruzione.
L’anticorruzione è un segmento limitante, ma c’è un processo che va per
fatti suoi.
Questa Expo è stato culturalmente un errore perché non si può
passare anni a stabilire dove farlo, cioè quali sono le aree da valorizzare
quando già a Londra le Olimpiadi si sono fatte per valorizzare un’area
fuori Londra e i cantieri ci sono dopo le Olimpiadi. Hanno smontato lo
stadio che era fatto apposta per l’evento, 60.000 persone. Dopo il West
End se l’è preso e l’hanno riportato a 25.000. Quello è una infrastruttura,
l’evento serve per fare un pezzo di futuro di un paese, di una città, ecc.,
o no? Non viene fatto perché ci sono le procedure speciali, ci sono i soldi
pubblici e ci sono delle aree da valorizzare. Poi dietro questo c’è la
corruzione. Ma anche se ammettessimo che non ci sia stata nessuna
forma di corruzione, già noi abbiamo sbagliato a fare un evento in quel
modo lì.
L’altra cosa che volevo dire parlando direttamente di welfare è che
abbiamo anche una forte necessità di visibilità che non è comunicazione.
Secondo me ogni mattina bisogna trovare qualcosa da comunicare, non
sempre sono le cose più giuste, non sempre le decisioni sono quelle più
giuste.
Noi abbiamo elaborato un progetto che riguarda il welfare. Come
vogliamo approcciare il problema del welfare oggi? Diminuendo gli
sprechi pubblici, certamente. Cercando di non ridurre i servizi cioè non
fare tagli per le persone. E allora noi, ad esempio, abbiamo elaborato
321
qualcosa che razionalizza il sistema attuale basato fondamentalmente
sulla spesa delle famiglie, valorizzando al massimo quella spesa in un
sistema che possa creare anche lavoro, occupazione, ecc..
Ora tutto questo ha un costo, costa circa 1,3 miliardi il primo anno e
ne recupera circa 1,1 miliardi con l’emersione del lavoro nero delle
badanti ecc.. Chiaro che questo tipo di approccio ha difficoltà perché il
Tesoro dice no, quant’è il mancato gettito? 1,3 milioni? Non se ne fa
nulla. Tutto il resto sono previsioni incerte. Però, se noi non
incominciamo mai perché probabilmente non è neanche una di quelle
cose che va sui giornali non ne usciremo mai.
Non penso che la nostra conferenza stampa sulla proposta vada sui
giornali più di tanto. Perché? Perché sono dei progetti paese che cercano
di rimettere in moto delle aree, dei settori, in questo caso l’economia
legata ai servizi alla persona, che è un pezzo importantissimo di tutte le
economie moderne, che oggi è gestito da imprese e non soltanto dallo
Stato, e che ha tutti gli strumenti di razionalizzazione necessari.
Oggi una famiglia che ha una persona in casa non autosufficiente,
prende una badante, paga mille euro al mese e ci paga anche le tasse
sopra perché non ha nessuna forma di detrazione, quindi quello è
considerato come se fosse reddito. Allora, ci sono tante cose, per
ritornare al tema centrale, che oggi la società italiana potrebbe risolvere
se ci fossero culture adeguate a fare questo tipo di operazioni. Il successo
di Renzi è anche che talvolta le soluzioni sono molto banali. Quelle
soluzioni che lui propone in maniera molto semplificata, prima
rimanevano coperte dal modo contorto con cui le cose si fanno.
Quindi secondo me oggi la tassazione certamente è un dato, ma
l’elefantiasi della pubblica amministrazione lo è altrettanto ed io partirei
da lì tagliando persone e leggi.
FOLLI
Una domanda per Urbani. Dice Giuseppe Roma: è un problema di
cultura politica. Dice il presidente Mazzotta: la priorità è tagliare le tasse.
Ora, doveva essere il core business di una forza di centrodestra tagliare le
tasse o no? Molto più che di una forza di centrosinistra. Non è stato
fatto. Adesso lasciamo perdere il perché, ma la domanda è: può oggi una
forza di centrosinistra riuscire a fare un tipo di politica di questo genere
dove è invece fallito il centrodestra?
URBANI
322
È una bella domanda ma non è proprio una domanda facile per la
semplice ragione che sono molti i paesi in cui, quando una coalizione o
un parlamento hanno fallito, quello che viene dopo è costretto a
prendere di petto il problema sul quale il precedente ha fallito e quindi
ci proverà.
FOLLI
In genere succede l’opposto. Tony Blair si avvantaggiò del lavoro della
Thatcher.
URBANI
È possibile tutto. Resta il fatto che è molto difficile per una semplice
ragione: occorre, qui sì, un grosso consenso popolare per tutte le misure
impopolari, di qualunque tipo siano. Serve la capacità di un leader
politico di dire “Seguitemi, è per il vostro bene”. Ma è difficile, è
davvero molto difficile.
Personalmente credo che questa storia della riduzione delle tasse
saremo costretti a farla perché altrimenti non andiamo avanti.
Però, credo che sia più facile che ci riesca la Troika e non l’assenza
della Troika. Per la semplice ragione che le imposizioni dall’esterno ad
un certo punto diventano più sopportabili o meno rifiutabili. Non è la
strada che preferisco, è una strada che considero un fallimento, me ne
dispiace enormemente, però realisticamente credo che sia così.
FOLLI
Perché questo soggetto politico che si ricostituisce intorno a Renzi, si
ricostituisce più facilmente nell’area del centrosinistra mentre la destra è
in così grande crisi?
URBANI
Per la semplice ragione che il centrodestra queste cose non è riuscito a
farle. Io porto qualche responsabilità individuale nell’avere inventato il
centrodestra e soprattutto la base programmatica, quella che è stata
chiamata la “svolta liberale”.
La grande speranza del ’94 era fondata essenzialmente su queste cose.
323
Ho coordinato quattro programmi di quattro legislature successive, nel
primo mi riconoscevo del tutto, nel secondo un pochino meno, nel terzo
un pochino meno, il quarto l’ho rifiutato addirittura. Perché? Perché tu
non puoi fare i programmi raccontando poi le bugie agli elettori.
Sul debito pubblico abbiamo raccontato la bugia, tant’è vero che lo
abbiamo aumentato.
Sulla pressione fiscale abbiamo raccontato la bugia, perché
speravamo che ci fosse un tale sviluppo dell’economia da pagare anche
debiti pregressi e futuri, anche questa era una bugia perché il tasso di
sviluppo della nostra economia non consentiva assolutamente questo.
Allora, avendo detto tre bugie in quattro legislature, francamente non
c’era la possibilità di dire la quinta bugia.
Quando si dice che Renzi sta tentando un programma che assomiglia
a quello del centrodestra, è vero. Ma è vero soprattutto per una ragione,
perché l’agenda dei problemi da affrontare è quella e non puoi sfuggire
all’agenda perché l’agenda la stabiliscono i fatti, non la stabiliscono i
commentatori, quindi nemmeno noi.
Ecco la ragione per la quale il tentativo va fatto. Può andare in porto
questo tentativo? Solo se si forma anche un’opinione pubblica molto
sensibile, molto avvertita di questo e disposta ai sacrifici. Lo siamo? Non
so rispondere.
BALDASSARRI
Ascoltando questo panel, mi è venuta in mente una riflessione:
aumentare le tasse e tagliare sul serio la spesa, non è popolare. È
evidente che non è popolare. Allora, poiché i numeri che abbiamo
illustrato nel Rapporto dimostrano che tutti i governi hanno scelto
l’impopolarità di aumentare le tasse piuttosto che l’impopolarità di
tagliare la spesa, la mia conclusione è: non è che il sistema politico, di
qualunque colore, è molto più legato alla spesa e molto meno legato alle
tasse?
FOLLI
Infatti questa era proprio la domanda che volevo proporre, ma l’hai
detta molto meglio di come l’avrei detta io.
Perché è giustissimo quello che dice Mazzotta: la priorità è questa,
però, se effettivamente gli sprechi sono connaturati a un sistema, se
toccano proprio l’esistenza stessa di intere categorie elettorali, come si
può pensare che un leader, soprattutto se è un leader di centrosinistra
324
che ha un certo tipo di insediamento sociale, possa colpire così duro lì,
alla fine proprio nel suo elettorato, o comunque in una certa logica
profonda del sistema, in vista di un bene superiore, un bene però
dilazionato nel tempo.
C’è stato chi ha fatto riforme e le ha scontate. Shröder, in Germania,
ha fatto delle riforme e ha perso le elezioni, il beneficio lo ha ricevuto la
Merkel. Allora qui come la mettiamo con questa contraddizione?
MAZZOTTA
Qui, secondo me, abbiamo una situazione che è molto interessate da
analizzare, non è interessante affatto da gestire.
E siccome tutti noi abbiamo la fortuna di analizzare e non abbiamo il
compito di gestire possiamo anche divertirci a proporre. Partiamo dalla
premessa, che però è essenziale.
Siamo in una fase di avvitamento nella quale, se non c’è
effettivamente ripresa delle attività produttive, non siamo in grado di
salvare nessun equilibrio di finanza pubblica e di salvare nessun
equilibrio sociale nei prossimi anni.
Se si parte da questa premessa, le cose da fare per favorire la ripresa
delle attività produttive e dei consumi sono la fiscalità e il credito. Poi ce
ne sono mille altre, ma i pilastri grossi sono questi due. Lasciamo
perdere il credito che ha questioni diverse anche se tutte reali e, a mio
modesto parere, non ancora affrontate.
Sono convinto che una battaglia per l’abbattimento dei livelli di
fiscalità abbia un livello di popolarità immenso e sono di questo parere
perché profonda è la mia tristezza sulla ragione, perché tale è il
discredito di tutto il sistema pubblico, che la proposta di dargli meno
soldi suscita l’entusiasmo popolare.
Sono anche convinto però che il vero freno a questo è
l’intermediazione della finanza pubblica che serve a tutto quello che può
essere distribuito a pioggia e che viene fatto poi pagare con
l’imposizione. I percettori di questi benefici in gran parte non hanno una
diffusione elettorale fantastica, hanno però una capacità di ricatto
politico altissimo e sono l’establishment della mano pubblica, che non
hanno rilievo elettorale, ma hanno capacità di condizionamento
relazionale.
Allora parto dal presupposto che se nasce un movimento con capacità
di appello popolare è meno condizionabile dal sistema relazione
tradizionale al quale sono stati sempre sottomessi i politici deboli.
Perché il sistema relazionale ha avuto sempre nelle mani la tranquillità e
la stabilità di chi non aveva sufficiente forza propria.
325
Mi permetto di dire che questo sistema relazionale si è enormemente
gonfiato negli ultimi vent’anni, è sempre esistito ma era più debole
prima. Quando c’erano i partiti forti questo sistema era enormemente
più debole. Quando la politica è diventata debole, la capacità di ricatto
del sistema relazionale è diventata più forte. Sapete meglio di me qual è,
cosa è, dove è questo sistema relazionale. È al centro ed alla periferia, è
nello Stato centrale, nelle Regioni e nei Comuni. È sparso, ma oggi è
fragile e il passaggio politico significativo secondo me è questo.
In sostanza questo benedetto uomo che ha usato una terminologia che
a me francamente piace molto poco, perché secondo me “rottamare” il
prossimo è una intenzione non benevola, poco cristiana ed anche dal
punto di vista tecnico si presta a diversi ragionamenti
sull’organizzazione della carrozzeria. Però, se uno volesse rottamare
l’establishment della rendita, a mio avviso, avrebbe una campagna
interessante da fare. A mio avviso è molto più difficile resistere senza
farla, che poter sviluppare consenso politico facendola.
326
Proposte della politica
MASSIMO LEONI, SKY TG
Nelle sessioni precedenti è stata affrontata tutta la questione dell’analisi
quantitativa e qualitativa dei dati di Economia Reale. I numeri ci parlano
di una situazione macroeconomica italiana molto difficile.
In questa sessione dobbiamo parlare di politica con la politica. Vedo
due corni dai quali prendere la questione delle politiche economiche in
Italia: c’è il corno europeo, importantissimo, e c’è poi quello delle
politiche interne.
Quello delle politiche europee riguarda soprattutto le politiche
macroeconomiche in generale, politiche di bilancio. Quello che attiene
all’Italia e che hanno uno spazio di autonomia maggiore, sono le
politiche sulla produttività, sulla microeconomica cioè le misure di
riforma.
Chiedo allora a Filippo Taddei: dopo le elezioni europee lei è più o
meno fiducioso che l’Italia possa incidere in qualche modo rispetto agli
obiettivi ma anche agli strumenti, visto che parliamo di politica
economica, che l’Europa ci ha imposto e che noi ci siamo imposti un po’
da soli, e parlo di cose che al momento appaiono di impossibile
realizzazione come gli obiettivi sul debito pubblico del fiscal compact per
esempio.
FILIPPO TADDEI, PD
Sono più ottimista per un insieme di ragioni e per una convergenza di
interessi che ha a che fare con l’identità produttiva dell’Europa, quello
che noi ci aspettiamo di produrre come europei. Le difficoltà combinate
e note di due paesi che sono Italia e Francia e una difficoltà più nascosta
che è la Germania. La combinazione di questi tre problemi in realtà sarà
un buon elastico per l’Europa.
Se guardiamo all’Europa nel suo complesso macroeconomico,
l’identità europea è un’identità fortemente caratterizzata dalla presenza
industriale, del manifatturiero in particolare. E all’interno di questa
identità produttiva c’è un paese che ha patito più degli altri la crisi
327
economica, in particolare in termini di riduzione del suo settore di
riferimento che è il suo settore manifatturiero e cioè l’Italia.
Se ci riferiamo alla percentuale di valore aggiunto che viene dal
manifatturiero, si può notare che in Germania è fondamentalmente
stabile tra pre e post crisi, mentre in Francia è calata leggermente di un
punto percentuale. In Italia invece si è ridotta drammaticamente,
nell’ordine di quattro punti percentuali di Pil. Una riduzione gigantesca,
pertanto, che non minaccia solamente l’identità produttiva italiana, ma
l’identità produttiva europea, se è vera l’analisi che facevo prima
ricordando che l’Europa è l’economia avanzata che si regge sul
manifatturiero.
Di questo tema l’Europa è bene edotta ed è edotta anche della qualità
di questo problema, non solamente a livello di principi, non tanto a
livello di implementazione delle politiche, ma se in Europa esiste un
programma che si chiama appunto industrial compact è perché
riconosciamo che la nostra identità produttiva è venuta meno.
Per questo sono fiducioso che dall’Europa in realtà verrà sostegno
perché l’industrial compact riconosce un problema di portata generale e
riconosce soprattutto che è un problema particolarmente importante:
l’identità produttiva industriale che si applica a questo Paese. Quindi da
lì verrà un sostegno in più piuttosto che un sostegno in meno.
Tutto questo per noi è cruciale e si interseca con il problema del fiscal
compact perché quest’ultimo lo possiamo affrontare in due modi. Il
Rapporto di Economia Reale sottolinea con grande nettezza qual è il
rischio, a livello di dinamiche, del debito pubblico per i prossimi anni. È
un Rapporto che ha, se vogliamo, un eccesso di pessimismo in queste
dinamiche e che si porta al di là di quelle che sono le previsioni di altri
istituti quali ad esempio Prometeia che fa lo stesso tipo di stima a livello
quinquennale. Ciò che emerge chiaramente però è che in questo Paese ci
dobbiamo porre il problema di come ridurre il debito pubblico. Lo
possiamo fare intervenendo sul numeratore (che è quello che abbiamo
fatto fino ad oggi facendo una politica fiscale molto cauta), oppure
pensando a come tirare su il denominatore.
Se si dice che il fiscal compact prevede 50 miliardi di tagli, in realtà si
sta dicendo che assumiamo che il paese di oggi resti così per sempre.
Assumiamo cioè che il paese che ha perso rispetto al 2008 più di 1,1
milioni di posti di lavoro, quasi 10 punti di Pil resti così per sempre. È
evidente allora che se il paese che abbiamo di fronte agli occhi oggi
rimarrà identico a se stesso, allora c’è un unico modo per riportare quel
rapporto di debito pubblico in bilanciamento: l’intervento sulla
riduzione dei saldi del bilancio pubblico o aumentando le entrate, se
qualcuno ci crede ancora, o riducendo ancora le uscite. Naturalmente
328
questo è un punto di vista estremamente pessimistico che presume
appunto che il Paese non cambi.
C’è però un’altra relazione che è pienamente compatibile con il fiscal
compact e che intreccia il fiscal compact con l’industrial compact. In quale
modo l’Italia può rilanciare la propria identità industriale e tornare a
crescere per fare in modo che quegli obiettivi di finanza pubblica del
fiscal compact siano raggiungibili, non perché facciamo una draconiana
riduzione della nostra spesa pubblica di 50 miliardi all’anno (che
nemmeno nelle ipotesi più avanzate è lontanamente concepibile), ma
perché questi stessi obiettivi sono perseguibili ripristinando un settore di
crescita che ci riporti più o meno a quello che noi eravamo prima della
crisi.
Quello che è sorprendente è la rapidità nel cambiamento che abbiamo
subito con la crisi, cioè la riduzione di 10 punti di Pil che è avvenuta nel
breve lasso di tempo di sei anni. È una cosa impressionante. Ma allora,
senza nessun tipo di trionfalismo, ma senza nemmeno catastrofismo,
questo è lo stesso Paese che con un lasso di tempo abbastanza breve può
tornare al livello del 2008. Anche perché quel livello del 2008 non era un
livello con cui far festa. Eravamo già allora un Paese che aveva i
problemi strutturali che abbiamo sempre discusso, soprattutto la carenza
di produttività che abbiamo sempre indicato.
Dobbiamo quindi dare una dimensione ai nostri problemi
distinguendo quello che è il problema strutturale (cioè l’Italia che cresce
meno tra tutti i paesi sviluppati già prima del 2008) e quello che invece è
la malattia acuta, questo shock incredibile che è durato sei anni. Ora,
questo shock incredibile è molto più facilmente riassorbibile. Non
confondiamo i due temi.
Non è che riassorbendo lo shock radicale e drammatico avremmo
risolto tutti i nostri problemi, però senza catastrofismo riconosciamo che
si possono fare un paio di cose che hanno a che fare con il cambiamento
strutturale che però riassorbiranno lo shock radicale, quello della grande
crisi, permettendoci poi di soddisfare non solo gli obiettivi di finanza
pubblica ma anche di ritornare al punto del 2008.
LEONI
A Irene Tinagli vorrei chiedere quanto, secondo lei, la politica sia
impegnata nelle ipotesi di dismissione di patrimonio, cioè di stock
contro stock per diminuire il debito pubblico. È un problema politico o –
diciamo la versione spacciata per anni – è un problema tecnico?
329
IRENE TINAGLI, Scelta Civica
Se fosse un problema tecnico, avrei difficoltà a dirlo perché nelle
legislature precedenti io non c’ero. Posso quindi dire che osservo i
risultati e i risultati sono quelli che abbiamo visto, cioè non c’è stato un
intervento della portata e con i risultati che ci si auspicava. Presumo che
ci sia stato molto probabilmente un vulnus di volontà politica perché,
per quanti possano essere i problemi tecnici, non credo che possano
avere impedito decisioni efficaci. Abbiamo iniziato a parlare di
privatizzazione quando io ero alle elementari. In questo arco di tempo,
se ci fossero stati dei problemi tecnici immagino che forse si poteva
trovare una soluzione, se ci fosse stata la volontà politica per farlo. Sugli
aspetti più strettamente tecnici magari dovremmo chiedere a persone
che hanno una maggiore esperienza di quegli anni.
Vorrei però aggiungere che ogni volta che si cita la parola
“privatizzazioni” questa dovrebbe essere accompagnata anche dalla
parola “liberalizzazioni”, perché le due cose disgiunte possono anche
provocare dei danni, a meno che non si parli di dismissioni del
patrimonio immobiliare (palazzi, aree, caserme ecc.).
Se parliamo in senso proprio di privatizzazioni vere (enti, società,
partecipazioni dove veramente c’è la ciccia) non si può prescindere dal
processo di liberalizzazione. Ebbene, in questo senso mi piacerebbe che
si facesse molto di più anche perché in questi mesi non ho visto una forte
spinta in questo senso, non ho visto all’interno del Def un programma di
liberalizzazioni incisivo che potesse davvero sbloccare alcune situazioni
per rafforzare il sistema della concorrenza, i poteri dell’autorità, fare in
modo che davvero ci siano dei meccanismi e dei metodi per rafforzare la
concorrenza e il mercato in Italia.
Perché dico questo? Perché se vogliamo sollevare, come diceva
Filippo Taddei, non solo il numeratore ma il denominatore del rapporto
Debito-Pil, non possiamo prescindere anche dal creare un’economia più
dinamica, più libera, più concorrenziale, perché questo è quello che
attira gli investimenti produttivi. Se si liberalizzano alcuni settori, ci
saranno nuove imprese che nascono, ci saranno investimenti esteri, ci
saranno posti di lavoro e quindi questo aiuterà a generare Pil. Quindi a
me piacerebbe che quando si parla di rilancio dell’economia, di
dinamizzazione, di diminuzione del rapporto debito-Pil, in particolare
quando si parla di privatizzazioni, questa parola fosse abbinata alla
parola liberalizzazioni.
LEONI
330
A Ferdinando Adornato faccio la stessa domanda che ho fatto ad Irene
Tinagli, anche perché è politico di più lungo corso e quindi può avere
maggiore esperienza sulla questione del patrimonio pubblico di cui
sbarazzarsi, che vuol dire di fatto come ridurre il perimetro pubblico che
è un altro grosso problema politico che in Italia si fa fatica ad affrontare.
Poi vorrei le sue valutazioni sulla riduzione delle spese perché nel
Rapporto di Economia Reale questo è uno degli argomenti forti anche
perché, come in varie occasioni Mario Baldassarri ha anche
esplicitamente detto, lì dentro c’è anche il malaffare, gli sprechi, le
ruberie.
FERDINANDO ADORNATO, Per l’Italia
Vorrei rompere un po’ la dittatura degli economisti perché in fondo
anche al Circolo di Bloomsbury non c’era solo Keynes.
Non so se sono un politico di lungo corso, sicuramente sono
impegnato da tanti anni. Più che il politico però, farei anche il politologo
di lungo corso, quindi mi affianco agli economisti in questa veste.
Quando ho salutato Mario Baldassarri all’inizio di questo workshop
gli ho detto che aveva fatto un Rapporto terribile. Lui ha allargato le
braccia come per dire non è colpa mia. Allora, mi è venuto in mente
quell’aneddoto – che credo molti ricorderanno – del generale nazista che
entra dentro l’atélier di Picasso e vede Guernica e chiede: “Chi ha fatto
questo obbrobrio?”. E Picasso risponde: “Lei Signor Generale”.
Quindi, in questo caso Mario Baldassarri fa il pittore e dipinge un
Rapporto terribile il quale però pretende delle risposte di carattere
economico, ma anche delle risposte di carattere prettamente politico. Il
processo che il Rapporto di Economia Reale descrive in termini di
distruzione del risparmio ed assassinio della crescita si è accompagnato
alla distruzione del sistema politico. Ora è chiaro che le politiche
pretendono soggetti che agiscano per attuarle. Il nostro problema è
moltiplicato all’ennesima potenza, perché oltre a non trovare una strada
o non averla trovata per riformare il sistema economico e produttivo ci
troviamo di fronte alla paralisi del sistema politico che è stato distrutto e
quindi all’incapacità dei soggetti politici di determinarlo.
Chi è che non si ricorda (lo dico con un po’ di autocritica perché ne ho
fatto parte insieme a Mario Baldassarri) di quella bellissima ma nefanda
stagione referendaria quando tutti gli italiani al 97% pensavano come
noi e cioè che serviva il bipolarismo proprio per rompere il partito della
spesa pubblica.
Non è che, ormai vent’anni fa, questa cosa fosse ignota agli italiani o
che noi non ce ne fossimo accorti. Tutti ce ne eravamo accorti che
331
bisognava rompere quell’incrostazione lì. Purtroppo però abbiamo
avuto un bipolarismo del tutto anomalo, quindi non siamo entrati affatto
in Europa. Volevamo andare a Philadelphia e ci siamo trovati a Beirut,
cambiando il sistema politico con un bipolarismo rissoso e
inconcludente chiamato seconda Repubblica.
Nella prima Repubblica c’erano gli immutabili senza alternanza,
chiamiamoli così in una visione un po’ d’insieme.
Nella seconda Repubblica c’è stata l’alternanza degli immutabili.
Perché di fatto questi vent’anni sono stati lo scontro Berlusconi-Prodi e i
gruppi di poteri, le classi dirigenti che si raggruppavano intorno a
Berlusconi e Prodi erano sempre le stesse, per vent’anni. Vinceva uno,
vinceva l’altro quindi all’apparenza c’era l’alternanza. Ma i sistemi di
potere, quindi quel partito della mano pubblica di cui si parlava prima e
che è il vero responsabile, sostanzialmente non facevano altro che
uniformarsi al cambiamento. Quindi l’immutabilità del sistema di potere
effettivo.
LEONI
In precedenza Giuliano Urbani ha parlato della rivoluzione liberale con
cui un’aggregazione politica nuova si era presentata alla ribalta più o
meno vent’anni fa e quindi in nome di quella rivoluzione c’erano i germi
per evitare che la spesa pubblica diventasse comunque una modalità di
consenso politico. Io personalmente ritengo sia una cosa grave perché lì
si è spacciato una cosa per un’altra, ma tutto sommato la sinistra
invece…
ADORNATO
Mi ha anticipato, ci stavo arrivando. Tra l’altro io c’ero a tutte quelle fasi
perché ho partecipato alla stagione referendaria e poi ho creduto anche
nella rivoluzione liberale, quindi le disillusioni per me sono state
molteplici.
BALDASSARRI
Anche io c’ero…
332
ADORNATO
Proprio in nome delle cose dette mi affido a Filippo Taddei, a Renzi e al
suo gruppo dirigente consigliando di ascoltare Mario Baldassarri.
Questa è la sintesi che io farei. Ma di qualcuno bisogna pur fidarsi, non è
che bisogna sempre fare il grillo parlante. E qui bisogna che affrontiamo
questo tema nel modo in cui Renzi lo ha descritto. A me non preoccupa
però se Renzi ci riesce o meno. Ovviamente, se Renzi non ce la facesse
sarebbe peggio per tutti, oltre che per lui. Ma ho sentito Mario Mauro
che dice che non si garantisce la libertà ed ha parlato addirittura di
dittatura. Ora, ogni opinione è legittima, ma se c’è stata in questi ventitrent’anni (perché di riforme si è cominciato a parlare quando Irene
Tinagli non andava alle elementari ma all’asilo) una dittatura è stata la
dittatura del blocco politico-culturale che ha bloccato le riforme sempre
e non certo una dittatura dei riformisti.
Sento anche dire: “ma come allora bisogna fare le riforme senza
discutere?”. Sì, ma sono trentacinque anni che discutete ragazzi! La
gente ragiona così, è da trentacinque anni che discutete ed ancora state a
discutere!?
Non è più il tempo di vedere quale sia il sistema che preferisco: il
sistema francese, il sistema inglese, il modello tedesco, il modello di qua,
il modello di là. Ora è ora di fare! E Renzi ha detto “Basta, adesso
facciamo!”. Ha ragione! Che vuoi stare a discutere? Ti metti a votare
contro il processo riformatore per l’ennesima volta? Non si può fare. È
una mia opinione: le riforme vanno fatte.
Terzo punto: chi le fa? Siccome ci vogliono dieci anni per recuperare
la situazione, anche se Mario Baldassarri ci fa qualche sconto quando
auspica che si attui una strategia forte di politica economica, è chiaro che
allora il problema non è solo Renzi.
Noi dobbiamo tornare a quel modello virtuoso che il popolo
referendario, che Dio l’abbia in gloria, pretendeva per l’Italia. Abbiamo
avuto per vent’anni un sistema politico bipolare, come ho detto,
comunque più retto dal carisma di Berlusconi che dall’altro polo perché
la sinistra faceva governi con cinquantamila forze, si disperdeva in mille
rivoli e via dicendo.
Adesso abbiamo il contrario. Abbiamo finalmente il PD e sottolineo
finalmente avendo scritto del partito democratico nel 1991 quasi per
primo ed inascoltato. Ora sono felicissimo che ci si sia arrivati finalmente
con Renzi.
Ma mi domando: e dall’altra parte? Se Renzi non riuscisse, quale
garanzia ha oggi questo Paese di continuare il processo riformatore che
pure è così difficile? Allora la soluzione che capiscono anche dei bambini
333
delle elementari e che in Germania hanno già fatto e che noi non
riusciamo a fare è il governo di larghe intese.
La filosofia del montismo, la filosofia di Enrico Letta era questa:
bisogna mettersi insieme, affrontare magari per cinque-sei anni questo
nodo, che il Rapporto ha bene inquadrato, e dopo ci ridividiamo per una
competizione virtuosa visto che questo bipolarismo non ha funzionato.
Allora, io auguro a Renzi di avere tutta la fortuna perché è l’Italia che in
questo caso ne avrebbe. Faccio il tifo per lui, lo appoggio, visto che
stiamo con la maggioranza nel governo, ma mi devo porre il problema
di una continuità non solo di Renzi, che potrebbe anche rivincere nel
2018 e governare per altri cinque anni, ma di una continuità del sistema.
Ecco che allora la palla passa alle forze della maggioranza che non
fanno parte del PD. Ho visto che adesso si comincia a discutere tra
Alfano e Berlusconi su come unire i moderati. Ma su che cosa? Che vuoi
unire i moderati!
Allora, faccio una proposta concreta: Alfano, visto che parliamo delle
forze di maggioranza, dovrebbe dire a Silvio Berlusconi pubblicamente
la seguente cosa: “io ho il tuo stesso obiettivo di unire i moderati, ma
sono indisponibile a questa prospettiva se Forza Italia non appoggia il
governo e se anche con un appoggio esterno non si crea un clima in cui
tutto il Paese collabora agli obiettivi che abbiamo, perché solo così
possiamo poi ridividerci, perché come si fa a unire i moderati fra uno
che dice che vuole uscire dall’euro e quell’altro che parla di Don Sturzo e
di De Gasperi? Non si può fare. Allora lasciamo stare se ci vediamo o
non ci vediamo la sera, se ci vediamo ad Arcore o ci vediamo alla nostra
sede di NCD, il problema è il governo del Paese. Allora Forza Italia è
disposta ad appoggiare il governo, con un appoggio interno o esterno, o
no?”. Solo questa è la condizione perché, fra due anni, si possa decretare
la nascita di polo di centrodestra.
Viceversa, l’obiettivo da coltivare è che alle prossime elezioni si
presentino in coalizione le forze che attualmente governano. Non lo dico
per scelta di sinistra o di destra. Sto facendo un discorso che riguarda la
tenuta del sistema politico visto che esso è attaccato da forze populiste,
barricadere, irresponsabili, irrazionali.
O noi ricostruiamo un bipolarismo responsabile, e la dimostrazione è
che Forza Italia appoggi il governo se vogliamo entro due anni costruire
un polo alternativo a Renzi, come dovrebbe essere nel dna di un paese
civile. Viceversa, se questo non avviene, occorrerà non baloccarsi sul
fatto dove ci vediamo, quanto ci vediamo, ci sarà Fratelli d’Italia o ci sarà
la Lega, ma prepararsi al fatto di dire agli italiani perché nel 2018,
sperando di arrivarci, non sarà risolta la questione che le forze che
hanno governato insieme si candidano, naturalmente ciascuno con le sue
334
posizioni distinte, a governare il Paese contro le forze che lo vogliono
affossare.
LEONI
Faccio un paio di riflessioni. Mi pare che la prospettiva che diceva
Adornato prima si stia un po’ allontanando. Mi sembra cioè che la
tentazione del centrodestra sia quella di fare in modo che la Lega sia il
motore politico di quella parte lì, quindi non mi pare che si stia andando
verso quella che lei diceva essere una possibilità. E lì si fa esattamente il
discorso contrario, cioè Salvini e la Lega dicono che il presupposto per
parlare di un’alleanza è che non ci sia in questa alleanza chi sostiene
adesso il governo. Quindi Forza Italia addirittura dovrebbe uscire anche
dal processo riformatore più in generale e NCD dovrebbe uscire dalla
maggioranza. Si può parlare di un’alleanza di centrodestra organica?
Questa è la prima riflessione.
La seconda riflessione la vorrei fare sulle riforme. Sono parzialmente
d’accordo con quello che diceva Adornato perché credo che riformare
vuol dire non mettere B al posto di A, ma essere convinti ed aver
riflettuto attentamente sul fatto che B sia meglio di A. E allora in questa
prospettiva mi spiego la difficoltà di fare compiutamente questa
riflessione. Credo che poiché poi le riforme ce le dobbiamo tenere, nel
senso che sono cose di ampio respiro e di lungo periodo, non so se il
fattore tempo ridotto e la fretta sia una cosa di cui dobbiamo per forza
dotarci. Questa legislatura, forse improvvisamente con le europee,
sembra avere un respiro diverso, quindi si parla addirittura del 2018.
Possiamo utilizzare questo tempo per fare una ulteriore riflessione, e per
abbandonare l’urgenza delle riforme, ma per riflettere un po’ di più se
forse nei testi di cui stiamo parlando c’è qualche stortura che a me pare
che ci sia.
ADORNATO
Lei ha ragione totalmente, non ha ragione per me. Nel senso che io sono
stanco di pensare che si parla di fretta dopo trentacinque anni. Le do
ragione sul serio, direi anche io la stessa cosa che dice lei. Solo che dopo
trentacinque anni che ho sentito dire che non bisogna agire di fretta e via
dicendo, mi sento di dire che comunque è meglio cominciare, magari poi
correggendo in corso d’opera, se necessario, piuttosto che restare di
nuovo paralizzati dalla dittatura antiriformista.
335
TINAGLI
Voglio fare due considerazioni. Sulla questione della fretta “è
trent’anni”, questo credo che sia il sentimento che le persone pensano
istintivamente: abbiamo aspettato tanto, adesso facciamo. Però c’è anche
da stare attenti al come si fanno le cose, perché se noi guardiamo una
delle poche riforme vere che sono state fatte in questi ultimi vent’anni è
stata la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 che ha portato
dei disastri tremendi, ha portato ad un incremento delle spese delle
Regioni di 90 miliardi, che noi ci troviamo sul groppone, ed ha portato
anche clientelismi, tutti i bubboni della corruzione che stanno venendo
fuori adesso.
Allora io dico che magari quando si tratta di cose di un certo tipo si
può anche rischiare e buttare il cuore al di là dell’ostacolo e provare a
fare le cose più in fretta. Ma quando si tratta di mettere mano alla
Costituzione e a riforme importanti come legge elettorale, Senato,
istituzioni, ecc., magari un po’ di attenzione non guasta, perché poi le
conseguenze si pagano nei prossimi venti-trenta anni e prima di poterci
rimettere mano è una cosa un po’ complicata. Più che di fretta, ne faccio
anche una questione di metodo. Qui devo dire che Renzi quando se l’è
giocata molto rischiosa, perché pensare di giocare la partita delle riforme
con una maggioranza, la partita di governo con un’altra maggioranza,
inevitabilmente ha generato delle tensioni, delle conflittualità, perché
comunque poi quando vai a pensare a delle riforme istituzionali le devi
fare in maniera partecipata.
Il problema che c’è stato e che io vedo da alleata di governo è che le
riforme istituzionali, ecc., ecc., non sono state fatte davvero con l’idea di
fare partecipare tutti e di allargare la maggioranza di governo, ma di
creare una maggioranza alternativa a quella di governo. Abbiamo visto
Renzi parlare con Berlusconi e Verdini, ma mai parlare di queste cose
con, per esempio, i vertici degli altri alleati della maggioranza di
governo. Ed è inevitabile che questo porti dei problemi, perché nel
momento in cui ci sono delle forze politiche rappresentate in
Parlamento, che fanno parte del governo, appoggiano tante riforme, se si
vuole che partecipino al processo e votino le riforme in qualche modo
bisogna condividere le proposte e le riforme che si vogliono andare a
fare.
Non so se sia stata una ingenuità tattica di strategia politica che è stata
adottata, però è anche evidente che adesso quel metodo si sta un
pochino arenando.
Quindi non è una questione di voler rallentare o accelerare, è una
questione di scegliere un metodo di lavoro che consenta di arrivare a
delle soluzioni di qualità e condivise fra tutti. L’idea, che ha proposto
336
Adornato, di far entrare Forza Italia al governo per fare delle vere larghe
intese, risolverebbe probabilmente questa contraddizione di
disallineamento fra le due diverse maggioranze, però, francamente,
penso che potrebbe portare altri problemi, perché noi siamo stati quelli
che già dall’inizio del governo Letta dicevamo che era necessario avere
larghe intese. Purtroppo però devo riconoscere che, nei mesi del governo
Letta in modo particolare, il sistema politico italiano non ha dimostrato
quel tipo di maturità politica necessaria per far funzionare le larghe
intese. Il patto di coalizione non è mai stato fatto, poi alla fine Forza
Italia, durante il governo Letta, ha utilizzato il palcoscenico del governo
per portarsi a casa dei risultati, abolire l’Imu per fare campagna
elettorale, poi appena sono venute fuori le magagne sulla Tasi e sulla
Tare si è data a gambe levate, ha lasciato il governo con il cerino in mano
e poi lo ha attaccato per le conseguenze delle azioni che loro stessi
avevano fatto quando erano al governo.
Allora, francamente io non credo che riportare questo tipo di
approccio dentro al governo adesso, aiuterebbe il processo di riforme
nell’interesse del Paese.
Si fanno le larghe intese se c’è il senso di responsabilità di farle
funzionare, di lavorare tutti insieme e non di utilizzare comunque lo
stare al governo per portarsi a casa delle bandierine elettorali, perché se
deve essere così siamo punto e a capo. Quindi, per farle funzionare ci
vuole una maturità politica di tutto un sistema, che magari in Germania
c’è, probabilmente per qualche motivo da noi fa ancora un po’ fatica a
maturare.
LEONI
Quando Adornato parlava di bipolarismo di ritorno dopo un periodo di
larghe intese e di riforme, mi era venuto in mente che tutto sommato
quest’Italia non è più tanto bipolare perché abbiamo dimenticato che c’è
una forza, il Movimento 5 Stelle, che ha da un terzo a un quarto
dell’elettorato, quindi abbiamo forse tralasciato un particolare grosso.
A Filippo Taddei volevo chiedere questo. Adornato parlava
dell’eliminazione, in qualche modo dell’azzeramento, di una classe
politica. C’è, secondo Taddei, anche una mancanza nella classe dirigente
imprenditoriale di questo Paese? I dati sulla crescita degli ultimi 10–15
anni hanno anche a che fare con una diminuzione della qualità
dell’imprenditore italiano? Laddove cercava innovazione e mercati
adesso non li cerca più con la stessa insistenza, con la stessa efficacia,
con la stessa intelligenza?
E servono riforme per questo o altro?
337
TADDEI
Penso che questa sia una domanda centrale, ma la risposta sta nella
politica, quindi adesso mi butto anche in politica.
La classe imprenditoriale, come in realtà tutti gli agenti economici,
reagiscono alle condizioni di contesto ed agli incentivi.
Il contesto. Noi abbiamo convinto, nella maniera peggiore ma più
efficace, gli italiani di due cose: che lavorare non fosse l’attività centrale
della loro vita e che investire sul proprio lavoro non fosse, tutto
sommato, l’unica vera cosa che importa, e abbiamo convinto una buona
fetta, non tutti per fortuna, ma una buona fetta di imprenditori di questo
Paese che, fondamentalmente, invece che cercare di innovare,
sperimentare, cercare un mercato di sbocco in più, magari bastava fare
un altro tipo di investimento. Non è che i nostri imprenditori non
investono, è che hanno orientato il loro investimento in una direzione
diversa, meno efficace o se vogliamo meno utile per il Paese, che è
appunto il capitale relazionale, di rendita politica, di intreccio con la
politica e di contatto con la politica.
LEONI
Nel capitale relazionale mette anche le mazzette?
TADDEI
Nel capitale relazione ci metto non solo le mazzette in senso stretto, ma
anche delle mazzette più sofisticate che sono questo tipo di relazioni
privilegiate.
LEONI
Le chiamiamo in tanti modi ma insomma, “capitale relazionale” è carina.
TADDEI
Le mazzette sono la rappresentazione plastica del problema. Però ce n’è
una più bassa e che emerge anche in questo Rapporto di Economia
Reale: pensiamo alla spesa per acquisto di beni e servizi di questo Stato.
Ora noi cosa abbiamo: spendiamo all’incirca 135 miliardi all’anno, 60
338
sono intermediati da Consip, rimangono fuori grosso modo 75 miliardi.
Se leggete questo interessante Rapporto troverete che c’è anche una
grossa enfasi su quello che si può ottenere in termini di riduzione di
spesa.
Abbiamo 75 miliardi di acquisti che non sono intermediati da nessuna
agenzia centrale e nemmeno nessuna delle grandi agenzie regionali che
passano questi acquisti. Io sono emiliano e quindi prendo un esempio
dalla mia Regione. Noi abbiamo il contesto del Comune, Provincia di
Parma e Università di Parma che dietro richiamo esplicito di Consip che
dice “Guardate la cancelleria, le penne, quello che volete, le tipiche cose
per funzionare, anziché acquistarle privatamente acquistatele attraverso
Consip, c’è un risparmio del 30–40%” . Risposta: zero. Naturalmente non
è che la risposta nulla sia una risposta perché questa gente non è
intelligente, non è razionale, ma perché c’è un investimento, perché
naturalmente se tu decidi di pagare un oggetto il 40% in più, c’è un
imprenditore che sta facendo degli extra profitti, che ha investito, bada
bene, per portare a casa quegli extra profitti del 30–40%. Ha investito,
appunto, in termini di quello che io chiamo con una certa nonchalance
“capitale relazionale”: voglio essere amico di Massimo, così Massimo poi
mi fa fare questa cosa.
Vorrei dare però una veste politica a questa che è un’affermazione
solo apparentemente tecnica, cioè uno guarda l’ammontare e dice 75
miliardi di spesa all’anno non sono intermediati, potrebbero essere
concentrati. Se solo risparmiassimo un 10% su questi, che sembra un
obiettivo minimo di risparmio, sono 7,5 miliardi di risparmio all’anno.
Cifra spropositata se ci pensate. Perché non avviene? Tecnicamente è
quasi banale. Non avviene perché effettivamente noi abbiamo detto a
buona parte degli imprenditori di questo Paese che dovevano investire
in capitale relazionale e adesso loro vogliono il pay-off, vogliono il
rendimento per il loro investimento.
Cambiare politicamente questo è estremamente costoso. La vera sfida
politica, quella che attenderà noi forze di maggioranza, sulla legge di
stabilità che sarà una legge di stabilità durissima e che già anticipiamo,
sarà esattamente questo: dire a persone che per decenni hanno investito
in capitale relazionale che sono finiti i canditi, che questo non si può più
fare, che attualmente la siringa la compriamo dal tizio che ce la fa pagare
1 euro e non 5 euro perché quell’extra profitto non ha nessuna ragione,
distoglie investimenti e crea un sacco di cattive cose.
Ora, a questo punto la domanda è: perché adesso dovremmo riuscirci
quando il tema, pur essendo arcinoto in passato, non è mai stato risolto.
Stiamo riscoprendo l’acqua calda? Ho ascoltato Ferdinando Adornato
con ammirazione quando ha ricordato le grandi battaglie perse. Io ero
uno di quei ragazzetti che perdevano le proprie giornate a raccogliere le
339
firme su quei referendum di cui voi eravate leader nazionali e oggi sono
qui a fare il responsabile economico del PD. Quindi quella esperienza mi
ha portato bene. Vorrei dire che oggi, pur permanendo nelle difficoltà,
noi abbiamo molta più probabilità di successo, perché l’entità della crisi
ci da una mano.
Il capitale politico fondamentale di questo Paese è sempre
l’emergenza e adesso abbiamo un sacco di capitale politico, perciò un
sacco ancora di emergenza, ma, in aggiunta a questo, questo pasticciato
bipolarismo che abbiamo creato, è comunque molto migliore di prima.
Qui il reduce più giovane vorrebbe dire ai reduci più anziani che in
realtà questo sistema è comunque molto più virtuoso dei precedenti, c’è
molta più speranza di cambiamento in questo momento rispetto ai
precedenti. E se noi in questo momento vogliamo fare un invito a Forza
Italia, non dovremmo invitarli a entrare con noi nel governo, ad
aggiungere eterogeneità ad una coalizione che ha punti di contatto
secondo me molto buoni. Chiediamogli invece una condivisione delle
regole. Pensate se domani Forza Italia ci dicesse: “guardate, chiudiamo
questo bipolarismo, una volta per tutte, facciamo delle riforme
istituzionali che riducano la parcellizzazione della spesa pubblica
attraverso questi enti locali, le competenze concorrenti che hanno creato
sprechi giganteschi, cerchiamo di fare una legge elettorale bipolare,
facciamo un maggioritario domani, 100%, doppio turno o turno unico,
quello che volete, facciamolo domani”. Se Forza Italia concordasse su
questo sarebbe il mio sistema prediletto. O diciamo che sottoscrivano
domani l’accordo di governo. Concludiamo questo bipolarismo. Va
bene, tutto il resto si aggiusta. Il motivo per cui oggi dobbiamo essere
ottimisti è perché oggi siamo molto, molto più vicini alla mèta di quanto
fossimo in passato. Questo è un grande vantaggio ed è una cosa che mi
fa ben sperare sul futuro.
In aggiunta a tutto questo c’è il fatto che abbiamo un Partito
Democratico che, a differenza del passato (questo è l’unico vero capitale
politico che io posso mostrare), non ha solamente ottenuto un grande
consenso popolare rispetto al passato, ma soprattutto ha la
determinazione a impiegare quel capitale politico in una direzione unica
e semplice, che magari è limitata, magari non coinvolge tutti i grandi
nodi di questo paese, ma ne coinvolge uno centrale che ha a che fare
appunto con il livello di tassazione del lavoro e con la struttura della
spesa pubblica.
LEONI
Voglio ancora coinvolgere Taddei: “Le piace il quantitative easing
340
all’europea proposto”
TADDEI
Più che piacermi dico che non c’erano alternative. Abbiamo una Banca
Centrale Europea che è fuori target, cioè in questo momento…
LEONI
Il 2% dell’inflazione.
TADDEI
Ma non glielo abbiamo dato noi, se lo sono dati loro o meglio se l’è dato
l’Europa in particolare. Ora, non avevano alcuna scelta, la questione
fondamentale, e questo è un problema però di tecnica di trasmissione
della politica monetaria, il problema è come realizzarlo.
Perché in Europa noi manchiamo degli asset pre-definiti per poter
fare questo tipo di quantitative easing. Non possedendo quegli asset per
noi fare quantitative easing è più complesso. Non voglio dire che sia
inavvicinabile ma voglio dire che è più complesso farlo. Questo
aggiungerà qualche complicazione. Ma più che essere contenti o meno,
dobbiamo dirci che c’è un’alternativa a questo tipo di posizione di
politica monetaria? E la risposta è che non c’è.
TINAGLI
Voglio proporre un approfondimento sul ruolo del tessuto
imprenditoriale anche nella scarsa crescita, ecc.. Noi qua abbiamo tante
cose che riguardano la struttura del nostro tessuto produttivo e anche
dei nostri imprenditori. Io ora non ho i dati dell’ultimo anno, ma ricordo
due o tre anni fa avevo fatto una ricerca per cui quasi la metà degli
imprenditori italiani, per esempio, ha un titolo di studio inferiore alla
terza media. Non c’è niente di male, molti sono imprenditori che hanno
creato le loro aziende negli anni ’60, hanno vissuto momenti di un
grande boom, l’istruzione non era neanche probabilmente
particolarmente utile. Adesso però ci troviamo un patrimonio di imprese
che magari hanno anche una grande sapienza artigiana, manifatturiera,
ecc., ma che fanno fatica a cogliere le sfide dell’informatizzazione, della
341
digitalizzazione, della globalizzazione. L’anno scorso Unioncamere ha
fatto un rapporto dove diceva che noi abbiamo 70000 imprese, se non
ricordo male, che per struttura, per tipologia di prodotto, vocazione,
ecc., industriale, di settore, avrebbero un potenziale di esportazione
molto buono, però non esportano. Sono imprese che noi dobbiamo in
qualche modo portare all’estero e qui, secondo me, prima si ironizzava
sulla nozione che aveva dato Filippo Taddei di “capitale relazionale”, i
nostri imprenditori coltivano capitale relazionale inteso in accezione
negativa.
Il capitale relazionale è invece importante per un imprenditore,
bisogna vedere come lo si declina. Per gli imprenditori coltivare un
capitale relazionale per esempio in chiave internazionale con gli
investitori, con i venture capitalist, con i partner stranieri, con i
distributori per andare a portare i propri prodotti in Cina, in Brasile o
dove che sia, è fondamentale. Quindi dobbiamo anzi stimolare gli
imprenditori a creare questo capitale relazionale. Dobbiano cioè fare
uscire il capitale relazionale dal perimetro della propria provincia o della
propria regione e porlo in un’ottica diversa supportando questo
cambiamento culturale in molte maniere, per esempio, intervenendo
sulle agevolazioni agli incentivi a fondo perduto, visto che ancora ne
diamo tantissimi con meccanismi non particolarmente trasparenti. Ora
non voglio aprire un altro capitolo, però lì c’è veramente tanto da fare e
se mettiamo mano lì si spinge un importantissimo cambiamento
culturale.
Il potenziale per le nostre imprese è enorme, perché ci sono paesi che
stanno crescendo, non solo la Cina e l’India, ma anche i paesi
dell’America Latina, la Colombia, il Perù, il Messico stanno crescendo al
6–7%, poi c’è tutta l’Africa che sta piano piano crescendo. Tutto questo
significa che si sarà un ceto medio che avrà bisogno non solo del nostro
made in Italy, ma della nostra meccanica, dei nostri ingegneri, dei nostri
architetti, per cui c’è un potenziale di crescita anche per le nostre
professionalità più elevate. Quindi sono per questo molto ottimista, però
bisogna scardinare quella vecchia e vetusta cultura.
LEONI
Voglio dare seguito, con Irene Tinagli, a un argomento che poi è passato
un po’ trasversalmente in questa discussione che è quello della
corruzione. Sono profondamente convinto che una importante parte del
tessuto imprenditoriale italiano, soprattutto per quanto riguarda medie
e forse grandi imprese, preferisca investire nella corruzione piuttosto che
nell’innovazione di processo e di prodotto per rendersi più competitivi.
342
Cioè l’arma della competizione diventa l’abitudine a corrompere. Questa
è la questione forte di questo Paese.
TINAGLI
Perché in Italia è molto redditizia e quindi qui si parla di milioni di euro.
Si pensi quanto deve fare di fatturato un’azienda manifatturiera italiana
per avere anche solo 5, 6, 7 milioni di utile. La corruzione ti protegge
dalla concorrenza, ti protegge dal mercato, ti garantisce appalti a
prescindere dal tuo reale livello di competitività e siccome molte
imprese vivono bene in questo clima protetto e ci guadagnano, lo
alimentano e se ne fanno parte attiva. Noi dobbiamo tagliare questo
problema.
LEONI
È strano perché la politica, da una parte, dipinge la concorrenza come un
valore che bisogna perseguire e invece, dall’altra, si allea con il malaffare
per impedirla.
TINAGLIA
Per forza, perché la concorrenza cosa significa? Significa che
inevitabilmente ci saranno imprese che soccombono, imprese che
dovranno ristrutturarsi, ci saranno degli esuberi, ci saranno delle
situazioni difficili di crisi aziendali da gestire, ci saranno lavoratori che
dovranno essere riqualificati, che andranno in mobilità, andranno in
disoccupazione e dovranno essere ricollocati. Mantenere un clima
economico dinamico, dove la concorrenza funziona, significa che lo
Stato non deve intervenire per prevenire quelle crisi, ma per saperle
gestire e fare in modo che ci sia un mercato che ricolloca i lavoratori in
maniera snella, servizi per l’impiego che funzionano, servizi di
ammortizzatori sociali che funzionano. Quindi è chiaro che è oneroso, è
duro per chi lo subisce, imprese e lavoratori, e faticoso da organizzare
per lo Stato. Forse è per questo che noi in Italia abbiamo magari preferito
fare in modo di evitare di entrare in questi mercati concorrenziali perché
è più facile per gestire il consenso, poi comunque le crisi le rinvii, dai la
cassa integrazione in deroga, un anno, due anni, tre anni, e dici tanto la
cassa in deroga per due anni, nel frattempo cambiano tre governi, a me
che me ne importa? Io intanto mi tutelo di fronte agli elettori.
343
LEONI
Almeno però quella è una pratica legale. L’ultima riflessione che volevo
fare è questa. La grande quantità di attività di corruzione fa in modo di
chiudere sempre più il sistema Italia, nel senso che da una parte le nostre
imprese non sono abituate alla concorrenza e quindi con difficoltà
possono andare all’estero perché lì non ci sono da pagare mazzette ma
c’è da produrre in maniera concorrenziale appunto, e dall’altra è un
grosso freno all’arrivo di imprese dall’estero per produrre qui.
TINAGLIA
Certo. Però non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ci sono tantissime
imprese italiane che con una fatica enorme sono competitive all’estero e
in realtà vivono grazie alla loro competitività sui mercati esteri perché
magari nei mercati italiani non avrebbero chance. È un po’ come i nostri
cervelli che emigrano. Siccome in Italia non riescono neanche a
prendersi un assegno di ricerca, mentre all’estero magari riescono a fare
carriera perché lì c’è la competizione. Queste sono persone e aziende che
competono. Bisogna rompere i meccanismi dentro al nostro Paese.
Secondo me ci sono e ci possono essere tante realtà competitive che
potenzialmente possono essere competitive. Occorre, però, fare scelte
impopolari nel breve periodo anche perché nei confronti degli investitori
esteri chiaramente la corruzione, i clientelismi, gli appalti, i giochini,
ecc., sono un disincentivo enorme. Ed a questo si aggiunge anche la
continua instabilità. Negli ultimi tre anni un’azienda straniera che
magari ha avviato un dialogo con il Ministero per venire a fare uno
stabilimento produttivo, si è trovata a cambiare tre, quattro interlocutori
nel giro di tre anni e tutte le volte dover ripartire da zero. Non si può
pensare di fare crescita così.
ADORNATO
Una chiosa su questa ultima cosa della corruzione.
Luigi Sturzo nel 1947 scriveva: “Non capisco perché per nominare il
direttore del Teatro La Fenice di Venezia bisogna riunire il CNL”.
Riunire il CNL, il problema sta lì. Non solo per i partiti che facevano
parte del CNL, ma perché questo è diventato uno spirito italiano. E da
questo punto di vista, ma qui andremmo lontano, il sistema della prima
Repubblica dopo De Gasperi e Einaudi, quindi a partire dalla fine degli
anni cinquanta, è stato un sistema post-fascista, non anti-fascista. Ma qui
344
ci avventureremmo in ipotesi e teorie varie. Però il problema è lì, in
quella frase di Sturzo. Bisognava riunire il CNL per nominare il direttore
de La Fenice di Venezia.
Siccome ho stima di tutti gli interlocutori di questo dibattito, vorrei
non lasciare ombre perché ho visto qualche obiezione che vorrei
precisare.
Primo, io non ho proposto di fare entrare Forza Italia nel governo,
forse sono stato troppo sbrigativo, evidentemente mi sono spiegato male
se più d’uno mi ha fatto la stessa obiezione. In realtà ho detto un’altra
cosa e parlavo del centrodestra. Ma perché parlavo del centrodestra?
Perché Massimo Leoni ha ragione nel chiedere se il sistema sia ancora
bipolare?
Ebbene, Renzi è arrivato al 40% convincendo gli italiani.
Immaginiamo che dall’altra parte ci fosse non dico una persona come
Renzi ma, insomma, una persona affidabile. Se così fosse, credo che
Grillo non ci starebbe più o sarebbe molto ridimensionato. Il problema
delle forze antisistema nasce quando il sistema è moribondo, quando il
sistema forse è già morto o cadaverico.
Ecco perché mi preoccupavo del centrodestra, perché ero partito dalla
domanda: “Tifiamo Renzi. Aiutiamo Renzi”. Ma siamo sicuri che nel
frattempo non bisogna mettere, attraverso le riforme, un sistema politico
in grado di reggere la continuità riformista. Perché viceversa, fra quattro
anni forse ci troveremmo di fronte, non per il fallimento di Renzi che
non mi auguro affatto da italiano, ma ci troveremmo di fronte al
dramma che non possiamo continuare la strada intrapresa. Allora
bisogna occuparsene subito.
E cosa dicevo? Siccome ci sono due che dicono di unire i moderati
tutti e due perché lo dice Alfano e lo dice Berlusconi, dicevo che a me
interessa sapere su che cosa unire i moderati se non sulla politica. O li
dobbiamo unire solo sulle primarie? Io sono per le primarie, sono per
imitare il percorso del Partito Democratico. Non c’è niente di male ad
essere umili e ad ammettere che dall’altra parte si è fatta una cosa che
poi può essere giusta, può essere sbagliata, ma ha funzionato.
Chiarito questo però non puoi dire semplicemente “facciamo le
primarie”. Si presenta Ferdinando Adornato che vuole uscire dall’euro e
Mario Baldassarri invece che è amico della Merkel, e facciamo le
primarie? Ma ci immaginiamo una cosa del genere? Allora dicevo che
subito va fatto il chiarimento. Non spetta a Renzi far entrare Forza Italia
nel governo, ma ad Alfano e company, poi forse pare che nella company
ci sarò anche io fra un po’ e quindi avrò maggiore titolo per parlare. Ed
Alfano dica a Fitto che non c’è chiarimento su primarie, su chi comanda,
chi non comanda perché non ci frega niente di chi comanda. Il problema
è se noi aiutiamo l’Italia, come noi stiamo facendo al governo, in questa
345
fase o no. Se tu non aiuti l’Italia, magari con appoggio esterno, fai quello
che vuoi, ma allora io Alfano non sono disponibile a fare nessuna
alleanza. La parte più importante del mio ragionamento, che forse è
sfuggita, è che, se questo non avviene, se non c’è una risposta politica a
questa roba qui io personalmente comincerei a lavorare per presentare le
prossime politiche in coalizione alle forze che attualmente governano.
Questa secondo me è la parte più importante.
LEONI
Il Partito Democratico della Nazione diciamo.
ADORNATO
No, non un partito ma una coalizione. Ognuno deve rimanere distinto.
Questo il primo chiarimento. Può essere che mi sbaglio nell’analisi,
ma questo volevo dire e non il fatto di fare entrare Forza Italia al
governo.
Secondo chiarimento. Sono d’accordo che le riforme è meglio farle
seriamente e non potete pensare che io pensi di non fare seriamente le
riforme. Ho fatto un altro discorso, se si vuole un po’ paradossale ed
insisto su quel discorso. Perché? Se mi si dice “tu vuoi fare questa
riforma, la vuoi fare subito perché è trentacinque anni che non si fa, sono
d’accordo con te, ne discutiamo per farla seriamente”. Ma non è questo il
caso. Sono trentacinque anni, qui fidatevi della mia esperienza, che si
cercano tutti i pretesti possibili e immaginabili per non farle le riforme e
spesso quando uno dice (non Irene Tinagli né Filippo Taddei): “ Voglio
fare seriamente e quindi non le faccio adesso”. Questo è il punto. È
avvenuto tante volte e faccio un esempio ravvicinato nel tempo. Nella
scorsa legislatura il sottoscritto, Luciano Violante e Gaetano
Quagliariello si sono messi a un tavolo per elaborare un piano di riforma
elettorale e costituzionale. Inaudito, eravamo in tre. Non c’era mai
riuscito nessuno. Abbiamo elaborato nel giro di tre-quattro mesi, non
senza fatica, un testo di riforma elettorale sul modello tedesco e una
riforma istituzionale. Quelle proposte sono state incardinate al Senato.
Per la prima volta dopo trent’anni l’insieme delle forze politiche
proponeva un progetto di riforma condiviso.
Bersani però, a un certo punto dopo le elezioni amministrative perché
il PD era andato bene al doppio turno, dice “ci vuole il doppio turno”.
Ma se Violante era stato fino al giorno prima a fare il modello tedesco,
adesso ci vuole il doppio turno? Dall’altra parte allora si è detto “A beh,
346
ma se ci vuole il doppio turno bisogna mettere il presidenzialismo”. E
hanno cominciato tutti e due le parti a discutere e a litigare su doppio
turno e presidenzialismo. E quel testo incardinato al Senato non si è
fatto.
In quella fase, se si chiedeva a Bersani o a Berlusconi, “ma siete contro
le riforme?”, avrebbero risposto: “Ma come siamo contro le riforme, io
voglio il doppio turno e quell’altro vuole il presidenzialismo” e
quell’altro “Io voglio il presidenzialismo quell’altro vuole il doppio
turno”. Nessuno cioè dirà mai che è contro le riforme, ma di fatto sono
contro le riforme tutti quelli che pongono obiezioni alle riforme concrete,
reali, cioè quelle che stanno incardinate al Parlamento.
Questo è il punto nero e perciò che ogni atteggiamento dilatorio è un
atteggiamento antiriformista. Purtroppo è così, e dopo trentacinque
anni, non è più tollerabile.
BALDASSARRI
L’ultimo panel è un panel falcidiato perché i gruppi delle opposizioni
sono bloccati da impegni parlamentari di ordine superiore. C’è presente
solo Giancarlo Giorgetti del gruppo della Lega che ha ora la possibilità
di un faccia a faccia con Mirta Merlino, che ringrazio come tutti gli altri
per aver voluto dedicare un po’ del suo tempo a questo workshop.
MYRTA MERLINO, La 7
Ho letto con attenzione l’VIII Rapporto sull’economia italiana e l’ho
trovato un documento interessantissimo non solo perché è pieno di dati,
di analisi, ma perché è un documento originale. A me arrivano tra le
mani centinaia di rapporti, studi, relazioni, dai quali vengono fuori tante
cose. Ma questa idea del confronto è una idea iperinteressante perché
evoca il famoso giochino “trova le differenze”, che secondo me è molto
utile per capire quello che è capitato in questi ultimi anni in Italia.
Dopo il nostro faccia a faccia con Giancarlo Giorgetti, segue
l’intervento di chiusura di Fabrizio Saccomanni che ha avuto una
esperienza di governo nel governo Letta, però credo che sia entrato in
Banca d’Italia negli anni sessanta, quando io non ero nata e anche lui
aveva i calzoni corti, quindi l’economia italiana la conosce come le sue
tasche.
Partirei subito dal tema del debito pubblico perché è la cosa su cui c’è
un’analisi molto interessante, i numeri sono impietosi. Cito giusto
l’incipit di questo Rapporto: 1 milione di euro nel 1861, 100 milioni nel
347
1940, 10 miliardi nel 1968 per arrivare ai 2000 miliardi del 2013, duecento
volte di più rispetto al 1968 stesso. Un Paese con questo debito pubblico
che prospettive ha? Noi sappiamo bene Giorgetti che voi della Lega
avete fatto la campagna elettorale alle europee tutta con un unico
obiettivo preciso, cosa che vi ha peraltro premiato, perché mentre della
campagna elettorale di gran parte del centrodestra devo dire che
nessuno di noi ha capito bene cosa volevano, con voi si è capito bene che
l’idea era: “fuori dall’euro”.
Ora io mi chiedo: con questo fardello gigante sulle spalle, con tanti
investitori che ogni volta che i nostri titoli del debito pubblico vengono
emessi sul mercato devono sottoscriverli, insomma questa uscita
dall’euro è una giusta provocazione per dire che il Paese è allo stremo o
è qualcosa di più, perché come si fa con una situazione così a dire basta
euro?
GIANCARLO GIORGETTI, Lega Nord
La provocazione di uscire dall’euro vorrei collegarla subito al discorso
del debito pubblico.
Penso che l’euro sia nato con una serie di motivazioni di carattere
politico e una serie di difetti di carattere economico.
La prima tra tutti è quella di un cambio sostanzialmente non
compatibile con la realtà dell’economia italiana. Possiamo discutere sulle
aree ottimali diverse che ci sono anche in Italia rispetto a quel tipo di
cambio.
Nell’analisi nelle proposte fatte nel Rapporto di Economia Reale, c’è
poi una terza parte molto interessante: la stima dell’impatto
sull’economia che si avrebbe se il cambio euro-dollaro andasse alla
parità, cioé 1 a 1. Credo che questa sia forse la soluzione migliore e di
maggiore impatto rispetto alle altre proposte di intervento.
Ma come si collega il cambio alla questione del debito? Credo che sia
oggettivamente utile ma illusorio, per quanto riguarda il debito, cercare
di affrontare la montagna dello stesso debito con una serie di avanzi
primari derivanti da una politica fiscale di austerità. Utile, questa
politica di austerità, nella misura in cui influenza e condiziona le
aspettative. Non utile, alla fine, qualora comprime le possibilità di
sviluppo del Pil perché solo con una crescita economica sostenuta e
sostenibile si può, in qualche modo, fronteggiare la massa del debito. La
massa del debito è rilevante soprattutto nella misura in cui l’economia
reale non è in grado di sostenerlo.
Ci sono altri paesi in giro per il mondo che hanno un rapporto debito
pubblico/Pil più elevato del nostro ma possono essere in grado di
348
ridurlo anche attraverso una sostenuta crescita. Per noi il problema è che
non cresciamo più. E qui arriviamo al punto di collegamento perché non
cresciamo più in termini reali, ma non cresciamo più neanche in termini
nominali.
È chiaro che la Banca Centrale Europea nasce sulla impostazione della
Bundesbank che aveva, ha sempre avuto e continua ad avere una precisa
linea di condotta e di guida che fa riferimento a un tasso di inflazione
che non deve disallinearsi verso l’alto rispetto al 2%.
Ora siamo in una situazione ben diversa con una crescita zero o
sottozero ed una inflazione allo 0,3%, ma in realtà la politica che si sta
portando avanti in termini monetari è sempre stata molto molto
prudente. E così è stato scritto il Trattato. Perché allora il trattato è stato
ispirato dalla filosofia della Bundesbank.
Ora, tutti applaudono (e anch’io applaudo) il comportamento di
Mario Draghi, ma se vogliamo dircela tutta Mario Draghi lavora al
limite e ha lavorato al limite rispetto a quelli che erano i dettati e i limiti
stabiliti dal trattato.
Se tutti invocano una Banca Centrale Europea all’americana, alla
Federal Reserve, bisogna avere il coraggio di cambiare il trattato. Questa
stessa cosa l’ho detta due anni fa in un convegno alla Camera dei
Deputati. Mi hanno guardato tutti come fossi un marziano perché allora
non si poteva toccare l’impostazione monetarista di stampo tedesco.
Però oggi questa è la realtà. Allora sembrava di infrangere un tabù, ma
questo tabù qualcuno dovrà pure infrangerlo.
Possiamo anche dire a Mario Draghi: fai quello che vorremmo che tu
debba fare anche se il trattato non te lo permette. Adesso si dice che
anche la deflazione va contro la stabilità monetaria e quindi la BCE
faccia pure ciò che il trattato formalmente non consentirebbe.
Il problema di fondo è che oggi, anche con una crescita modesta,
diciamo dell’1%, e con un tasso di inflazione al 2% fai un Pil nominale
del 3% che in qualche modo ti permette di aggredire quella misura di
debito.
Questo è il collegamento che vedo tra il “no euro” e il problema del
debito.
Poi il debito si affronta anche in un altro modo e cioè valorizzando
l’attivo, disinvestendo l’attivo e cercando di portarlo a copertura del
passivo. Questa è la regola di ogni bilancio di tipo privatistico aziendale,
ma vale anche per il bilancio dello Stato.
MERLINO
Ma se ho capito bene le piacciono le soluzioni delle quali parla il
349
Rapporto di Economia Reale come quella della parità euro-dollaro, che
significa evitare che l’euro sia così tanto più forte del dollaro.
GIORGETTI
Intendo dire che il tasso di cambio si forma per una serie di fattori, non è
che ci sia qualcuno che a Francoforte decide che deve andare così e va
così. Anche negli Stati Uniti agiscono probabilmente altri tipi di fattori,
sono dei flussi e degli interessi che devono essere composti.
Quello che voglio dire però è che per la prima volta e
coraggiosamente Economia Reale ha messo lì una questione rilevante:
quale sarebbe l’impatto sul Pil reale di una parità dollaro/euro 1 a 1? E lì
nel Rapporto ci sono delle stime che, come tutte le stime, possono essere
assolutamente disconfermate dalla realtà quando vengono implementate
le politiche economiche. Però questo esercizio è stato fatto. Mi fa piacere
dare atto che nel Rapporto si è usciti allo scoperto anche su questo tema,
di cui nessuno parla.
MERLINO
Ho detto prima che quella di Economia Reale è una visione originale
anche perché il secondo capitolo ha un titolo molto azzeccato “Rigore ed
austerità negli anni duemila: finanza pubblica ed economia reale, le
bugie degli annunci, la verità dei numeri” che è la cosa in cui siamo
dentro perennemente tutti noi.
Parliamo di austerità. Voi della Lega avete fatto una buona campagna
elettorale per le europee e secondo tutti avete un buon risultato rispetto
anche alla crisi in cui la Lega si trovava prima di queste europee. Adesso
però dovete andare a Bruxelles e dovete provare a contare anche per
dire la vostra sul tema dell’austerità del quale l’Italia è stata una delle
vittime eccellenti. Come sappiamo avete avviato un confronto con
Marine Le Pen. Allora cosa pensate realisticamente di poter fare a
Bruxelles? E se Matteo Renzi, come dice, andrà a Bruxelles senza
sbattere i pugni sul tavolo ma per dire: “L’Europa così com’è per noi non
va più bene, siamo un Paese che ha delle necessità e che ha deciso di
farsi sentire”. Voi darete una mano come opposizione in Italia?
GIORGETTI
Probabilmente strumentalmente siamo stati anche utili e saremo utili. Il
350
fatto che in giro per l’Europa abbiano vinto i partiti euroscettici significa
solo che questi sono degli alleati, diciamo non dichiarati, di questo tipo
di impostazione.
Voglio pensare che chi ha fatto il Presidente del Consiglio e il
Ministro dell’Economia nei governi precedenti non siano andati in
Europa per non fare gli interessi nazionali. In realtà, sono andati a fare
gli interessi nazionali in Europa in una determinata fase storica.
Ora, per Renzi si aprono delle situazioni diverse per cui una forte
componente del Parlamento (quasi un terzo) ha posizioni euroscettiche e
quindi bisogna cercare di contenere questo euroscetticismo allargando
un po’ i cordoni della borsa. Probabilmente la stessa Merkel si ritrova un
po’ più isolata rispetto al passato. Ecco allora che, probabilmente, Renzi
qualche tipo di risultato lo potrà anche ottenere. Non ritengo però che
questo tipo di risultato possa essere né rapido, né decisivo.
In fase di ricostituzione della Commissione Europa, almeno per sei
mesi, di decisioni se ne prenderanno poche o nessuna. Si è visto anche
recentemente, quando si trattava di tirare le orecchie al governo italiano
per non avere rispettato, diciamolo onestamente, in modo rigoroso gli
impegni, non hanno avuto il coraggio di farlo perché era una
Commissione in uscita.
Pertanto abbiamo di fronte un periodo in cui si discuterà tanto sul
futuro dell’Europa, ma di decisioni se ne prenderanno assai poche da
qui alla fine dell’anno. Poi, quando ci sarà la nuova Commissione
Europea, si vedrà.
MARIO BALDASSARRI, Economia Reale
Ringrazio Giancarlo Giorgetti per essere presente a questo nostro
workshop. Ma lo ringrazio anche per un secondo motivo sul quale
vorrei un chiarimento.
Nel Rapporto lo si dice molto chiaramente: il problema non è uscire
dall’euro perché il problema vero, per l’Europa e non solo per l’Italia, è
la elevata quotazione dell’euro che è tutt’altra cosa.
Facciamo quattro conti.
Siamo entrati nell’euro con una lira a 1936,27. Dopo qualche tempo il
rapporto euro-dollaro è sceso fino a un minimo di 0,80 centesimi ed è
come se avessimo svalutato la lira fino a 2336. Poi c’è stata la follia
iniziata dalla BCE di Trichet che è stata quella di aumentare i tassi
quando la Federal Reserve li diminuiva. Si diceva che la Banca Centrale
Europea deve guardare esclusivamente che l’inflazione non superi il 2%
e quello che succede al cambio dell’euro non interessa. Ecco allora che
l’euro è schizzato in alto verso 1,5–1,6! Oggi è a 1,35. Bene, è come se noi
351
avessimo la lira a 1255. Cioè, dal punto massimo di massima
svalutazione a 2336 lire per dollaro, abbiamo rivalutato la lira a 1255. È
evidente che questo crea problemi nell’economia reale. Quindi, mi fa
piacere che Giorgetti abbia sottolineato questo punto e cioè che il
problema non è la moneta unica in quanto tale, ma come viene gestita la
stessa moneta unica.
È vero che i cambi li fanno i mercati, ma con il renminbi cinese che fa
il pegging sul dollaro con decisione politica, con la Fed americana che
giustamente ha tutti gli strumenti in mano, c’è poco da dire il mercato. Il
mercato determina il cambio date le condizioni delle politiche monetarie
delle grandi istituzioni e delle grandi aree del mondo. Quindi non
possiamo dire che il cambio ed adottare un benign neglect. Certo, il
cambio lo fa il mercato, ma date le condizioni prima ricordate e quindi
tu sei cretino se aumenti i tassi di interesse quando invece li dovresti
ridurre. Il mercato prende la lezione e fa il suo mestiere. Ed una
oscillazione da 2336 a 1255 lire nella storia di questo dopoguerra non è
mai avvenuta.
La lira sul dollaro era passata a 550 quando all’inizio degli anni ’70 si
era un pochino rivalutata e nella crisi del famoso venerdì nero, quando il
prestito Eni piombò all’improvviso sul mercato valutario nonostante la
Banca d’Italia avesse avvertito l’Eni di non procedere in quella
operazione, il fixing salì sopra le 2200 lire, ma ci rimase solo due giorni.
Dal 1950 in poi, un’oscillazione di cambio di queste dimensioni non si è
mai avuta. Quando si dice che l’euro è a 1,35 rispetto al dollaro non tutti
capiscono esattamente, ma se dico che siamo passati da 2336 lire
(quando il dollaro era a 0,8) a 1255 lire (adesso che il dollaro è a 1,35) si
capisce subito che abbiamo subito una rivalutazione della nostra moneta
ed una conseguente perdita di competitività via cambio quasi del 50%.
Detto questo, voglio proporre una controprova.
C’è un paese europeo che è nell’Unione Europea e che non è
nell’unione monetaria. Questo paese ha avuto un tasso di crescita medio
quasi doppio rispetto alla media europea. Questo paese è entrato
nell’Unione Europea dopo la caduta del Muro di Berlino, quindi con
tutte le difficoltà strutturali che aveva dietro, ma ha semplicemente
svalutato lo Zloty del 35% nei confronti dell’euro, cioè ha fatto il pegging
sul dollaro. Questo paese si chiama Polonia.
Questo per dire che il cambio è uno strumento della politica
economica. La BCE non può avere un occhio solo, deve avere due occhi.
Così come Maastricht non può avere un occhio solo, ma deve avere due
occhi.
Perché? Perché se tu fai, come è stato detto in precedenza (e riprendo
questo punto perché forse è uno spunto anche per Fabrizio Saccomanni
nel suo successivo intervento di chiusura), quando si è stabilito il 3% di
352
Maastricht, quel numero era quasi un giochetto aritmetico. Infatti,
perché il 3% di rapporto deficit-Pil e non il 2 o il 4%? Perché si diceva la
crescita in Europa era al 3%, l’inflazione era al 2% ed il Pil nominale
aumentava del 5%. Il debito pubblico era in media pari al 60% del Pil.
Pertanto, per mantenerlo costante al 60%, se fai un deficit attorno al 3%
stabilizzi il rapporto debito/Pil al 60%. Infatti, 60% moltiplicato 5% fa
esattamente 3%!
Attenzione però, c’è un’ulteriore informazione da tenere in conto.
All’epoca il bilancio medio pubblico aveva un pareggio di parte corrente
e il retro-pensiero di coloro che trattavano a Maastricht era che il 3% di
deficit fosse destinato ad investimenti, avendo come retroterra
scientifico il mio maestro Robert Solow quando propose la golden rule. In
quelle condizioni quindi tutto funzionava: perché tu avevi il limite del
3% di deficit, il deficit era destinato praticamente tutto a investimenti,
quindi era la golden rule. Ma allora, la vera regola era il pareggio di parte
corrente del bilancio, cioè evitare che il bilancio pubblico produca
risparmio pubblico negativo. Questo è quello che abbiamo messo in
evidenza nel Rapporto.
Ma se oggi la crescita è 0,1, l’inflazione, anzi la deflazione, è 0,5%, è
evidente che tutta quella impalcatura salta per aria, Lega o non Lega, Le
Pen o non Le Pen, o tutti gli antieuropeisti ed euroscettici o non.
In Europa, a mio parere, si sbaglia nel reagire per distruggere
l’infrastruttura europea e non per utilizzare l’infrastruttura europea per
attivare una politica economica e monetaria che abbia tutti i parametri
sotto controllo, cioè, come già detto, due persone con un occhio solo
ciascuna, non fanno una persona sana, come in quel film americano,
simpaticissimo, dove uno era sordo e quell’altro era cieco, si aiutavano
insieme ma non è che avessero grandi possibilità di successo.
MERLINO
Mi ricordo che Mario Baldassarri, in Senato, votò contro il fiscal compact
in Parlamento.
BALDASSARRI
Sì e contro il pareggio di bilancio in Costituzione. Ma per i motivi
opposti a quelli della Lega. Io votai contro in quanto europeista
convinto. Però ero da solo.
353
MERLINO
Voi della Lega avete votato a favore?
GIORGETTI
No, noi abbiamo votato contro il fiscal compact e a favore del pareggio di
bilancio. Fortunatamente scrivemmo l’“equilibrio di bilancio” e non
esattamente il “pareggio di bilancio”, tout court, come veniva chiesto.
Perché, ci si ricorda poco di questo dato di fatto. Nella Costituzione della
Repubblica Italiana, non nei trattati europei, non nella richiesta della
signora Merkel, non nelle richieste dei commissari europei, c’è scritto
equilibrio di bilancio a partire da una determinata data. Quindi,
chiunque va al governo in Italia deve ricordarsi che, oltre alle cose che
tratta in Europa, deve rispettare anche la Costituzione della Repubblica
Italiana che offre dei margini da usare con intelligenza per quanto
riguarda, appunto in occasione di recessioni prolungate, la possibilità di
andare al di là, ovviamente andare non in equilibrio. Quindi non ci sono
semplicemente i vincoli europei ma c’è anche il vincolo della
Costituzione italiana e di questo molto spesso nel dibattito politico
italiano ci si dimentica tranquillamente. Aggiungo, vincoli che non
riguardano soltanto lo Stato ma riguardano anche le Regioni e i Comuni,
e anche di questo in tanti si dimenticano. Votai a favore di quella riforma
costituzionale perché, da federalista convinto, ritenevo che introdurre in
Costituzione il principio che l’equilibrio di bilancio dovesse riguardare
ogni singolo Comune, ogni singola Regione fosse la riforma federalista
più importante che ci potesse essere.
MERLINO
Cioè creava un meccanismo di responsabilità.
GIORGETTI
Sì, naturalmente ci vogliono i trasferimenti perequativi e compensativi.
Qualcuno in precedenza ha ricordato il disastro che ha causato al
federalismo la riforma del Titolo V. Riprendo esattamente le parole che
Gianfelice Rocca ha usato ad una recente Assemblea Assolombarda. Ci
sono delle Regioni che hanno sfruttato bene i margini di autonomia: la
Regione Lombardia paga mediamente in 17 giorni i fornitori, il
354
problema dei pagamenti della pubblica amministrazione per la Regione
Lombardia non esiste. Se tutti avessero gli indici standard e i costi
standard della sanità della Regione Lombardia, ogni anno,
automaticamente, con gli standard qualitativi della Regione Lombardia
per quanto riguarda la sanità, che vi assicuro sono abbastanza buoni
rispetto alla media nazionale, si risparmierebbero 8 miliardi di euro
all’anno.
Il problema è portare tutte le Regioni e tutti gli enti a quegli standard,
o meglio ai parametri di eccellenza delle Regioni e dei Comuni più
virtuosi. Ora, la provocazione che facciamo noi: questo benedetto
federalismo fiscale con i costi standard, fabbisogni standard, sui cui a
questo punto abbiamo anche una mole di dati impressionante, lo
vogliamo attuare si o no? Perché questo governo dovrà pure risponderci
anche su questo punto.
Lasciamo perdere le grandi questioni di principio, le competenze, non
le competenze, parliamo soltanto in ottica aziendale dei costi dei
fabbisogni standard, si vuole fare entrare in vigore quella legge si o no?
O la si cancella? Se la si cancella però mi devono dire come
effettivamente, come diceva qualcuno prima, costringere tutti a
comprare le siringhe a 1 euro e non qualche Regione a 1 euro e
qualcun’altra a 5 euro. Qual’é lo strumento che si può utilizzare?
BALDASSARRI
Voglio dare qui una testimonianza storica. La Lega in quel momento
contribuì a scrivere la norma in Costituzione nel senso che dice
Giancarlo Giorgetti, cioè la proposta iniziale era “zero deficit” e la Lega
disse no, mettiamo “equilibrio di bilancio”.
Io però feci un emendamento più di fondo che era quello di dire che
non si può mettere solo zero deficit ma occorre inserire anche un tetto o
sulla spesa o sulle tasse. Perché se si dice semplicemente “zero deficit”,
significa che il pareggio di bilancio lo posso fare aumentando sia la
spesa che le tasse, e cioè spostando il confine Stato-cittadini e quindi
minando le basi della democrazia effettiva. Questo era il mio tema di
fondo da europeista e da liberale convinto.
Quell’emendamento fu bocciato, anche con il voto contrario della
Lega.
MERLINO
Voglio farle tre domande flash. Prima: a proposito delle bugie e degli
355
annunci, al di là dei numeri, gli 80 euro alla fine come li valutate, come
una buona mossa?
GIORGETTI
Sinceramente, quel provvedimento non è coperto. È il tentativo di dare
al motorino di avviamento una spintarella e così vedere se parte. Io non
so come potrà agire sulle aspettative di famiglie e imprese, temo però
che non si avranno gli effetti sperati e, se è l’ultima e unica misura che fa
il governo in quel senso, credo che sia un’occasione sprecata.
MERLINO
Seconda domanda flash: sulla spending review la Lega starà con il fiato
sul collo del governo?
GIORGETTI
Assolutamente sì. Prima di Cottarelli si sono cimentati tanti altri, poi
quando è arrivato al dunque perché spending review significa lacrime e
sangue e c’è da vedere dove si interviene e dove si taglia. Noi siamo per
tagliare gli sprechi, soprattutto nei Comuni e nelle Regioni viziose e non
virtuose. Se si ha il coraggio di fare questo si fa anche un’opera di
giustizia sociale.
MERLINO
Ultima domanda l’Expo. Lei è d’accordo con Maroni sul fatto che è
difficile che per il 30 aprile dell’anno venturo l’Expo possa aprire i
battenti?
GIORGETTI
Oggettivamente impossibile a quello che so io. Nel senso che in base ai
crono programmi pert è impossibile. Non credo di dire una cosa
misteriosa e cioè che il governo stava pensando a un decreto legge per
introdurre delle deroghe per accelerare i lavori e per arrivare a rispettare
i tempi. Adesso mi sembra invece che siamo nella situazione
356
completamente diversa e cioè introdurre ulteriori misure, in qualche
modo di cautela, per il fenomeno di malaffare ma che probabilmente
indurranno dei ritardi.
Ultima annotazione, siamo in una situazione per cui credo che
dirigenti, politici, chiunque abbia a che fare con una situazione di firma
in questo momento ci penserà su mille volte prima di firmare e si crea
quella situazione, che abbiamo già conosciuto, di stallo decisionale totale
indotto da un legittimo timore, una legittima paura che possa succedere
qualcosa.
MERLINO
Mi permetto di segnalare a Fabrizio Saccomanni due tre cose che sono
venute fuori nel dibattito precedente rispetto alle quali chiedo una sua
opinione.
La prima, sostenuta da Giorgetti, è che i partiti antieuro sono gli
alleati non dichiarati di chi vuol cambiare l’Europa.
La seconda è la quotazione dell’euro, che è un altro tema che
Baldassarri ha ben spiegato e su cui invece non c’è stata attenzione nel
dibattito pubblico in Italia.
Ed infine, la BCE deve avere due occhi: guardare all’inflazione ma
anche guardare al cambio della moneta ed alla crescita economica?
357
Considerazioni finali
FABRIZIO SACCOMANNI, già Ministro
dell’Economia e D.G. Banca d’Italia
Non ho intenzione di commentare nei dettagli il Rapporto di Economia
Reale, che pure ho letto e che è effettivamente molto interessante, né
voglio fare il controcanto al governo Renzi. Sono sempre stato
abbastanza riservato nei commenti pubblici quando ero Ministro ed a
maggior ragione adesso che non lo sono più.
Detto questo, evidentemente condivido gli obiettivi del Rapporto che
sintetizzerei nel modo con cui obiettivamente si sono mossi gli ultimi tre
governi, cioè cominciando dal governo Monti, al governo Letta, al
governo Renzi.
Tutti e tre hanno portato avanti tre obiettivi essenzialmente.
Il primo era quello di rilanciare la crescita, ridurre la disoccupazione,
aumentare gli investimenti e quindi, da questo punto di vista, non ci
sono grosse differenze tra loro e con quanto proposto da Economia
Reale.
Debbo anche dire però, che il primo vero obiettivo che aveva il
governo Monti era quello di fermare la crisi finanziaria. È stato un
compito arduo, ma sostanzialmente è riuscito perché la crisi si è
indubbiamente fermata. Certo, ci sono stati gli interventi della BCE,
interventi verbali per il momento, ma comunque significativi.
Noi abbiamo cercato di rimettere in moto la crescita soprattutto
perché, quando abbiamo preso il governo, l’economia si contraeva al
tasso del 2% a trimestre (primo trimestre -2,4, secondo trimestre -2). Nel
terzo trimestre, con le misure che abbiamo preso, siamo andati a zero ed
il quarto trimestre è stato leggermente positivo. Purtroppo poi, il primo
trimestre di quest’anno è stato nuovamente leggermente negativo, ma su
questo poi mi soffermerò un momento.
Sia Monti che noi e ancora a maggior ragione Renzi, abbiamo tutti
messo l’enfasi sulla necessità di riaprire il capitolo delle riforme
strutturali, che per qualche ragione era rimasto abbastanza dormiente
negli anni precedenti in cui si tendeva a proiettare l’idea che l’Italia non
avesse sostanzialmente grossi problemi.
Ora, le proposte che vengono fatte nel Rapporto di Economia Reale
secondo me sono tutte condivisibili perché vanno nella direzione che
358
avevamo già indicato. Si propongono tagli alle spese e ai trasferimenti
pubblici, si propongono maggiori investimenti, meno Irpef e meno Irap,
riduzione del debito della pubblica amministrazione, cosa anche questa
che era stata iniziata sul piano normativo da Monti e noi l’abbiamo
portata in Parlamento e l’abbiamo poi attuata ad un tasso che nel
semestre in cui l’abbiamo attuata è stato di oltre 22 miliardi di euro che
non è stata certamente una cifra indifferente, sono quasi più di un punto
di Pil nel giro di sei mesi. Ancora, la proposta di privatizzazioni. Anche
questa è una cosa che era certamente nei nostri programmi, abbiamo
portato i documenti autorizzativi al Consiglio dei Ministri, abbiamo fatto
tutto il lavoro preparatorio per la privatizzazione delle Poste e anche di
Enav, poi di alcune società come la Fincantieri e la Sace, che sono di
proprietà della Cassa Depositi e Prestiti. E poi c’è la proposta che non è
una proposta ma sostanzialmente auspica di deprezzare il cambio
dell’euro fino a portarlo alla parità con il dollaro. È certo che l’euro sia
troppo forte e quindi occorre correggere la quotazione dell’euro e non
fare uscire l’Italia dall’euro che sarebbe una vera e propria catastrofe.
Adesso vorrei fare alcune osservazioni di carattere generale.
Visto che c’è stata questa continuità nell’azione tra Monti, Letta e
Renzi sugli obiettivi, che cosa è che non ha funzionato sostanzialmente?
Secondo me la prima causa è l’incertezza politica italiana. Dobbiamo
infatti realizzare questo fatto che Monti ha governato per tredici mesi,
dal novembre del 2011 al dicembre 2012. Poi c’è stato poi un vuoto di
quattro mesi fino a quando noi abbiamo preso il governo alla fine di
aprile del 2013. Il governo Letta è durato dieci mesi, dopodiché c’è stato
probabilmente una fase di apprendimento da parte del nuovo team e,
quindi, la politica nuova del governo sta cominciando a venire fuori
adesso, quindi sono trascorsi altri due-tre mesi dal febbraio 2014.
Ora, bisogna che in Italia la gente capisca una cosa fondamentale, che
l’incertezza politica ha un effetto sul funzionamento del sistema
economico. Quando mi hanno detto “Ma come ex Ministro, non ha visto
che il Pil è diminuito nel 2014 nel primo trimestre?” Allora io ho detto “Il
primo trimestre si compone di gennaio, di febbraio e di marzo. A
gennaio il governo è di fatto entrato in crisi, a febbraio ha smesso di
governare, a marzo è entrato in funzione un nuovo governo il quale ha
cominciato a chiarire un pochettino le sue linee. Chi volete che investa,
chi volete che consumi, chi volete che presti dei soldi alle imprese in una
situazione di questo genere?”. E se volete, il quarto trimestre del 2013 è
stato anch’esso un trimestre di incertezza politica, perché il governo
Letta ha avuto la fiducia del Parlamento il 2 di ottobre, con la
maggioranza più ristretta perché era uscita la componente che adesso si
chiama di Forza Italia. Noi speravamo e io avevo ostentatamente messo
nella legge di stabilità un obiettivo di crescita di almeno l’1%. Quella non
359
era una stima, perché la stima la so fare pure io prendendo le previsioni
di consenso. Io ho detto invece che stavamo facendo delle riforme,
stavamo facendo le privatizzazioni, stavamo facendo il rientro dei
capitali, stavamo facendo la spending review, stavamo ripagando
acceleratamente i debiti delle pubbliche amministrazione ecc., quindi era
realistico porsi un obiettivo di crescita e non fare una semplice
previsione.
MERLINO
Quindi la stabilità è un valore di per sé checché se ne dica.
SACCOMANNI
Certamente sì. La Polonia che citava prima il professor Baldassarri è un
paese che da otto anni ha lo stesso governo. Sì, avranno anche svalutato
il cambio, ma è un paese che spende il 98% dei fondi strutturali
comunitari entro i termini previsti. Noi abbiamo ancora da spendere 20
miliardi di euro del bilancio comunitario che è scaduto nel 2013 e
abbiamo un po’ di tempo fino al 2015, per spendere questi fondi. Però il
problema è che noi non li spendiamo perché presentiamo dei progetti
che l’Unione Europea non accetta perché sono delle fandonie. Quindi,
secondo me, questo è un fattore fondamentale, cioè le economie come
l’economia italiana, sono delle economie complesse, abbiamo 60 milioni
di cittadini, abbiamo più di 5 milioni di imprese, non si può
improvvisare una politica economica ogni cinque minuti, bisogna dare
della stabilità di approccio, di linea e portarla avanti. E quindi, secondo
me, auguri al governo attuale. Ma chiunque legge i giornali pensa “ah,
bene, però si andrà alle elezioni a settembre, forse sì, forse l’anno
prossimo”. Secondo me questo è un altro scenario assolutamente da
evitare, perché comporterà sicuramente ulteriori reazioni negative da
parte dei consumatori, degli investitori, da parte di coloro che invece di
investire in Italia investiranno in Spagna e in Portogallo e in Irlanda
perché in quei paesi c’è maggiore certezza politica.
Che cos’altro non ha funzionato?
Direi che il quadro congiunturale europeo è globale. Questo è un
tema che va approfondito. Noi continuiamo a lavorare nell’ipotesi che
abbiamo avuto una grave crisi quindi dobbiamo dare una forte risposta,
dopodiché tutto va come prima.
Personalmente, da economista, noto che ci sono stati dei cambiamenti
strutturali nel modo in cui i sistemi economici capitalistici reagiscono
360
alle crisi, insomma, la gente consuma di meno, è diventata più cauta, più
prudente, ci vorrà del tempo prima che si ritorni a livelli di crescita
diciamo pre 2007.
E del resto questo non succede solo in Italia, succede anche negli Stati
Uniti. Negli Stati Uniti c’è stata quella che si chiama una jobless recovery,
cioè una ripresa economica anche significativa (2,5–3%), però senza
creazione di nuovi posti di lavoro. Poi nel primo trimestre del 2014,
invece, il Pil americano è diminuito dell’1%.
Questo che cosa vuol dire? Che siamo in una situazione di volatilità e
di fragilità che non è solo italiana, non è solo europea, non è solo la
Merkel, ma è una situazione di un sistema economico che ormai è
globalizzato e che esce da una crisi profonda.
A parte la Cina che è un caso a sé e che peraltro ha i suoi problemi
probabilmente di eccesso di indebitamento, di eccesso di investimenti
nel settore immobiliare, di bolle che sono più o meno nascoste, ma che
comunque è una grande potenza e che quindi sicuramente riuscirà a
risolvere i suoi problemi senza arrivare ad una crisi, ma non senza creare
poi ripercussioni sul resto del mondo, gli altri grandi paesi emergenti
(India, Brasile, Russia, paesi del Sud-Est Asiatico) sono tutti nuovamente
in condizioni di avere accumulato forti disavanzi di bilancia dei
pagamenti, hanno un’inflazione elevata, incertezza politica. Si pensi alle
situazioni che ci sono in Tailandia, nella stessa Corea del Sud, in Ucraina
e cose di questo genere.
Quindi ci sono una serie di focolai di crisi che ancora una volta hanno
poi un impatto sulle scelte degli investitori e dei consumatori.
In Europa, è vero, abbiamo avuto l’austerità e abbiamo avuto meno
crescita e più disoccupazione, ma anche qui cerchiamo di capirci.
Nel giugno del 2013, il Presidente del Consiglio Letta è andato alla
riunione del Consiglio Europeo ed ha detto: “Guardate, noi abbiamo
due problemi fondamentali: uno, la crescita; due, la disoccupazione in
particolare giovanile. Abbiamo poco tempo per fare qualche cosa, per
cercare di correggere questa situazione prima di arrivare alla scadenza
elettorale europea dove, se non mostriamo di avere fatto qualche cosa di
significativo e di immediato, rischiamo di avere un effetto molto
negativo sul piano elettorale”. Ecco, questo era il quadro a giugno. A
questo punto c’erano un paio di misure sul tappeto. La prima era l’idea
di rilanciare gli investimenti a lungo termine, in particolare nei settori
delle infrastrutture, attraverso la Banca Europea degli Investimenti e
quella di cercare di utilizzare in maniera anticiclica i fondi del bilancio
comunitario, tutte cose che richiedevano delle intese politiche forti e che
dovevano essere attuate rapidamente. L’altra iniziativa era quella della
garanzia per i giovani per la disoccupazione. Entrambe queste cose sono
state sostanzialmente abbandonate nei mesi successivi per tutta una
361
serie di ragioni tecniche ecc.. La realtà è stata che in Germania c’erano le
elezioni del parlamento tedesco in settembre e quindi prima delle
elezioni non si poteva fare nulla perché il governo tedesco temeva
ripercussioni negative. Dopodiché, dopo le elezioni non si è fatto nulla
ancora fino a dicembre, perché i negoziati per formare un governo in
Germania sono durati tre mesi, quindi il governo ha firmato un patto di
coalizione il 18 dicembre del 2013 avendo la Germania votato il 22
settembre del 2013. Dopodiché siamo entrati nella fase pre-elettorale
europea. Abbiamo fatto a gennaio una riunione del governo italiano con
la Commissione Europea, presenti il Presidente del Consiglio Letta, il
Ministro degli Esteri Bonino, il ministro del lavoro Giovannini,
Zanonato ed io e per la c’era il Presidente Barroso e tutti i commissari. In
quella sede abbiamo ripetuto: “Guardate che le elezioni europee stanno
arrivando, qui non stiamo facendo niente per la crescita e per
l’occupazione”. Van Rompuy ci ha detto: “Guardate, privatamente io
non posso fare nulla perché oramai siamo alla scadenza del mandato”.
Barroso ha ripetuto la stessa cosa. Il problema quindi è che, senza che
sembri che la voglia buttare sempre in politica, anche qui abbiamo un
problema di incertezza politica che ha bloccato tutta una serie di
iniziative di carattere anticiclico che non rientrano nell’armamentario
normale degli strumenti comunitari. Cioè, la Comunità Europea non
possiede strumenti anticiclici tranne la Banca Centrale Europea, che
qualche cosa sta facendo, però lo strumento che un paese ha di usare il
bilancio, la politica fiscale, per fare una politica anticiclica, l’Europa non
ce l’ha. Allora, si dice, se non ce l’ha se lo deve dare. Questo è il
problema che ci troviamo di fronte adesso.
Allora, che cosa si può fare? Mi sembra di capire che il Rapporto del
professor Baldassarri e dei suoi collaboratori, propone sostanzialmente
di fare una legge di stabilità a settembre/ottobre, più energica di quella
che emerge dal dibattito attuale facendo quelle cose che dicevo prima.
Qui vorrei dire molto chiaramente che il problema con la legge di
stabilità è il passaggio parlamentare. Il passaggio parlamentare della
legge di stabilità significa, inevitabilmente, maggiori tasse e maggiori
spese, o se volete maggiori spese finanziate con maggiori tasse perché
qualcuno dice che una tale spesa è assolutamente una necessità, e se non
si riesce a tagliare la spesa da qualche altra parte facciamo la spesa lo
stesso aumentando l’accisa, aumentando il bollino, aumentando qualche
cosa di questo genere. Questo è l’atteggiamento che c’è nel Parlamento,
perlomeno nei dieci mesi in cui io l’ho frequentato. Onestamente non
vedo dei correttivi procedurali e istituzionali che siano in preparazione
per evitare che il passaggio parlamentare non porti necessariamente a
tentativi di sforamento, tentativi di aumentare appunto sia le tasse che le
spese.
362
Ricordo che la legge di bilancio in Italia è la legge che è più lasciata
agli emendamenti parlamentari di qualsiasi altro paese democratico con
il quale ci vogliamo confrontare. In altri paesi cioè la legge di bilancio
viene considerata come il caposaldo della politica del governo. Il
governo la presenta perché è un insieme coerente di misure, dopodiché
se il parlamento non l’approva il governo cade e la cosa finisce lì. L’idea
che il governo presenti una legge che ha una sua coerenza, che poi il
parlamento con tremila emendamenti la trasforma in un’altra cosa, è un
unicum italiano.
È quindi un problema di regolamenti parlamentari? È un problema di
Costituzione? Non voglio solo sembrare antiparlamentare. Il Parlamento
è sovrano, è il sale della democrazia, però c’è un problema di coerenza
della manovra. Non si può pretendere che una manovra concepita in un
modo e che quindi, magari sbagliando, sembrava essenziale per
raggiungere certi obiettivi, viene completamente cambiata dopodiché gli
obiettivi devono essere sempre quelli di prima.
Purtroppo non funziona così ed è opportuno che la gente lo sappia.
L’altro aspetto che secondo me è assolutamente da realizzare è una
strategia di rilancio delle politiche anticicliche a livello comunitario. Noi
ci troviamo oggi in una situazione in cui l’Unione Europea non ha
grandi strumenti, ma è bene che se li dia. Questa è una stagione di
transizione: c’è un nuovo parlamento, c’è una nuova Commissione, e
forse l’Italia ha effettivamente una chance, come ha detto Romano Prodi,
di cogliere questo momento in cui non ci sono punti di riferimento fermi
perché non c’è ancora la Commissione, il Parlamento si deve ancora
riunire, deve ancora scegliere le cariche fondamentali, e quindi è
possibile che la presidenza di turno, che forse normalmente non ha tanti
poteri, in questo momento di vacanza istituzionale di altri poteri, possa
invece effettivamente svolgere un ruolo. Ecco, questo ruolo lo deve fare
nel promuovere fortemente il rilancio degli investimenti in Europa. Ora,
il fabbisogno di investimenti nelle infrastrutture di base è oramai
considerato un dato scontato. Un illustre analista tedesco, il professor
Roland Berger, stima che ci vogliono investimenti per 1000 miliardi in
Europa, non solo nel sud ma compresa la Germania, nel campo
dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’agenda digitale, dei trasporti,
ecc.. Allora, questi 1000 miliardi sono una cifra modesta in confronto alla
massa di liquidità, di fondi di capitale che sono disponibili sul mercato
dei capitali. Questo mercato dei capitali però oggi non vede
l’opportunità o la convenienza di investire in progetti infrastrutturali di
lungo periodo perché manca, secondo me, l’incentivo, la molla che
l’investimento pubblico può fornire, o quanto meno l’indicazione
politica che l’Europa si vuole dotare per esempio di reti di elettricità
integrate, quindi possiamo scambiarci l’elettricità o il gas naturale a
363
seconda delle esigenze. Vogliamo veramente creare una rete digitale, a
livello europeo, e fornire l’innovazione tecnologica, in misura maggiore
che in passato, alle imprese.
Quando la gente parla e dice che ci vuole il Piano Marshall, ci vuole
Franklin Roosevelt, ecc., significa che, appunto, ci vuole una policy che
dica “gli investimenti europei in infrastrutture e innovazione sono
insufficienti, bisogna rilanciarli, bisogna creare la base regolamentare
perché questi investimenti vengano effettuati”. Poi secondo me il settore
privato verrà, perché sta lì per quello.
Inoltre, bisogna riaprire quello che la gente chiama il patto
intergenerazionale. Abbiamo oggi una disoccupazione giovanile molto
alta, i giovani europei oggi hanno delle prospettive future molto
peggiori di quelle che avevamo noi quando eravamo alla loro età e
vedevamo invece un futuro di crescita senza problemi e di occupazione
sempre a condizioni più vantaggiose. Quindi bisogna fare un patto,
bisogna dare più protezione ai giovani disoccupati ecc., in cambio di
maggiore flessibilità del mercato del lavoro e creare gli strumenti che si
chiamano la flexsecurity che consentano alla gente di avere protezione, di
avere un reddito garantito, di avere sussidi di disoccupazione, collegati
ad un impegno di riqualificazione, di trasformazione delle loro skills o
insomma delle loro capacità di lavoro, perché in tutto il mondo, non
soltanto in Europa o in Italia, oggi la preoccupazione è che lo sviluppo
tecnologico distrugge posti di lavoro, distrugge posti di lavoro anche nei
posti di lavoro più semplici. Ci saranno le macchine che raccoglieranno
le olive, i pomodori, meglio e a costi più bassi della stessa manodopera
di importazione che fa questi lavori oggi. Quindi attenzione perché c’è
un problema crescente di divario tra le conoscenze che i giovani hanno
quando escono dalle scuole superiori o dall’università e le conoscenze
che sono richieste dall’industria per dar loro un lavoro. Questo knowledge
gap è un problema che esiste in Germania, esiste in tutta Europa, allora
bisogna che noi lo chiudiamo. Ma non si può chiudere questo gap se non,
appunto, studiando di più e fornendo le protezioni di cui dicevo prima.
Vengo ora al punto finale, il tasso di cambio dell’euro.
Ho avuto occasione di dirlo pubblicamente anche ad una conferenza
internazionale che ho fatto: oggi il problema del tasso di cambio
dell’euro è un problema di fallimento del coordinamento internazionale.
Sono abbastanza vecchio per aver vissuto quando c’era un sistema dei
cambi che era governato dal Fondo Monetario. Quel sistema è saltato nel
1971. Ci sono stati però degli esempi di gestione attiva dei cambi fatti dai
principali paesi del G7, e oggi dovrebbero esser appunto G7 … più Cina,
Brasile, India, ecc.. L’esigenza di un coordinamento delle politiche del
cambio secondo me è fondamentale, in questo sono d’accordo con Mario
Baldassarri ed anche con l’onorevole Giancarlo Giorgetti.
364
Non è una scelta della Merkel o dei tedeschi, ma è effettivamente stata
una scelta dei mercati, ma l’euro è diventato la moneta di ultima istanza
nei confronti della quale tutti finiscono per deprezzarsi, gli americani
per un verso perché hanno le loro scelte politiche, i cinesi, ecc.. L’Europa,
obiettivamente, resta un’area importante che ha, per motivi storici,
assunto questa linea di indifferenza nei confronti del cambio, con una
eccezione, perché quando il cambio dell’euro ha fatto l’inversione di cui
il professor Baldassarri ricordava prima i numeri. Quell’inversione è
stata fatta grazie a un intervento coordinato congiunto delle Banche
Centrali del gruppo dei sette compresi gli Stati Uniti i quali erano
preoccupati delle ripercussioni che un crollo verticale dell’euro avrebbe
avuto. Eravamo agli anni iniziali e quindi c’era anche la preoccupazione
che questo esperimento, che era nato nel ’99, fallisse. A quel punto tutte
le potenze maggiori hanno detto no perché quella eventuale crisi
dell’euro sarebbe stata una crisi che potenzialmente avrebbe avuto degli
effetti destabilizzanti, ben al di là del rapporto dollaro-euro, ecc., ecc..
Da allora il mercato ha capito la lezione, ha capito che il mondo non
voleva far fallire l’euro e quindi si è adeguato.
Poi dopo, naturalmente, il mercato di per sé, preso atto di quali sono
state le scelte politiche, però ha esagerato e le ha amplificate, portando
l’euro a livelli spropositati che vanno appunto corretti con qualche altro
segnale che invece complessivamente è mancato.
Con la crisi dal 2007 in poi, come per tutte le crisi purtroppo, il
messaggio che la gente ha: ognun per se e Dio per tutti. Ed ecco allora
che a quel punto il cinese riprende a svalutare di nuovo lo yuan,
l’americano pensa agli affari suoi, ecc., ecc..
Adesso, però, è venuto il momento di riprendere in mano questo
tema nei termini che ho detto prima. Dobbiamo cercare di ricostruire,
all’interno delle sedi internazionali, un consenso sul fatto che non è
possibile che, se gli americani riducono la politica monetaria di uno 0,25,
ecc., ecc., il cambio del real brasiliano si deprezza del 20% ecc. Queste
sono, appunto, delle reazioni eccessive che vanno in qualche modo
gestite e non si può dire “ma il mercato sa meglio di lui”, perché il
mercato dei cambi oggi è diventato un mercato che ha una forte
componente speculativa che non riflette necessariamente le situazioni di
competitività relativa, ma guarda anche alle prospettive future. Bisogna
riconoscere che l’Europa, nel contesto internazionale, al suo complesso
come area dell’euro, ha una bilancia dei pagamenti in attivo, gli Stati
Uniti hanno invece un forte disavanzo, il Brasile pure, l’India pure.
Quindi la finanza pubblica europea è più sana di quella americana. Il
disavanzo ed il debito pubblico complessivo dell’area Europa è più
basso. Allora il mercato tiene conto di questi fattori e dice “bah, tra i due,
365
tutto sommato, teniamo conto e dividiamo un po’ in dollari e un po’ in
euro”. Questo tiene l’euro più su di quanto noi vorremmo.
Però diciamo le politiche che la Banca Centrale Europea ha assunto
vanno nella direzione di ridurre questa percezione di relativa stretta
monetaria maggiore in Europa rispetto agli altri paesi e soprattutto
vanno nella direzione di indirizzare la liquidità verso investimenti
produttivi, verso il settore reale, quindi questo mi pare un buon segno
verso una inversione di tendenza nella quotazione dell’euro che sia più
favorevole alla ripresa della crescita e dell’occupazione in Europa.
MERLINO
Professor Saccomanni, mi permette due mini curiosità. La prima: lei ci
ha raccontato che Enrico Letta è andato più volte in Europa a dire
guardate che abbiamo un problema, se qui non si riprende con la
crescita e con l’occupazione non si va da nessuna parte. E che però in
Europa, in maniera diversa da Barroso a Van Rompuy, hanno detto non
sappiamo bene come affrontare il problema, non abbiamo le leve per
farlo. Secondo lei, dopo queste elezioni europee, con un Parlamento
Europeo rinnovato, una Commissione rinnovata, ci sono le condizioni
per cui questo argomento venga posto con più forza e venga affrontato
seriamente?
SACCOMANNI
Secondo me sì. Tra l’altro, mi ricordo che ero ancora Ministro, fui
largamente frainteso perché dissi a uno che mi chiedeva “ma se i partiti
antieuropei saranno presenti in parlamento questo è un bene o un
male?”. Io dissi “ma, guardi, paradossalmente può essere pure un
bene…
MERLINO
Lo diceva Giorgetti, sono gli alleati non dichiarati.
SACCOMANNI
No, perché, contrariamente a quello che può essere sembrato, io sono
convinto che è bene che i partiti che sono favorevoli all’euro e all’Unione
366
Europea, cioè il partito popolare, il partito socialista, si confrontino nel
parlamento con le forze politiche che hanno un’opinione
diametralmente opposta. E devono uscire da questa situazione di
autocompiacimento per cui in realtà se va tutto bene è merito dei
governi nazionali, se le cose vanno male il problema è dell’Europa. Io
spero che le forze anti euro ingaggino un dibattito che spinga i partiti di
maggioranza a uscire da questa situazione che in fondo è una situazione
in cui poi alla fine gli egoismi nazionali o le precedenze nazionali hanno
finito per prevalere sulla visione integrata europea che era ed è sempre
stata una visione di tipo solidaristico e di tipo, appunto, comunitario.
MERLINO
Un’ultima curiosità flash. Le faccio una domanda come economista. Gli
80 euro in tasca agli italiani sono in grado di far ripartire i consumi
secondo lei?
SACCOMANNI
Questo rientra tra le domande alle quali io non rispondo.
MERLINO
Ci ho provato. Grazie.
SACCOMANNI
Grazie a Lei per la comprensione.
367
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forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla
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Scacco matto alla crisi. Tre mosse per far vincere l’Italia e l’Europa
di Mario Baldassarri
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788852057557
Panorama
Direttore responsabile: Giorgio Mulè
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
via Bianca di Savoia 12 – 20129 Milano
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati.
368
Indice
Copertina
2
L’immagine
Illibro
L’autore
2
3
4
Frontespizio
5
Scaccomattoallacrisi.Tremosseperfarvincerel’Italiae
6
l’Europa
Introduzione
7
Leprospettivedell’economiamondialeedeuropea
9
VIIIrapportosull’economiaitaliana,2014–2018.I.Le
44
analisi
Premessa
45
1.IlDebitoPubblicodall’Unitàd’Italiaadoggi:quando,
47
come,perchéabbiamofattodebiti(1861–2013)
2.BilancioPubblico:idati“storici”2000–2012(Berlusconi78
Tremonti,Prodi-PadoaSchioppa,Monti-Grilli)
3.TreDEFaconfronto:Monti-Grilli,Letta-Saccomanni,
80
Renzi-Padoan
4.Daungovernoall’altro:comefrenarel’economiarealee
costruirelacrisidiproduzioneeoccupazione,alimentandoil
122
DebitoPubblicoeinseguendofragilieprecariequilibri
finanziari
Alleoriginidelpersistentealtolivellodeldebitopubblico
132
Bibliografia
169
VIIIrapportosull’economiaitaliana,2014–2018.II.Le
174
previsioni
5.Leprevisioni“tendenziali”dell’EconomiaItaliana2014–
2018,setuttovabenerestiamoinfondoalpozzoperaltri
175
setteanni…finoal2022/23
369
6.ProposteperunaLeggediStabilitàdelgovernoRenzi:
riformeeconomicheedeffettisull’economiaitaliana,una
stradaperusciredallacrisientroil2018,cioè…cinqueanni
prima
Interventiedibattito
Analisiepropostedeglieconomisti
Analisiistituzionali
Economiaemutamentisocialiepolitici
Propostedellapolitica
Considerazionifinali
Copyright
370
189
229
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