2 Il libro C ome dare scacco matto alla crisi in tre anni? Con tre mosse: 1. Una forte politica di bilancio pubblico indicando “dove e quante” risorse prendere per poi dire anche “dove” metterle, in termini di “quanto” e “quando”. 2. Abbattimento del Debito Pubblico attraverso lo strumento del Fondo Immobiliare Italia che sia in grado di anticipare finanziariamente i tempi lunghi della alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, nonché il pagamento entro il 2015 dell’intero stock di debiti delle PA verso le imprese. 3. Verificare gli effetti che si potrebbero produrre sull’economia italiana qualora il cambio €/$ (e di conseguenza il cambio €/Y cinese) si riallineasse nei prossimi tre anni verso un rapporto 1 a 1 sul dollaro. Le recente decisioni della Banca Centrale Europea, infatti, mirano a riportare l’inflazione “almeno” al 2%, evitando una pericolosa deflazione, ed a spingere l’euro a condizioni di cambio più coerenti con i fondamentali dell’economia. 3 L’autore Mario Baldassarri si è laureato in Economia all’Università di Ancona nel 1969 ed ha poi conseguito il Dottorato di ricerca (Ph. D.) in Economics presso il Massachusetts Institute of Technology, Cambridge, USA, con relatori Robert Solow, Franco Modigliani and Paul Anthony Samuelson. È professore ordinario di Economia dal 1979, presso l’Università di Bologna fino al 1988 e, successivamente, presso l’Università di Roma “La Sapienza” dove, attualmente è professore emerito. In precedenza, come assistente ordinario e professore incaricato, ha insegnato all’Università di Torino ed all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano. È stato Viceministro dell’Economia e delle Finanze dal 2001 al 2006, senatore della Repubblica dal 2006 al 2013 e presidente della Commissione Permanente Finanze e Tesoro del Senato dal 2008 al febbraio 2013. I suoi lavori scientifici sono indirizzati verso analisi teoriche ed empiriche in tema di ruolo ed effetti del bilancio pubblico sul sistema economico sia in termini di controllo congiunturale, sia in termini di sviluppo strutturale, di crescita economica e di redistribuzione del reddito. Sì è occupato di problemi relativi alle politiche monetarie e alle politiche industriali, nonché di problemi riguardanti la struttura del mercato del lavoro e dell’occupazione. Dal 2005 è fondatore e presidente del Centro Studi Economia Reale con sede a Roma. Autore di oltre cinquanta saggi scientifici in riviste nazionali ed internazionali e di dieci Monografie scientifiche. Editor di cinquanta Monografie della Collana “Central Issues in Contemporary Economic Theory and Policy”, Palgrave/Macmillan, London e St. Martin’s Press New York. Editor di ventidue Monografie della Collana RPE - SIPI, Roma. Autore di oltre settecento articoli su diversi quotidiani e settimanali come giornalista-pubblicista iscritto all’ordine dal 1976. www.mariobaldassarri.it www.economiareale.it 4 a cura di Mario Baldassarri SCACCO MATTO ALLA CRISI Tre mosse per far vincere l’Italia e l’Europa Contributi di Ferdinando ADORNATO, Michele BAGELLA, Fabrizio BALASSONE, Mario BALDASSARRI, Alessandro BANFI, Carlo COTTARELLI, Stefano FOLLI, Giancarlo GIORGETTI, Fiorella KOSTORIS, Massimo LEONI, Roberto MAZZOTTA, Myrta MERLINO, Antonio PEDONE, Gustavo PIGA, Giuseppe ROMA, Emilio ROSSI, Fabrizio SACCOMANNI, Filippo TADDEI, Danilo TAINO, Irene TINAGLI, Salvatore TUTINO, Giuliano URBANI, Enrico VAIME 5 Scacco matto alla crisi Tre mosse per far vincere l’Italia e l’Europa Il Debito Pubblico: … dove ci porta? Le Riforme: … quali, quante? Fuori dalla crisi: … come, quando? MONDO — EUROPA ED EURO — ITALIA 6 Introduzione Roberto Mazzotta, Istituto Luigi Sturzo L’VIII Rapporto di Previsione sull’Economia Italiana (2014–2018) del Centro Studi Economia Reale ha quest’anno degli arricchimenti significativi in termini di proposte ed indicazioni precise che vengono offerte ad un più ampio confronto e dibattito, in relazione ad una fase (anche della vita civile e politica del nostro Paese) nella quale possono esserci alcune aspettative di cambiamento e di correzione nei confronti degli elementi inerziali che hanno caratterizzato un lungo periodo alle nostre spalle con gli effetti pesantemente negativi che tutti conosciamo. Nel Rapporto, infatti, c’è una prima parte che riguarda le analisi sul passato e le previsioni sul futuro sulla base di andamenti tendenzialiinerziali ed un’altra parte che riguarda delle indicazioni correttive allo scopo di ottenere prospettive migliori e più sostenibili sul piano sociale ed economico. Su questo ampio scenario di riferimento, seguono poi contributi di economisti, politologi, sociologi e giornalisti economici che possono fare di questo “libro collettivo” un importante e serio riferimento per quanti vogliano capire meglio l’Italia, il momento difficile che sta affrontando e le decisioni politiche necessarie a fare uscire il nostro paese dal troppo lungo tunnel della crisi economica, sociale ed istituzionale. La sessione ANALISI E PROPOSTE DEGLI ECONOMISTI, coordinata da Danilo Taino, contiene i contributi di Antonio Pedone, Fiorella Kostoris, Gustavo Piga e Michele Bagella. Seguono poi i contributi delle ANALISI ISTITUZIONALI di Fabrizio Balassone, Carlo Cottarelli e Salvatore Tutino, coordinati da Alessandro Banfi. Stefano Folli introduce gli interventi della sessione ECONOMIA E MUTAMENTI SOCIALI E POLITICI con interventi di Giuseppe Roma, Giuliano Urbani ed Enrico Vaime, oltre lo specifico contributo del sottoscritto. Il volume si chiude poi con le PROPOSTE DELLA POLITICA, coordinate da Massimo Leoni e Myrta Merlino, con le riflessioni di Ferdinando Adornato, Filippo Taddei, Irene Tinagli, Giancarlo Giorgetti, alle quali seguono, in chiusura del volume, le CONSIDERAZIONI FINALI di Fabrizio Saccomanni. Una riflessione che desidero fare come elemento che ritengo emerga nettamente dalle indicazioni che il Rapporto contiene e che credo possa essere questo uno dei contributi più rilevanti di questo impegno al confronto ed all’approfondimento. Da tanto tempo, quella italiana è una 7 situazione sociale stanca e, se è possibile correggerla, bisogna modificare duramente e pesantemente una litania che è andata percorrendo sempre la comunicazione all’opinione pubblica in questi anni: i nostri problemi nascono dai vincoli esterni dei trattati europei, della moneta unica, della cattiveria altrui. Credo invece che il messaggio che debba essere comunicato il più chiaramente possibile (e la serietà di un’indagine tecnicamente inappuntabile è di grande ausilio) sia questo: il nostro sistema è ammalato e rantola per eccesso di prelievo fiscale destinato a finanziare spesa pubblica che non serve. Questo è, a mio parere, il punto cruciale. I governi, le maggioranze, i cambiamenti in corso, sono impegnati nelle riforme, questo è il termine complessivo che viene utilizzato, ma bisognerebbe mettere meglio in evidenza, con impegno anche di consapevolezza collettiva, qual è la finalizzazione delle riforme che, ritengo, debba essere quella di modificare la dimensione e la struttura della spesa pubblica e quindi rimuovere la necessità di continuare ad aumentare un prelievo fiscale che ha ammazzato l’economia di questo Paese e la capacità di spesa delle famiglie e che ci porta ad un andamento tendenziale che è sempre al di sotto di quello necessario per ricostruire i nostri equilibri complessivi. Penso che questa possa essere una sintesi di comunicazione e quindi di contenuto sociale e di contenuto politico. Ragionamenti di questo genere, nell’Istituto Luigi Sturzo, hanno un rilievo di straordinaria continuità, perché rappresenta proprio il bagaglio sturziano tipico: come le istituzioni funzionano per servire e non per asservire. Ecco perché è nata la collaborazione tra il nostro Istituto ed il Centro Studi Economia Reale e questa è la ragione per cui tra noi c’è un matrimonio duraturo e permanentemente rialimentato da occasioni di dibattito, confronto e proposte come quella rappresentata, a mio parere, da questo volume. 8 Le prospettive dell’economia mondiale ed europea Emilio Rossi, Oxford Economics In questa presentazione sul quadro globale dell’economia mondiale ed europea, cerchiamo di rilevare gli aspetti che in qualche modo influiscono più direttamente sulle prospettive dell’economia italiana. Nella Fig. 1 abbiamo sintetizzato i temi più rilevanti che emergono dalle previsioni della Oxford Economics: dalla ripresa americana al miglioramento di prospettive nell’Eurozona (con purtroppo un rischio di deflazione) per poi passare alle previsioni che riguardano il Giappone, la Cina e, tra i paesi emerging markets, quelli che vengono ora chiamati “il gruppo degli inguaiati”. 9 Fig. 1 Le Prospettive dell’Economia Mondiale ed i loro riflessi sull’Economia Italiana Rafforzamento dell’attività globale Ripresa negli Stati Uniti, miglioramenti nella Eurozona con rischi di deflazione? Giappone – la “Abenomics” sta funzionando? Cina – ci potrà essere una crisi? Paesi Emergenti: un “grappolo” potrebbe farli deragliare? Come si vede dalla Fig. 2 dove le barre blu si riferiscono al periodo pre-crisi, quelle nere al periodo di crisi e le barre tratteggiate sono relative alla previsioni della Oxford Economics per gli anni futuri, non lontanissime da quelle che vanno per la maggiore tra le istituzionali internazionali e tra i principali attori finanziari. Una prima indicazione di fondo è che l’area occidentale sta uscendo da quella che era una crisi molto rilevante, con una prospettiva per i prossimi tre anni di crescita non spettacolare, ma decisamente migliore del periodo della crisi: per l’Europa si prevede una crescita attorno all’1,5–2% ed attorno al 3% per l’area Nord Americana. Un altro elemento che emerge dalle previsioni è che invece nei paesi emergenti si profila una crescita ancora sostenuta ma in riduzione rispetto al decennio passato. In un certo senso sembra profilarsi una staffetta tra paesi economie avanzate e paesi emergenti in termini di propulsione all’economia mondiale. 10 Fig. 2. Economia Americana migliora, Paesi emergenti rallentano ma mantengono una crescita sostenuta. Fonte: Oxford Economics Dal punto di vista dei rischi a livello globale ovviamente non possiamo che essere felici del fatto che stiano svanendo i principali rischi che ci hanno assillato per alcuni anni, primo fra tutti il rischio di break-up dell’euro, anche se questa prospettiva appare riposta in un cassetto e non si può escludere che non torni in campo nei prossimi anni. Sta di fatto però che le politiche monetarie è fiscali che sono state adottate hanno ridotto significativamente questo rischio e, in questo momento, una prospettiva del genere appare non plausibile. L’altro grande rischio riguardava l’area Stati Uniti-Nord America ed era costituita dal cosiddetto fiscal cliff. Questa pericolosa prospettiva, che ci aveva assillato fino a dicembre del 2013, appare ora avviata a soluzione. Pertanto, i due maggiori rischi per l’economia mondiale emersi negli ultimi anni sono ora sicuramente in forte riduzione. Ciò che appare oggi però è un aumento del rischio-medio, che la Oxford Economics misura basandosi su una serie di scenari alternativi che vengono pesati con una assegnazione di probabilità di realizzarsi. 11 Ebbene, negli ultimi mesi, tra febbraio a maggio di quest’anno, questo indice di rischio-medio è aumentato in relazione a nuovi elementi che si sono presentati: il rischio di deflazione in Europa, il rischio di collasso del sistema cinese dovuto a una crisi potenziale nel settore bancario, alcune crisi geopolitiche importanti come quella tra Russia e Ucraina, il colpo di stato in Tailandia che potrebbe far partire anche un qualche problema in tutta l’area, e anche la recrudescenza di quelli che sono i rischi dei rapporti tra Cina e Giappone in relazione alle isole che sono in discussione tra le due aree. In sintesi, i grandi rischi degli anni passati sembrano, per ora, dissolti ma sono aumentati negli ultimi mesi i cosiddetti rischi-medi, come ora indicato, vedi Fig. 3. 12 Fig. 3. Rischi Maggiori si dissolvono, ma Rischi Medi aumentano. Fonte: Oxford Economics Riferendoci ora ai dati riportati nella Fig. 4, si può essere oggi meno pessimisti rispetto ad un anno fa. La produzione manifatturiera negli Stati Uniti ed in Giappone è tornata a livelli pre-crisi, mentre nell’Eurozona e nel Regno Unito va meno bene ma appare evidente comunque una tendenza al recupero nell’area del manifatturiero anche in Eurozona e Regno Unito. La previsione attuale è quindi di un tasso di crescita al 4,5% ripeto per l’output manifatturiero del 2014, con un rallentamento successivo legato soprattutto all’andamento dei tassi di cambio. 13 Fig. 4. Produzione manifatturiera: andamenti recenti più ottimistici. Fonte: Oxford Economics/Haver Analytics Potrebbe anche essere una correlazione “spuria”, va però notato che politiche monetarie espansive ed aggressive hanno accompagnato questo andamento del settore manifatturiero negli Stati Uniti e ed in Giappone, mentre al contrario negli ultimi trimestri la politica monetaria della Banca Centrale Europea è stata relativamente restrittiva, vedi Fig. 5. 14 Fig. 5. Politica Monetaria Aggressiva in USA e Giappone. Fonte: IMF, World Economic Outlook, April 2014 Rimanendo sugli Stati Uniti, si evidenzia che il rapporto tra debito e redditi, il deleverage (la linea blu) è stato molto consistente. Considerazione analoghe possono essere fatte fare anche per ciò che riguarda le imprese non finanziarie e finanziarie ed anche qui tutto questo è stato molto indotto dalle politiche monetarie e fiscali espansive. L’indebitamento bancario è ai minimi dal 2001 ed il debito delle imprese è sceso all’80% del Pil e questa forte capacità di deleveraging ha sicuramente sostenuto i consumi. 15 Fig. 6. Il rapido Delevaraging degli USA sostiene i Consumi Source: IMF, World Economic Outlook, April 2014 Circa l’andamento della competitività, la Fig. 7 evidenzia che dal 2000 il costo di lavoro per unità di prodotto negli Stati Uniti è rimasto fondamentalmente costante, recuperando quindi competitività in maniera significativa, anche nei confronti dei brics e della stessa Germania (che è la più virtuosa in Europa) e questo ha consentito agli Stati Uniti di presentarsi con una posizione di forza che emerge in tutta evidenza, nonostante i meno positivi dati del primo trimestre di quest’anno legati all’andamento atmosferico, nel secondo trimestre che è stato decisamente positivo con una crescita media per il 2014 intorno al 2–2,5% e con una previsione intorno al 3% per il 2015 e 2016, vedi Fig. 8. 16 Fig. 7. Il Manifatturiero degli USA molto competitivo. Source: Haver Analytics 17 Fig. 8. Crescita USA al 3% dal 2015. Source: Oxford Economics A ben vedere, c’è stato molto pragmatismo da parte delle autorità americane e si potrebbe forse parlare di una vera e propria politica industriale negli Stati Uniti come in campo energetico e nel settore automobilistico. Al contrario, in Europa c’è molta “analisi” e poco concreto “pragmatismo”. Per il Giappone, occorre innanzitutto chiedersi quanto funzioni la Abenomics. Come noto, questa politica (avviata più di un anno fa) è basata su tre pilastri: politica monetaria espansiva, politica fiscale espansiva e una terza freccia, detta delle riforme strutturali. Questo mix ha come obiettivo quello di sconfiggere la deflazione, con un obiettivo esplicito della politica monetaria in un consumer price index intorno al 2%, e far ripartire in qualche modo l’economia. Il primo risultato ottenuto, di fatto, è stato quello della svalutazione dello yen. E questo non è sorprendente perché tutte le politiche monetarie espansive hanno, come obiettivo più o meno dichiarato, quello di svalutare la moneta. Il problema però è che non si possono svalutare “tutte” le monete e se più o meno tutti puntano a svalutare la propria moneta allora il futuro che si prospetta è quello di una guerra commerciale, anche se non nei termini 18 che magari conosciamo storicamente, ma certamente l’avvio di una mancanza di collaborazione e di cooperazione si riflette anche su come si comportano gli istituti internazionali preposti all’avvio e all’ottenimento della cooperazione tra i paesi. In Giappone vediamo comunque che la Abenomics, con il primo risultato ottenuto della svalutazione dello yen, ha comunque consentito una ripresa dell’inflazione. Per di più, dallo scorso mese di aprile, c’è stato un aumento dell’imposta sui consumi dal 5 all’8% e questo ha dato un’ulteriore spinta ai prezzi al consumo, anche se questa spinta sui prezzi era in realtà già cominciata prima. Pertanto la Abenomics, con la cosiddetta prima freccia rappresentata da una politica monetaria espansiva, sta dando dei risultati vedi Fig. 9. In realtà questa consumption tax, ha anche creato i presupposti per una crescita maggiore dei consumi, in quanto gli stessi sono stati anticipati in previsione dell’aumento dell’imposta. 19 Fig. 9. Giappone: la Abenomics aumenta l’Inflazione. Source: Ministry of Internal Affairs and Communications/Haver Analytics Gli ultimissimi dati sono stati rivisti anche rispetto a quelli presentati nella Fig. 10, in cui il Pil del Giappone nel primo trimestre è stato rivisto su base annua dal 5,9 al 6,7% con il grosso della revisione dovuta agli investimenti in capitale. Evidentemente dietro questa ripresa giapponese non c’è soltanto un primo trimestre spinto dai consumi anticipati a causa dell’aumento dell’imposta, ma c’è anche una ripresa effettiva degli investimenti. 20 Fig. 10. Giappone: l’Imposta sui Consumi aumenta l’Inflazione. Source: Cabinet Office of Japan / Haver Analytics Quest’ultimo è un elemento da non sottovalutare, tanto più perché la domanda interna, soprattutto quella delle famiglie, avrebbe bisogno di più supporto, in quanto vediamo che sostanzialmente siamo ancora su salari reali negativi e, nonostante la disoccupazione sia in calo di un paio di punti negli ultimi due-tre anni e nonostante i bassi tassi di interesse, sono peggiorate le aspettative delle imprese. La domanda interna Giapponese, quindi, è a un bivio: da un lato ci sono dei risultati incoraggianti, dall’altro le aspettative delle imprese non sono ancora veramente volte al positivo e la domanda delle famiglie resta vincolata da salari reali negativi. È evidente che lo yen debole da solo non basta a risollevare l’economia giapponese, anche perché la competitività di prezzo ormai non ha la stessa importanza sul mercato internazionale che poteva avere quindici anni fa. Il Giappone non può pertanto essere considerato fuori dal problema della deflazione in senso stretto. Certamente sta migliorando, ci sono dei segnali positivi, ma, in assenza di riforme strutturali che sarebbero la terza freccia, non appaiono possibili performance notevolmente positive del Giappone, vedi Figg. 11 e 12. 21 Fig. 11. … ma occorre maggiore sostegno alla Domanda Interna… Source: Ministry of Health, Labour and Welfare / Haver Analytics 22 Fig. 12. … la Crescita ha difficoltà a superare l’1%… Source: Oxford Economics Quindi abbiamo Stati Uniti molto forti, Giappone in miglioramento ma non ancora fuori veramente da quello che è il loro andamento di fondo che è quello vincolato al mercato di beni e servizi molto protetti. Di conseguenza ci aspettiamo che il quantitative easing della Banca centrale giapponese sarà esteso anche al 2015 nonostante fosse già di una dimensione doppia di quella fatta negli Stati Uniti relativamente al Pil rispettivo. 23 Fig. 13. Le Politiche espansive si estendono al 2015. Source: Oxford Economics/Haver Analytics Per la Cina abbiamo una previsione di crescita in decelerazione rispetto a quella degli anni passati ed è stimata attorno a un 7%. Va ricordato che il tasso di crescita minimo per la Cina, al fine di evitare problemi interni di tipo sociale, va dal 5 al 6%. Pertanto, il 7% previsto ora è ancora in un’area in cui la crescita appare sostenibile dal punto di vista sociale. Potrebbe però essere una soglia-limite. Oltre al rallentamento complessivo della crescita, appare inoltre necessario valutare la necessità di un processo di ribilanciamento tra investimenti e consumi. Gli investimenti erano arrivati ad essere oltre il 45% del Pil cinese, quota chiaramente insostenibile nel lungo termine. Il Terzo Plenum del Partito Comunista Cinese ha preso atto di questo problema ed ha deliberato che gli investimenti dovranno ridursi e invece la domanda interna dovuta ai consumi dovrà crescere in maniera importante, Fig. 14. 24 Fig. 14. Cina – le previsioni indicano un riequilibrio “morbido”. Source: Oxford Economics Il processo è già avviato, ma chiaramente ci sono delle difficoltà, perché se è “facile” ridurre l’investimento, non è altrettanto ovvio che si possa spingere “automaticamente” sui consumi. Ecco perché, oltre al problema del rallentamento della crescita, in Cina appare anche la difficoltà, evidente, di spingere su i consumi. Tutto questo inoltre si esprime in un contesto di un debito delle imprese non finanziarie molto elevato ed il processo di deleveraging risulta molto lento. Per dare una dimensione di quanto sia preoccupante questa condizione, basta confrontare i dati con quelli dell’Eurozona per notare che in Cina il debito è di circa quaranta punti percentuali di Pil più alto. L’Eurozona a sua volta non ha fatto deleveraging negli ultimi anni, quindi la situazione cinese in termini di debito delle imprese può comportare problemi importanti sul settore bancario e finanziario in generale, Fig. 15. 25 Fig. 15. L’Indebitamento delle imprese peggiora. Source: Oxford Economics / Haver Analytics BIS Negli ultimi due anni c’è stata anche una forte crescita dello shadow banking. Su questo aspetto le autorità cinesi sembrano ben coscienti ed hanno già agito nel senso di una forte riduzione del fenomeno. Ma la domanda che emerge è come si possa fare il deleveraging delle imprese e allo stesso tempo ridurre lo shadow banking senza soffocare gli investimenti che per altro sono già in riduzione per scelta “politica”. (vedi Figg. 16 e 17) 26 Fig. 16. Come il Delevaraging e lo Shadow Banking… Source: Oxford Economics / Haver Analytics 27 Fig. 17. … senza bloccare gli Investimenti? Source: China National Bureau of Statistic / Haver Analytics In un qualche modo, potrebbe pertanto emergere un non trascurabile rischio di collasso improvviso di questo fragile equilibrio. È un percorso di equilibrio molto stretto e quindi c’è un rischio di coinvolgimento di tutto il sistema economico cinese. Con il modello cinese della Oxford Economics, abbiamo fatto una simulazione per valutare uno scenario alternativo basato sull’ipotesi di una crisi economica che parta dal settore bancario e passi per l’intera economia cinese. Nel caso dovesse veramente andare in crisi il sistema bancario cinese, l’impatto sarebbe potenzialmente devastante: il tasso di crescita potrebbe andare sotto al 2% e si aprirebbero prospettive dirompenti sul piano sociale interno. Il nostro modello non è in grado di valutare le conseguenze di una crisi sociale cinese che, però a quel punto, potrebbe innescare una situazione che coinvolgerebbe l’intera economia mondiale. E questo coinvolgerebbe tutte le economie avanzate dell’occidente ma soprattutto i paesi emergenti. 28 Fig. 18. I Paesi Emergenti sono influenzati dal rallentamento Cinese e dall’assottigliamento USA. Source: Haver Analytics 29 Fig. 19. … ed anche da Prezzi delle Materie Prime. Source: Haver Analytics I Paesi emergenti hanno già subito l’anno scorso un deflusso di capitali, una flight to quality, di tutto il sistema finanziario globale che ha portato in alto i rendimenti dei titoli in tutti i paesi considerati deboli e fragili. Infatti, nell’estate scorsa in seguito all’annuncio del presidente della Fed Bernanke dell’avvio del tapering, per alcuni di essi si è subito determinata una situazione difficile e, fino a che non è stato avviato il tapering vero e proprio secondo le tempistiche annunciate, non c’è stato il rientro dei rendimenti, il reversal dei tassi di interesse, a condizioni più normali (Figg. 20 e 21). 30 Fig. 20. … ci sono ancora punti di vulnerabilità. Source: Oxford Economics / Haver Analytics BIS Bilancio partite correnti: 31 Fig. 21. … e le Riforme restano essenziali per molti Paesi Emergenti. Source: World Bank. Doing Business Index 2013. Facilità di fare business: Ecco allora che, oltre alla eventuale crisi cinese, si profila il rischio che il tapering americano, magari alimentato da motivi interni come un tasso di disoccupazione negli Stati Uniti in riduzione più accelerata del previsto, possa essere a sua volta accelerato e questo indurrebbe un nuovo indebolimento delle posizioni finanziarie dei paesi emergenti, rafforzato dal fatto che i prezzi delle merci sulle quali i mercati emergenti contano molto sono piuttosto deboli negli ultimi anni. Questo rischio conseguente a un eventuale flight to quality o a una crisi cinesi, appare più evidente per quei paesi emergenti che nel 2013 hanno avuto una posizione di conto corrente della loro bilancia dei pagamenti assolutamente deteriorata rispetto a quella che avevano otto-dieci anni fa. Il deterioramento delle bilance dei pagamenti è fenomeno comune per tutti i paesi emergenti ma, evidentemente, quelli cosiddetti fragili sono Indonesia, India, Brasile, Sud Africa, Turchia, cioè quelli che hanno subito maggiormente il problema della flight to quality. Questa loro vulnerabilità è basata anche sul fatto che le loro economie presentano debolezze strutturali ed intrinseche, come messo in rilievo dal survey 32 della Banca Mondiale del ease of doing business dove vediamo che i Brics sono in posizioni decisamente arretrate (la Russia è al 92esimo, l’India è al 134esimo e gli altri stanno tra il 90esimo e il 134esimo). Ciò detto però, una crisi che coinvolga tutta l’area dei paesi emergenti è improbabile perché, anche escludendo la Cina, la media del loro conto corrente di bilancia dei pagamenti è positiva rispetto al loro Pil. Quindi, anche se è vero che ci sono alcuni paesi fragili che potrebbero essere soggetti ai rischi crisi prima indicati, nel complesso non si dovrebbe innescare un effetto epidemico sul resto degli altri e sul resto del mondo, Fig. 22. 33 Fig. 22. … ma una estensione della crisi è improbabile. Source: Oxford Economics. Mercati Emergenti, Bilancio partite correnti: Nella Zona Euro la ripresa si sta gradualmente manifestando. Sia gli ordini che il tasso di utilizzo della capacità produttiva in qualche modo danno dei segnali incoraggianti, anche se paesi come l’Italia e la Francia sul piano del livello di utilizzo della capacità produttiva sono decisamente al di sotto dei livelli che avevano rispettivamente prima della crisi, quindi restano con un’output gap importante e con rischi di prezzi in discesa, Figg. 23 e 24. 34 Fig. 23. La ripresa dell’Area Euro si rafforza gradualmente. Source: Markit. Indice PMI: 35 Fig. 24. Gli Ordini e l’Utilizzo della Capacità indicano una svolta… Source: Haver Analytics. A sinistra: Eurozona, nuovi ordini manifatturiero. A destra: Europa, capacità produttiva Rimane però evidente il problema fondamentale dell’Eurozona che è il livello di disoccupazione. Soltanto l’India, tra i paesi di una certa dimensione, è al di sopra della media Eurozona che è intorno all’11%, con l’eccezione della Germania, mentre quella mondiale è intorno al 7%, Fig. 25. 36 Fig. 25. … ma la Disoccupazione resta un problema dell’Area Euro. Source: Oxford Economics. Tasso disoccupazione: Nonostante i segnali positivi sul manifatturiero, infatti, l’accesso al credito è ancora in forte riduzione (e non è un problema soltanto italiano o spagnolo, ma riguarda anche la Germania) e addirittura il tasso di variazione annuo dell’accesso al credito è negativo da parecchi trimestri, mentre invece negli Stati Uniti è decisamente in crescita, Fig. 26. 37 Fig. 26. AREA EURO: accesso al credito ancora in riduzione. Source: IMF, World Economic Outlook, April 2014. Crescita credito aziende non finanziarie e famiglie: Per ottenere un miglioramento di questa situazione (e quindi un riavvio del credito), sarà importante vedere un aggiustamento nei bilanci delle banche anche perché senza questo è difficile riavviare il credito alle imprese. Restano inoltre problemi di competitività in Europa. Il costo del lavoro per unità di prodotto non è l’unico indicatore che determina la competitività, però vediamo che dal 2005 è stato in crescita abbastanza sostenuta quando dal 2000 in poi negli Stati Uniti e nei Brics è rimasto pressoché costante, Fig. 27. 38 Fig. 27. AREA EURO: il costo del lavoro frena la competitività. Source: Havor Analytics. Eurozona: costo del lavoro per unità di prodotto L’unico paese che ha veramente fatto un forte aggiustamento in termini di Clup è la Spagna, però, come sappiamo, a scapito di un tasso di disoccupazione oltre il 25%. È un processo complicato, ma non possiamo non considerare questi numeri che chiaramente mettono l’impresa europea in una posizione di svantaggio rispetto ai principali competitori del mondo. Chiudiamo questa nostra presentazione con un ultimo rischio che si sta profilando in Europa, quello della deflazione. Nella nostra previsione di base l’inflazione in Europa rimane bassa intorno all’1–1,5% e quindi in linea con quello che ci ha confermato il Presidente della Bce Mario Draghi. Vediamo però una lentezza nella tempistica di intervento della stessa Banca Centrale Europea. Le decisioni prese sono giuste, ma, a fronte di un euro troppo forte, una domanda interna debole, un’output gap, il risultato non può che essere un rischio di deflazione, a fronte anche delle difficoltà di accesso al credito. Ad oggi abbiamo un tasso di inflazione dello 0,7% per il 2014 e, 39 se questa è la previsione, significa che da adesso in poi addirittura scenderà ancora. Il problema vero della deflazione, però, è che va anticipata. Una volta che ci si trova dentro, si rischia di fare come il Giappone che è rimasto per vent’anni a combattere questo mostro che si automangia l’economia. Quindi la tempistica di quello che ha fatto finora la Banca Centrale Europea ci sembra non adeguata ed anche le misure prese a giugno (che sono sicuramente giuste) di fatto partiranno da settembre e la parte degli interventi destinata al miglioramento dell’accesso al credito è basata sull’accesso al credito risultante al 30 aprile 2014 e questo significa che, proporzionalmente, alle banche tedesche verrà data più possibilità di accesso al credito rispetto a quelle dei paesi periferici. Quella della Bce, pertanto, è una politica monetaria giusta, ma non tiene conto dei problemi di velocità nel tempo e di distribuzione tra le varie aree degli interventi, Fig. 28. 40 Fig. 28. Bassa Inflazione vicina … alla Deflazione. Source: Oxford Economics. Eurozona: inflazione Presentiamo pertanto, nella Fig. 29, le nostre Previsioni di Base. In sintesi, si può dire che l’attività globale si sta rinforzando, le economie avanzate stanno migliorando, mentre appare una staffetta tra paesi emergenti e paesi avanzati in termini di crescita, con rischi che sono ancora prevalenti sul lato negativo. Il Giappone con la Abenomics da qualche segno di miglioramento. La Cina, che sta riducendo i rischi che abbiamo indicato, potrebbe però, con una crisi bancaria, far detonare un problema a livello globale, Figg. 30 e 31. 41 Fig. 29 Conclusioni Attività Globale si rafforza: Economia avanzate migliorano Paesi Emergenti affetti da uscita di capitali Rottura dell’Euro e baratro fiscale sono fuori agenda, ma i rischi sono ancora rivolti al peggioramento La ripresa in USA ed Europa migliora, ma con rischi di deflazione Giappone – La “Abenomics” fa progressi, ma manca la Terza Freccia Cina – La crescita rallenta, le riforme programmate possono evitare una crisi severa, ma restano rischi di crollo degli investimenti e di crisi bancaria 42 Fig. 30. PREVISIONI CRESCITA PIL. Source: Oxford Economics 2012 2013 2014 2015 2016 US 2.8 1.9 2.4 3.3 3.2 Canada 1.7 2.0 2.2 2.6 2.7 Japan 1.4 1.6 1.1 1.1 0.8 Eurozone -0.6 -0.4 1.1 1.5 1.5 of which: — — — — — — Germany 0.9 0.5 2.0 1.8 1.5 — France 0.0 0.3 0.7 1.1 1.3 — Italy -2.4 -1.8 0.3 1.2 1.3 — Spain -1.6 -1.2 1.1 1.6 1.8 UK 0.3 1.7 3.0 2.5 2.6 Russia 3.4 1.4 0.3 1.4 3.1 China 7.7 7.7 7.1 6.9 7.1 India 4.8 4.6 4.7 4.9 6.1 Other Asia 2.7 3.6 4.4 5.1 5.0 Mexico 3.7 1.3 3.4 3.8 3.9 Brazil 1.0 2.3 1.4 1.9 2.5 Other Latin America 3.7 3.2 2.6 3.0 3.7 Eastern Europe 2.1 1.6 1.9 2.1 3.3 MENA 4.2 3.7 4.2 4.6 4.8 World 2.4 2.2 2.7 3.1 3.2 World (PPP) 3.1 3.0 3.3 3.7 4.0 43 VIII rapporto sull’economia italiana, 2014–2018 Mario Baldassarri, Economia Reale I. Le analisi 44 Premessa All’inizio degli anni duemila, “austerità” e “rigore finanziario” sono stati termini profusi a piene mani per indicare le linee di politica economica che i vari governi intendevano perseguire. In aggiunta “ce lo impone l’Europa” era ed è tuttora l’apparente “vincolo esterno” al quale l’Italia dovrebbe soggiacere. La realtà dei numeri ufficiali mostra invece che non si è fatta né austerità né rigore finanziario. Al contrario si è avuto un continuo aumento della spesa pubblica corrente che in specifiche voci contiene sprechi, malversazioni e ruberie per almeno 50 miliardi di euro all’anno e che vanno a “foraggiare” le tante congreghe, consorterie, lobbie e logge variegate e trasversali rispetto a pressoché tutte le forze politiche e sociali. La necessità di almeno far finta di perseguire un qualche equilibrio finanziario del bilancio pubblico (sia per i vincoli europei, sia per i dirompenti effetti che la continua crescita del debito pubblico ha determinato e può ancora determinare sui mercati finanziari internazionali) si è pertanto “scaricata” su un continuo imponente aumento delle tasse, associato a tagli di spesa effettuati esclusivamente sugli investimenti pubblici. La presenza di una evasione fiscale stimata da anni superiore a 100 miliardi di euro ha avuto come conseguenza che l’aumento delle tasse è andato a gravare ancor di più e sempre più sui soliti noti tartassati. Sta di fatto quindi che il pesante macigno del Debito Pubblico, ben evidente all’inizio dello scorso decennio, non è stato minimamente affrontato ed ha continuato a crescere senza freni. L’aumento delle tasse infatti, nonostante la contestuale riduzione degli investimenti pubblici, non è mai stato sufficiente a rincorrere l’aumento della spesa corrente. Si è quindi continuato ad avere, anno dopo anno, deficit pubblico ed accumulo ulteriore di Debito Pubblico. È bene allora capire quando, come e perché l’attuale macigno del Debito si è determinato. Per questa ragione, nel primo paragrafo di questa prima parte di analisi, si ripercorre il profilo del Debito Pubblico Italiano dall’Unità d’Italia ad oggi, cercando di individuare le radici temporali e causali che hanno costruito quel moloch che ci troviamo oggi di fronte e che stiamo lasciando “ancora crescente” alle prossime generazioni. 45 Negli ultimi mesi, molti protagonisti di questi anni tentano di contrabbandare l’idea che loro avevano previsto tutto correttamente e si scagliano contro i “vincoli europei”, in particolare contro l’ottusità e l’egoismo della Germania e della Signora Merkel, tentando maldestramente di scaricare “all’estero” le colpe delle mancate “riforme interne” italiane e delle loro decisioni di politica economica che si sono dimostrate “per tabula” contrarie agli stessi apparenti annunci di austerità e rigore. Questa è la sintetica “tesi” che schematizza quel circolo perverso costituito da più spesa corrente, più tasse, meno investimenti che ha portato, nel corso dell’ultimo decennio, la crescita italiana sotto zero e la disoccupazione ai livelli record del 13% nella media nazionale ed al 45% tra i giovani. Sulla base dei dati ufficiali del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nei successivi paragrafi 2–4 si riporta la “dimostrazione” della “tesi”. 46 1 Il Debito Pubblico dall’Unità d’Italia ad oggi: quando, come, perché abbiamo fatto debiti (1861–2013) Dall’Unità d’Italia ad oggi il Debito passa da 1 milione di euro del 1861 a 100 milioni nel 1940 fino ad arrivare a 10 miliardi nel 1968. L’andamento dirompente del Debito “appare” pertanto all’inizio degli anni settanta, superando i 1000 miliardi nel 1994 ed i 2000 miliardi nel 2013, duecento volte di più rispetto al 1968. 47 Fig. 1. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI EURO (1861–2013) Negli stessi 152 anni, il PIL passa da 4 milioni di euro del 1861 a 113 milioni nel 1940 per poi salire a 28 miliardi di euro nel 1968, a 878 miliardi nel 1994 ed a 1560 miliardi di euro nel 2013, 55 volte in più rispetto al 1968. 48 Fig. 2. PIL IN MILIONI EURO (1861–2013) Pertanto l’andamento “storico” del rapporto tra Debito Pubblico e PIL dall’Unità d’Italia ad oggi è il seguente. 49 Fig. 3. RAPPORTO DEBITO/PIL 1861–2013 Nel 1861 il rapporto Debito/PIL era pari a 37%. È poi salito anno dopo anno fino a superare il 100% nel 1876 (quando raggiunse il 105%) per poi scendere al 93% nel 1880 e riprendere a salire sopra il 100% tra il 1881 ed il 1904, con un picco del 126% nel 1894. Dal 1905 fino al 1913, il rapporto scende al 74%. Poi c’è la Prima Guerra Mondiale ed il rapporto sale dall’83% del 1914 al “picco storico assoluto” del 160% nel 1920. Nel 1926 si scende al 95% e fino alla fine degli anni trenta si oscilla un po’ sotto e un po’ sopra il 100%. Poi c’è la Seconda Guerra Mondiale. Entriamo in guerra con un rapporto Debito/PIL dell’86% e nel 1943 si sale al 113%. La grande inflazione dell’immediato dopoguerra riduce tale rapporto all’88% già nel 1944 e al 25% nel 1947. La successiva stabilizzazione impressa da Luigi Einaudi e continuata nel successivo ventennio mantiene il dato oscillante attorno al 30%. A partire dal 1969 inizia la continua ed inarrestabile esclation del Debito Pubblico italiano ed il rapporto con il PIL raggiunge il 105 % nel 1992 (prima crisi della lira) ed il 121% nel 1996. Viene attuata un terapia di contenimento che dieci anni dopo riduce il rapporto al 103% del 2007. 50 Dal 2008 però il Debito riprende a salire più del PIL ed il rapporto si colloca al 137% del 2013. Rispetto al 1968, il rapporto Debito/PIL risulta pertanto aumentato di oltre quattro volte. Dopo la sintetica analisi sui 152 anni passati, proponiamo qui di seguito un maggiore dettaglio sui grandi sotto periodi della nostra storia unitaria. Dall’Unità d’Italia al 1914, il Debito Pubblico passa da 1 a 10 milioni di euro. 51 Fig. 4. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1861–1914) Nello stesso periodo il PIL passa da 4 a 12 milioni di euro. 52 Fig. 5. PIL IN MILIONI DI EURO (1861–1914) Di conseguenza, il rapporto Debito/PIL cresce fino ad arrivare attorno al 120% all’inizio del novecento, per poi tornare a scendere attorno all’80% prima della Prima Guerra Mondiale. 53 Fig. 6. RAPPORTO DEBITO/PIL (1861–1914) Con la Prima Guerra Mondiale (1914–1918) il Debito passa da 10 a 100 milioni di euro, poi si riduce della metà al 1932 ed all’inizio della Seconda Guerra Mondiale (1940) ritorna verso i 100 milioni di euro. 54 Fig. 7. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1914–1940) Nello stesso periodo il PIL cresce dai 12 milioni del 1914 ai 90 milioni del 1926, per scendere ai 81 milioni nel 1929 subendo la grande depressione degli anni trenta che lo riduce a 55 milioni nel 1934. Poi riprende a salire fino a 113 milioni di euro nel 1940, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. 55 Fig. 8. PIL IN MILIONI DI EURO (1914–1940) All’inizio della Prima Guerra Mondiale il rapporto Debito/PIL si colloca all’83%. A fine guerra appare salito al 97% (1918). Ma è nel dopoguerra che subisce una violenta impennata fino a salire al 160% nel 1920 ed oscillare attorno al 150% fino al 1924. Si ritorna sotto il 100% soltanto nel 1926, si risale al 117% nel 1930 per poi riscendere all’86% nel 1940. 56 Fig. 9. RAPPORTO DEBITO/PIL (1914–1940) Poi c’è la Seconda Guerra Mondiale, il Debito aumenta e passa dai 100 milioni del 1940 a circa 1 miliardo di euro del 1948, con un aumento di circa dieci volte. 57 Fig. 10. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1940–1948) Entriamo in guerra con un PIL di 113 milioni di euro che diventano 228 nel 1943 che poi si raddoppiano di anno in anno a seguito della grande inflazione post-bellica ed arrivano a 447 milioni nel 1944, 829 nel 1945, 1860 nel 1946, 3597 nel 1947 e 4234 nel 1948. Pertanto, tra il 1940 ed il 1948 il PIL italiano cresce in termini nominali di 37 volte. 58 Fig. 11. PIL IN MILIONI DI EURO (1940–1948) Ed il rapporto Debito PIL sale dall’86% del 1940 al 113% nel 1943 per poi scendere vorticosamente sotto il 30% in pochi anni (25% nel 1947 e 29% nel 1948). Pertanto tale rapporto si riduce di poco meno che quattro volte. 59 Fig. 12. RAPPORTO DEBITO/PIL (1940–1948) Certo, anche nel secondo dopoguerra si forma Debito, da 1 miliardo del 1948 a 10 miliardi nel 1968, ma in quei primi venti anni del secondo dopoguerra il PIL cresce in termini reali in modo sostenuto e passa, in valore nominale, dai 4 miliardi di euro del 1948 ai 28 miliardi del 1968. 60 Fig. 13. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1940–1968) 61 Fig. 14. PIL IN MILIONI DI EURO (1948–1968) Di conseguenza il rapporto Debito/PIL presenta un profilo pressoché stabile ed oscilla tra il 30 ed il 35%, con una punta verso il basso sotto il 30% dopo il grande boom dei primi anni sessanta. 62 Fig. 15. RAPPORTO DEBITO/PIL (1948–1968) Nel primo ventennio del dopoguerra pertanto si produce un aumento di Debito Pubblico in valore assoluto, mantenendo però pressoché costante il suo rapporto con il PIL sotto una soglia di tutta tranquillità. Per di più, il Bilancio Pubblico presenta un Avanzo di Parte Corrente e quindi quel Debito è relativo esclusivamente ad Investimenti Pubblici che, per altro, furono in parte finanziati proprio dall’Avanzo Corrente di Bilancio, ciò che in economia è chiamato Risparmio Pubblico. Ma … cosa è avvenuto dopo? Nel 1968 avviene anche in Italia la cosiddetta rivolta studentesca, nel 1969 l’autunno “caldo” delle forze sindacali. Sempre nel 1969 si adotta la riforma pensionistica intestata al ministro del Lavoro Brodolini (Legge 40 aprile 1969, n.153) che introduce il sistema a ripartizione per tutti e cioè il calcolo della pensione sulla base dell’ultimo stipendio percepito indipendentemente dai contributi sociali versati. E poiché allora, a fronte di un pensionato, esistevano quattro lavoratori attivi che pagavano contributi si pensò che il sistema potesse essere in equilibrio fissando al 25% l’aliquota contributiva (oggi stiamo andando ad un rapporto 1 a 1 tra pensionati e lavoratori). Per di più si introdussero le pensioni di anzianità con 35 anni di contributi e vincoli di età molto limitati. Un paio 63 di anni dopo il governo “centrista” Andreotti-Malagodi, seguito dal governo di centro-sinistra Rumor-La Malfa, introduce le cosiddette “pensioni baby”. Nel 1970 si introduce lo Statuto dei lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n 300). Quasi contestualmente e sempre nel 1970, vengono eletti per la prima volta i Consigli Regionali ed entrano in funzione le Regioni Ordinarie. Nel 1971–73 viene varata la riforma fiscale che assegna allo stato il compito di raccogliere più del 90% delle tasse e trasferisce alle neonate Regioni la facoltà di decidere quasi il 50% della spesa pubblica, scollegando quindi la responsabilità politica tra spese ed entrate. Nel 1974 lo Stato si accolla dei debiti delle mutue ed introduce il Sistema Sanitario Nazionale assegnando alle Regioni in totale autonomia di spesa la gestione della sanità italiana. Infine, il 4 Febbraio 1975 Lama (CGIL) ed Agnelli (Confindustria) firmano l’accordo sul punto unico di scala mobile. Forse gli eventi appena evocati non sono direttamente e tra loro collegati, ma certamente messi insieme possono aiutare a capire perché a partire dai primi anni settanta appare nel Bilancio Pubblico Italiano un drago silenzioso, soporifero e malefico, il Deficit di Parte Corrente (distruzione di Risparmio Nazionale da parte del Bilancio Pubblico), cioè il totale delle tasse non basta neanche a coprire la Spesa Corrente. Il Debito passa da 10 miliardi del 1968 agli oltre 2000 miliardi del 2013 senza soluzione di continuità. Per di più questo Debito si forma largamente per il finanziamento della Spesa Corrente. Il precedente ventennio (1948–1968), che aveva visto prodursi un Risparmio Pubblico positivo che si aggiungeva al Risparmio Privato ed assegnava all’Italia un record mondiale insieme al Giappone, viene seguito da oltre quarant’anni di continua “distruzione di risparmio” da parte del Bilancio Pubblico attraverso il pressoché continuo Deficit di Parte Corrente. 64 Fig. 16. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (1968–2013) Ma questa continua erosione della base produttiva del paese che avviene attraverso una struttura perversa del bilancio pubblico, non fa rilevare i suoi effetti nel breve termine. Il PIL continua a crescere, anche perché alimentato dalla grande inflazione degli anni settanta, dai 28 miliardi di euro del 1968 agli 806 miliardi del 1992. La grave crisi della lira di quell’anno determina la necessità di manovre correttive, che però, avvenendo in gran parte in termini di aumento della tassazione, aggiungono un effetto frenante alla crescita economica. Il PIL pertanto arriva a 1.000 miliardi nel 1996 fino ad un picco di 1567 nel 2008, per poi ridursi e stagnare in termini nominali nel successivo quinquennio. 65 Fig. 17. PIL IN MILIONI DI EURO (1968–2013) Di conseguenza il rapporto Debito/PIL si impenna e da circa 35% del 1968 vola al 122% del 1994 per poi ridursi al 104% nel 2004 e risalire negli ultimi nove anni fino a sfiorare il 140%. 66 Fig. 18. RAPPORTO DEBITO/PIL (1968–2013) A partire dal 2000, da quando cioè abbiamo cominciato a parlare di RIGORE ed AUSTERITÀ, il Debito Pubblico è passato da 1300 ad oltre 2100 miliardi di euro. 67 Fig. 19. DEBITO PUBBLICO IN MILIONI DI EURO (2000–2013) Il PIL, che nel 2000 era attorno a 1.200 miliardi di euro, cresce nella prima parte del periodo e si attesta poco sopra i 1.500 miliardi nel 2007. Da quell’anno è pressoché fermo in valore nominale e si riduce di circa il 10% in termini reali. 68 Fig. 20. PIL IN MILIONI DI EURO (2000–2013) Il rapporto Debito/PIL oscilla attorno e sopra il 105% fino al 2007, dopodiché assume un pericoloso e continua andamento crescente fino a sfiorare il 140% nel 2013. 69 Fig. 21. RAPPORTO DEBITO/PIL (2000–2013) Il “circolo perverso” indicato in premessa erode, anno dopo anno, la base produttiva dell’economia italiana. Come indicato, il Pil cresce fino al 2007 poi si ferma e non riprende il livello dello stesso 2007 se non oltre il 2018 … se tutto va bene. E comunque avremo perso 708 miliardi di Pil che si sarebbero prodotti secondo i trend di crescita verificatosi dal 2000 al 2007 pari ad un incremento nominale annuo del Pil del 3,6%. 70 Fig. 22. PIL IN MILIONI DI EURO (1970–2013 E PREVISIONI AL 2018) Di conseguenza il Rapporto Debito/Pil cresce da meno del 40% del 1970 ad oltre il 120% del 1994. Ed abbiamo la prima grave crisi della lira del biennio 92/93. Poi si riduce fino al 2007, torna a crescere, supera il picco del ’94 nel 2011 quando si è rischiato il punto del non ritorno con lo spread tra BTP e BUND che sfiora i 600 punti base nel novembre 2011. E, considerando anche i debiti della PA non pagati alle imprese, continua a crescere verso il 140%!!! 71 Fig. 23. RAPPORTO DEBITO/PIL (1970–2013) Come sarà più analiticamente illustrato nella parte Previsioni del Rapporto, le prospettive di crescita per l’economia italiana tra il 2014 ed il 2018 appaiono molto modeste e estremamente fragili. Per contro il Debito Pubblico è destinato a continuare il suo andamento crescente che lo collocherà un po’ attorno ai 2.300 miliardi di euro nel 2018. 72 Fig. 24. DEBITO PUBBLICO (1968–2013 E PREVISIONI AL 2018) Il PIL in valore nominale tende a mantenersi in crescita molto modesta ed il recupero dei valori reali del PIL del 2007 e il ritorno alla disoccupazione del 7% di quell’anno appaiono collocarsi attorno al 2022/2023. 73 Fig. 25. PIL IN MILIONI DI EURO (1970–2013 E PREVISIONI AL 2018) Pertanto, pur con una lieve riduzione rispetto al picco del 2014–2015, il rapporto Debito/PIL tende a mantenersi oltre il 130% fino al 2018. 74 Fig. 26. RAPPORTO DEBITO/PIL. 1968–2013: DATI STORICI; 2014–2018: PREVISIONI BASE In conclusione, vogliamo qui proporre un “ragionamento” ed alcune valutazioni rispetto a quanto la fase di recessione vissuta dal 2007 ad oggi ci abbia fatto perdere in termini di PIL che avremmo potuto potenzialmente ottenere solo se fossimo riusciti a mantenere la crescita media della prima parte degli anni duemila. Infatti, se avessimo mantenuto il trend di crescita del Pil della media degli anni 2000–2007, avremmo ottenuto al 2018 un maggiore PIL pari a 708 miliardi di euro e se non avessimo perso questi 708 miliardi di Pil dello stesso trend, il rapporto Debito/Pil avrebbe avuto un andamento del tutto diverso: avrebbe avuto un picco massimo del 112,5% nel 2014 e sarebbe sceso sotto il 100% nel 2018. Pertanto nel 2015, anno di partenza delle prescrizioni del Fiscal Compact che impegnano l’Italia a ridurre il rapporto Debito/Pil del 5% all’anno per venti anni, saremmo risultati in perfetta linea con quelle prescrizioni senza dover effettuare ulteriori manovre correttive. 75 Fig. 27. PIL GAP IN MILIONI DI EURO. 1968–2013: DATI STORICI E PREVISIONI BASE; 2008–2018: DATI INCLUSIVI TREND CRESCITA PIL 76 Fig. 28. RAPPORTO DEBITO/PIL GAP. 1968–2013: DATI STORICI; 2008–2018: DATI INCLUSIVI TREND CRESCITA PIL 77 2 Bilancio Pubblico: i dati “storici” 2000–2012 (BerlusconiTremonti, Prodi-PadoaSchioppa, Monti-Grilli) In un paese normale il dibattito sui dati storici dovrebbe essere riferito alla cruda realtà degli stessi dati storici. Per nostra fortuna questi sono disponibili ufficialmente sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze e non possono essere più manipolati. Si è riprodotto nella tav. 1 l’andamento dei dati di finanza pubblica per il periodo 2000–2012, verificando i dati relativi ai tre diversi governi che si sono succeduti in quegli anni. Nel periodo, il totale delle entrate pubbliche è aumentato di 228 miliardi di euro a fronte di un aumento totale della spesa pubblica di 269 miliardi, con una spesa corrente aumentata di 274 miliardi ed una spesa in conto capitale ridotta in valore assoluto di 5 miliardi di euro. Pertanto, l’imponente aumento delle tasse è andato a finanziare totalmente aumenti di spesa corrente e per di più si è ulteriormente alimentato Deficit e Debito Pubblico. Poiché l’aumento di spesa ha riguardato le spese correnti a fronte di un taglio di investimenti, abbiamo continuato ad alimentare il Debito per fronteggiare spesa corrente e non capitale/investimenti pubblici. In queste condizioni strutturali di finanza pubblica è evidente che l’impatto sull’economia reale non può che essere quello di ridurre sempre più nel tempo la crescita dell’economia e i livelli di occupazione, alimentando una crescente e dirompente disoccupazione che, trovando vincoli e protezioni nel mercato del lavoro degli occupati più anziani, scarica gran parte dei suoi effetti sul dilagare della disoccupazione giovanile. Negli otto anni di governo Berlusconi-Tremonti, le tasse sono aumentate di 156 miliardi e la spesa corrente di 206 miliardi di euro, con una media annua rispettivamente pari a 20 e 26 miliardi. Nei due anni di Governo Prodi-PadoaSchioppa, le entrate totali sono aumentate di 52 miliardi e le spese correnti di 60 miliardi, con una media annua pari rispettivamente a 26 e 30 miliardi di euro. Nell’anno di governo Monti-Grilli, le tasse sono aumentate di 20 miliardi e la spesa corrente 8 miliardi. 78 Tavola 1. RIGORE ED AUSTERITÀ NEGLI ANNI DUEMILA, 2000–2012 miliardi di euro TOTALE ENTRATE PUBBLICHE TOTALE SPESA PUBBLICA TOTALE SPESA CORRENTE ANNO 2000 536 536 485 ANNO 2012 764 805 759 MEDIA PER ANNO VALORE ASSOLUTO MEDIA PER ANNO 24 274 25 233 29 206 26 26 29 15 60 30 20 7 7 8 8 miliardi di euro VALORE ASSOLUTO VALORE ASSOLUTO AUMENTO TOTALE 2012 RISPETTO A 2000 228 21 269 8 ANNI DI GOVERNO BERLUSCONITREMONTI (2001-2006; 2008-2011) 156 20 2 ANNI DI GOVERNO PRODIPADOASCHIOPPA (2006-2008) 52 1 ANNO DI GOVERNO MONTIGRILLI (2011-2012) 20 MEDIA PER ANNO DI CUI: 79 3 Tre DEF a confronto: Monti-Grilli, Letta-Saccomanni, Renzi-Padoan 3.1. Il quadro macro dell’economia e della finanza pubblica Nel mese di Aprile del 2011 il governo Berlusconi-Tremonti presentò il DEF-Documento di Economia e Finanza. A seguito dei dirompenti andamenti dei mercati finanziari, nel corso di luglio e di agosto, lo stesso governo varò due successivi decreti “tampone”. Nel settembre fu poi pubblicata la Nota di Aggiornamento del DEF alla luce dei decreti varati in precedenza e della Legge di Stabilità per il 2012. Nel novembre 2011, a fronte della gravissima crisi finanziaria che portò lo spread a sfiorare i 600 punti base, il governo BerlusconiTremonti si dimise e si varò il governo tecnico di Monti-Grilli seguito, dopo le elezione politiche del febbraio 2013, dai governi LettaSaccomanni e Renzi-Padoan. Pertanto, dopo aver visto i numeri del precedente decennio, vediamo ora i “numeri” dei successivi tre governi espressi nei rispettivi DEF. Nel complesso, i tre DEF a confronto mettono in evidenza una successiva correzione al ribasso delle prospettive di crescita e di occupazione (vedi Tavole 2–6) 80 Tavola 2. PIL IN VALORE ASSOLUTO NOMINALE 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 1642 1697 1755 NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011 1622 1665 1714 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 1566 1573 1624 1678 1731 1786 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 1566 1557 1603 1661 1718 1780 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 1566 1560 1587 1627 1677 1731 1789 — DIFF. B APRILE-SETTEMBRE -20 -32 -41 — DIFF. M-B SETTEMBRE -56 -92 -90 — DIFF. L-M 0 -16 -21 -17 -13 -6 — DIFF. R-L 0 3 -16 -34 -41 -49 81 Tavola 3. TASSO DI CRESCITA DEL PIL REALE 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 1,3 1,5 1,6 NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011 0,6 0,9 1,2 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 -2,4 -1,3 1,3 1,5 1,3 1,4 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 -2,4 -1,7 1 1,7 1,8 1,9 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 -2,4 -1,9 0,8 1,3 1,6 1,8 1,9 PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE -2,4 -1,9 0,2 1,3 1,5 1,4 1,4 — DIFF. B APRILE-SETTEMBRE -0,7 -0,6 -0,4 -3 -2,2 0,1 — DIFF. L-M 0 -0,4 -0,3 0,2 0,5 0,5 — DIFF. R-L 0 -0,2 -0,2 -0,4 -0,2 -0,1 — DIFF. ER-R 0 0 -0,6 0 -0,1 -0,4 — DIFF. M-B SETTEMBRE 82 -0,5 Tavola 4. TASSO DI DISOCCUPAZIONE 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 8,3 8,2 8,1 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 10,7 11,6 11,8 11,6 11,4 10,9 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 10,7 12,2 12,4 12,1 11,8 11,4 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 10,7 12,2 12,8 12,5 12,2 11,6 11,0 PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE 10,7 12,2 13,1 12,9 12,7 11,9 11,4 — DIFF. M-B APRILE 2,4 3,4 3,7 — DIFF. L-M 0 0,6 0,6 0,5 0,4 0,5 — DIFF. R-L 0 0 0,4 0,4 0,4 0,2 — DIFF. ER-R 0 0 0,3 0,4 0,5 0,3 83 0,4 Tavola 5. TOTALE OCCUPATI 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 24438 24560 24707 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 22881 22789 22880 23040 23178 23363 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 22881 22469 22244 22444 22646 22872 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 22881 22469 22244 22444 22646 22872 PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE 22881 22483 22364 22443 22576 22709 22835 — DIFF. M-B SETTEMBRE -1557 -1771 -1827 — DIFF. L-M 0 -320 -636 -596 -532 -491 — DIFF. R-L 0 0 0 0 0 0 — DIFF. ER-R 0 14 120 -1 -70 -163 84 Tavola 6. TOTALE DISOCCUPATI 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 2760 2757 2754 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 2827 3138 3144 3138 3132 3116 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 2827 3157 3163 3154 3144 3131 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 2827 3223 3276 3197 3118 3012 PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE 2827 3242 3393 3335 3190 3041 2899 — DIFF. M-B SETTEMBRE 67 381 390 — DIFF. L-M 0 19 19 16 — DIFF. R-L 0 66 113 43 — DIFF. ER-R 0 19 117 138 12 15 -26 -119 72 29 A fronte di questo peggioramento dell’economia reale, gli andamenti di finanza pubblica riproducono la “struttura” della politica economica del precedente periodo 2000–2012 e cioè aumenti di tasse che vanno a finanziare ulteriori aumenti di spesa corrente con tagli di investimenti pubblici. In questi ultimi anni però, ed in prospettiva anche nei prossimi, l’aumento delle tasse supera l’aumento della spesa corrente ed in parte va a contenere il Deficit Pubblico, che comunque non si azzera mai, e pertanto continua l’aumento del Debito Pubblico e solo tra tre o quattro anni, nelle previsioni del MEF, si potrà vedere una lenta riduzione del rapporto tra Debito Pubblico e PIL (vedi Tavole 7–10). 85 Tavola 7. DEFICIT PUBBLICO VALORE ASSOLUTO 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 45 46 46 NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011 25 2 -3 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 48 45 28 29 23 18 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 48 49 37 30 21 12 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 48 47 42 33 25 15 6 PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE 48 47 47 41 35 30 26 -20 -44 -49 23 43 31 — DIFF. B APRILE-SETTEMBRE — DIFF. M-B SETTEMBRE — DIFF. L-M 0 4 9 1 -2 -6 — DIFF. R-L 0 -2 5 3 4 3 — DIFF. ER-R 0 0 5 8 10 15 86 20 Tavola 8. DEFICIT PUBBLICO %PIL 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI APRILE 2011 2,7 2,7 2,6 NOTA DEF BERLUSCONI SETTEMBRE 2011 1,6 0,1 -0,2 DEF MONTI APRILE 2012 3,1 2,9 1,7 1,7 1,3 1,0 DEF LETTA APRILE 2013 3,0 3,1 2,3 1,8 1,2 0,7 DEF RENZI APRILE 2014 3,0 3,0 2,6 2,0 1,5 0,9 0,3 PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE 3,0 3,0 3,0 2,5 2,1 1,8 1,5 -1,1 -2,6 -2,8 1,5 2,8 1,9 — DIFF. B APRILE-SETTEMBRE — DIFF. M-B SETTEMBRE — DIFF. L-M -0,1 0,2 0,6 0,1 -0,1 -0,3 — DIFF. R-L 0,0 -0,1 0,3 0,2 0,3 0,2 — DIFF. ER-R 0,0 0,0 0,4 0,5 0,6 0,9 87 1,2 Tavola 9. DEBITO PUBBLICO VALORE ASSOLUTO 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 1930 1955 1995 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 1989 2051 2095 2106 2101 2095 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 1989 2069 2129 2149 2147 2138 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 1989 2069 2141 2169 2177 2165 2156 PREVISIONI DIC. 2013 CENTRO STUDI ECONOMIA REALE 1989 2041 2105 2159 2198 2230 2258 — DIFF. M-B SETTEMBRE 59 96 100 — DIFF. L-M 0 18 34 43 46 43 — DIFF. R-L 0 0 12 20 30 27 — DIFF. ER-R 0 -28 -36 -10 21 65 88 102 Tavola 10. DEBITO PUBBLICO %PIL 2012 2013 2015 2016 2017 2018 118 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 127 130,4 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 127 132,9 132,8 129,4 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 127 132,6 134,9 133,3 129,8 125,1 120,5 — DIFF. M-B SETTEMBRE 115 2014 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 114 129 125,5 121,4 117,3 125 120,1 10 15 15 — DIFF. L-M 0 2,5 3,8 3,9 3,6 2,8 — DIFF. R-L 0 -0,3 2,1 3,9 4,8 5 Pressoché simili appaiono i DEF del governo Monti e del governo Letta, con la sola rilevante differenza che, mentre il governo Monti aveva stimato la spesa per interessi sul debito con una ipotesi di spread a 250 punti base, il governo Letta l’ha stimata con una ipotesi di 150 punti base. Ne consegue che la minore spesa prevista per interessi va a compensare le minori entrate conseguenti alla riduzione delle prospettive di crescita del Pil. A seguito della ulteriore riduzione delle prospettive di crescita indicate dal DEF di Renzi-Padoan, l’aumento delle entrate previste al 2017 è pari a 70 miliardi di euro che andrebbero a finanziare aumenti di spesa corrente al netto degli interessi per 45 miliardi, con una riduzione ulteriore di interessi sul debito per 2 miliardi ma anche con una riduzione di Spesa in conto capitale pari a 8 miliardi di euro. La differenza di 43 miliardi di maggiori entrate andrebbe pertanto a contenere, ma non ad azzerare, il Deficit. L’andamento del rapporto Debito/Pil sarebbe comunque in crescita fino al 2015, attorno al 134%, e comincerebbe successivamente un lento percorso di riduzione che comunque non si mostra pari a quanto il Fiscal Compact richiederebbe e cioè una riduzione del 5% all’anno (vedi Tavole 11–13). 89 Tavola 11. DEF MONTI-GRILLI 10 APRILE 2013 2012 2013 2014 2015 2016 2017 DIFFERENZA 2017-2012 ENTRATE TOTALI 753 765 787 803 830 852 99 SPESA TOTALE 801 811 815 837 853 870 69 SPESA CORRENTE TOTALE 753 755 770 791 810 828 75 87 84 90 93 104 109 23 667 671 679 693 706 713 52 SPESA IN CONTO CAPITALE 43 55 45 46 43 43 -5 DEFICIT PUBBLICO 48 45 29 29 23 18 -30 127 130 129 126 121 117 -10 INTERESSI SPESA CORRENTE AL NETTO DI INTER. RAPPORTO DEBITO/PIL 90 Tavola 12. DEF LETTA-SACCOMANNI 20 SETTEMBRE 2013 2012 2013 2014 2015 2016 2017 DIFFERENZA 2017-2012 ENTRATE TOTALI 753 759 775 798 819 842 89 SPESA TOTALE 801 808 812 828 840 854 53 SPESA CORRENTE TOTALE 753 757 767 783 798 811 59 87 84 86 89 92 93 6 666 673 680 694 706 719 53 SPESA IN CONTO CAPITALE 48 51 45 46 43 42 -6 DEFICIT PUBBLICO 48 49 37 30 21 12 -36 127 133 133 129 125 120 -7 INTERESSI SPESA CORRENTE AL NETTO DI INTER. RAPPORTO DEBITO/PIL 91 Tavola 13. DEF RENZI-PADOAN 8 APRILE 2014 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DIFFERENZA DIFFERENZA 2017-2012 2018-2013 ENTRATE TOTALI 753 752 767 785 803 823 846 70 94 SPESA TOTALE 801 799 809 818 829 838 852 37 53 SPESA CORRENTE TOTALE 753 756 764 772 785 796 810 43 54 87 82 83 82 85 85 85 -2 3 666 674 681 690 699 711 725 45 51 SPESA IN CONTO CAPITALE 49 43 45 46 44 42 41 -8 -2 DEFICIT PUBBLICO 48 47 42 33 25 15 6 -42 -41 127 132,6 134,9 133,3 129,8 125,1 120,5 -6,5 -12,1 INTERESSI SPESA CORRENTE AL NETTO DI INTER. RAPPORTO DEBITO/PIL 3.2. Le singole voci di spesa ed entrata del Bilancio Pubblico: dove sono le differenze. Ulteriori elementi di confronto tra gli ultimi tre DEF possono essere rilevati dalle seguenti tavole che riportano in modo analitico le principali voci di spesa e di entrate. 92 Tavola 14 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DIFFERENZA 2017-2012 SPESA PUBBLICA TOTALE MONTI 801 811 815 837 853 870 69 LETTA 801 808 812 828 840 854 53 RENZI 801 799 809 818 829 838 MONTI 753 765 787 808 830 852 99 LETTA 753 759 775 798 813 836 83 RENZI 753 752 767 785 803 823 852 37 ENTRATE TOTALI 846 70 La spesa si riduce nello stesso anno, ma aumenta negli anni successivi e di fatto l’aumento slitta … di un anno. Le tasse diminuiscono nello stesso anno perché diminuisce la crescita, in realtà aumentano sempre negli anni… La pressione fiscale rimane ferma nello stesso anno e ferma … negli anni. Il rapporto Spesa Totale/Pil aumenta nello stesso anno e diminuisce, poco, di anno in anno … se la crescita fosse quella prevista. Il rapporto Entrate Totali (tasse)/Pil resta fermo in ogni anno: oggi si pagano più tasse, domani meno … poco meno e forse. 93 Tavola 15 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DIFFERENZA 2017-2012 PRESSIONE FISCALE MONTI 44 44,4 44,3 44,1 43,9 43,8 -0,2 LETTA 44 44,3 44,2 44 43,7 43,3 -0,7 RENZI 44 43,8 44 43,7 43,5 43,3 -0,5 44 RAPPORTO SPESA TOTALE/PIL MONTI 51,1 51,6 50,2 49,9 49,3 48,7 -2,4 LETTA 51,1 51,9 50,7 49,8 48,9 -3,2 RENZI 51,1 51,8 51,2 50,9 50,1 49,3 47,6 -1,8 MONTI 48,1 48,6 48,5 48,2 47,9 47,7 -0,4 LETTA 48,1 48,7 48,3 -1,1 RENZI 48,1 48,2 48,3 48,2 47,9 47,5 47,3 48 RAPPORTO ENTRATE TOTALI/PIL 94 48 47,3 47 -0,5 SPESA 1. Stipendi restano fissi 2. Pensioni +40 MLD a) +30 b) +10 3. Interessi: Monti +22 (spread 250), Letta +5 (spread 150), Renzi -2 (sempre 85MLD, spread a 100) 4. Acquisti beni e servizi aumentano verso 140 MLD che contengono 20–30% di ruberie!!!! 5. Altre spese correnti … sempre 60MLD e non si sa cosa ci sia dentro!!! 6. Fondi perduti restano poco sotto i 40MLD all’anno … per fare cosa? 7. Investimenti fermi per Monti e Letta e -4 per Renzi 95 Tavola 16 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DIFFERENZA 2017-2012 SPESA PUBBLICA TOTALE MONTI 801 811 815 837 853 870 69 LETTA 801 808 812 828 840 854 53 RENZI 801 799 809 818 829 838 MONTI 165 164 162 164 164 164 -1 LETTA 165 164 162 164 164 164 -1 RENZI 165 164 163 163 163 163 MONTI 311 320 330 339 347 356 45 LETTA 311 320 330 339 347 356 45 RENZI 311 320 328 335 342 351 MONTI 249 255 263 270 277 285 36 LETTA 249 255 263 270 277 285 36 RENZI 249 255 260 266 272 280 MONTI 62 65 67 69 70 72 10 LETTA 62 65 67 69 70 72 10 RENZI 62 65 68 69 70 71 MONTI 87 84 90 97 104 109 22 LETTA 87 84 86 89 92 92 5 RENZI 87 82 83 82 85 85 MONTI 132 130 130 132 136 139 7 LETTA 132 130 130 132 136 139 7 RENZI 132 130 130 131 134 137 MONTI 57 59 58 59 59 59 2 LETTA 57 58 59 59 59 59 2 RENZI 57 61 60 60 61 60 MONTI 39 47 37 38 34 34 -5 LETTA 39 43 37 36 33 34 -5 RENZI 39 35 40 41 39 37 MONTI 20 20 20 20 20 20 LETTA 20 20 20 20 20 20 RENZI 20 20 20 20 20 20 852 37 DI CUI: 1. SALARI E STIPENDI 163 2 2. PENSIONI TOTALI 360 40 2A. PENSIONI IN SENSO STRETTO 287 31 2B. ALTRE PRESTAZIONI SOCIALI 73 9 3. INTERESSI SU DEBITO PUBBLICO 85 -2 4. ACQUISTI DI BENI E SERVIZI 140 5 5. ALTRE SPESE CORRENTI ??? 62 3 6. FONDI PERDUTI TOTALI 36 -2 6A. TRASFERIMENTI A FONDO PERDUTO IN CONTO CORRENTE 6B. TRASFERIMENTI A FONDO 96 0 0 20 0 PERDUTO IN CONTO CAPITALE MONTI 19 27 17 18 14 14 -5 LETTA 19 23 17 16 13 14 -5 RENZI 19 15 20 21 19 17 MONTI 29 28 28 28 29 29 0 LETTA 29 28 29 29 29 29 0 RENZI 29 27 26 25 24 25 16 -2 7. INVESTIMENTI FISSI LORDI 97 25 -4 ENTRATE 1. 2. 3. 4. Tributarie +50, +25 dirette + 25 indirette Contributi sociali +20 Altre entrate restano tra 60 e 65 MLD??? Cosa sono? Altre entrate in c/cap 5/6 MLD..irrilevanti! 98 Tavola 17 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DIFFERENZA 2017-2012 ENTRATE TOTALI MONTI 753 765 787 808 830 852 99 LETTA 753 759 775 798 813 836 83 RENZI 753 752 767 785 803 823 MONTI 472 478 494 508 523 538 66 LETTA 472 472 487 502 516 531 59 RENZI 472 468 482 494 506 520 MONTI 237 236 243 247 255 264 27 LETTA 237 234 240 244 250 258 21 RENZI 237 238 243 247 254 261 MONTI 234 241 250 260 267 274 40 LETTA 234 235 247 258 265 272 38 RENZI 234 226 238 245 251 259 MONTI 1 1 1 1 1 1 0 LETTA 1 1 2 2 1 1 0 RENZI 1 4 2 1 1 1 MONTI 217 220 225 232 238 243 26 LETTA 217 218 221 228 234 241 24 RENZI 217 215 216 221 227 233 MONTI 60 60 61 63 64 66 6 LETTA 60 62 61 63 64 65 5 RENZI 60 63 63 64 64 64 MONTI 5 6 5 5 5 5 LETTA 5 7 5 5 5 5 RENZI 5 5 5 6 7 6 846 70 DI CUI: 1. ENTRATE TRIBUTARIE 535 48 1A. IMPOSTE DIRETTE 269 24 1B. IMPOSTE INDIRETTE 266 25 1C. IMPOSTE IN CONTO CAPITALE 1 0 2. CONTRIBUTI SOCIALI 240 16 3. ALTRE ENTRATE CORRENTI 65 4 4. ENTRATE IN C/CAP. NON TRIBUTARIE 99 0 0 6 1 Appendice: ulteriori dati analitici, differenze irrilevanti SPESA PUBBLICA TOTALE DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R SPESA PUBBLICA TOTALE MONTI 801 811 815 837 853 870 69 LETTA 801 808 812 828 840 854 53 RENZI 801 799 809 818 829 838 DIFF. L-M 0 -3 -3 -9 -13 -16 DIFF. R-L 0 -9 -3 -10 -11 -16 DI CUI: 100 852 53 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 1. SALARI E STIPENDI MONTI 165 164 162 164 164 164 -1 LETTA 165 164 162 164 164 164 -1 RENZI 165 164 163 163 163 163 DIFF. L-M 0 0 0 0 0 0 DIFF. R-L 0 0 1 -1 -1 -1 101 163 -1 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 2. PENSIONI TOTALI MONTI 311 320 330 339 347 356 45 LETTA 311 320 330 339 347 356 45 RENZI 311 320 328 335 342 351 DIFF. L-M 0 0 0 0 0 0 DIFF. R-L 0 0 -2 -4 -5 -5 102 360 40 DIFFERENZA 2017-2012 x M e 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 L 2018-2013 x R 2A. PENSIONI IN SENSO STRETTO MONTI 249 255 263 270 277 285 36 LETTA 249 255 263 270 277 285 36 RENZI 249 255 260 266 272 280 DIFF. LM 0 0 0 0 0 0 DIFF. R-L 0 0 -3 -4 -5 -5 103 287 32 DIFFERENZA 2017-2012 x M e 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 L 2018-2013 x R 2B. ALTRE PRESTAZIONI SOCIALI MONTI 62 65 67 69 70 72 10 LETTA 62 65 67 69 70 72 10 RENZI 62 65 68 69 70 71 DIFF. LM 0 0 0 0 0 0 DIFF. R-L 0 0 1 0 0 -1 104 73 8 DIFFERENZA 2017-2012 x M 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 eL 2018-2013 x R 3. INTERESSI SU DEBITO PUBBLICO MONTI 87 84 90 97 104 109 22 LETTA 87 84 86 89 92 92 5 RENZI 87 82 83 82 85 85 DIFF. LM 0 0 -4 -8 -12 -17 DIFF. RL 0 -2 -3 -7 -7 -7 105 85 3 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 4. ACQUISTI DI BENI E SERVIZI MONTI 132 130 130 132 136 139 7 LETTA 132 130 130 132 136 139 7 RENZI 132 130 130 131 134 137 DIFF. L-M 0 0 0 0 0 0 DIFF. R-L 0 0 0 -1 -2 -2 106 140 10 DIFFERENZA 2017-2012 x M e 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 L 2018-2013 x R 5. ALTRE SPESE CORRENTI ??? MONTI 57 59 58 59 59 59 2 LETTA 57 58 59 59 59 59 2 RENZI 57 61 60 60 61 60 DIFF. L-M 0 -1 1 0 0 0 DIFF. R-L 0 3 1 1 2 1 107 62 1 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 6. FONDI PERDUTI TOTALI MONTI 39 47 37 38 34 34 -5 LETTA 39 43 37 36 33 34 -5 RENZI 39 35 40 41 39 37 DIFF. L-M 0 -4 0 -2 -1 0 DIFF. R-L 0 -8 3 5 6 3 108 36 1 DIFFERENZA 2017-2012 x 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 MeL 2018-2013 x R 6A. TRASFERIMENTI A FONDO PERDUTO IN CONTO CORRENTE MONTI 20 20 20 20 20 20 LETTA 20 20 20 20 20 20 RENZI 20 20 20 20 20 20 109 0 0 20 0 DIFFERENZA 2017-2012 x 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 MeL 2018-2013 x R 6B. TRASFERIMENTI A FONDO PERDUTO IN CONTO CAPITALE MONTI 19 27 17 18 14 14 LETTA 19 23 17 16 13 14 RENZI 19 15 20 21 19 17 110 -5 -5 16 1 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 7. INVESTIMENTI FISSI LORDI MONTI 29 28 28 28 29 29 0 LETTA 29 28 29 29 29 29 0 RENZI 29 27 26 25 24 25 DIFF. L-M 0 0 1 1 0 0 DIFF. R-L 0 -1 -3 -4 -5 -4 111 25 -2 ENTRATE TOTALI DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R ENTRATE TOTALI MONTI 753 765 787 808 830 852 99 LETTA 753 759 775 798 813 836 83 RENZI 753 752 767 785 803 823 DIFF. L-M 0 -6 -12 -10 -17 -16 DIFF. R-L 0 -7 -8 -13 -10 -13 DI CUI: 112 846 88 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 1. ENTRATE TRIBUTARIE MONTI 472 478 494 508 523 538 66 LETTA 472 472 487 502 516 531 59 RENZI 472 468 482 494 506 520 DIFF. L-M 0 -6 -7 -6 -7 -7 DIFF. R-L 0 -4 -5 -8 -10 -11 113 535 77 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 1A. IMPOSTE DIRETTE MONTI 237 236 243 247 255 264 27 LETTA 237 234 240 244 250 258 21 RENZI 237 238 243 247 254 261 DIFF. L-M 0 -2 -3 -3 -5 -6 DIFF. R-L 0 4 3 3 4 3 114 269 31 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 1B. IMPOSTE INDIRETTE MONTI 234 241 250 260 267 274 40 LETTA 234 235 247 258 265 272 38 RENZI 234 226 238 245 251 259 DIFF. L-M 0 -6 -3 -2 -2 -2 DIFF. R-L 0 -9 -9 -13 -14 -13 115 266 40 DIFFERENZA 2017-2012 x M e 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 L 2018-2013 x R 1C. IMPOSTE IN CONTO CAPITALE MONTI 1 1 1 1 1 1 0 LETTA 1 1 2 2 1 1 0 RENZI 1 4 2 1 1 1 DIFF. LM 0 0 1 1 0 0 DIFF. R-L 0 3 0 -1 0 0 116 1 -3 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 2. CONTRIBUTI SOCIALI MONTI 217 220 225 232 238 243 26 LETTA 217 218 221 228 234 241 24 RENZI 217 215 216 221 227 233 DIFF. L-M 0 -2 -4 -4 -4 -2 DIFF. R-L 0 -3 -5 -7 -7 -8 117 240 25 DIFFERENZA 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2017-2012 x M e L 2018-2013 x R 3. ALTRE ENTRATE CORRENTI MONTI 60 60 61 63 64 66 6 LETTA 60 62 61 63 64 65 5 RENZI 60 63 63 64 64 64 DIFF. L-M 0 2 0 0 0 -1 DIFF. R-L 0 1 2 1 0 -1 118 65 2 DIFFERENZA 2017-2012 x 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 MeL 2018-2013 x R 4. ENTRATE IN C/CAP. NON TRIBUTARIE MONTI 5 6 5 5 5 5 LETTA 5 7 5 5 5 5 RENZI 5 5 5 6 7 6 DIFF. LM 0 1 0 0 0 0 DIFF. RL 0 -2 0 1 2 1 119 0 0 6 1 DIFFERENZA 2017-2012 x M e 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 L 2018-2013 x R PRESSIONE FISCALE MONTI 44,0 44,4 44,3 44,1 43,9 43,8 -0,2 LETTA 44,0 44,3 44,2 44,0 43,7 43,3 -0,7 RENZI 44,0 43,8 44,0 -0,5 44 43,7 43,5 43,3 DIFF. LM 0,0 -0,1 -0,1 -0,1 -0,2 -0,5 DIFF. R-L 0,0 -0,5 -0,2 0,0 0,0 0,2 RAPPORTO SPESA TOTALE/PIL MONTI 51,1 51,6 50,2 49,9 49,3 48,7 -2,4 LETTA 51,1 51,9 50,7 49,8 48,9 48,0 -3,2 RENZI 51,1 51,8 51,2 50,9 50,1 49,3 47,6 -4,2 DIFF. LM 0,0 0,3 0,5 0,0 -0,4 -0,7 DIFF. R-L 0,0 -0,1 0,5 1,0 1,2 1,4 RAPPORTO ENTRATE TOTALI/PIL MONTI 48,1 48,6 48,5 48,2 47,9 47,7 -0,4 LETTA 48,1 48,7 48,3 48,0 47,3 47,0 -1,1 RENZI 48,1 48,2 48,3 48,2 47,9 47,5 47,3 -0,5 DIFF. LM 0,0 0,1 -0,1 -0,1 -0,6 -0,7 DIFF. R-L 0,0 -0,5 0,0 0,2 0,6 0,6 120 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DIFFERENZA DIFFERENZA 2017-2012 2018-2013 PIL MONTI 1566 1573 1624 1678 1731 1786 220 PIL LETTA 1566 1557 1603 1661 1718 1780 214 PIL RENZI 1566 1560 1587 1627 1677 1731 1789 165 PREV. ER DIC 2013 1566 1531 1541 1563 1587 1610 1650 44 DIFF. L-M 0 -16 -21 -17 -13 -6 DIFF. R-L 0 3 -16 -34 -41 -49 DIFF. ER-R 0 -29 -46 -64 -90 -121 -139 121 119 4 Da un governo all’altro: come frenare l’economia reale e costruire la crisi di produzione e occupazione, alimentando il Debito Pubblico e inseguendo fragili e precari equilibri finanziari Tavole 18–26 (N.B.: leggere i dati in verticale) 122 TAVOLA 18. LA CRESCITA VA SOTTOZERO E LA RIPRESA SI ALLONTANA NEL TEMPO TASSO DI CRESCITA DEL PIL REALE 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 1,3 1,5 1,6 NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011 0,6 0,9 1,2 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 -2,4 -1,3 1,3 1,5 1,3 1,4 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 -2,4 -1,7 1 1,7 1,8 1,9 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 -2,4 -1,9 0,8 1,3 1,6 1,8 123 1,9 TAVOLA 19. IL PIL DIMINUISCE IN VALORE ASSOLUTO PIL IN VALORE ASSOLUTO NOMINALE 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 1642 1697 1755 NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011 1622 1665 1714 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 1566 1573 1624 1678 1731 1786 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 1566 1557 1603 1661 1718 1780 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 1566 1560 1587 1627 1677 1731 1789 124 TAVOLA 20. GLI OCCUPATI DIMINUISCONO SEMPRE TOTALE OCCUPATI 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 24438 24560 24707 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 22881 22789 22880 23040 23178 23363 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 22881 22469 22244 22444 22646 22872 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 22881 22469 22244 22244 22646 22872 125 TAVOLA 21. I DISOCCUPATI AUMENTANO SEMPRE TOTALE DISOCCUPATI 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 2760 2757 2754 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 2827 3138 3144 3138 3132 3116 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 2827 3157 3163 3154 3144 3131 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 2827 3223 3276 3197 3118 3012 126 TAVOLA 22. IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE AUMENTA SEMPRE TASSO DI DISOCCUPAZIONE 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 8,3 8,2 8,1 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 10,7 11,6 11,8 11,6 11,4 10,9 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 10,7 12,2 12,4 12,1 11,8 11,4 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 10,7 12,2 12,8 12,5 12,2 11,6 11,0 127 TAVOLA 23. IL DEFICIT PUBBLICO NON VA MAI A ZERO … NÉ IN VALORE ASSOLUTO DEFICIT PUBBLICO VALORE ASSOLUTO 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 45 46 NOTA DEF BERLUSCONI-TREMONTI SETTEMBRE 2011 25 2 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 48 45 28 29 23 18 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 48 49 37 30 21 12 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 48 47 42 33 25 15 128 46 3 (SURPLUS) 6 TAVOLA 24. IL DEFICIT PUBBLICO NON VA MAI A ZERO … NÉ IN % DEL PIL DEFICIT PUBBLICO %PIL 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI APRILE 2011 2,7 2,7 2,6 NOTA DEF BERLUSCONI SETTEMBRE 2011 1,6 0,1 0,2 (SURPLUS) DEF MONTI APRILE 2012 3,1 2,9 1,7 1,7 1,3 1,0 DEF LETTA APRILE 2013 3,0 3,1 2,3 1,8 1,2 0,7 DEF RENZI APRILE 2014 3,0 3,0 2,6 2,0 1,5 0,9 129 0,3 TAVOLA 25. IL DEBITO PUBBLICO AUMENTA SEMPRE, IN VALORE ASSOLUTO DEBITO PUBBLICO VALORE ASSOLUTO 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 1930 1955 1995 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 1989 2051 2095 2106 2101 2095 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 1989 2069 2129 2149 2147 2138 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 1989 2069 2141 2169 2177 2165 2156 130 TAVOLA 26. IL DEBITO PUBBLICO AUMENTA SEMPRE, IN % DEL PIL DEBITO PUBBLICO %PIL 2012 2013 2015 2016 2017 2018 118 DEF MONTI-GRILLI APRILE 2012 127 130,4 DEF LETTA-SACCOMANNI APRILE 2013 127 132,9 132,8 129,4 DEF RENZI-PADOAN APRILE 2014 127 132,6 134,9 133,3 129,8 125,1 120,5 131 115 2014 DEF BERLUSCONI-TREMONTI APRILE 2011 114 129 125,5 121,4 117,3 125 120,1 Alle origini del persistente alto livello del debito pubblico Antonio Pedone, Università di Roma “La Sapienza” Intervento alla Riunione Intermedia SIEP 2012 “La gestione di elevati debiti sovrani in contesti di crisi finanziaria: quali insegnamenti dalla storia” Pochi anni fa, il 17 marzo 2011, l’Italia ha festeggiato i 150 anni dalla sua nascita come Stato unitario. Nel corso di questi 150 anni è radicalmente mutata la struttura demografica, economica e sociale del paese sotto molteplici aspetti. È mutato il tasso di alfabetizzazione e il grado di istruzione della popolazione e la sua partecipazione all’organizzazione politica del paese. Cambiamenti rilevanti si sono avuti nelle strutture istituzionali e di governo, negli orientamenti politici e nel grado di integrazione economica e finanziaria internazionale. Anche la finanza pubblica ha subito profonde e continue trasformazioni per quanto riguarda il livello e la composizione sia della spesa pubblica sia del prelievo tributario. L’intervento pubblico attraverso il bilancio si è infatti enormemente accresciuto come dimensione e diffusione, ha assunto forme nuove e molto diverse dal lato sia della spesa sia del suo finanziamento, si è ispirato a principi e ha perseguito obiettivi che spesso nel tempo sono radicalmente variati nei fatti se non nelle dichiarazioni, ha influenzato in modo penetrante l’andamento economico e i rapporti sociali e ne è stato a sua volta influenzato. Di fronte a tali profonde ed estese trasformazioni colpisce la persistenza, nel corso praticamente dell’intero periodo (salvo una parentesi nell’immediato secondo dopoguerra), di un elevato livello del rapporto debito pubblico/PIL che non ha riscontro nelle contemporanee esperienze dei maggiori paesi industriali con i quali peraltro l’Italia ha largamente condiviso i grandi mutamenti nel livello e nella composizione delle principali voci di bilancio, quali la spesa pubblica e le entrate tributarie. Nei primi decenni dopo l’unità, la spesa pubblica superava di poco il 10% del reddito nazionale; in questi ultimi anni ha spesso raggiunto e superato largamente il 50% del prodotto interno lordo (tab. 1). Mentre allora la spesa pubblica era destinata per la maggior parte alla difesa, alla sicurezza interna e al pagamento degli interessi, oggi la maggior 132 parte va alla previdenza, alla sanità, all’istruzione e, ancora, al pagamento degli interessi sul debito pubblico. Si può notare (tab. 1) che l’Italia si pone costantemente nella fascia alta insieme agli altri maggiori paesi europei e la differenza in più o in meno rispetto ad essi è relativamente contenuta e non sembra avere carattere permanente e generalizzato. 133 Tab. 1 - Spesa pubblica, pressione tributaria e debito pubblico in % del PIL a) Spesa pubblica 1870 1913 1920 1937 1960 1980 1990 1995 2000 2005 2008 2010 Italia 13,7 17,1 30,1 31,1 30,1 42,2 53,4 52,2 45,9 47,9 48,6 50,3 Francia 12,6 17,0 27,6 29,0 34,6 44,0 49,8 54,4 51,6 53,6 53,3 56,7 Germania 10,0 14,8 25,0 34,1 32,4 48,0 45,1 54,8 45,1 47,0 44,1 48,0 Spagna 11,0 8,3 13,2 18,8 26,0 42,0 44,4 39,2 38,4 41,5 45,6 Regno Unito 9,4 12,7 26,2 30,0 32,2 45,6 39,9 44,1 36,5 44,0 47,9 50,6 Stati Uniti 7,3 7,5 12,1 19,7 27,0 34,5 32,8 37,1 33,9 36,3 39,1 42,5 Giappone 8,8 8,3 14,8 25,4 17,5 27,9 31,3 36,0 39,0 38,4 37,2 40,4 134 b) Pressione tributaria 1870 1913 1920 1937 1960 1980 1990 1995 2000 2005 2008 2010 Italia 12,5 14,7 24,2 31,1 24,8 29,7 37,8 40,1 42,2 40,8 43,3 43,0 Francia 15,3 13,7 17,9 20,5 37,3 40,2 42,0 42,9 44,4 44,1 43,5 42,9 Germania 1,4 3,2 8,6 15,9 35,2 36,4 34,8 37,2 37,5 35,0 36,4 36,3 Spagna 9,4 10,3 5,8 11,9 18,7 22,6 32,5 32,1 34,2 35,7 33,3 31,7 Regno Unito 8,7 11,2 20,1 22,6 29,9 34,8 35,5 34,0 36,3 35,7 35,7 35,0 Stati Uniti 7,4 Giappone 9,5 7,0 12,4 19,7 27,0 26,4 27,4 27,8 29,5 27,1 26,3 24,8 18,8 25,1 29,0 26,8 27,0 27,4 28,3 135 c) Debito pubblico Italia 1870 1913 1920 1937 95,8 77,2 159,7 72,1 Francia 66,4 169,6 Germania 38,5 Spagna 37,9 2000 2005 2008 2010 31,4 56,1 95,2 121,6 109,2 105,8 106,1 118,4 28,5 20,7 35,2 55,4 57,3 66,4 67,6 82,4 18,4 31,3 42,6 55,6 59,7 68,0 66,4 83,2 20,5 15,2 42,5 63,3 59,3 43,0 39,7 60,8 Regno Unito 77,4 27,9 137,8 158,7 117,9 46,1 32,6 46,3 40,9 42,1 52,1 75,1 Stati Uniti 29,9 66,5 54,8 61,6 71,1 98,5 Giappone 76,7 19,3 1960 1980 1990 1995 3,3 27,9 39,6 55,2 32,6 55,3 53,6 25,6 57,0 8,0 52,0 68,7 92,4 142,1 191,6 194,7 219,0 Fonte: a), b) and c): Tanzi, Schuknecht (2000, 2007) fino al 1960; per Germania e Spagna solo Amministrazioni centrali. Per gli anni successivi, per a) OECD Economic Outlook vol. 2011/2, e per b) OECD Revenue Statistics 1965–2010; c) IMF (2011). Lo stesso può dirsi per il livello della pressione tributaria. Le entrate tributarie, che all’inizio erano vicine al 10%, oggi hanno raggiunto e superato largamente il 40%. Le principali forme di prelievo erano costituite dall’imposta fondiaria, dai proventi doganali e da imposte su specifici consumi popolari (in primo luogo, i tabacchi); nei decenni recenti, la maggior parte delle entrate è assicurata, oltre che dai contributi sociali, dalle due grandi imposte generali sui redditi e sugli scambi. Neppure questo enormemente accresciuto volume di entrate è quasi mai riuscito a coprire pienamente le spese. L’intera storia dell’Italia unita è così caratterizzata fin dall’inizio da un persistente elevato livello di debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo, con dei processi rapidi (in occasione degli eventi bellici) o lenti (in tempi di pace) di accumulo e poi di decumulo, pur rimanendo sempre su livelli relativamente elevati. Sembrerebbe costituire un’eccezione il venticinquennio seguito alla seconda guerra mondiale, e lo è certamente rispetto alla precedente e successiva esperienza italiana, ma lo è meno se confrontato con le contemporanee esperienze di altri paesi e se si tiene conto dell’importanza di alcuni fattori che, ancor più di una accorta politica di bilancio, contribuirono in maniera determinante a contenere il valore del rapporto debito/PIL in quegli anni, ponendo però le premesse per una sua vigorosa crescita negli anni futuri. Elevati disavanzi si erano venuti accumulando sin dalla metà degli anni Trenta del secolo scorso, provocati dalle spese militari e per il sostegno dell’economia in regime di autarchia. Essi furono finanziati ricorrendo anche all’emissione di un prestito forzoso, la cui sottoscrizione fu obbligatoria per i proprietari di terreni e fabbricati, e al 136 finanziamento monetario, ripristinando la facoltà del Tesoro di chiedere anticipazioni straordinarie alla Banca d’Italia. L’aumento dei disavanzi e del debito diviene ancora più rapido durante la guerra, pur non raggiungendo valori particolarmente elevati (il picco è 103% nel 1943), anche se va tenuto presente che, a differenza del finanziamento della prima guerra mondiale, si tratta esclusivamente di debito interno. L’abbattimento pressoché completo del debito avviene, nel corso degli ultimi anni di guerra e soprattutto nell’immediato dopoguerra, mediante una violenta inflazione. È stato osservato che “fu possibile ai governanti di quel tempo azzerare, con l’inflazione, il valore reale del debito di guerra perché il regime che l’aveva accumulato era stato rovesciato dalla sconfitta militare ed essi che lo avevano apertamente avversato potevano quindi addossargli anche la responsabilità del dissesto finanziario del paese. È da sottolineare, tuttavia, che non fu scelta la via del ripudio formale del debito perché la Repubblica italiana si considerò successore, senza soluzione di continuità, del Regno d’Italia” (De Cecco 1996), addossandosi anche “senza alcun indugio ed esitazione i debiti contratti dalla repubblica sociale fascista” (Ministero per la Costituente 1946, p. 108). Per effetto soprattutto di una violenta e prolungata inflazione (il contributo di alcuni prelievi straordinari fu prevalentemente simbolico), il valore del rapporto debito/Pil si ridusse al 24% nel 1947, che è il valore in assoluto più basso dell’intera storia del debito pubblico italiano. La sua sostanziale cancellazione “comportò evidentemente un grande trasferimento di ricchezza da chi possedeva titoli di Stato al resto del paese: i possessori di titoli persero gran parte dei propri risparmi, chi non li possedeva evitò le imposte che avrebbe dovuto pagare qualora il debito non fosse stato cancellato. Guadagnarono soprattutto gli agricoltori e i proprietari di immobili, perché il valore della terra e degli immobili rimase invariato in termini reali, proteggendoli dall’inflazione” (Giavazzi in Bresciani Turroni 2005, p. XXVIII). Il rapporto debito/Pil si è poi mantenuto al disotto del 40% fino al 1970 e del 60% fino al 1981. Così, nel trentennio post-bellico, l’Italia riesce a mantenere un livello del rapporto debito/Pil che è eccezionalmente basso nella sua storia. Esso è però notevolmente più alto di quello di tutti gli altri maggiori paesi europei (eccetto il Regno Unito) e del Giappone nello stesso periodo (tab. 3). E ciò che è più importante, sembra essere il risultato di una serie di circostanze favorevoli piuttosto che di una deliberata rigorosa politica di bilancio. Alcune di queste circostanze favorevoli, nell’aspettativa che potessero perpetuarsi, hanno probabilmente indotto ad abbassare la guardia nella tutela degli equilibri di bilancio futuri, ponendo le premesse del successivo incontrollato aumento del debito pubblico. 137 Il più rapido e prolungato aumento del Pil nella storia italiana verificatosi in quel periodo ha fortemente contribuito a contenere il valore del rapporto debito/Pil e ha migliorato il saldo di bilancio assicurando un aumento automatico delle entrate tributarie. Il saldo di bilancio è migliorato anche per la riduzione delle spese connesse alla guerra e solo in parte compensata dalle spese per la ricostruzione, e dal contenimento delle spese per interessi. Quest’ultimo è stato ottenuto anche accrescendo il finanziamento monetario e con titoli a breve termine e il ricorso a prestiti delle istituzioni finanziarie in una misura che non ha precedenti nell’intera storia del debito pubblico italiano (tab. A). Corrispondentemente la quota dei titoli a medio lungo termine è scesa ai livelli più bassi, in molti anni ben inferiori al 20% del totale. Ci si è così abituati a una comoda gestione del debito pubblico di tipo amministrativo e non di mercato, e ci si è convinti che la struttura per scadenze non fosse un problema e non esistessero rischi connessi ai rinnovi, in quanto era sempre possibile ottenere finanziamenti e collocare titoli presso la Banca Centrale e il sistema bancario e finanziario. Le origini dell’esplosione del debito degli anni Ottanta e Novanta sono in larga parte in questa convinzione illusoria, formatasi negli anni di basso livello del rapporto debito/Pil, che la rapida crescita economica potesse continuare a lungo e che fosse possibile finanziarsi con debito pubblico a breve termine, a basso costo e a basso rischio di rinnovo. Ciò portò a sottovalutare gli effetti sugli equilibri complessivi del bilancio pubblico derivanti dal forte aumento (a un tasso medio annuo composto di oltre il 9% tra il 1948 e il 1962) della spesa pubblica, in particolare di quella locale in conseguenza “delle migrazioni interne, della progressiva urbanizzazione della popolazione e dell’estensione della gamma dei servizi erogati dagli enti” (Brosio e Marchese1986); o gli effetti a lungo termine delle leggi di spesa approvate negli anni Sessanta che introducevano forme molto generose di trattamenti pensionistici e il servizio sanitario nazionale e, sfuggivano, per la loro natura di entitlements, a una esplicita decisione parlamentare per l’assegnazione delle risorse. Al forte aumento di spesa pubblica, soprattutto in prospettiva, non si provvide ad assicurare la disponibilità di un aumento di gettito, ma anzi si andò accentuando “un circolo vizioso che bisogna(va) recidere: diffidenza precostituita del fisco rispetto alle dichiarazioni del contribuente; tendenza naturale del contribuente ad evadere. In tal modo tra fisco e contribuente si ingaggia una lotta dalla quale spesso tra le due parti in causa riesce vincitore non il giusto ma il più abile o il più forte. La mancanza di una moralità fiscale da parte del contribuente, l’impreparazione professionale di molti funzionari delle imposte, la 138 cronica disorganizzazione degli uffici, la pratica (non teorica) inadeguatezza delle sanzioni fiscali, l’incapacità del fisco di identificare i nuovi contribuenti, ecc., sono altrettanti inconvenienti del nostro sistema tributario che si aggiungono ad una politica delle spese del tutto insoddisfacente (Cosciani 1950, p. 40–1). L’insuccesso del patto fiscale con cui le riforme Vanoni si proponevano di superare questo circolo vizioso mise in evidenza le difficoltà che si incontrano nel nostro sistema per colmare le insufficienze rilevate da Cosciani e l’importanza dei tradizionali limiti di sopportabilità da parte dei contribuenti dell’onere del servizio e del rimborso del debito pubblico. 139 Tab. A – Debito delle Amministrazioni Pubbliche - Composizione % per strumenti Moneta e depositi di cui: Raccolta postale Anno Titoli a breve termine Prestiti Titoli a medio e lungo termine di cui: prestiti di IFM Debito delle Amministrazioni pubbliche 1861 0,92 0,00 1,20 97,40 0,47 0,00 100,00 1861– 1896 7,15 1,23 2,05 87,41 3,39 0,83 100,00 1896 11,95 3,30 1,66 85,28 1,12 0,93 100,00 1897– 13,70 1906 5,31 1,39 83,16 1,75 1,06 100,00 1906 15,99 7,83 0,78 81,02 2,21 1,50 100,00 1907– 18,20 1913 10,42 0,89 77,38 3,53 2,14 100,00 1913 19,28 11,63 1,75 74,66 4,31 2,43 100,00 1914– 10,34 1919 5,76 11,99 57,27 20,40 9,39 100,00 1919 4,09 0,00 3,38 87,19 5,34 0,51 100,00 1920– 1928 7,21 5,45 8,74 64,31 19,75 15,35 100,00 1928 9,37 7,43 0,18 82,80 7,65 6,55 100,00 1929– 17,16 1938 13,99 1,70 74,40 6,74 4,28 100,00 1938 22,67 18,71 7,40 64,21 5,71 1,21 100,00 1939– 16,50 1948 12,20 18,12 28,92 36,45 0,80 100,00 1948 17,30 15,39 27,57 19,71 35,42 0,98 100,00 1949– 25,72 1963 23,78 22,08 25,79 26,41 5,82 100,00 1963 31,16 29,08 18,83 23,10 26,92 7,84 100,00 1964– 25,47 1971 23,36 12,76 19,69 42,09 28,72 100,00 1971 22,50 20,55 10,32 18,01 49,17 36,20 100,00 1972– 16,33 1978 15,04 23,35 23,59 36,73 27,42 100,00 1978 14,46 13,63 24,91 36,19 24,45 17,10 100,00 1979– 1992 8,11 7,33 26,17 51,54 14,19 7,22 100,00 1992 6,90 6,40 23,94 57,35 11,81 6,62 100,00 1993– 1998 7,31 6,94 16,29 69,13 7,26 6,53 100,00 1998 7,78 7,52 10,96 75,34 5,92 5,78 100,00 1999– 2007 9,39 6,31 8,21 75,29 7,11 5,43 100,00 2007 8,95 2,32 8,00 74,43 8,63 7,98 100,00 Fonte: Francese, Pace (2008). Anche tenendo conto di questo intervallo, rimane il fatto che il 140 rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo supera il valore del 60% in 111 anni su 150 e il valore del 90% in 75 anni su 150. Ciò non accade in nessun altro dei maggiori paesi industrializzati per i quali esistono serie comparabili (tab. 2): la distanza pur elevata nei confronti del Regno Unito, è abissale nei confronti degli Stati Uniti. 141 Tab. 2 - Numero di anni in cui il Rapporto Debito/Pil supera il 60% o il 90% nel periodo 1861–2011 Italia Francia Germania Spagna Regno Unito Stati Uniti Giappone >60% (a) 112 56 12 53 81 32 49 >90% (b) 75 38 0 17 55 8 21 151 108 109 117 151 151 135 (a)/(c) 74 52 11 45 54 21 36 (b)/(c) 50 35 0 15 36 5 16 anni disponibili (c) Fonte: IMF Historical Public Debt per gli anni 1861–2009. Per gli anni successivi i dati sono proiezioni o stime e sono tratti da IMF, Fiscal Monitor update January 2012. Si noti che per alcuni paesi non sono disponibili i dati riferiti ad anni spesso tra i più critici della loro storia finanziaria. Francia: 1861–1879, 1914–1919, 1933–1948, 1978–79. Germania: 1861–1879, 1914–1924, 1933–1948, 1976. Spagna: 1861–1879, 1914–1917, 1935–1939, 1948–1952. Giappone: 1861–1874, 1945, 1968. Anche nei confronti degli altri paesi, per i quali esistono dei vuoti nelle serie storiche, la maggior elevatezza del rapporto debito pubblico/Pil riferito all’Italia appare evidente: se anche in tutti gli anni mancanti per questi altri paesi il rapporto avesse superato il 90%, l’Italia rimarrebbe in ogni caso il paese con il maggior numero di volte durante l’intero periodo. La persistenza di un così elevato rapporto debito/PIL per un periodo altrettanto lungo non si riscontra perciò in nessuno degli altri maggiori paesi industrializzati, anche se alcuni di essi raggiungono in alcuni periodi livelli notevolmente superiori a quelli massimi toccati dall’Italia 1. È il caso, ad esempio, del Regno Unito che nel 1861 aveva un valore del rapporto debito/PIL pari a circa tre volte quello italiano, ma che riesce a ridurlo rapidamente o sostanzialmente fino a raggiungere un valore inferiore al 30% alla vigilia della prima guerra mondiale (quando quello italiano superava l’80%), per poi raggiungere nuovamente picchi elevatissimi al termine delle due guerre mondiali (il 196% nel 1923 e il 270% nel 1946) dai quali poi ridiscende e dal 1973 si mantiene sempre ben al disotto del 60% fino alla recente crisi (tab. 3). O come nel caso della Francia che, pur mantenendo valori mediamente elevati fino alla prima guerra mondiale (al termine della quale tocca un valore del 237% nel 1921), a partire dal 1950 mantiene sempre valori notevolmente inferiori al 60% fino all’inizio dell’ultimo decennio. O come è il caso del Giappone che, salvo durante la seconda guerra mondiale, aveva sempre mantenuto il rapporto debito/PIL bel al disotto del 60% e che, soltanto a partire dalla fine degli anni Ottanta, inizia una rapida crescita che lo ha portato a superare in questi ultimi anni il 200%. Questi dati sono stati richiamati non per avviare un confronto delle 142 varie esperienze nazionali, ma solo per sottolineare la peculiarità italiana di un livello elevato e persistente del rapporto debito pubblico/PIL nel corso della maggior parte della sua storia e che differenzia l’Italia dagli altri maggiori paesi industrializzati. Come può notarsi dai dati riassunti nella tab. 3, l’Italia presenta nella maggior parte dei sottoperiodi valori mediamente superiori a quelli di ciascun altro singolo paese. 143 Tab. 3 - Rapporto Debito Pubblico /PIL in alcuni paesi industrializzati Italia Francia Germania Spagna Regno Unito Stati Uniti Giappone 1861 39,42 1861–1896 95,43 106,27 38,83 123,05 105,14 1897–1906 109,05 1906 95,58 1907–1913 1913 1896 1914–1919 1919 108,47 1,94 91,11 67,01 17,31 28,51 43,77 95,90 41,10 7,99 24,63 92,95 39,74 110,56 37,88 5,83 32,72 85,21 37,17 107,98 37,41 3,79 70,47 83,13 75,18 39,70 90,34 32,82 3,68 62,30 77,24 66,35 38,50 76,73 27,90 3,25 53,59 93,19 35,00 81,97 11,19 39,33 132,25 31,31 142,77 33,28 22,58 1920–1928 125,53 188,15 8,86 55,52 175,21 24,73 32,85 1928 97,74 142,28 9,33 61,44 175,78 18,19 39,06 1929–1938 86,58 154,04 19,43 63,35 175,92 33,25 58,17 1938 71,44 155,08 43,16 66,89 1939–1948 68,88 194,04 79,03 87,62 1948 26,97 239,57 93,62 19,67 1949–1963 31,26 32,23 18,61 152,55 65,72 10,39 1963 27,17 22,17 18,09 108,55 50,24 4,52 1964–1971 34,21 17,48 19,83 14,60 85,87 40,70 9,04 1971 41,95 20,06 18,38 14,98 65,55 36,21 14,18 1972–1978 53,72 15,86 22,56 12,06 52,26 33,91 26,44 1978 59,45 28,39 12,02 51,63 33,84 41,69 1979–1992 79,92 30,53 38,74 34,38 42,64 45,14 65,39 105,49 39,77 42,06 45,36 32,80 63,14 72,56 1993–1998 118,82 54,63 54,64 62,61 45,17 65,49 97,19 1998 114,94 59,41 60,32 64,12 46,28 64,49 120,09 1999–2007 106,81 61,49 63,34 49,26 40,82 59,31 167,15 2007 103,47 63,76 64,91 36,12 43,94 62,15 187,65 2008–2011 115,42 78,76 76,14 55,93 69,11 88,97 216,18 2011 121,40 87,00 81,50 70,10 80,80 102,00 233,40 84,27 72,99 35,45 56,08 90,37 36,97 56,03 1992 1861–2011 20,10 47,21 22,16 Fonte: IMF, Historical Public Debt Database (2011). Nel calcolare i valori medi per periodo si è tenuto conto degli anni mancanti nelle serie storiche di alcuni paesi. Questo elevato persistente livello medio del rapporto debito pubblico/PIL ha avuto un’evoluzione non lineare nel corso dei 150 anni con forti oscillazioni tra fasi di accumulo e di riduzione più o meno intense e rapide, e più o meno regolari o frastagliate. In ciascuna fase, diversi ne sono stati i fattori e le modalità di accrescimento e di riduzione, diverso il ricorso al risparmio interno e a quello estero (sia pur talvolta “estero vestito”, ma di origine nazionale), diversa la quota 144 di finanziamento monetario prescelto o imposto e dei titoli o prestiti a breve o lunga scadenza, e diversi, secondo la grande varietà delle circostanze economiche e finanziarie nazionali e internazionali, i presumibili effetti diretti e indiretti provocati dal disavanzo e debito pubblico su variabili quali i tassi di interesse, il risparmio e l’investimento privato, il tasso di crescita del prodotto interno lordo. Si possono individuare cinque diverse fasi cicliche con valori minimi e massimi (tab. 4) che presentano oscillazioni sia pur rilevanti ma inferiori a quelle osservate nell’esperienza degli altri maggiori paesi. Rinviando per una descrizione dettagliata alle considerazioni contenute nell’ampia letteratura citata in bibliografia, si può osservare, a livello aggregato, che un primo periodo di sostanziale accumulo del debito pubblico, sia pure molto frastagliato e con molti picchi e avvallamenti, si ha tra il 1861 e la fine dell’ottocento, seguito da una consistente ma irregolare riduzione sino alla vigilia della prima guerra mondiale. 145 Tab. 4 – Italia: minimi e massimi del rapporto debito pubblico/Pil 1861 39,42 1897 1913 128 77,24 1920 1939 159,72 69,39 1943 1947 102,52 24,21 1994 121,84 2007 103,47 2011 121,4 Fonte: Francese, Pace (2008) fino al 2007. In corrispondenza della prima guerra mondiale si ha la più forte impennata del rapporto DP/PIL, il cui abbattimento nei primi anni Venti è attribuibile, oltre che al venir meno delle spese belliche e a qualche prelievo straordinario, all’azione dell’inflazione e prevalentemente alla fortissima riduzione del debito estero. Alla più modesta impennata in corrispondenza della seconda guerra mondiale segue un abbattimento del debito pubblico molto più consistente per effetto della fortissima inflazione. L’unico periodo a basso livello e a bassa crescita del debito pubblico è stato, come si è accennato (riquadro 1), il secondo dopoguerra, tra il 1946–47, quando il debito venne praticamente azzerato dall’inflazione e l’economia iniziò a crescere fortemente, e la metà degli anni Sessanta, quando, per effetto di ricorrenti deficit di bilancio, riprese ad accumularsi prima più lentamente e poi accelerando. Questa accelerazione fu causata prima dalle politiche di bilancio dirette a fronteggiare le turbolenze economiche e finanziarie degli anni Settanta e poi dai mutati orientamenti della politica monetaria in assenza di un’adeguata politica fiscale compensativa. La consapevolezza dell’incompatibilità di livelli del rapporto debito/PIL pari al doppio del limite fissato nel Trattato di Maastricht, con l’aspirazione all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea, hanno avviato, alla metà degli anni Novanta, un processo di lenta continua riduzione, che si è interrotto con il sopravvenire della recente Seconda Grande Crisi. Qui preme sottolineare come le singole fasi siano molto diverse tra loro l’una dall’altra, per quanto riguarda sia l’incidenza dei vari fattori che hanno agito con intensità e modalità diverse nelle fasi di accumulo del debito, sia il ricorso ai vari meccanismi messi in atto per la riduzione più o meno rapida e consistente del debito. Rinviando anche qui 146 all’ampia letteratura disponibile 2, ci si limita a ricordare le difficoltà che si incontrano nel ricostruire una completa e precisa contabilità della dinamica del debito anche per la scarsa disponibilità in alcuni periodi di informazioni significative e attendibili. Allo stesso tempo, si vuole sottolineare l’importanza relativa, nei singoli casi, del ruolo svolto dai principali fattori e le loro relazioni con i maggiori mutamenti verificatisi, da un lato, nella situazione economica e finanziaria nazionale e internazionale, nella struttura sociale, nell’organizzazione politica e negli orientamenti ideologici delle maggiori personalità coinvolte; dall’altro, negli obiettivi perseguiti, nei vincoli e negli strumenti della politica di bilancio del momento. Sembra difficile formulare e verificare un’unica ipotesi interpretativa delle varie fasi di accumulo e riduzione del debito e della sua peculiare persistenza a un livello comparativamente molto elevato. Proprio questa caratteristica del debito pubblico italiano sconsiglia di affidarsi a semplici ipotesi interpretative sia pur teoricamente attraenti. Infatti, un elevato livello del rapporto debito/PIL si è avuto in presenza di una popolazione molto giovane con vita media attesa molto bassa e di popolazione invecchiata con vita media attesa molto lunga; quando l’Italia era un paese di massiccia emigrazione e quando è divenuta un paese che riceve immigrati; quando era molto povera e quando è divenuto benestante; in tempo di guerra e in tempo di pace; in periodi di piena integrazione finanziaria internazionale e di relativa autarchia; con politiche monetarie accomodanti e restrittive; durante la monarchia e durante la repubblica; sotto governi di destra e di sinistra; in regime di democrazia parlamentare a suffragio (molto) ristretto e a suffragio universale; quando la spesa pubblica e la pressione tributaria erano basse o alte; quando il costo medio del debito e la sua struttura per scadenze erano bassi o elevati; quando i titoli erano prevalentemente in possesso di residenti o di stranieri, di famiglie o di imprese e intermediariari; quando i responsabili della politica di bilancio erano impegnati a rispettare un rigoroso principio di pareggio del bilancio o una norma costituzionale che imponeva la piena copertura di ogni nuova o maggiore spesa e quando si ispiravano implicitamente a un’impostazione di vago stampo keynesiano. In ciascun periodo e sottoperiodo, sia di aumento che di diminuzione del rapporto debito/PIL, i vari fattori evidenziati nella tradizionale letteratura sull’argomento hanno avuto un’importanza molto differenziata e solo in pochi casi appare un rapporto diretto tra andamento del debito e decisioni di bilancio in senso stretto (eventualmente approssimate dal valore del saldo primario). Gli orientamenti della politica di bilancio spesso possono essere risultati importanti, più che per il contributo quantitativo, come segnali per la 147 stabilizzazione delle aspettative. E la loro efficacia, nel bene e nel male, è stata influenzata, con intensità e modalità diverse, dalle caratteristiche che in quel momento hanno il tasso di crescita economica e di inflazione, il regime valutario e dei movimenti di capitale, gli orientamenti della politica monetaria, la situazione dei mercati finanziari nazionali e internazionali, il livello e la struttura dei tassi di interesse, la composizione del debito per sottosettori (governo centrale, governi locali, altri enti) e per strumenti, la struttura per scadenze e la distribuzione del possesso dei titoli, le prospettive di stabilità politica e il clima di fiducia, il livello e la composizione del prelievo tributario. Ovviamente, tutti questi aspetti sono in qualche modo collegati tra loro e con altre variabili e naturalmente esistono relazioni ricorrenti che possono essere stimate, ma qui interessa sottolineare la profonda diversità con cui tali fattori si sono concretamente combinati nel determinare l’andamento del rapporto debito/Pil nel corso di queste diverse fasi cicliche. Per quanto vari e diversamente importanti (e, talvolta, anche al di fuori della sovranità fiscale nazionale) possano essere i fattori che contribuiscono all’accumulo del debito pubblico, essi in tutti i casi portano a dover affrontare, prima o poi, lo stesso problema: come diminuirlo. Anche nella riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, la storia del debito pubblico italiano mostra una grande varietà di esperienze e il concorso di una molteplicità di fattori: una rapida crescita economica, un miglioramento del saldo primario (non sempre ottenuto con un contenimento delle spese piuttosto che con un aumento delle tasse, ivi compresi alcuni prelievi straordinari sul patrimonio), una riduzione del costo del debito (spesso destinata solo in parte e un suo abbattimento), una lieve o forte inflazione, una rinegoziazione o conversione del debito più o meno volontaria o forzosa, il ricorso a prelievi o dismissioni patrimoniali (privatizzazioni). Nonostante questa grande varietà di esperienze, si riscontra una peculiare persistente elevata propensione al debito pubblico. Dove se ne possono rintracciare le origini? Forse in alcune “abitudini e mentalità del paese” formatesi nella fase di costituzione dello Stato italiano? E quali sono? Sin dalla costituzione del nuovo Regno d’Italia, la finanza pubblica rappresentò il fulcro centrale del lungo e complesso processo di unificazione economica del paese, e ne fu a sua volta condizionata, attraverso l’unificazione amministrativa, tributaria, monetaria, doganale, infrastrutturale e del debito pubblico. Basterà ricordare la difficilissima situazione finanziaria che, nonostante qualche iniziale illusorio ottimismo, si dovette affrontare per effetto del peso del debito ereditato, dell’impellenza delle spese per la difesa e la sicurezza nazionale e le infrastrutture di base, nonché delle difficoltà di reperimento delle 148 entrate a causa di carenze organizzative e di limiti strutturali legati all’arretratezza economica e alla situazione sociale del paese. È interessante esplorare, sia pure per grandi linee, come si sia riusciti a superare una grave crisi finanziaria, ad assicurare il finanziamento delle spese necessarie riuscendo anche ad aprire un qualche spazio a spese per lo sviluppo economico e civile, e a costruire un sistema tributario che, nelle sue strutture portanti, rimarrà in vita per circa un secolo. Per comprendere la grandiosità, e al tempo stesso i limiti, di questa opera, bisogna tener conto delle difficili condizioni ambientali in campo politico, economico, sociale e finanziario, e della pesante eredità trasmessa al nuovo Regno d’Italia da Stati divisi e indebitati. L’ostilità o il sospetto con cui molti Stati stranieri guardavano alla nascita del nuovo Regno d’Italia rendevano necessario e urgente allontanare il rischio di dissesto e disintegrazione dello Stato appena costituito e consentirgli di raccogliere i fondi necessari anche sui mercati internazionali. Anche sul fronte interno, nonostante la sostanziale comunità di obiettivi e di impostazione della politica economica di tutta la classe politica e dirigente, la breve durata della maggior parte dei governi costituitisi dopo l’Unità impedì spesso che le decisioni venissero prese secondo un disegno coerente e complessivo e si ricorresse invece a misure urgenti adottate sotto la pressione dell’emergenza. Il tutto in una situazione di bassa crescita economica, con profondi squilibri territoriali e diffuse aree di arretratezza profonda, in un clima di insicurezza in larghe zone del paese (e non soltanto nelle parti in cui si manifestò il fenomeno drammatico del brigantaggio), e con tensioni sociali alimentate o sfruttate dagli oppositori del nuovo Stato. La prima legge dell’unificazione finanziaria approvata subito dopo la proclamazione del Regno fu la n. 94 del 10 luglio 1861, con la quale fu istituito il gran Libro del debito pubblico. Questa legge rafforzava le garanzie dei creditori verso lo Stato già contenute nello Statuto albertino 3, prevedendo che “il pagamento delle rendite iscritte nel gran libro non potrà mai, in nessun tempo, o per qualsiasi causa, anche di pubblica necessità, venire diminuito o ritardato “ (art. 3) e che “la prima assegnazione da farsi nel bilancio di ciascun anno sarà per il pagamento delle rendite che costituiscono il debito pubblico” (art. 4). I primi titoli di debito iscritti nel Gran Libro furono quelli degli Stati entrati e far parte del nuovo Regno, cui seguiranno poi quelli degli altri Stati che ne entreranno a far parte successivamente (il Veneto nel 1866, Roma nel 1870). La maggior parte del vecchio debito iscritto riguardava il regno di Sardegna (per oltre il 57%) e il Regno di Napoli (per circa il 30%). Il problema del riconoscimento dei debiti degli Stati pre-unitari fu al momento rapidamente discusso e risolto positivamente in base 149 all’esigenza di rendere evidente la continuità tra i vecchi Stati e il nuovo Regno d’Italia e per assicurare a quest’ultimo la caratteristica di debitore credibile cui poter affidare tranquillamente in futuro i propri risparmi. Naturalmente, accanto alla sottolineatura di tali aspetti positivi, non mancarono le polemiche circa l’aver trasferito su tutta l’economia nazionale l’onere di un debito che originariamente non era uniformemente distribuito tra le varie zone del paese così come non erano uniformemente distribuiti gli eventuali benefici delle spese che quel debito aveva finanziato nei diversi (e soprattutto nei due maggiori) Stati pre-unitari. Come altri aspetti dell’unificazione finanziaria del paese, anche quella del debito pubblico fu una scelta per molti aspetti obbligata e opportuna, ma che contribuì ad alimentare persistenti polemiche sulla distribuzione territoriale dei costi e dei benefici dell’unificazione politica dell’Italia. Come ricorda Fausto (2005), ciò diede luogo a una vivace polemica cui parteciparono molti autorevoli studiosi, fra i quali, su posizioni opposte, Nitti ed Einaudi, e che avviò un dibattito aspro e inconcludente sulla distribuzione territoriale dei costi e dei benefici delle politiche di bilancio e del ricorso al debito pubblico. Dibattito che spesso ha portato ad accentuare le recriminazioni e i sospetti reciproci di presente o passato sfruttamento, anziché valutare le politiche della spesa e dell’entrata pubblica in termini dei loro effetti sulla crescita economica e la coesione sociale del paese. 6. Subito dopo l’Unità, il rapporto debito/Pil si accrebbe rapidamente con brusche impennate e qualche isolato rallentamento (tab. 5), in controtendenza rispetto all’andamento riscontrabile negli altri due paesi per i quali si dispone di dati comparabili per quel periodo (Graf. 1). A questo rapido aumento del debito pubblico nei primi anni dopo l’Unità, accanto all’assunzione dei debiti dei vecchi Stati, vari altri fattori contribuirono. In primo luogo, l’esigenza di finanziare le spese militari dirette a fronteggiare eventuali attacchi e, soprattutto, a portare a compimento l’unificazione del paese 4. C’era poi da coprire la spesa necessaria per garantire l’ordine pubblico interno e la buona amministrazione in tutte le province del regno e per la costruzione delle infrastrutture nel settore dei trasporti e delle comunicazioni indispensabili per la formazione di un grande mercato unico nazionale. Fin dall’inizio, nell’esposizione finanziaria del 7 giugno 1862 5, Quintino Sella, dopo aver cercato di fornire, sulla base delle scarse informazioni disponibili, una descrizione sufficientemente attendibile della precaria situazione finanziaria, indicava le vie da percorrere per farvi fronte: economie di spesa, aumenti di entrate tributarie, prestiti pubblici, ricorso a convenzioni con privati, vendite di beni. Vedremo più avanti in dettaglio, ancorché in via esemplificativa, come queste diverse strade siano state seguite dai governi della Destra storica con una forte 150 determinazione e una grande varietà di percorsi al fine non soltanto di “assestare” le finanze pubbliche, ma anche di creare le precondizioni per la crescita economica e di provvedere, per quanto possibile, ad un’equa ripartizione dei benefici e dei sacrifici. Vedremo soprattutto come il ricorso a quei diversi meccanismi, per contenere o ridurre il livello del debito, e in particolare a quelli che influenzano il saldo primario di bilancio (contenimento delle spese e aumento delle imposte), sia stato ritenuto necessario ma non sufficiente per fronteggiare l’elevato e crescente debito pubblico e per scongiurare il rischio di default del nuovo Stato. 151 Tab. 5 – Rapporto Debito Pubblico / PIL in Italia, Regno Unito, Stati Uniti: 1861– 1876 Italia Regno Unito Stati Uniti 1861 39,42 108,47 1,94 1862 40,91 106,62 9,51 1863 51,85 100,91 15,25 1864 61,1 95,23 19,06 1865 68,05 91,06 28,45 1866 69,26 86,95 30,11 1867 86,09 87,67 29,9 1868 82,46 84,58 29,76 1869 87,47 83,12 29,63 1870 95,78 77,35 29,88 1871 95,79 71,71 28,94 1872 88,76 67,41 23,62 1873 79,68 61,84 23,13 1874 78,62 63,08 24,98 1875 89,78 63,65 25,47 1876 101,31 65,43 24,54 76,02 82,19 23,39 media 1861–1876 Fonte: IMF, Historical Public Debt Database. 152 Grafico 1. Rapporto Debito pubblico/Pil in Italia, Regno Unito, Stati Uniti: 1861–1876 (fonte: IMF) Sin dalla prima esposizione finanziaria citata, Sella delinea le linee generali di una impostazione che verrà ripresa e approfondita in numerosi successivi interventi e proposte operative. Si ritengono “irriducibili” non soltanto le spese militari e per la sicurezza del nuovo Stato, ma anche le spese per opere pubbliche necessarie per l’unificazione del paese (come le ferrovie) e per favorire la crescita economica. Questa scelta coraggiosa 6, una volta scartati risparmi di spesa rilevanti (ma non quelli “esemplari”, sia pure di modesto ammontare 7), comportava però, per coprire le spese “irriducibili”, il ricorso a maggiori imposte o a prestiti o a dismissioni di beni pubblici. Rinviando più avanti per alcune brevi considerazioni su come furono concretamente perseguite, da un lato, le “economie fino all’osso” della spesa pubblica e, dall’altro, la convinzione esposta da Quintino Sella nella sua prima esposizione finanziaria del 7 giugno 1862 (e riaffermata da tutti i responsabili delle Finanze dell’epoca) che, “per assestare le nostre finanze occorrono imposte, imposte, nient’altro che imposte”, qui ci si vuole soffermare brevemente sulle posizioni e sulle decisioni tenute nei confronti del ricorso al debito pubblico. Nonostante gli sforzi 153 compiuti per ridurre le spese e aumentare le entrate, l’Italia, “dal momento in cui si è costituita, non ha potuto raggiungere mai la prima condizione della stabilità sociale, l’equilibrio fra le entrate e le spese della sua finanza” 8. Si è dovuto perciò ricorrere a forme di finanza straordinaria, ma “prestiti, vendite di beni, affrancamento di (imposta) fondiaria, tutte queste cose che effetto hanno? Hanno per effetto di darci certamente un capitale col quale far fronte a questo disavanzo, ma hanno pure l’effetto di accrescere le spese annue (per interessi), oppure di diminuire le entrate, e per conseguenza di accrescere il disavanzo” (sempre Quintino Sella il 13 dicembre 1865, in Izzo 1962, p. 277). 154 Tab. 6 – Entrate tributarie e spese per interessi (milioni di lire) Entrate tributarie Interessi Differenza Interessi su entrate tributarie (%) 1862 361 143 218 39,61 1863 412 176 236 42,72 1864 466 208 258 44,64 1865 613 258 355 42,09 1866 512 276 236 53,91 1867 601 288 313 47,92 1868 622 290 332 46,62 1869 818 353 465 43,15 1870 702 396 306 56,41 1871 924 414 510 44,81 1872 990 441 549 44,55 1873 985 450 535 45,69 1874 968 458 510 47,31 1875 997 453 544 45,44 1876 992 458 534 46,17 Fonte: Ministero del Tesoro – RGS (1969), Vol. III. Dal 1862 al 1870, riscossioni complessive; dal 1871 al 1876, versamenti complessivi. Per evitare o allentare il circolo vizioso disavanzo-debito-disavanzo, occorre evitare che, una volta ottenuti tutti i possibili ma limitati risparmi di spesa, l’aumento delle imposte serva solo a vanamente rincorrere l’aumento degli oneri di bilancio dello Stato, di cui la parte più rilevante e costituzionalmente garantita e irriducibile è costituita dalle spese per interessi sui titoli del debito pubblico 9. Queste spese hanno assorbito in tutti gli anni del periodo considerato una quota delle entrate tributarie superiore al 40% e in alcuni anni, hanno superato largamente anche il 50% (tab. 6). Anche se queste cifre possono oggi apparire impressionanti, esse non sono da considerarsi eccezionali per i bilanci pubblici di molti paesi dell’epoca. Esse confermano in ogni caso, l’entità dei trasferimenti dai contribuenti ai possessori dei titoli del debito pubblico e l’importanza delle forme di prelievo tributario utilizzate. 7. L’elevatezza dei tassi di interesse, oltre ad aggravare il circolo vizioso disavanzo-debito-disavanzo, ha l’effetto di spiazzare gli investimenti privati: “le conseguenze di un bassissimo corso di rendita sono disastrose; imperocché come volete che si trovino capitali per l’industria, allorquando è aperto un mezzo di collocare con garanzia dello Stato i capitali che danno tanto profitto?… Come dunque la nostra agricoltura migliorerebbe; come le nostre industrie potrebbero sostenere 155 la concorrenza straniera quando il valore del denaro fosse cotanto elevato, mentre si hanno paesi dove i fondi pubblici e per conseguenza il danaro non valgono che il 3, il 4 per cento?” 10. Tra i principali fattori determinanti la disponibilità e il costo del credito vi sono certamente le condizioni in cui si trovano e i modi in cui si comportano i mercati finanziari internazionali. La partecipazione dei capitali internazionali al finanziamento del rapidamente crescente debito pubblico italiano era stata massiccia (Luzzatto 1963, p. 54s.) e le relative buone condizioni inizialmente ottenute dal nuovo Stato italiano, nonostante la debolezza relativa della parte italiana nei negoziati, erano attribuibili solo alle “condizioni di relativa abbondanza sul mercato finanziario internazionale e di accesa concorrenza tra grandi intermediari” 11. Ma quando le condizioni dei mercati finanziari internazionali mutano e peggiorano, si verifica il principio delle maree (oggi correntemente denominato flight to quality secondo cui “i paesi periferici, quale era l’Italia nei decenni dopo l’Unità sono lambiti dall’onda della finanza internazionale quando essa più potentemente si allarga, e sono lasciati a secco per primi quando la stessa accenna a ritirarsi” (De Cecco 1990, p. 23). Accadde così che “la crisi economica e finanziaria di marzo e d’aprile 1866 produsse in tutta Europa un grandissimo sconcerto nella condizione economica privata e pubblica. Quella crisi doveva aver necessariamente effetto ancora più grave in Italia, poiché il credito pubblico appresso di noi è più sensibile ancora a questi grandi avvenimenti … tutti i nostri titoli di credito venivano in Italia per essere riscossi o scontati, e la rendita pubblica ci ritornava a larghe partite. Nel maggio e nel giugno il nostro credito pubblico era così giù che qualunque operazione finanziaria all’estero ci sarebbe stata impossibile” 12 A ciò si aggiunga che “contemporaneamente il nemico ingrossava minaccioso alle nostre frontiere, e noi, con danaro più che scarso nelle casse dello Stato, affrontavamo una guerra che poteva essere terribile per le sue conseguenze e rovinosa per la sua durata” 13. Il governo fu così autorizzato a rivolgersi alla Banca Nazionale nel Regno per ottenere una anticipazione di 350 milioni di lire, concedendo in cambio la sospensione della convertibilità in moneta metallica dei biglietti emessi dalla stessa Banca. Non ci si intende qui soffermare sull’ampio dibattito relativo all’urgenza dei motivi economici e finanziari che portarono all’introduzione del corso forzoso, né sulle modalità con cui fu introdotto, né sugli effetti economici, finanziari e sociali che ebbe 14. Si vuole soltanto accennare ad alcuni motivi per i quali l’introduzione del corso forzoso fu accettato come mezzo temporaneo di copertura del 156 disavanzo (in alternativa al prestito volontario, che avrebbe comportato insopportabili interessi, e a insopportabili maggiori imposte) da parte di una classe dirigente che si ispirava a principi di liberismo economico, sia pure pragmatico, e che aveva come obiettivo ideale quello del pareggio tra entrate e spese pubbliche. Non potendo qui richiamare le diverse posizioni espresse in materia dai principali protagonisti, spesso in aperta contrapposizione fra di loro, ci si limiterà a ricordare sinteticamente alcune opinioni di Francesco Ferrara (1972), che possono chiarire l’apparente contraddizione fra la dichiarazione “che, se vi sono in Italia avversari del corso forzato, io non sarò certamente il più gagliardo di tutti, ma tra i più risoluti e costanti” e che “è verissimo nondimeno che questo corso forzato io lo lodai da principio, e lo lodo ancora l’unico ed il miglior espediente a cui si potesse ricorrere nel momento in cui fu adottato” (p. 101). Premesso che “in generale, io non ho attrazione verso gli imprestiti. Anche a discrete condizioni, il più delle volte non divengono che una causa di penuria perpetua per le nazioni … Quindi, in generale, l’imprestito io lo aborro. Ma, nelle condizioni in cui oggi si trova l’Italia (di bassa crescita e alto costo del debito), vi è più che aborrimento; l’imprestito, lo confesso, mi fa spavento” (105). Né ci si può illudere di contrarlo a miti condizioni rendendolo coattivo, perché “l’imprestito coattivo, fra gli altri suoi enormi difetti, ha questo, di appartenere a quella specie di tasse, nelle quali ciò che arriva nelle casse dell’erario è molto minore di ciò che pagano i contribuenti” e, in definitiva, si risolve in “un gran carnevale dei ricchi, celebrato a spese dei poveri” (106–107). Il corso forzato è “una calamità” e non può essere “un elemento di prosperità” (108): i suoi presunti vantaggi sono apparenti o di breve durata, perché “la carta, col mutabile suo valore, svaporando di giorno in giorno, ha tolto all’energia economica degli italiani ogni base di calcolo, ogni probabilità di avvenire” (126), anche se, “fortunatamente … in Italia la moneta di carta non ha ancora degenerato in un cancro incurabile” (114). Esso va perciò abolito appena possibile, anche se la introduzione non fu un errore di chi la propose “né un suo capriccio” 15, perché “all’epoca di cui parliamo, la fatale coincidenza di una crisi bancaria e di una estrema penuria del tesoro modificava profondamente il problema, e lo modificava fino al punto di spezzare la stessa infallibilità di un principio” (103). Principio che, se è quello del pareggio del bilancio, è necessario riprendere a perseguire con estrema decisione, ma che non è sufficiente a ristabilire il credito del paese”, perché pareggio e credito non sono poi due cose così intimamente connesse e compenetrate che, data una, dobbiamo necessariamente aspettarci l’altra” 16. Infatti, “se fossimo condannati a vivere una vita di agitazioni 157 continue” o apparissimo disposti a correre avventure finanziariamente pericolose, “il mondo crederebbe ben poco al nostro avvenire; il danaro non cercherebbe la nostra rendita, e noi, col bilancio il più pareggiato alle mani, la vedremmo costantemente depressa” (121); d’altro canto, “la guerra o qualche altra sventura consimile potrà tornare; ma se, tornando, portasse il bisogno di chiedere nuovamente aiuto alla carta, questo sarebbe l’effetto degli avvenimenti, non mi si dica che sia l’effetto del disavanzo annuale” (122). Ciò non toglie che “certamente (giova proclamarlo nel modo più solenne), certamente eliminare il disavanzo dai nostri bilanci è bisogno supremo, urgentissimo; e per eliminarlo, checché si dica, bisogna che la somma delle nostre tasse si accresca” (127). Ma, all’aumento delle tasse vi sono dei limiti, costituiti dalla sopportabilità del prelievo complessivo e della sua ripartizione, dalla presenza di “tasse possibili”, come le definisce Ferrara, in funzione dell’ammontare di basi imponibili legate allo sviluppo della ricchezza (allora piuttosto basso e lento) e alla disponibilità dei contribuenti di pagare imposte il cui gettito andava trasferito ai possessori dei titoli per il pagamento del servizio del debito pubblico. 8. Il processo di unificazione tributaria e doganale fu uno dei compiti più complessi e difficili che si dovettero affrontare dopo l’Unità. Si trattava di definire e applicare un sistema doganale e tributario uniforme in un paese che era frammentato in stati e staterelli con regimi doganali e tariffe daziarie estremamente differenziate, con diversità fortissime di strutture economiche e fiscali, di codici, usi, abitudini, di lingua, di amministrazioni finanziarie, di catasti (22, risalenti a epoche diverse, con metodi di formazione e di valutazioni molto differenziati). Inoltre, l’introduzione del nuovo sistema avvenne inevitabilmente a tappe, senza un unico disegno generale unanimemente condiviso, con ricorso a forme di prelievo dettate dall’emergenza e dall’urgenza di produrre gettito immediato, sotto la spinta di esigenze settoriali e territoriali. Sorprende ed è una testimonianza della competenza tecnica e del coraggio politico dei responsabili delle finanze dell’epoca, che il nuovo sistema tributario introdotto nei primi anni dopo l’Unità sia risultato sufficientemente organico e innovativo rispetto ai sistemi adottati negli altri paesi europei 17 e talmente solido da persistere per oltre un secolo nelle sue linee fondamentali. Va sottolineato che il problema di una ripartizione sopportabile e per quanto possibile (tenuto conto delle condizioni economiche e sociali allora prevalenti) equilibrata del carico tributario fu sempre presente. I conflitti esistenti tra i diversi settori colpiti (proprietà fondiaria, ricchezza mobiliare, imprese industriali, consumi popolari) e soprattutto, all’interno di ciascuno di questi gruppi, vennero affrontati 158 con provvedimenti complessi che tendevano a realizzare compromessi ragionevoli anche tra forme di tassazione estreme (ad esempio, tassa sul macinato e ritenuta sugli interessi dei titoli del debito pubblico). A livello aggregato, può notarsi la prevalenza delle imposte sul reddito e il patrimonio praticamente lungo l’intero periodo (Graf. 2), seguite dalle imposte sui consumi. Entrambe queste categorie di imposte vedono diminuire la propria incidenza sul totale nel corso del periodo (tab. 7): le imposte sul reddito e patrimonio in maggior misura (soprattutto per il crollo relativo dell’imposta fondiaria sui terreni, superata alla fine del periodo dall’imposta di ricchezza mobile), mentre tra le imposte sui consumi si riducono fortemente le tasse sui tabacchi, che nei primi anni dopo l’Unità costituivano la seconda principale forma di entrata dopo la fondiaria. Crescono, invece, fortemente i proventi delle dogane e dell’imposta di registro (Graf. 2). 159 Graf. 2. Entrate tributarie statali: composizione percentuale Senza entrare nelle caratteristiche proprie di ciascuna principale forma di imposizione, e sui loro presumibili effetti distributivi, qui si vuole sottolineare un aspetto generale che sembra riguardarne la maggior parte, e cioè l’essere caratterizzate fin dall’origine da una diffusa e differenziata non-compliance, considerata come una “conseguenza quasi naturale della difettosità del sistema e dell’elevatezza delle aliquote 18. L’entità dell’evasione, anche nel solo campo dell’imposizione diretta, apparve fin dall’inizio molto alta 19. 160 Tab. 7. Entrate tributarie statali milioni di lire 1862 Terreni 1876 composizione % media 1862–76 1862 1876 46,40 variazione media 1876–1862 1862–76 167,69 128,08 135,98 12,91 21,09 54,36 49,29 5,48 6,01 183,40 116,51 18,48 13,59 Fabbricati Ricchezza mobile –33,49 Successioni 7,12 31,37 21,85 1,97 3,16 2,98 1,19 Altre imposte 7,72 0,19 5,80 2,14 0,02 0,86 –2,12 182,53 397,40 298,82 50,50 40,04 40,83 –10,46 Totale categoria I Registro 2,40 55,74 39,51 0,66 5,62 5,32 4,95 13,58 37,68 26,59 3,76 3,80 3,67 0,04 4,56 3,27 0,46 0,41 4,49 2,75 0,09 0,45 0,28 0,36 16,30 102,47 71,53 4,51 10,32 9,65 5,81 Dogane 1,85 100,88 70,71 0,51 10,16 9,27 9,65 Totale categoria III 1,85 100,88 70,71 0,51 10,16 9,27 9,65 8,31 5,98 Bollo Concessioni Surrogazione Totale categoria II 0,32 Macinato 56,46 Tabacchi 64,38 82,52 80,09 17,81 8,59 12,08 –9,22 Sali 35,28 85,27 64,13 9,76 8,04 9,04 –1,72 79,83 2,05 50,02 Altre monopolio Fabbricazione 1,45 3,03 Altri consumi 24,38 70,03 0,40 0,31 6,75 7,06 226,41 34,72 32,31 31,35 –2,41 71,00 63,33 9,75 7,15 8,90 –2,60 0,02 0,02 0,03 0,02 71,02 63,34 7,16 8,90 Totale categoria IV 125,49 320,68 Lotto 35,25 Altre att. di gioco Totale categoria V Tot. Ent. tributarie 35,25 0,31 361,42 595,24 9,75 6,73 –0,10 0,31 –2,60 730,80 100,00 100,00 Fonte: Ministero del Tesoro – RGS (1969), Vol. III. Dal 1862 al 1970, riscossioni complessive; dal 1871 al 1876, versamenti complessivi1864. La diminuzione dei redditi tassabili con ruoli dal 1864 al 1872 era stata, dunque, veramente enorme, e può dirsi che, se la frode oculata dei contribuenti non avesse in codesto spazio di tempo così limitato il campo imponibile, la sola imposta di ricchezza mobile avrebbe dato non solo il pareggio, ma un avanzo vistoso che avrebbe permesso la diminuzione dell’aliquota” (Corbino 1931, p. 311–2). Una stima quantitativa, riferita ai tempi recenti, sui rapporti tra evasione, disavanzi di bilancio e debito pubblico è in Alesina e Marè (1996). Il livello e la composizione delle imposte e il grado di adempimento tributario possono essere considerati irrilevanti ai fini della sostenibilità del debito pubblico finché si assume la collettività composta da individui perfettamente omogenei o da un solo individuo. Se, invece, 161 realisticamente si assume che i contribuenti, i possessori dei titoli del debito pubblico e i beneficiari della spesa pubblica che il debito serve a finanziare non coincidono del tutto, allora gli effetti distributivi tra questi tre gruppi, e all’interno di ciascuno di questi tre gruppi, possono divenire estremamente rilevanti ai fini della sostenibilità del debito pubblico. Spaventa (1987) ha richiamato l’attenzione sul fatto che, se ci sono dei limiti sul livello di tassazione che una collettività è disposta a tollerare, una regola fiscale che inizialmente rispetta il vincolo intertemporale di bilancio può portare a una situazione di insostenibilità nel lungo termine 20. Ma già De Viti De Marco 21 aveva affermato che col “prestito il bilancio dello Stato si aggrava della spesa degli interessi a cui risponde l’entrata per egual somma. È, per lo Stato, una partita di giro; ma non è tale nel bilancio economico della collettività, come talvolta è stato affermato. La collettività non è un ente omogeneo, che paga 50 milioni di imposte e riceve 50 milioni di interessi; lo Stato riceve dagli uni 50 milioni di imposta, e paga agli altri 50 milioni di interessi” (De Viti De Marco 1932, p. 18–19). Col progredire dell’accumulazione capitalistica, si avvia un processo di democratizzazione del debito pubblico, perché cresce “il numero delle persone che cercano ai propri risparmi investimenti modesti e sicuri”, acquistando titoli del debito pubblico che, una volta nel loro portafoglio, fanno sì che “il debito d’imposta si compensa, anche nel loro bilancio, col credito di interessi In questo momento il debito pubblico si può considerare come estinto di fatto … Restano le cifre paurose degli originari debiti pubblici e degli interessi, ma il giuoco delle partite di giro tende gradualmente a svuotarne il contenuto economico” (De Viti De Marco 1932, p. 21). Ma un tale processo di ammortamento automatico del debito pubblico è sempre molto parziale e limitato, dipendendo sostanzialmente dal grado di concentrazione dei vari tipi di redditi e patrimoni, dalle loro forme di impiego, dalle modalità specifiche della loro tassazione comparata anche con quella di altre basi imponibili come i consumi o gli scambi. In realtà, la coincidenza tra singoli contribuenti e rentiers è molto limitata e variabile, e il contrasto può divenire evidente e drammatico quando gli oneri del debito pubblico “assorbano una proporzione esorbitante del reddito nazionale” o del prelievo tributario complessivo, come abbiamo visto essere stato il caso nel primo periodo dopo l’Unità d’Italia. Perché “in nessuna società, antica o moderna, gli elementi attivi e produttivi acconsentirono mai a cedere alla classe dei rentiers o portatori di obbligazioni più di una certa proporzione del frutto del loro lavoro. Quando il servizio del debito accumulato ne richiede più di una tollerabile proporzione, si cerca un sollievo generalmente in uno di due – sui tre – metodi possibili. Il primo è il 162 ripudio del debito Il secondo metodo è il deprezzamento del medio circolante … (e il terzo) è l’imposta sul capitale” (Keynes 1925, pp. 81– 82). Senza entrare qui nell’esame dei motivi a favore o contro l’adozione dell’uno o l’altro dei metodi possibili, interessa qui la considerazione di Keynes circa il fatto che il “compromesso tra l’aumento delle imposte e la diminuzione delle spese da una parte e la riduzione di quanto è dovuto ai suoi rentiers dall’altra” (come si immaginava avrebbe dovuto fare la Francia del tempo) sarebbe dipeso dalle “abitudini e la mentalità del paese” (Keynes 1925, pp. 92–3). Si può ritenere che alcune caratteristiche originarie del funzionamento del sistema tributario nei primi quindici anni dopo l’Unità abbiano influenzato a lungo le “abitudini e la mentalità della nazione” e perciò il modo in cui affrontare il problema del debito pubblico. Sono stati fin qui richiamati alcuni aspetti delle vicende originarie di formazione del debito pubblico fruttifero e monetario svoltesi nel primo quindicennio dopo l’Unità d’Italia e che possono avere influenzato in misura e modi diversi nei vari periodi, la peculiare prolungata persistenza di un elevato livello del debito pubblico italiano. In particolare, ci si è soffermati in primo luogo sulle circostanze che hanno portato a coprire la spesa pubblica ricorrendo alle imposte o ai capitali disponibili sul mercato interno e internazionale. Si è rilevata la dipendenza del costo del debito dalla condizioni prevalenti sui mercati e l’avvio di un circolo vizioso disavanzo-debito-disavanzo, che ha spinto ad un certo punto all’adozione del corso forzoso dei biglietti di banca 22. In secondo luogo, si sono richiamate alcune caratteristiche originarie del nuovo sistema tributario introdotto dopo l’Unità, relative al livello e alla composizione del prelievo tributario complessivo ai limiti dell’adempimento tributario, per sottolineare l’importanza che la sopportabilità delle imposte, attraverso gli effetti distributivi legati alla loro riscossione e al pagamento del servizio del debito, può avere sulla sostenibilità del debito pubblico. Il modo in cui si sono svolte le vicende relative a questi due aspetti nel primo quindicennio dopo l’Unità d’Italia può avere influenzato, in misura e modi diversi che in altri paesi, l’evoluzione del debito pubblico nei periodi successivi. Accanto a questi due aspetti, conviene, prima di chiudere, elencarne altri che, assumendo una specifica caratterizzazione originaria nel periodo considerato, hanno poi improntato, con intensità e modalità diverse nei vari sottoperiodi, la peculiare dinamica del debito pubblico italiano. Un primo ulteriore aspetto riguarda alcune carenze e opacità del processo di bilancio e la precarietà o inattendibilità delle previsioni di bilancio. Ovviamente, è comprensibile che, nelle fasi iniziali 163 dell’unificazione, i risultati di bilancio siano stati considerati per lungo tempo provvisori e abbiano subito modifiche e assestamenti sostanziali anche dopo un quinquennio. Ma l’abitudine a rivedere a distanza di tempo e in misura rilevante i risultati di bilancio sembra essere persistita a lungo ed essersi accentuata nei periodi di crisi. Ad esso è in qualche modo legata la precarietà delle previsioni, inizialmente formulate in modo molto ottimistico (basta pensare alla durata dei conflitti bellici, grandi e piccoli, in cui periodicamente ci si imbarcava), e in genere, proprio a motivo delle loro comprovata inattendibilità, quasi mai proiettata con convinzione sul medio-lungo termine, che è quello che conta ai fini del rispetto degli impegni assunti dallo Stato con il ricorso al debito pubblico. Anche questo è fenomeno comune a molti paesi, ma nel caso italiano ha subito fin dall’inizio una accentuazione maggiore che è poi persistita per lungo tempo. Un ulteriore secondo aspetto è rappresentato dalla definizione dei rapporti finanziari tra i diversi livelli di governo. La scelta sostanzialmente accentratrice del nuovo Stato si basava su motivi finanziari (Volpi 1962, p. 19 e 26) e sull’esigenza di ridurre gli ostacoli agli scambi e alla produzione, favorendo l’uniformità degli ordinamenti, anche al fine di mantenere una equilibrata ripartizione degli oneri tributari tra le (allora) principali categorie di contribuenti. La limitata autonomia tributaria locale ha ridotto l’autonomia politica degli enti territoriali (come, forse, era inizialmente desiderato e opportuno), creando un continuo rapporto di complicitàconflitto tra governo centrale e amministratori locali che, in molti casi, sono stati deresponsabilizzati sotto il profilo finanziario. E anche questo ha contribuito alla formazione delle “abitudini e mentalità del paese”. 1. È da notare che, nonostante la recente costituzione di una banca dati sul debito pubblico presso il Fondo Monetario Internazionale (IMF 2011), i confronti internazionali sono resi difficili sia per alcuni vuoti delle serie storiche relativi ad anni “cruciali”, sia per la non sempre contemporanea corrispondenza o la diversa intensità del verificarsi di eventi eccezionali (da finanziare con debito) nei singoli paesi sia per l’assenza di informazioni complete e comparabili su aspetti importanti, quali la struttura per scadenze, il costo o tasso di interesse medio, la residenza e la natura dei sottoscrittori e possessori dei titoli, la quota di titoli variamente indicizzati o emessi in valuta notevolmente superiori a quelli di tutti gli altri paesi considerati, con l’eccezione del Giappone nell’ultimo decennio. 2. Nell’ampia letteratura disponibile, tra le più recenti ricostruzioni e interpretazioni dell’evoluzione del debito pubblico italiano, si segnalano: Spinelli 1989, Toniolo e Ganugi 1992, Zamagni 1992 e 1998, Fratianni e Spinelli 2001, Artoni e Biancini 2004, Fausto 2005, Francese e Pace 2008, Balassone, Francese e Pace 2011, Forte 164 2011. Interessanti spunti sono contenuti in ricerche ancora in progress: Bartoletto, Chiarini e Marzano 2011; Conti e Mastromatteo 2011; Piergallini e Postigliola 2011. 3. L’art. 31 dello Statuto del 1848 sanciva che “Il debito pubblico è garantito. Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile”. È da notare che, nel secondo dopoguerra, questa norma non venne inserita nella nuova Costituzione repubblicana perché sarebbe stato paradossale fornire una garanzia di inviolabilità formale del debito pubblico nominale mentre ne veniva abbattuto il valore sostanziale mediante una violenta inflazione. 4. Appena insediato alla Presidenza del Consiglio dei ministri come successore di Cavour, Bettino Ricasoli, nel suo discorso d’investitura alla Camera dei deputati del 12 giugno 1861, affermò “Prima cura del Governo, anzi suo primo debito adunque sarà di proseguire con alacrità indefessa l’armamento nazionale. Le somme necessarie agli apparecchi militari, quelle pure necessarie al compimento delle grandi opere pubbliche, dalle quali deve svolgersi la potenza economica della nazione, non possono raccogliersi con le imposte. Voi, o signori, siete chiamati a votare una legge che autorizzi il Governo a contrarre un prestito, col quale far fronte alle necessità presenti” (cit. in Romani 1982, p. 214–5). 5. Le citazioni da questo, come dagli altri interventi di Quintino Sella, sono tratte, salvo che non sia altrimenti indicato, dai documenti raccolti in Izzo (1962). 6. “Vi erano due strade – aveva proclamato il Sella alla Camera il 14 aprile 1865 – da tenere nella formazione del Regno d’Italia […] Alcuni […] ed erano i più paurosi […] hanno potuto credere che si dovesse mettere una specie di spegnitoio sopra il bisogno prepotente di lavoro, di movimento sorto in tutto il Regno […] e si dovessero continuare le spese in corrispondenza alle piccole risorse che avevano gli antichi Stati […] Noi abbiamo scelto una via diametralmente opposta; noi ci siamo gettati animosamente a soddisfare i bisogni di civiltà, di progresso che trasparivano da tutte le parti della popolazione italiana” (cit. in Zamagni 1992, p. 11). 7. “Non è soltanto con economie che si può far fronte al disavanzo, e non basta dire: disarmate, riducete le spese dell’esercito e della marina; poiché, quand’anche si licenziasse tutto l’esercito e tutta la marina, e non si dessero gli assegnamenti di disponibilità e di aspettativa a quelli che sono ora in attività di servizio, non si otterrebbe il pareggio. Ciò non ostante è pur sempre d’uopo fare tutte le economie possibili; non si dee spendere un centesimo che si possa risparmiare”: Quintino Sella, Esposizione finanziaria del 13 dicembre 1865, in Izzo 1962, p. 192. 8. “Ha tentato incessantemente ogni mezzo per trarsi fuori da uno stato così anormale e pericoloso; e sarebbe una crudele ingiustizia verso gli antecedenti governi il supporre, come troppo leggermente si fa, ch’essi siano stati negligenti o insensibili all’urgenza di questo supremo bisogno di guarire la piaga del disavanzo. Chi si dia la pena di sostituire alle vane e volgari declamazioni l’esame coscienzioso delle cifre, sarà costretto di riconoscere, che, nello spazio di cinque anni soltanto, ministri e Parlamento hanno saputo ingrossare di 270 milioni le entrate, diminuire di 100 le spese: hanno complessivamente arricchito il reddito 165 pubblico di ben 370 milioni all’anno. Nondimeno, è un fatto altrettanto vero, che da un lato il costante disquilibrio fra le spese e le entrate, dall’altro la sopravvenienza di straordinari avvenimenti politici, generando la necessità di ricorrere, o, se così vorrà dirsi, la facilità con cui si è ricorso, all’infido aiuto del credito, riuscirono a divorare un buon terzo del patrimonio che la nazione venivasi con questi sforzi creando, e ci hanno imposto, quasi inesorabile fato, una ragguardevole cifra di disavanzo, estrema parola, come tutti i nostri bilanci annuali costantemente si chiusero” (dal discorso sulla finanza italiana pronunziato alla Camera dei deputati il 9 maggio 1867 dal ministro delle Finanze Francesco Ferrara, ripr. In Izzo 1962, pp. 370–1). 9. “Per provvedere a(l) disavanzo, se voi ricorrete a mezzi straordinari, se vi rivolgete ai capitali, allora bisogna sottostare ad oneri così gravi, che io non esito a dire che ogni cittadino italiano prudente debba dirci: chiedeteci quello che occorre, ma non continuate con questo sistema, imperocché quello che voi non ci chiedete oggi, ce lo chiederete domani con un aumento ben più grande di quello che noi dovremmo oggi sopportare. Io quindi credo che si debba provvedere a questo troppo notevole disavanzo, e che non vi sia altro modo di provvedervi con utilità del paese se non aumentando le imposte esistenti o stabilendone delle nuove” (Q. Sella, 13 dicembre 1865, in Izzo 192 p, 278). 10. Quintino Sella, Esposizione finanziaria 7 giugno 1862, cit. in Are 1962b, p. 508. 11. De Cecco 1990 (p. 23), che contiene una amplissima documentazione sul debito pubblico estero. 12. Scialoja A., Discorsi parlamentari, vol. II, Roma, p. 88. 13. Scialoja A., Discorso sul corso forzoso, tenuto a Firenze nella seduta del 4 ottobre 1867 del I Congresso della Camera del commercio del regno, in Izzo 1962, p. 338. 14. L’introduzione del corso forzoso ebbe riflessi importanti anche sul dibattito relativo alla struttura del sistema bancario, alla questione della banca unica e della libertà di concorrenza nel settore bancario, nonché al ruolo della banca Nazionale e ai suoi rapporti con il Governo, tanto da far individuare, alla maggioranza della Commissione d’inchiesta del 1868, “la vera ragione dell’introduzione del corso forzoso nella comune volontà della Banca Nazionale e del Governo, una volta falliti i tentativi parlamentari del 1865, di arrivare per via di fatto alla banca unica. Si trattava naturalmente di una forzatura, che però la dice lunga sul clima del periodo e sull’ostilità nei confronti della Banca Nazionale” (Cardarelli 1990, p. 133). Riflessi pratici altrettanto importanti e largamente risentiti ebbe il corso forzoso con riferimento alla circolazione delle monete divisionali argentee, che erano quelle correntemente adoperate dalla popolazione per gli scambi quotidiani e che furono largamente esportate all’stero per essere cambiate in oro, reintrodotto poi in Italia sfruttando l’aggio sui biglietti provocato dal corso forzoso. 15. “Fu l’effetto naturale e inevitabile delle circostanze d’allora. E se, ad ogni costo, si vuole trovare l’uomo che possa dirsene responsabile, non vogliate cercarlo in uno Scialoja, molto meno vogliate risalire sino ad un Sella; cerchiamolo insieme piuttosto al di là delle Alpi; forse lo troveremo a Berlino, forse si chiamerebbe 166 Bismarck” (Ferrara 1972, p. 104). 16. La non corrispondenza tra i saldi di bilancio, il corso della rendita (o costo del debito) e la variazione dello stock del debito pubblico durante l’intero periodo considerato appare molto elevata e variabile e risulta differenziata nell’ambito dei più recenti tentativi di ricostruzione delle serie storiche. Senza entrare qui in una discussione sul peso relativo dei diversi fattori influenzanti la dinamica del debito pubblico nei singoli anni, che pur sarebbe indispensabile per valutare le varie decisioni in materia di bilancio e di debito pubblico via via assunte nelle diverse circostanze, per sottolineare la citata non corrispondenza basterà ricordare che, quando nel 1876 Marco Minghetti annunciava senza particolare enfasi il raggiungimento del pareggio di bilancio fino ad allora ostinatamente ma vanamente perseguito, il rapporto debito/Pil superava per la prima volta nella nostra storia il 100% del prodotto interno lordo. 17. Cfr. l’ampia e documentata analisi tecnico-tributaria contenuta in Marongiu (1988). Va ricordato che il dibattito sugli effetti che le modalità con cui fu attuata l’unificazione tributaria e doganale ebbe sugli squilibri territoriali e settoriali del paese fu subito accesissimo. Una prima dettagliata e discussa analisi quantitativa è in Nitti (1900, 1958), seguita poi da numerosissime ricerche. Sotto l’aspetto tecnico-tributario, si rinvia alla ampia e documentata analisi di Marongiu (1988) 18. Manestra (2011, p. 20), che contiene un’ampia documentazione sul dibattito dell’epoca relativo alle misure da adottare per contrastare il mancato adempimento tributario, e alla sua persistenza nel tempo fino ai nostri giorni. 19. “Le indagini (della Commissione d’inchiesta nominata nel 1875) dimostrarono che il continuo studio della occultazione dei redditi per parte dei contribuenti era stato coronato da prospero successo: basti l’accennare che, mentre i redditi imponibili del 1864, fra i quali non è credibile che figurassero in qualche entità le rendite del debito pubblico e molte altre facilmente occultabili, e senza le province venete e romane, ascendevano a 957 milioni, nel 1872, assoggettati in modo sicuro al tributo i redditi pagati dallo Stato e dagli enti morali ed annesse le provincie suindicate, la massa totale dell’imponibile non sorpassava i 1196 milioni, quantunque vi fossero oltre 580 milioni di redditi colpiti per ritenuta e per la massima parte sfuggiti all’accertamento. 20. “There are at least two conditions needed to rule out the existence of a limit to the sustainable level of taxation. First, a continuously rising tax burden must be without consequences for the individuals’ incentive to work and for the tax base. Second and more important, the individual distribution of income must not be affected by the simultaneous rise in the tax burden and in interest payments on the growing debt: if it is, as will be the case unless very restrictive assumptions on the initial distribution of income and wealth hold, the required increase in taxation may become unsustainable because of the social and political reactions that it raises” (Spaventa 1987, p. 382). 21. I riferimenti sono a De Viti De Marco (1932), che è poi stato sostanzialmente ripreso dall’autore, con alcune modifiche, nelle varie edizioni dei Principi di 167 economia finanziaria. 22. In termini contemporanei diremmo in che misura l’andamento del debito è stato influenzato dalla foreign dominance o dalla fiscal dominance (cui si è ricorso eventualmente come reazione alla foreign dominance). Il dibattito sull’importanza relativa di questi due regimi e sugli effetti della loro variabile configurazione è continuato fino ai nostri giorni. Posizioni diverse ampiamente documentate sono in De Cecco (1990), Fratianni e Spinelli (2001), Savona (2000) 168 Bibliografia Alesina A. e M. Maré (1996), “Evasione e debito”, in A. Monorchio, ed., La finanza pubblica italiana dopo la svolta del 1992, Bologna, il Mulino. Are G. (1962a), Il problema dello sviluppo industriale nell’età della Destra, Nistri-Lischi, Pisa. Are G. (1962b), Il problema dello sviluppo economico dell’Italia nel pensiero e nell’opera di Quintino Sella, in Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, a. V, pp. 486–540. Arena C. (1961), La finanza pubblica dall’Unità ad oggi, in L’economia italiana dal 1861 al 1961, Giuffrè, Milano. Artoni R., Biancini S. (2004), “Il debito pubblico dall’Unità ad oggi”, in Ciocca P. e G. Toniolo (a cura di), Storia Economica d’Italia, Laterza, Bari. 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I provvedimenti presi dal governo italiano a tutto il mese di maggio 2014 e gli andamenti indicati nel Documento di Economia e Finanza dell’8 aprile 2014 sono stati stimati ed incorporati nella ipotesi BASE che esprime, ad oggi, le previsioni “tendenziali” 2014–2018. Il quadro degli andamenti economici e finanziari che si profila appare fragile ed insufficiente a fronteggiare le gravi condizioni economiche, occupazionali e sociali che si prolungano in Italia sin dall’inizio della crisi apparsa sul finire del 2007 e che si protrae da ormai sette anni. La ripresa dell’attività produttiva e della crescita del Pil dovrebbe attestarsi ad un modesto +0,3% in questo 2014 e potrebbe portarsi all’1% nel 2015, rimanendo però poco sopra questo livello per tutto il periodo della previsione fino al 2018. Sulla base di questo andamento il livello reale del Pil del 2007 potrebbe essere raggiunto soltanto al 2022/23. Qui va subito precisato che la nostra previsione di una crescita al +0,3% nel 2014 è basata su una ipotesi ottimistica che si esprime in una crescita tra lo 0,3 e lo 0,4% nel secondo trimestre dell’anno. È evidente che, se così non fosse, allora il tasso di crescita per il 2014 potrebbe portarsi verso lo zero o anche lievemente inferiore allo zero, innescando quindi tecnicamente una ulteriore fase di recessione. Il tasso di disoccupazione, dopo il picco del 13% di quest’anno, dovrebbe ridursi lentamente, ma sarebbe ancora sopra l’11% tra quattro anni. Per tornare al livello del 7% del 2007 occorrerebbe aspettare, se tutto va bene il 2023. Il totale dei disoccupati che ha raggiunto i 3,5 milioni in questa metà del 2014 tenderebbe a ridursi lentamente, ma sarebbe appena sotto i 3 milioni nel 2018, ben lontano dall’ 1,5 milioni del 2007. La finanza pubblica appare in lento e costante riequilibrio, sia in termini di Deficit che di Debito. Il Deficit pubblico si riduce nell’arco del periodo, ma pur mantenendosi al di sotto del 3%, non raggiunge mai quel deficit zero 175 introdotto come vincolo costituzionale nel 2012. Il Debito pubblico in valore assoluto continuerebbe ad aumentare fino oltre i 2.200 miliardi di euro nel 2017/2018, anche se il suo rapporto con il Pil subirebbe una lenta riduzione che dal valore di circa il 134% (al netto dei debiti pregressi delle P.A.) di questo 2014 scenderebbe al 130% nel 2017 ed al 128% nel 2018, ben lontano da quanto prescriverebbe il Fiscal Compact europeo. Appaiono infine segnali di deflazione, contro i quali sta agendo in modo determinato la BCE del presidente Draghi, che si esprimono quest’anno in un andamento dei prezzi al consumo ed un deflatore del Pil attorno allo 0,5% e negli anni successivi sempre ben al di sotto dell’obiettivo europeo del 2%. Questi andamenti sono riportati in modo analitico nella seguente Tavola 1 e nelle Figure 1–11. 176 Tav. 1. PREVISIONI TENDENZIALI: BASE 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA -1,9 0,3 1 1,3 1,3 1,3 DISOCCUPAZIONE % 12,2 12,9 12,7 12,1 11,7 11,3 TOTALE DISOCCUPATI MIGLIAIA DI UNITÀ 3124,2 3304,1 3246,2 3107,3 2995,8 2913,3 TOTALE OCCUPATI MIGLIAIA DI UNITÀ DEFICIT PUBBLICO IN MILIARDI DI EURO 22421 22266,2 22385,3 22571 22724,9 22850,4 -46,8 -48,7 -41,7 -36,7 -32,6 -29,3 -3 -3,1 -2,6 -2,2 -1,9 -1,7 DEBITO PUBBLICO IN MILIARDI DI EURO 2050 2093,9 2134,4 2169,4 2200,3 2228.8 DEBITO PUBBLICO IN % DEL PIL DEFICIT PUBBLICO IN % DEL PIL 132,6 133,8 132,9 131,5 129,9 128,1 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 1,2 0,5 0,9 1,2 1,3 1,5 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 1,4 1 1,4 1,4 1,4 1,4 1560 1580 1621 1664 1709 1756 PIL NOMINALE 177 Fig. 1. TASSO DI CRESCITA (Base) 178 Fig. 2. TASSO DI DISOCCUPAZIONE (Base) 179 Fig. 3. TOTALE DISOCCUPATI (Base) 180 Fig. 4. TOTALE OCCUPATI (Base) 181 Fig. 5. DEFICIT PUBLICO IN % DEL PIL (Base) 182 Fig. 6. DEFICIT PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO (Base) 183 Fig. 7. DEBITO PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO (Base) 184 Fig. 8. DEBITO PUBBLICO IN % DEL PIL (Base) 185 Fig. 9. INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO (Base) 186 Fig. 10. INFLAZIONE – DEFLATORE PIL (Base) 187 Fig. 11. PIL NOMINALE (Base) 188 6 Proposte per una Legge di Stabilità del governo Renzi: riforme economiche ed effetti sull’economia italiana, una strada per uscire dalla crisi entro il 2018, cioè … cinque anni prima Le previsioni “tendenziali” dell’economia italiana, presentate nella precedente sezione, indicano tutta la lentezza e la fragilità della fase che si prospetta nei prossimi anni per la nostra economia e per la nostra società. Quegli andamenti appaiono inoltre del tutto insufficienti ad affrontare la pesante crisi che si prolunga da ormai sette anni e non possiamo aspettare altri otto o nove anni per riportarci ai livelli di reddito e di occupazione del 2007, all’inizio della crisi. Gli andamenti dell’economia e della finanza pubblica, indicati anche nell’ultimo DEF del governo Renzi lo scorso 8 aprile, non prefigurano riforme strutturali e cambiamenti significativi, in quantità e qualità, tali da poter modificare quelle previsioni “tendenziali”. Come ben più analiticamente indicato in questo Rapporto nella sezione delle Analisi, dove abbiamo posto a confronto gli ultimi tre DEF (Monti-Letta-Grilli) le differenze, nei numeri e nella struttura del documento, appaiono relativamente trascurabili. Pertanto se, da una parte, non possiamo subire passivamente gli “eventi” espressi nelle previsioni “tendenziali” (ipotesi BASE), dobbiamo allora, dall’altra parte, porre il problema di quale strategia di riforme strutturali e di spostamenti significativi nelle poste del bilancio pubblico (tra le diverse voci di spesa e di entrata) sono necessari per accelerare la ripresa dell’attività produttiva e dell’occupazione al fine di anticipare i tempi del recupero e riottenere i valori del 2007 almeno “cinque anni prima”, cioè nel 2017/2018 invece che attendere il lontano biennio 2022/2023 espresso dal profilo delle previsioni tendenziali. In questo senso occorre “rottamare” i numeri del DEF che in tutti gli scorsi anni non hanno fatto altro che indicare andamenti “inerziali” con modifiche minimali e pressoché irrilevanti nei percorsi della politica economica e soprattutto negli andamenti dell’economia reale e delle condizioni di finanza sia pubblica che privata, salvo sovrastimare ogni volta le previsioni di crescita ed il percorso di riduzione del Deficit Pubblico con ottimistiche ma poco fondate previsioni di riduzione del rapporto Debito/Pil. Se da un lato, non si può e non si deve supinamente seguire una “inerzia senza speranza”, dall’altro lato, la prospettiva di attese migliori e di speranze più concrete non può basarsi su metodi e tempi 189 miracolistici come se qualcuno potesse avere la bacchetta magica. Questa “speranza” deve poggiare sulla credibilità ed il coraggio delle scelte di politica economica che debbono trovare il loro pilastro di appoggio in “numeri” precisi che indichino la quantità e la qualità della azioni da intraprendere. Sulla base di questo approccio, abbiamo articolato una “proposta” al fine di contribuire ad un concreto e positivo confronto sulla impalcatura che dovrà assumere la prossima Legge di Stabilità del governo Renzi, da presentare in Parlamento entro il prossimo settembre, con l’auspicio che possa anche essere delineata in tempi più rapidi e magari anticipata rispetto alle scadenze previste dal calendario della politica. L’obiettivo di tale proposta è quello di indicare in primo luogo “dove e quante” risorse prendere per poi indicare “dove” metterle, precisando anche il “quanto” ed il “quando”. Occorre cioè una manovra che “sposti” le risorse e miri a mantenere l’equilibrio del bilancio pubblico verso una riduzione del rapporto tra Debito e Pil ottenuta non accrescendo ancor più lo “stock” di Debito a causa di ulteriori “flussi” di Deficit e, soprattutto sostenendo una crescita del Pil più sostenuta e più accettabile anche sul fronte delle prospettive occupazionali. Non si tratta allora di pensare di avere più risorse a disposizione chiedendo deroghe all’Europa sui vincoli sul Deficit pubblico o sugli impegni di rientro del Debito. E questo non semplicisticamente perché ci farebbe incorrere nelle procedure di infrazione dell’Unione Europea, ma soprattutto perché le precarie e fragili condizioni finanziarie italiane con un moloch di Debito Pubblico che è già volato oltre i 2.000 miliardi di euro e, se consideriamo gli oltre 80 miliardi di debiti delle pubbliche amministrazioni da pagare alle imprese, rischia di avvicinarsi al 140% del Pil che rappresenterebbe il “picco storico” dall’Unità d’Italia ad oggi, se si esclude quel 160% raggiunto nel 1920 (dopo la prima guerra mondiale) e che sarebbe di molto superiore al 114% raggiunto nel 1945 (dopo la seconda guerra mondiale). Nella successiva Tav. 2 indichiamo le linee portanti della manovra con la quale intendiamo simulare una possibile Legge di Stabilità. 190 Tav. 2. IPOTESI LEGGE DI STABILITÀ (RISPETTO A DEF) 2015 2016 2017 2018 TAGLIO ACQUISTI -6 -13 -16 -20 TAGLIO TRASFERIMENTI -20 -25 -25 -25 MAGGIORI INVESTIMENTI 5 8 11 15 MINORE IRPEF -10 -15 -15 -15 MINORE IRAP -11 -15 -15 -15 Sulla base di questa strategia di politica economica, le previsioni sull’economia italiana che ne conseguirebbero, con profili strutturalmente diversi da quelli indicati nel DEF di aprile, sono riportati nella seguente Tav. 3, mentre le “differenze” rispetto alle previsioni “tendenziali” BASE sono indicate nella Tav. 4. 191 Tav. 3. PREVISIONI IPOTESI LEGGE DI STABILITÀ 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA -1,9 0,3 2,6 1,9 1,9 1,8 DISOCCUPAZIONE % 12,2 12,9 11,7 9,8 8,4 7,3 3124,2 3304,1 2997,6 2517,1 2160,2 1886,4 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 22421,0 22266,2 22635,4 23169,9 23577,7 23901,4 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) -46,8 -48,7 -25,8 -13,2 -4,0 4,5 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) -3,0 -3,1 -1,6 -0,8 -0,2 0,3 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) 2050,0 2093,9 2124,9 2140,2 2146,4 2145,3 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) 132,6 133,8 131,2 128,5 125,2 121,4 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 1,2 0,5 0,4 0,7 1,1 1,3 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 1,4 1,0 0,8 0,9 1,1 1,2 1560 1581 1634 1680 1730 1783 PIL NOMINALE 192 Tav. 4. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: IPOTESI LEGGE STABILITÀ 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA 0,0 0,1 1,6 0,6 0,6 0,5 DISOCCUPAZIONE % 0,0 -0,0 -1,0 -2,3 -3,3 -4,0 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) 0,0 0,0 -248,6 -590,2 -835,6 -1026,9 TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 0,0 0,0 250,1 598,9 852,8 1051,0 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) 0,0 0,0 15,9 23,5 28,6 33,8 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) 0,0 0,0 1,0 1,4 1,7 1,9 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) 0,0 0,0 -9,5 -29,2 -53,9 -83,5 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) 0,0 0,0 -1,7 -3,0 -4,7 -6,7 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 0,0 0,0 -0,6 -0,4 -0,3 -0,2 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 0,0 0,0 -0,6 -0,5 -0,3 -0,2 0 1 13 16 21 27 PIL NOMINALE La ripresa dell’attività produttiva e della crescita del Pil dovrebbe attestarsi sopra ed attorno il 2% all’anno a partire dal 2015 e sulla base di questo andamento il livello reale del Pil del 2007 potrebbe essere raggiunto al 2018. Il tasso di disoccupazione, dopo il picco del 13% di quest’anno, si ridurrebbe in modo significativo ed al 2018 si riporterebbe al 7% del 2007. Il totale dei disoccupati tenderebbe a ridursi di circa 300/400.000 unità all’anno e si porterebbe sotto i 2 milioni entro il 2018, tornando nel 2019 all’1,5 milioni di disoccupati del 2007. Le condizioni di equilibrio dei nostri conti pubblici sarebbero ottenute con più consistente solidità fino ad azzerare il deficit pubblico nel 2018 ed a ridurre di oltre dodici punti il rapporto Debito/Pil, che si collocherebbe al 121% nel 2018. In queste condizioni non sarebbe rispettato alla lettera il Fiscal Compact, ma sarebbe ben difficile assegnare all’Italia una procedura di infrazione alla luce dei progressi solidi e strutturali così realizzati. Rimarrebbero le incertezze collegate ai rischi di deflazione, ma su questi c’è da contare, come detto in precedenza, sulla lungimiranza e determinazione della BCE del Presidente Draghi. Come indicato in precedenza però, la riduzione dello stock di Debito Pubblico non è semplicisticamente una mera prescrizione dell’Unione Europea. È in realtà una esigenza “interna” italiana al fine di liberare ulteriori risorse a favore di crescita ed occupazione svincolandole dalla necessità di pagare ogni anno il 5% del PIL sotto forma di interessi sul debito. 193 Per questo fine, abbiamo prodotto una ulteriore simulazione che poggia su una nota proposta che indica l’abbattimento del Debito Pubblico attraverso lo strumento del Fondo Immobiliare Italia che sia in grado di anticipare finanziariamente i tempi lunghi della alienazione di quote importanti del patrimonio immobiliare pubblico, nonché il pagamento entro il 2015 dell’intero stock di debiti delle PA verso le imprese. Nella seguente Tav. 5 abbiamo indicato i tempi e le quantità di una azione di questo tipo. 194 Tav. 5. IPOTESI ABBATTIMENTO DEBITO PUBBLICO E PAGAMENTI DEBITI P.A. FONDO IMMOBILIARE ITALIA CON TRASFERIMENTO IMMOBILI PUBBLICI OPE LEGIS, EMISSIONE DI OBBLIGAZIONI CONVERTIBILI DA COLLOCARE SUL MERCATO, PAGAMENTO DEBITI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI NEL 2015 PER 80 MLD DI EURO, 40 DEI QUALI GIÀ CONTABILIZZATI NELL’INDEBITAMENTO DI COMPETENZA PREGRESSO 2015 2016 2017 RIDUZIONE DEBITO (al netto dei pagamenti debiti P.A.) 40 100 100 Come indicato nelle seguenti Tav. 6 e 7, gli effetti di tale manovra, misurati sempre rispetto agli andamenti “tendenziali” dell’ipotesi BASE, sarebbero lievemente positivi sulla crescita e sull’occupazione, sia a seguito delle minori spese per interessi, sia per la maggiore liquidità delle imprese. Ciò che però appare con tutta evidenza è la forte riduzione del Debito che si determinerebbe che condurrebbe il rapporto Debito/Pil al 102% nel 2018, non solo rispettando le prescrizioni del Fiscal Compact ma andando oltre il profilo previsto a tutto vantaggio dell’economia italiana che avrebbe più risorse a seguito del risparmio di interessi e più credibilità a seguito della strategia aggressiva sull’abbattimento del Debito, non trascurando l’effetto intergenerazionale che verrebbe a crearsi a favore delle giovani generazioni che sarebbero gravate da un più ridotto debito pregresso. 195 Tav. 6. IPOTESI ABBATTIMENTO DEBITO PUBBLICO E PAGAMENTI DEBITI P.A. 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA -1,9 0,3 1,3 1,5 1,5 1,4 DISOCCUPAZIONE % 12,2 12,9 12,7 12,0 11,5 11,1 3124,2 3304,1 3241,7 3087,5 2952,9 2846,4 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 22421,0 22266,2 22389,8 22590,9 22768,3 22918,3 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) -46,8 -48,7 -39,8 -29,6 -22,4 -19,1 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) -3,0 -3,1 -2,5 -1,8 -1,3 -1,1 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) 2050,0 2093,9 2088 1977,4 1875,3 1802,9 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) 132,6 133,8 129,9 119,6 110,0 102,4 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 1,2 0,5 0,9 1,2 1,5 1,8 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 1,4 1,0 1,4 1,4 1,5 1,8 1560 1580 1622 1669 1720 1776 PIL NOMINALE 196 Tav. 7. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: ABBATTIMENTO DEBITO E PAGAMENTI P.A. 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA 0,0 0,0 0,3 0,2 0,2 0,2 DISOCCUPAZIONE % 0,0 0,0 -0,0 -0,1 -0,2 -0,3 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) 0,0 0,0 -4,5 -19,8 -42,9 -66,9 TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 0,0 0,0 4,5 19,9 43,4 67,9 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) 0,0 0,0 1,9 7,1 10,2 10,2 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) 0,0 0,0 0,1 0,4 0,6 0,6 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) 0,0 0,0 -46,4 -192,0 -325,0 -425,9 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) 0,0 0,0 -3,0 -11,9 -19,9 -25,7 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 0,0 0,0 0,0 0,1 0,2 0,3 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 0,0 0,0 0,0 0,1 0,2 0,4 PIL NOMINALE 0,0 -0,0 1,1 4,6 11,0 20,4 La recente decisione assunta dalla Banca Centrale Europea in termini di tassi di interesse ed iniezione di liquidità da far confluire ad imprese e famiglie ha come obiettivo finale quello di sostenere la ripresa dell’attività produttiva in tutta Europa ed anche quello di evitare una pericolosa deflazione riportando l’inflazione “almeno” al 2%, nonché quello di riportare l’euro, palesemente sopravvalutato, a condizioni di cambio più coerenti con i fondamentali dell’economia. Per questa ragione abbiamo voluto verificare quali effetti si potrebbero produrre sull’economia italiana qualora il cambio €/$ (e di conseguenza il cambio €/Y cinese) avesse un profilo di riallineamento verso la parità sul dollaro come indicato nella seguente Tav. 8. 197 Tav. 8. IPOTESI EURO/DOLLARO VERSO PARITÀ 2014 2015 2016 2017 2018 CAMBIO €/$ 1,37 1,27 1,17 1,07 1,0 Gli effetti estremamente positivi che si determinerebbero sono indicati nelle seguenti Tav. 9 e 10. 198 Tav. 9. IPOTESI EURO/DOLLARO VERSO PARITÀ 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA -1,9 0,3 1,8 2,1 2,2 1,6 DISOCCUPAZIONE % 12,2 12,9 12,5 11,6 10,8 10,1 3124,2 3304,1 3204,6 2976,5 2763,3 2612,0 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 22421,0 22266,2 22426,6 22700,0 22952,9 23143,6 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) -46,8 -48,7 -37,6 -24,6 -9,6 3,9 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) -3,0 -3,1 -2,3 -1,5 -0,5 0,2 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) 2050 2093,9 2132,6 2159,5 2173,6 2173,8 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) 132,6 133,8 131,9 128,1 121,9 113,5 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 1,2 0,5 1,3 2,5 4,1 6,2 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 1,4 1,0 1,5 2,1 3,4 5,7 1560 1580 1632 1702 1799 1933 PIL NOMINALE 199 Tav. 10. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: VERSO PARITÀ $/€ 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA 0,0 0,0 0,8 0,9 0,9 0,4 DISOCCUPAZIONE % 0,0 0,0 -0,2 -0,5 -0,9 -1,2 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) 0,0 0,0 -41,6 -130,8 -232,5 -301,3 TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 0,0 0,0 41,3 129,0 228,0 293,2 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) 0,0 0,0 4,1 12,1 23,0 33,2 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) 0,0 0,0 0,3 0,8 1,4 1,9 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) 0,0 0,0 -1,8 -9,9 -26,7 -55,0 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) 0,0 0,0 -1,0 -3,4 -8,0 -14,6 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 0,0 0,0 0,4 1,3 2,8 4,7 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 0,0 0,0 0,1 0,7 2,1 4,3 PIL NOMINALE 0,0 0,0 10,8 37,3 90,5 177,4 Certamente, le responsabilità prioritarie della politica economica italiana fanno riferimento ad una Legge di Stabilità che incorpori le riforme strutturali e la strategia indicata nella nostra prima simulazione alternativa agli andamenti “tendenziali-inerziali” dell’ipotesi BASE. Un ulteriore forte impegno sarebbe quello indicato in una strategia di abbattimento del debito pubblico attraverso l’enorme patrimonio immobiliare pubblico che può essere rafforzata da una strategia di privatizzazioni. D’altro canto, un andamento del cambio dell’euro verso la parità sul dollaro non può certo essere determinato da singole entità nazionali europee. C’è però da confidare che l’impegno, la saggezza e la determinazione della BCE possano guidare i mercati verso una condizione di cambi coerenti con i fondamentali delle diverse aree del mondo. Vogliamo pertanto concludere questo nostro Rapporto di Previsione con una simulazione finale che incorpora contemporaneamente tutte e tre le strategie prima proposte. Indichiamo questa ipotesi come Manovra Complessiva e riportiamo i possibili effetti nelle Tav. 11 e 12. 200 Tav. 11. PREVISIONI MANOVRA COMPLESSIVA 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA -1,9 0,3 3,3 3,2 3,4 3,0 DISOCCUPAZIONE % 12,2 12,9 11,5 9,0 6,7 4,6 3124,2 3304,1 2948,4 2315,0 1727,1 1183,6 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 22421,0 22266,2 22685,3 23369,0 24001,4 24583,9 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) -46,8 -48,7 -19,8 7,4 34,6 61,1 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) -3,0 -3,1 -1,2 0,4 1,9 3,3 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) 2050,0 2093,9 2076,5 1937,6 1790,7 1653,1 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) 132,6 133,8 127,4 114,2 101 89,5 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 1,2 0,5 0,7 1,4 2,1 2,3 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 1,4 1,0 0,8 0,9 1,1 1,2 1560 1581 1645 1712 1788 1865 PIL NOMINALE 201 Tav. 12. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: MANOVRA COMPLESSIVA 2013 2014 2015 2016 2017 2018 CRESCITA 0,0 0,1 2,3 1,9 2,1 1,8 DISOCCUPAZIONE % 0,0 -0,0 -1,2 -3,1 -4,9 -6,7 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) 0,0 0,0 -297,8 -792,3 -1268,7 -1729,7 TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 0,0 0,0 300,0 798,0 1276,5 1733,5 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) 0,0 0,0 21,9 44,1 67,2 90,4 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) 0,0 0,0 1,4 2,7 3,9 5,0 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) 0,0 0,0 -57,9 -231,8 -409,6 -575,7 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) 0 0 -5,5 -17,3 -28,9 -38,6 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 0,0 0,0 -0,2 0,3 0,7 0,8 INFLAZIONE DEFLATORE PIL 0,0 0,0 -0,6 -0,5 -0,3 -0,2 0 1 23 47 80 109 PIL NOMINALE A seguito di una strategia complessiva di politica economica, affiancata da un linea europea che miri ad un cambio dell’euro che volga verso la parità sul dollaro al 2018, la ripresa dell’attività produttiva e della crescita del Pil sarebbe sostenuta e si collocherebbe in modo stabile sopra il 3% all’anno e pertanto il livello reale del Pil del 2007 potrebbe essere raggiunto verso la fine del 2017. Il tasso di disoccupazione, dopo il picco del 13% di quest’anno, si ridurrebbe in modo significativo e già si riporterebbe al livello del 2007 nel 2017 ed attorno al 5% nel 2018. Il totale dei disoccupati tenderebbe a ridursi di circa 400/500.000 unità all’anno e si porterebbe sotto 1,2 milioni di unità entro il 2018. Le condizioni di equilibrio dei nostri conti pubblici sarebbero ottenute più rapidamente e con più consistente solidità fino ad azzerare il deficit pubblico al 2016. Il Debito Pubblico comincerebbe a ridursi in valore assoluto già dal 2016 fino a ridursi a poco più di 1.600 miliardi nel 2018. Di conseguenza il rapporto Debito/Pil si ridurrebbe al 100% nel 2017 per poi scendere sotto il 90% nel 2018. In queste condizioni, non solo sarebbe rispettato il Fiscal Compact, ma potremmo realizzare progressi solidi e strutturali che consentirebbero di liberare risorse con un risparmio di interessi pari a circa 25 miliardi di euro all’anno per tutti gli anni successivi. Anche in questo caso, rimarrebbero le incertezze collegate ai rischi di deflazione, ma su questi, ancora una volta, c’è da contare, come detto in precedenza, sulla lungimiranza e determinazione della BCE del Presidente Draghi. 202 Nella precedente sezione delle Analisi abbiamo stimato quale sia stata la perdita di Pil e le conseguenze in termini di equilibri di finanza pubblica misurata rispetto ai dati storici ed a quanto l’economia italiana avrebbe potuto conseguire solo se la crescita fosse continuata secondo la media non certo esaltante del periodo precedente la crisi (2000–2007). Pertanto anche in chiusura di questa sezione vogliamo dare un quadro di sintesi di quanto l’economia italiana potrebbe conseguire nei prossimi anni qualora venissero adottate le manovre illustrate in precedenza come effetti “cumulati” al 2018 rispetto ai valori del 2014. Tali stime sono riportate nella Tav. 13. Qualora infatti si adottassero i provvedimenti indicati nella nostra ipotesi di legge di stabilità, tra il 2014 ed il 2018, si otterrebbero i seguenti risultati “cumulati” (vedi Tav. 13): una crescita del Pil dell’8,5% rispetto al livello di Pil del 2014; una minore disoccupazione del 5,6% con 1.418.000 disoccupati in meno; una maggiore occupazione pari a 1.635.200 unità; un minore Deficit pubblico di 53,2 Mld di euro, con un bilancio in pareggio e poi in avanzo dopo il 2016; un minore Debito pubblico per 135 Mld con una riduzione del rapporto con il Pil di 12,4 punti; un maggiore Pil nominale di 202 miliardi di euro. 203 Tav. 13. EFFETTI CUMULATI 2018-2014 BASE TENDENZIALE CRESCITA LEGGE STABILITÀ ABBAT. DP + PAG. PA €/$ VERSO PARITÀ MANOVRA COMPLETA 4,9 8,5 5,8 7,9 13,5 -1,6 -5,6 -1,8 -2,8 -8,3 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) -390,8 -1418 -457,7 -692,1 -2121 TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 584,2 1635,2 652,1 880,4 2120,5 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) -19,4 -53,2 -29,6 -52,6 -109,8 -1,3 -3,4 -2 -3,3 -6,4 134,9 51,4 -291 79,9 -440,8 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) -5,7 -12,4 -31,4 -20,3 -44,3 PIL NOMINALE 176 202 196 353 284 DISOCCUPAZIONE % DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) Le differenze rispetto agli andamenti “tendenziali dell’ipotesi BASE sono indicate nella Tav. 14. Rispetto agli andamenti “inerziali” dell’ipotesi BASE gli effetti sarebbero i seguenti: una crescita superiore pari all’3,6%; un minore tasso di disoccupazione del 4%; un minore numero di disoccupati pari a 1.027.000; una maggiore occupazione di 1.051.000 unità; un minor Deficit Pubblico di quasi 34 miliardi di euro e di oltre il 2% del Pil; un minore Debito Pubblico di circa 84 miliardi di euro e un rapporto con il Pil inferiore di 6,7 punti. 204 Tav. 14. DIFFERENZE RISPETTO A BASE: EFFETTI CUMULATI 2018-2014 LEGGE STABILITÀ CRESCITA DISOCCUPAZIONE % ABBAT. DP + PAG. PA €/$ VERSO PARITÀ MANOVRA COMPLETA 3,6 0,9 3 8,6 -4 -0,2 -1,2 -6,7 TOTALE DISOCCUPATI (in migliaia di unità) -1027 -66,9 -301,3 -1730 TOTALE OCCUPATI (in migliaia di unità) 1051 67,9 296,2 1536,3 DEFICIT PUBBLICO (in miliardi di euro) -33,8 -10,2 -33,2 -90,4 DEFICIT PUBBLICO (in % del PIL) -2,1 -0,7 -2 -5,1 DEBITO PUBBLICO (in miliardi di euro) -83,5 -425,9 -55 -575,7 DEBITO PUBBLICO (in % del PIL) -6,7 -25,7 -14,6 -38,6 26 20 177 108 PIL NOMINALE 205 Fig. 12. TASSO DI CRESCITA 206 Fig. 13. TASSO DI DISOCCUPAZIONE 207 Fig. 14. TOTALE DISOCCUPATI 208 Fig. 15. TOTALE OCCUPATI 209 Fig. 16. DEFICIT PUBBLICO IN % DEL PIL 210 Fig. 17. DEFICIT PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO 211 Fig. 18. DEBITO PUBBLICO IN % DEL PIL 212 Fig. 19. DEBITO PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO 213 Fig. 20. INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO 214 Fig. 21. INFLAZIONE – DEFLATORE PIL 215 Fig. 22. PIL NOMINALE 216 Allegati: tabelle dati di tutte le simulazioni 217 TASSO DI CRESCITA Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 -1,9 -1,9 -1,9 -1,9 -1,9 2014 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 2015 1,0 2,6 1,8 1,3 3,3 2016 1,3 1,9 2,1 1,5 3,2 2017 1,3 1,9 2,2 1,5 3,4 2018 1,3 1,8 1,6 1,4 3,0 218 TASSO DI DISOCCUPAZIONE Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 12,2 12,2 12,2 12,2 12,2 2014 12,9 12,9 12,9 12,9 12,9 2015 12,7 11,7 12,5 12,7 11,5 2016 12,1 9,8 11,6 12,0 9,0 2017 11,7 8,4 10,8 11,5 6,7 2018 11,3 7,3 10,1 11,1 4,6 219 TOTALE DISOCCUPATI Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 3124,2 3124,2 3124,2 3124,2 3124,2 2014 3304,1 3304,1 3304,1 3304,1 3304,1 2015 3246,2 2997,6 3204,6 3241,7 2948,4 2016 3107,3 2517,1 2976,5 3087,5 2315,0 2017 2995,8 2160,2 2763,3 2952,9 1727,1 2018 2913,3 1886,4 2612,0 2846,4 1183,6 220 TOTALE OCCUPATI Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 22421,0 22421,0 22421,0 22421,0 22421,0 2014 22266,2 22266,2 22266,2 22266,2 22266,2 2015 22385,3 22635,4 22426,6 22389,8 22685,3 2016 22571,0 23169,9 22700,0 22590,9 23369,0 2017 22724,9 23577,7 22952,9 22768,3 24001,4 2018 22850,4 23901,4 23143,6 22918,3 24583,9 221 DEFICIT PUBBLICO IN % DEL PIL Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 -3,0 -3,0 -3,0 -3,0 -3,0 2014 -3,1 -3,1 -3,1 -3,1 -3,1 2015 -2,6 -1,6 -2,3 -2,5 -1,2 2016 -2,2 -0,8 -1,5 -1,8 0,4 2017 -1,9 -0,2 -0,5 -1,3 1,9 2018 -1,7 0,3 0,2 -1,1 3,3 222 DEFICIT PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 -46,8 -46,8 -46,8 -46,8 -46,8 2014 -48,7 -48,7 -48,7 -48,7 -48,7 2015 -41,7 -25,8 -37,6 -39,8 -19,8 2016 -36,7 -13,2 -24,6 -29,6 7,4 2017 -32,6 -4,0 -9,6 -22,4 34,6 2018 -29,3 4,5 3,9 -19,1 61,1 223 DEBITO PUBBLICO V.A. MILIARDI DI EURO Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 2050,0 2050,0 2050,0 2050,0 2050,0 2014 2093,9 2093,9 2093,9 2093,9 2093,9 2015 2134,4 2124,9 2132,6 2088,0 2076,5 2016 2169,4 2140,2 2159,5 1977,4 1937,6 2017 2200,3 2146,4 2173,6 1875,3 1790,7 2018 2228,0 2145,3 2173,8 1802,9 1653,1 224 DEBITO PUBBLICO IN % DEL PIL Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 132,6 132,6 132,6 132,6 132,6 2014 133,8 133,8 133,8 133,8 133,8 2015 132,9 131,2 131,9 129,9 127,4 2016 131,5 128,5 128,1 119,6 114,2 2017 129,9 125,2 121,9 110,0 101,0 2018 128,1 121,4 113,5 102,4 89,5 225 INFLAZIONE CPI PREZZI AL CONSUMO Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 1,2 1,2 1,2 1,2 1,2 2014 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 2015 0,9 0,4 1,3 0,9 0,7 2016 1,2 0,7 2,5 1,2 1,4 2017 1,3 1,1 4,1 1,5 2,1 2018 1,5 1,3 6,2 1,8 2,3 226 INFLAZIONE - DEFLATORE PIL Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 1,4 1,4 1,4 1,4 1,4 2014 1,0 1,0 1,0 1,0 1,0 2015 1,4 0,8 1,5 1,4 0,8 2016 1,4 0,9 2,1 1,4 0,9 2017 1,4 1,1 3,4 1,5 1,1 2018 1,4 1,2 5,7 1,8 1,2 227 PIL NOMINALE Anni Previsione Base Tendenziale 1 Manovra Ipotesi Legge Stabilità 2 3 4 = 1+2+3 Verso Abbattimento D.P. + Pagamento Effetti Parità €/$ Stock Debiti P.A. Complessivi 2013 1560 1560 1560 1560 1560 2014 1580 1581 1580 1580 1581 2015 1621 1634 1632 1622 1645 2016 1664 1680 1702 1669 1712 2017 1709 1730 1799 1720 1788 2018 1756 1783 1933 1776 1865 228 Interventi e dibattito 229 Analisi e proposte degli economisti DANILO TAINO, Corriere della Sera Questo VIII Rapporto di Economia Reale è quest’anno ancora più tempestivo del solito. Credo infatti che negli ultimi mesi si sia aperta una finestra di opportunità per l’Italia che non abbiamo avuto per molti anni. Dalla metà del 2013 ci sono stati movimenti di flussi finanziari, provenienti anche dai paesi emergenti, molto significativi verso l’Europa ed anche verso paesi considerati come periferia dell’Eurozona. Non credo però che questi flussi siano permanenti e che questa finestra di opportunità resterà aperta per sempre. Ritengo che, dopo le elezioni europee, investitori finanziari ed investitori nell’economia reale siano pronti e vogliano entrare in Europa ed anche in Italia con investimenti seri a condizione però che queste opportunità teoriche vengano confermate da una certa stabilità politica. Il risultato elettorale che si è avuto in Italia, al di là di chi ha vinto o ha perso, indica nettamente, con il 40,8% preso dal PD di Matteo Renzi, che gli italiani vogliono “cambiare”. Ecco allora che occorre dare una risposta a questa domanda “di stabilità e di cambiamento” e credo che questa risposta debba andare nella interessante direzione indicata da Mario Baldassarri nel Rapporto di Previsione del suo Centro Studi Economia Reale. La prima domanda che intendo proporre a tutti i partecipanti a questo panel è quella di dare una valutazione sulla possibilità, non tanto di realizzare i numeri finali conseguibili con la proposta di Economia Reale, quanto nel cambio di mentalità e di logica che mi pare siano alla base della stessa proposta. A me pare che il ribaltamento di logica sia sostanzialmente questo: si parte da una rigorosa riduzione degli sprechi e delle malversazioni su specifiche voci di spesa pubblica, si parte da una riduzione dell’IRPEF e da una riduzione dell’IRAP, si parte dalla necessità di privatizzare o comunque di vendere parti del patrimonio. Sulla base di questo schema, si va a fare poi una legge di stabilità che non sia in linea con i vecchi ragionamenti pseudo-rigoristi che stanno sempre all’interno di vecchi numeri fatti e scritti sempre dalle stesse mani, come i confronti tra i vari DEF presentati nella prima parte del Rapporto certificano in modo inoppugnabile. 230 Credo che questa finestra di opportunità per il Paese sia aperta ma, se non si faranno quelle cose, ritengo che entro pochi mesi si chiuderà. Le decisioni di politica economica infatti vanno prese “prima” e quindi credo che nell’autunno prossino avremo la possibilità di verificare in concreto se ci sarà la volontà e la capacità politica di fare qualcosa di nuovo e di diverso o si resterà all’interno di un quadro di lento ma inesorabile declino. All’interno di questo quadro, c’è anche un forte elemento di dibattito sulla questione fiscale e si pone la necessità di intervenire in maniera radicale, anche dal punto di vista della semplificazione e della chiarezza delle regole che è sicuramente uno degli elementi che tiene gli investitori stranieri lontani dall’Italia e che crea problemi seri agli stessi investitori italiani. Non a caso, su questi temi, ci richiamiamo subito alla esperienza ed alla saggezza del Prof. Pedone. ANTONIO PEDONE, Università di Roma “La Sapienza”. Vorrei partire da una mia profonda convinzione: il livello assoluto della pressione tributaria è un fattore estremamente importante nell’influenzare le possibilità di ripresa, sono però altrettanto importanti le modalità e le forme con cui si effettua il prelievo tributario. Questo è un punto centrale della manovra e della legge di stabilità proposta nel Rapporto di Economia Reale, dove infatti si prevede che, di fronte a un taglio di alcune specifiche voci di spesa, ci sia una riduzione consistente di circa 15 miliardi all’anno a regime, sia dell’IRPEF sia dell’IRAP. Questo è un punto importante e centrale e ritengo che sia obiettivo che vada assolutamente perseguito, come ha ben detto Roberto Mazzotta nella sua introduzione quando ha ricordato che l’eccessiva pressione tributaria è un rilevante fattore di freno della ripresa economica in Italia. Uno dei difetti maggiori del nostro sistema tributario che produce effetti negativi sull’economia italiana è il mancato rispetto della seconda delle quattro massime di Adam Smith di cui vorrei provare a leggere qualche punto perché credo che sia di grande attualità. Dice Adam Smith: “L’imposta che ogni individuo è tenuto a pagare deve essere certa e non arbitraria. Il tempo del pagamento, il modo di pagare, la somma dovuta (provate a calcolarlo per la Tasi, inciso di Antonio Pedone). Questi tre aspetti il tempo del pagamento, il modo di pagare, la somma dovuta dovrebbero essere tutti chiari e semplici per il contribuente e per ogni altra persona”. Ribadisce Adam Smith: “Quando non sia così, ogni persona soggetta all’imposta è più o meno sottoposta all’arbitrio 231 dell’esattore, il quale può gravare l’imposta su un contribuente cui vuole nuocere o può estorcergli, con il timore di qualche aggravamento, qualche regalia o vantaggio per sé stesso. L’incertezza del sistema fiscale incoraggia l’insolenza e favorisce la corruzione di una categoria di persone per natura impopolari – come gli esattori o la guardia di finanza o quello che sia – anche quando non sono né insolventi né corrotte. La certezza di ciò che ciascuno deve pagare è, nella tassazione, una questione così importante che a quanto io ritengo risulti dall’esperienza di tutte le nazioni un alto grado di ineguaglianza non è male tanto grave quanto un piccolissimo grado di incertezza”. Ora, tutti concordiamo che si debba fare una seria lotta all’evasione ed alla corruzione. Ebbene Adam Smith “dice” che il nostro attuale sistema tributario, non rispettando alcuno dei tre principi prima indicati, crea un ambiente favorevole alla corruzione. Ecco perché ritengo fondamentale affrontare questo problema ed affrontarlo concretamente più delle considerazioni molto popolari e spesso populistiche sulle semplificazioni. I sistemi tributari moderni non possono essere semplificati, debbono invece essere gestiti molto meglio dando certezza partendo dalla formulazione delle norme tributarie e dalla responsabilità di chi deve applicarle. Anche qui l’arbitrarietà di cui parla Adam Smith è andata crescendo inevitabilmente. Per di più oggi siamo di fronte ad un sistema tributario di massa e quando i soggetti da sottoporre a controllo sono circa 40 milioni, diciamo 30 quelli effettivamente da controllare, è chiaro che c’è una scelta da fare comunque e la si può fare sulla base di certi indicatori. Rimane però in ogni caso un margine di discrezionalità. Questa discrezionalità va certamente regolata ed in qualche modo vincolata. Altrettanto certamente però margini di discrezionalità rimangono pur sempre mentre in Italia facciamo finta di niente e, come per l’obbligatorietà dell’azione penale, facciamo finta che non ci siano motivi di scelta o criteri da rendere espliciti, salvo quando scoppiano eclatanti e palesi conflitti magari anche interni all’amministrazione. Spero che ci si concentri su questo aspetto molto più che su altri aspetti, meno importanti ma magari di maggiore appeal sul piano politico della comunicazione mediatica. Vengo ora ad altri tre temi: 1) come ridurre il livello della pressione tributaria complessiva; 2) come modificare la composizione del prelievo per grandi categorie di imposte (dirette, indirette, sul lavoro, sul capitale, sulle rendite, sui consumi e così via); 3) come modificare la struttura dell’imposizione per modificare alcuni aspetti dell’IRPEF e dell’IRAP. 1. La riduzione della pressione fiscale complessiva viene in genere condizionata alla riduzione della spesa pubblica, come fa anche la 232 proposta di Economia Reale. Infatti, i 30 miliardi che si debbono ottenere per ridurre l’IRPEF e l’IRAP richiedono una riduzione della spesa di circa 35 miliardi, per destinare 5 miliardi all’aumento degli investimenti pubblici. Ricordo che Mario Baldassarri ha sempre proposto dettagliate riduzioni di spesa in specifiche voci quali “acquisti di beni e servizi” e “Trasferimenti a Fondo perduto”. Sono quindi molto fiducioso che si possa ridurre la spesa pubblica in misura tale da poter avere questa riduzione di imposte di 30–40 miliardi all’anno. So però, e non perché non condivida l’impostazione, che sarà molto arduo realizzare quei tagli e, come direbbe Smith, questa mia cautela poggia sulla base dell’esperienza non di tutte le nazioni ma certo della nostra. Per questo non mi sento così fiducioso. 2. Ecco perché pongo il problema di verificare se, anche con un livello di pressione tributaria non molto ridotto, si possa modificarne la composizione in modo da favorire la crescita ed, eventualmente, ridurre alcune sperequazioni che inducono a forti situazioni di disagio sociale. Su questo piano il problema è quello di vedere quanto utilizzare le grosse voci d’imposta e poi modificarle al loro interno. Il fatto è che le nostre due principali fonti di entrata, l’IRPEF e l’IVA, sono un colabrodo inestricabile. Nell’ultimo rapporto presentato dalla Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica, il lungo capitolo sull’IRPEF italiana è una cosa impressionante in termini di confusione, distorsioni, cose incomprensibili. Ne deriva che, così com’è nella realtà, l’IRPEF serve molto poco alla progressività all’interno di alcuni redditi da lavoro e per di più è di una complessità aggravata dal modo in cui, per esempio, si sono configurati gli 80 euro di sgravio fiscale introdotto dal governo Renzi che modifica le aliquote marginali, le aliquote medie effettive per i contribuenti, creando una serie di disincentivi, problemi di iniquità per tutti i non capienti e per quelli che hanno altri tipi di reddito o redditi misti da lavoro ed altro. Per questo usare queste imposte è ormai diventato un problema estremamente complesso e porta ad effetti indesiderati nel senso che se l’effetto “desiderato” può essere quello di migliorare gli incentivi alla produzione, agli investimenti e altro o ridurre le diseguaglianze e così via, si ottengono invece effetti opposti o comunque molto diversi da quelli iniziali. 3. Il terzo tema che voglio affrontare è quello di agire all’interno di queste forme d’imposta. L’IRAP, ma anche l’IRPEF che grava sulle imprese perché ci sono imprese soggette a IRPEF e poi le società e le imprese soggette all’imposta sui redditi delle società. Anche qui si tratta di affrontare il problema di un confronto sistematico e trasparente dei vari trattamenti tributari e differenziati. Pertanto, non si può più pensare di modificare la struttura del sistema tributario per grandi categorie che 233 rimangono quelle che sono. Il problema è che la costanza di queste proporzioni tra i vari tipi di imposte per grandi aggregati nasconde una trasformazione profonda della struttura al loro interno. È come vedere la foresta dall’alto: rimane sempre una bella foresta ma quello che succede all’interno della foresta, nel sottobosco, è un continuo germogliare di intrecci vari ed è quello che succede se guardiamo le singole imposte. Dobbiamo allora guardare “dentro” la foresta, ma come? La proposta che vorrei fare è adottare il meccanismo, proposto sin dalla metà degli anni ’70 copiando una legge del 1978 in materia di bilancio, di una revisione sistematica dei vari trattamenti tributari differenziati in termini di detrazioni, deduzioni, tax-expenditures di varia natura, trattamenti privilegiati di vario tipo, e valutarne l’efficacia rispetto agli obiettivi per i quali sono stati concessi. Si tratta cioè di introdurre un meccanismo sistematico di verifica della tax expenditure, delle varie tax provisions in materia di imposte (IRPEF, IRES, IRAP e così via). I regimi di imposta, per esempio in materia di IVA, sono una grandissima varietà. Quando fu introdotta all’inizio degli anni settanta era un’imposta per la quale si disse che sarebbe stato facile amministrarla perché si sarebbe “autoamministrata”. L’IVA fu introdotta così perché si disse che un soggetto ha interesse a dichiarare da chi ha acquistato perché così deduce l’IVA sugli acquisti che altrimenti rimarrebbe a suo carico. Ma l’IVA ha dato luogo al maggior sistema di frodi, anche a livello internazionale, con lo sviluppo di una fantasia enorme. Intendo dire che un conto è parlare di un modello ideale di imposta, altro conto è il modello legale, altro conto ancora è l’imposta effettiva così come viene pagata. Aggiungerei anche un ultimo importante aspetto: l’imposta percepita. Per tornare ad Adam Smith, cioè al modo in cui le modifiche di imposta vengono introdotte, faccio esplicito riferimento all’esperienza dell’IMU ed alla più recente TASI, ma anche al caso degli 80 euro. Questo aspetto è molto importante perché quello che conta poi è la reazione del contribuente rispetto al comportamento dell’Amministrazione Finanziaria ed al modo in cui viene percepita una certa imposta. E questo dipende dalle modalità con cui l’imposta viene disegnata, applicata e amministrata concretamente. TAINO In questo dibattito ho apprezzato fino a questo momento il fatto che nessuno abbia parlato di cambiare sostanzialmente la politica economica europea. Al contrario, in questi ultimi mesi si è fatto un gran clamore 234 sulla necessità di uscire dall’austerità. Qui invece si parla molto di riforme strutturali e non di lotta all’austerità. Personalmente li vedo in contraddizione: o si fa la lotta all’austerità o si fanno le riforme strutturali. Vediamo cosa ne pensa Fiorella Kostoris. FIORELLA KOSTORIS, Anvur Vorrei tornare alle domande di fondo poste all’inizio del Rapporto. È stato infatti detto che questo VIII Rapporto di Economia Reale è tempestivo ed io concordo con questa valutazione. Ciò che può anche apparire paradossale è che il Rapporto è tempestivo e allo stesso tempo non si concentra sui dati congiunturali, non si riferisce al dibattito recente che c’è stato sul Pil del primo trimestre di quest’anno. Qualcuno ha detto che il -0,1% di crescita non era corretto, altri hanno invocato motivi per correggerlo quali, ad esempio, il controllo della qualità del dato o anche quello sulla produzione industriale e così via. Ebbene, il Rapporto non è tempestivo in questo senso, è tempestivo, paradossalmente, perché guarda a problemi strutturali e invoca soluzioni di tipo strutturale. Ad esempio, l’analisi delle caratteristiche delle manovre degli ultimi tre governi è importante da questo punto di vista perché ci mette in evidenza delle continuità che, come intende sostenere Economia Reale, sono una delle spiegazioni del perché siamo in crisi strutturale e congiunturale contemporaneamente. Se guardiamo agli elementi di queste ultime tre manovre (che sono elementi da criticare e io li critico come fa Mario Baldassarri) e cioè il fatto che si sono basate su aumenti di spesa, tagli di investimenti, aumenti di imposte di tutti i tipi e, per quanto riguarda la spesa per interessi, andamenti in qualche caso stabili, in qualche caso in diminuzione ecc. Per altro, queste caratteristiche delle manovre di politica economica si ritrovano in Italia anche in riferimento alle precedenti manovre varate prima delle ultime tre. Ad esempio, nel primo governo Prodi il cambio di passo che ottenemmo fu quello di ridurre in un anno solo – lo fece Ciampi da Ministro dell’Economia per il primo governo Prodi tra il ’96 e ’97 – di quattro punti il rapporto DeficitPil. Fu fatto (e ci consentì poi di entrare nell’euro) esattamente con gli stessi elementi: si aumentarono le imposte, si ridusse la spesa in investimenti e si ridussero gli interessi sul debito pubblico, anche se questi si ridussero in un altro modo. I governi Monti e successivi infatti hanno ridotto la spesa per interessi attraverso la contrazione dello spread, invece il governo Prodi-Ciampi –ottenne questo risultato cambiando le aspettative italiane, sostanzialmente le aspettative inflazionistiche che fino al 1995 erano state rivolte su livelli molto alti di 235 aumento dei prezzi. Queste aspettative furono piegate verso il basso e la caduta delle aspettative di inflazione fece cadere l’inflazione effettiva e, di conseguenza, si ridussero i tassi d’interesse. Questa è la diagnosi un po’ diversa che mi sento di esprimere. Il punto fondamentale che voglio sostenere è che noi in Italia abbiamo sbagliato “in modo sistematico” perché ci siamo concentrati nelle nostre manovre su provvedimenti che sono criticabili. In certi casi non potevamo fare di meglio, non credo infatti che il governo Prodi-Ciampi poteva farci entrare nell’euro dove volevamo entrare in un modo sostanzialmente diverso. Il problema è che abbiamo continuato ad usare lo stesso sistema anche dopo ed ormai da quasi venti anni. Ecco perché ritengo il Rapporto tempestivo e, allo stesso tempo, evidenziatore di cose che dovremmo sapere da vent’anni. Ma il Rapporto dice anche come dobbiamo cambiare e lo dice semplicemente facendo un confronto tra i tassi di crescita che potremmo ottenere (e quindi di aumento dell’occupazione, di riduzione del rapporto Deficit-Pil, di riduzione del debito) rispetto all’1%, che è quello che sta nelle previsioni di base. Se fossimo capaci di ridurre tutte le spese, salvo quelle per investimento (e quindi se cambiassimo totalmente rotta) e riducessimo i più importanti fardelli di imposta, IRPEF e IRAP in particolare e quindi il cuneo fiscale, eccetera. Ora questo chiaramente sarebbe in linea anche con alcuni vincoli europei che, tuttavia, lo stesso Baldassarri ci ha detto di criticare: il fiscal compact non è una cosa che piace a lui ma non piace neanche a me. In un certo senso, se ho capito bene, lui lo ha espresso critiche anche dal lato delle regole che impongono sul debito una riduzione di 1/20 all’anno della differenza tra il debito osservato e il 60% che è il nostro target. Effettivamente questa può essere una cosa non accettabile, anche perché il 60% stesso, così come il 3% di deficit nasce da una regola “aritmetica”, come lui stesso ha sostenuto. Oggi ci sono anche alcuni economisti francesi che dicono di essersela inventata negli anni ’80 prima che fosse adottata a Maastricht e hanno anche ribadito il concetto di essersela inventata un po’ occasionalmente. Quella regola ha una forza matematica intrinseca perché è chiaro che, se il tasso di crescita nominale del Pil è del 5% e il deficit è al 3% rispetto al Pil, necessariamente il debito resta fermo al 60%. Forse si può aggiungere che c’è una forza ancora più grande che era evidente all’inizio degli anni ’90 quando fu approvato il trattato di Maastricht, e cioè che il deficit del 3% fu scelto perché in una golden rule che dice che vuole che il deficit deve essere unicamente legato alle spese di investimento, va tenuto conto che all’inizio degli anni ’90 il rapporto investimenti pubblici sul Pil era precisamente del 3%. Oggi però continuare a mettere come target il 60% è sbagliato perché non corrisponde più ai dati. La mia critica del fiscal 236 compact è però collegata soprattutto ad un altro elemento del fiscal compact che pure abbiamo adottato, e cioè che nel medio periodo dovremmo portare il bilancio strutturale in pareggio, salvo qualche piccola ipsilon in più o in meno. Questa regola non ha nessuna base teorica, proprio zero. Cerco di motivare brevemente questa mia affermazione facendo notare che, fondamentalmente, tutto dipende dal tipo di shock, più o meno congiunturale o strutturale, a cui è sottoposto il sistema economico. Se lo shock viene dalla domanda e quindi, sostanzialmente, ci si ritrova con una domanda inferiore a quella corretta per arrivare al pieno impiego, allora il deficit pubblico, come diceva già Keynes, può aiutare a fronteggiare la crisi. Certamente, non tutto quello che diceva Keynes era giusto ma qualche volta aveva ragione anche lui. Pertanto, se lo shock viene dalla domanda, va contrastato con un deficit pubblico perché gli stabilizzatori automatici non bastano e quindi in quel caso il pareggio non ha senso. Se, invece, lo shock negativo è dal lato dell’offerta, certamente il deficit pubblico va tenuto più limitato possibile e, in quel contesto, si può anche immaginare una regola di bilancio pubblico più o meno in pareggio. Ora, poiché non sappiamo prevedere se avremo nel breve, nel medio e nel lungo periodo shock da domanda o da offerta o magari contemporaneamente entrambi, questa regola a cui ci siamo sottoposti per ragioni politiche è priva di senso. Per ragioni politiche intendo dire che abbiamo subìto un punto di vista che viene dall’opinione pubblica tedesca storicamente terrorizzata dall’inflazione. Tutti i Paesi dell’Unione Europea, salvo due, si sono sottoposti a queste regole per il pareggio strutturale che sono tecnicamente sbagliate. Ma quello che Baldassarri propone nel Rapporto del Centro Studi Economia Reale è qualche cosa che è compatibile col fiscal compact, anche se lo ritiene criticabile da certi punti di vista. Perché compatibile? Perché propone una manovra sulla carta che è da bilancio in pareggio, cioè di tanto riduco le spese e di tanto riduco le imposte e poi riduco anche il debito e poi, come terzo elemento, cambio anche il tasso di cambio eurodollaro. Il problema principale della prima componente “di tanto riduco le spese, di tanto riduco le imposte” pone una questione di fattibilità perché bisogna anche domandarsi: ma come mai in tutti questi anni, mentre parlavamo di rigore ed assistevano ad una opinione pubblica che si lamentava del rigore, in realtà facevamo aumenti di spesa pubblica? In realtà, gli interessi che contrastano la riduzione di spesa sono enormi ed i benefici di aumenti di spesa sono estesi. Se così non fosse le teorie da Olson in giù ci spiegherebbero che sarebbe anche facile ottenere queste misure. Ritengo invece che il problema di ridurre le spese correnti è un 237 problema di stipendi pubblici che, invece di essere congelati come attualmente sono dovrebbero diminuire, di gente che dovrebbe andare in cassa integrazione, di mobilità nel pubblico impiego che diventerebbe obbligatoria, il part-time non sarebbe a cura di chi lo domanda come attualmente è, etc.etc. C’è anche un problema più recente, che è quello della diseguaglianza crescente, nel nostro Paese e non solo nel nostro Paese. In una condizione di crisi con una coperta molto stretta (quando il bilancio pubblico, per vincoli che magari vengono dall’Europa, non è utilizzabile) si rischia di avvitarsi in un ciclo perverso. Anche se, come dice Renzi che secondo me ha perfettamente ragione, certe riforme le dobbiamo fare non perché ce lo chiede l’Europa, ma perché ce lo chiedono i nostri figli, i nostri nipoti. Quindi, la coperta è stretta, la situazione è difficile e, per di più, la variabilità nei redditi all’interno del nostro Paese e fra il nostro Paese e altri paesi in Europa sta aumentando. Questo è un elemento abbastanza nuovo perché la variabilità all’interno dell’Europa è qualche cosa che prima del 2007 non c’era. Infatti, dall’inizio della costruzione europea in poi e fino a pochi anni fa, ci siamo trovati con una convergenza fra paesi che aiutava le politiche economiche di natura europea. Oggi invece c’è un processo di divergenza crescente e questo rende più difficili le politiche economiche a livello dell’Unione Europea. Ugualmente la variabilità con i ricchi che diventano più ricchi e i poveri che diventano, almeno dal punto di vista relativo ma anche assoluto, più poveri fa diventare tutto più difficile. E allora vengono fuori soluzioni di tipo consolatorie quali quella di “cambiare” l’indice del Pil e trasformarlo nell’indice della “felicità”. Oppure guadagnano consenso e prestigio demagogico cose non consolatorie ma di tipo antagoniste del genere “anche i ricchi piangeranno”. Lì sta la fortuna del libro di Piketty che lo scrisse di fatto almeno 30 anni fa perché era la sua tesi di PhD all’MIT, che io ricordo di aver letto, in cui sosteneva che occorre portare l’aliquota marginale dei ricchi a livelli altissimi. Ma poiché i ricchi sono sempre meno, mettendo una aliquota marginale altissima, li fai stare molto male, ma non è così che puoi far stare meglio o bene i poveri visto che i ricchi sono sempre meno. A mio parere, sono queste considerazioni che rendono, nell’insieme, difficili le manovre di cui parla nel primo punto Baldassarri. Vorrei ora telegraficamente dire perché ritengo difficili anche gli altri due punti. Quello di ridurre il debito usando il patrimonio immobiliare mi sembra, in un certo senso, più fattibile perché è noto che, da stime che avevo fatto anch’io tanti anni fa, l’insieme degli asset pubblici di natura 238 immobiliare sono paragonabili in valore ai debiti. Credo quindi che la vendita immobiliare è qualche cosa che si potrebbe fare. A me pare però molto difficile immaginare una modifica del tasso di cambio euro-dollaro al punto da portarlo alla parità. Tutta la costruzione della politica monetaria europea e lo statuto della Banca Centrale Europea è basato sulla new classical economics, cioè sul concetto della neutralità della moneta, della separazione dell’inflazione dalla parte reale dell’economia. Il rapporto euro-dollaro, il cambio dell’euro, è, in quella concezione, un prezzo di mercato in cui sostanzialmente non si potrà fare molto. Quindi io non dico che non si possa cambiare, ma questo chiederebbe cambiamenti dei trattati e, francamente, anche guardando dal punto di vista politico su come si è formato questo nuovo Parlamento Europeo e su come sono le opinioni pubbliche in Europa ritengo che questo tipo di cambiamento sia difficile. Mario Draghi sta facendo del suo meglio usando gli strumenti che ci sono magari con nuove interpretazioni. Magari ci salva per quel che può, ma non può andare molto oltre. TAINO Mi pare di aver capito, che la spending review seria e vera sarebbe piuttosto difficile, forse anche impossibile. Anche su questo chiedo al prof. Piga di esprimere le sue valutazioni. GUSTAVO PIGA, Università di Roma “Tor Vergata” Questa occasione di dibattito ha un merito che voglio evidenziare ed è quello di aver finalmente rimesso in visibilità Carlo Cottarelli, dandogli una seria occasione in cui intervenire. E questa è una questione importante. Molti interventi che mi hanno preceduto hanno giustamente sottolineato che, in questi anni e per molti versi, nulla è cambiato. In realtà non è proprio così perché, rispetto a due anni fa, una cosa è cambiata. Qualcuno potrebbe infatti riferirsi al fatto che è crollato lo spread. In realtà non è vero nemmeno questo perché se si guarda allo spread che influenza le finanze pubbliche e cioè che tiene conto dei differenziali anche di inflazione, lo spread reale non è crollato così tanto. È vero che se si parla con gli operatori di mercato si sente dire che, di fatto, le aspettative non sono più per una fine dell’euro o per una uscita di qualche paese dall’euro. Ora però, poiché gli spread esistono, bisogna 239 chiedersi perché esistono ancora questi spread visto che non mettono più in conto la svalutazione della liretta piuttosto che della dracma. Da questo punto di vista mi sento di condividere ciò che Joe Stiglitz ha sostenuto e cioè che quello che veramente l’Europa rischia in questo momento è quella che lui ha chiamato “la sindrome europea”, e forse poteva anche dire “la sindrome italiana”, pensando alla sindrome giapponese che ha accompagnato quel paese per una ventina d’anni. E questa sindrome è fatta di deflazione e stagnazione. Stiglitz ha infatti detto che l’Europa rischia una stagnazione di vent’anni fatta di deflazione e stagnazione. Ecco perché ci sono ancora degli spread elevati perché, probabilmente ad un certo punto, si potrebbe materializzare la possibilità di fare un bel consolidamento del debito visto che la crescita non riesce a ripagare il debito. E, ovviamente, Stiglitz avvertiva tutti “attenzione che il problema non è dove va il debito durante la stagnazione, è dove va il Paese, dove vanno i giovani, dove vanno le piccole imprese che sono destinate o a morire o a scappare e questo con degli effetti non più ciclici, ma permanenti e di lungo periodo sulle capacità di un paese di generare ricchezza, sviluppo e benessere”. Allora poiché il nostro problema assomiglia sempre di più a una sindrome giapponese, forse varrebbe la pena di chiedersi come si affronta una simil-sindrome giapponese. La storia del Giappone è una storia di fallimenti e successi ripetuti. Oggi, prendiamo atto che c’è un signore che sta mostrando una grande leadership e forza nelle sue politiche economiche, si chiama Abe, ed Abe, a parte le riforme che ancora non ha fatto, al suo arco ha tre frecce e una di queste due frecce si chiama “un cambio drastico di politica monetaria”. Ha cambiato il governatore della Banca Centrale ed ha cambiato l’obiettivo di politica monetaria. Ora qui c’è un problema – che si è posto anche il Giappone –: come si fa politica monetaria in una situazione di trappola della liquidità dove, anche se si inietta enorme liquidità, i tassi d’interesse non scendono. La risposta che ci saremmo dati vent’anni fa (una risposta ancora interessante ma purtroppo puramente teorica) è che si prende il telefono e, benché sia un mercato, il Governatore di una Banca Centrale punta la pistola sulla testa delle banche e dice “non mi interessa se sei interessato a prestare o no: a quell’impresa devi prestare”. All’epoca si chiamava moral suasion, purtroppo era un’epoca diversa, purtroppo o per fortuna non lo so. Adesso le banche sono private, le banche non sono più pubbliche e devo dire che il clima attuale è, parafrasando Kennedy, “non chiedere cosa la tua banca può fare per il paese” ma “chiedi cosa il paese può fare per la tua banca”. Se si legge la lettera che la Banca Centrale Europea ha mandato al governo Renzi sulla questione degli stipendi del governatore o se uno soltanto cominciasse a fare un piccolo convegno, 240 che magari sarebbe il caso che ne parlassimo visto che è un problema in Europa e che le cose le impariamo a cose fatte, magari cominceremmo a discutere che si sta per preparare una mega emissione di più di 10 miliardi di euro, mentre non facciamo le emissioni per le piccole imprese per ripagargli il debito, ed il debito sale per ripatrimonializzare sei o sette banche. Detto che la moral suasion non funziona (ma anche se funzionasse, anche se mettessimo la pistola alla testa delle banche) c’è un altro problema in una crisi come questa e cioè che molta gente non chiede credito, non ci va proprio in banca. Perché? Perché non vede prospettive. Il clima di una sindrome giapponese è infatti questo “perché devo fare investimenti in un paese dove non c’è ripresa e non c’è domanda”. Le aspettative sono terribilmente pessimistiche. Allora il secondo strumento che ha una Banca Centrale, in un momento di trappola della liquidità e Franklin Delano Roosevelt ce lo insegna dagli anni ’30, è influenzare le aspettative. Su questo differisco un po’ dall’ottimismo del bellissimo Rapporto di Mario Baldassarri che ha il coraggio di ripetere delle cose che in Italia non dice nessuno. Qui però vorrei leggere un passo tratto dall’ultimo rapporto della Banca Centrale Europea del 5 giugno 2014 dove la Banca Centrale Europea prende atto che nuovamente ha sbagliato le sue previsioni, di tre mesi in tre mesi, e che, mentre a marzo diceva che l’area euro sarebbe cresciuta dell’1,2%, ha preso atto che l’area euro nel 2014 crescerà dell’1%. E dov’è che ha sbagliato la Banca Centrale? Là dove le aspettative contano di più, come sempre, cioè sugli investimenti la cui stima era +2,1% tre mesi fa ed è oggi a +1,7%, quindi sbaglia sempre sulle aspettative. La cosa interessante è leggere, dopo queste stime, cosa dice la Banca Centrale quando afferma: “Le nostre stime di crescita – quelle al ribasso – le abbiamo fatte tenendo conto dei programmi di aggiustamento fiscale dei vari paesi (il riferimento puramente causale all’Italia non c’è perché non può menzionare singoli paesi ma è ovvio che si riferisce all’Italia) dove abbiamo tenuto conto soltanto delle manovre fiscali approvate in Parlamento o sicure di essere approvate . La BCE dice, quindi, “queste sono le nostre proiezioni – ma sappiate bene che queste politiche fiscali, scritte sulla carta dai governi, non vanno per niente bene perché sono terribilmente lasche e mancanti di rigore”. E cosa fa la Banca Centrale, dice: “bisogna fare più politiche fiscali restrittive rispetto a quelle previste”. Di quanto? “Dello 0,5% in media sull’area euro”, quindi immaginate se è 0,5 in media vuol dire 0 Germania e 1 Italia, e poi correttamente – perché si vede che il modello della Banca Centrale funziona, hanno dei moltiplicatori – dice: “queste manovre fiscali genereranno nel 2015 e nel 2016 uno 0,7%, quindi un moltiplicatore di circa 0,8 e 0,5 di crescita in meno. 241 Allora, giustamente, la Banca Centrale si preoccupa perché afferma che le politiche fiscali generano recessione e tende subito a chiarire. Qui arriva il passaggio chiave che, ovviamente, così come l’ho letto io lo può leggere qualsiasi imprenditore europeo che deve decidere se fare investimenti in Italia, in Germania piuttosto che nelle Filippine o in Brasile, “dobbiamo ribadire che questa nostra analisi d’impatto fiscale, che genera recessione, si concentra solo sugli aspetti di breve periodo di queste probabili misure fiscali ulteriori, benché anche misure fiscali ben disegnate hanno spesso effetti di breve periodo negativi sul tasso di crescita del Pil, vi sono effetti positivi di lungo periodo sull’attività economica”. Qui però si pone un problema alla Banca Centrale Europea: non appare evidente l’orizzonte temporale di lungo termine. Anche se ci si proietta al 2016 nemmeno il loro modello neoclassico riesce a catturare questi effetti positivi dell’austerità. E così continua la BCE: “dunque i risultati della nostra analisi non devono essere interpretati come motivo per dubitare della necessità di ulteriori sforzi di consolidamento fiscale” e dicono cosa sono questi ulteriori sforzi: aumenti di tasse indirette e riduzioni di spesa e non riduzione di sprechi ma di spesa e basta “anzi, ulteriori sforzi di consolidamento sono necessari per restaurare finanze pubbliche sane nell’area euro, senza questi consolidamenti vi è il rischio che gli spread possano peggiorare; inoltre gli effetti sulla fiducia potrebbero essere negativi tarpando le ali alla ripresa”. Allora, se questo è un modo di agire sulle aspettative, mi dispiace ma non ci siamo. Questa non è una lentezza nella tempistica di intervento, è una lentezza micidiale, è un danno sulle aspettative perché so che vivrò per i prossimi tre anni in un paese dove la Banca Centrale chiama al telefono la Commissione Europea che chiama al telefono i singoli governi e gli dice: “per favore fate ulteriori restrizioni fiscali”. Nessuno investe in un continente di questo tipo. Tra l’altro assomiglia molto, e in questo devo dire io ho criticato Monti tutta la mia vita ma una cosa buona Monti l’ha fatta, assomiglia molto a un’assurdità che non è nemmeno neoclassica: l’idea che si può scambiare, in un momento come questo, una politica monetaria espansiva con una politica fiscale restrittiva. Infatti, quando Monti ha resistito a Draghi dicendo “No, la troika non la voglio” il dibattito era: “Ti dò la troika, se tu ti prendi la troika io ti compro i titoli”. Purtroppo questo, in una deflazione alla giapponese, come ci insegna Abe, non funziona. Qui arrivo alla seconda freccia di Abe che è la manovra, che possiamo chiamare “alla Baldassarri o Haavelmo a rovescio”, la possiamo chiamare Stiglitz che la raccontò a Monti due anni fa a Piazza di Pietra quando gli disse “guarda tu devi fare una manovra espansiva col bilancio in pareggio”. E la manovra espansiva col bilancio in pareggio ce l’ha raccontata Mario Baldassarri, 242 prendo un anno: 2015, -6 tagli agli acquisti, sprechi, -20 tagli ai trasferimenti, siamo a 26: come li usi questi 26? 5 per maggiori investimenti, 10 per minore IRPEF, 11 per minore IRAP. Se io volessi cambiarla io ci farei, e qui devo purtroppo citarvi dei dati, molti ma molti più investimenti pubblici. Ora, io vorrei ricordarveli i dati perché, ovviamente Mario Baldassarri ha fatto una cosa molto importante, ha preso il periodo 2000–2013. Quel periodo però è fatto di due periodi: è fatto da un periodo di espansione e un periodo di recessione dove l’Europa ha sbagliato tutto perché ha fatto sempre politiche pro-cicliche, non ha fatto austerità quando ce ne era bisogno, ha fatto austerità quando non ce ne era bisogno. Se uno va a vedere che cosa abbiamo fatto dal 2007 al 2013, in circa 7 anni, con circa il 14% di aumento dei prezzi in 7 anni: gli investimenti pubblici, in termini nominali, sono scesi da 36 a 27 miliardi, con una riduzione in termini reali ben più consistente. Come ricordato da Fiorella Kostoris si parlava di 3% di investimenti pubblici in riferimento al limite di deficit del 3%, indicando implicitamente uno zero deficit di parte corrente. Ebbene, Letta-Saccomanni stavano all’1,6%, RenziPadoan l’hanno portato all’1,4. Voglio ora riferirmi all’andamento della voce di spesa “Stipendi pubblici”. Mi dispiace doverlo far notare, ma l’Università italiana ha appena avuto un taglio di 60 milioni di euro. Ebbene, secondo me, questa spesa è investimento in capitale umano quindi è, in parte, investimento pubblico. In totale, eravamo a 164 miliardi nel 2007, siamo fermi a 164 miliardi nel 2013, si tratta quindi di una diminuzione reale del 14% che porta la spesa per stipendi pubblici in rapporto al Pil al minimo storico del 9,4%, che è minimo storico rispetto a tutta l’Europa. Anche la voce acquisti di beni e servizi intermedi crolla in termini reali. Ma allora tutta la manovra che Mario Baldassarri propone da dieci anni a questa parte e che si basa sui famosi sprechi, malversazioni, ruberie varie dove la si poggia? Esiste lo spreco? Eccome se non esiste. Abbiamo tutti i dati a disposizione di ricerche sofisticatissime per scoprire che in quel 15% di Pil, ci sono i beni e servizi, ma il Mose di Venezia non è beni e servizi, l’Expo di Milano non è beni e servizi. E gli sprechi ci stanno anche là. Allora, cosa deve fare un primo ministro per dare il segnale che quel famoso 2% di Pil di cui parla Mario Baldassarri si riesce ad identificare e quindi a tagliare? Potremmo dire che intanto esiste un’autorità nazionale anticorruzione che potrebbe agire in modo efficace ed efficiente. Ad Hong Kong però l’autorità nazionale anticorruzione ha 1.200 dipendenti e 600 di loro girano armati. L’autorità nazionale anticorruzione italiana di Cantone ha 12 dipendenti, sono studenti dottorandi e se prendono una pistola si sparano sui piedi. Per di più, adesso, abbiamo mandato Cantone a Milano per il caso Expo, ma 243 adesso che facciamo, chi mandiamo a Venezia per il caso Mose visto che non c’è più disponibile Cantone che si deve occupare di Milano Expo? Altro elemento è la spending review ed il commissario Carlo Cottarelli che per altro dà, proprio qui, un suo contributo di grande interesse. Carlo Cottarelli però negli ultimi mesi è sparito: doveva andare alla Presidenza del Consiglio dei Ministri mentre invece gli è stata messa a disposizione una stanza di 12 metri quadrati al Mef in Via XX Settembre e solo cinque dipendenti per fare la cosa più importante di cui ha bisogno il Paese. Ebbene questo è un secondo segnale poco rassicurante. In realtà la vera fonte dei cosiddetti sprechi e ruberie è la formazione di ristretti “cartelli” che negli appalti sono molto pervasivi e potenti tanto che in tutti i Paesi si combattono. L’autorità garante per la concorrenza del mercato ha scoperto 22 cartelli in 22 anni, un cartello l’anno. Perché così pochi? Perché non ha personale sufficiente e capace. A sua volta la Ragioneria Generale dello Stato dovrebbe fare la contabilità analitica, ma quali strumenti ha per questo ruolo? La Corte dei Conti dovrebbe controllare che tutte le pubbliche amministrazioni rispettino le convenzioni CONSIP, ma quanti controlli ha fatto la Corte dei Conti per quelle amministrazioni che hanno comprato fuori delle convenzioni CONSIP. Ebbene, se questo è il contesto, appare praticamente impossibile combattere sprechi e malversazioni varie per decine e decine di miliardi. Ma si potrebbe comunque fare? Credo proprio di sì. Occorre però partire dalla testa. Se il Primo Ministro manda un segnale forte che … la festa è finita, allora la spending rewiev si fa e si fa bene. Voglio concludere con un riferimento al Rapporto di Economia Reale che ho apprezzato moltissimo. Nel Rapporto infatti si presenta una accurata analisi che prende a riferimento gli andamenti “tendenziali” e quelli “programmatici” del Def e, mettendone in evidenza le ipocrisie contabili previsive, propone di “rottamare il Def”. Per di più si dimostra che i numeri del Def Monti-Grilli, Letta-Saccomanni, Renzi-Padoan sono sostanzialmente gli stessi. Infatti il Def è sempre lo stesso perché quei sei signori non hanno mai influito come avrebbero dovuto fare sul documento più importante di politica economica del nostro Paese. Quel documento infatti è scritto altrove, cioè è scritto in Europa. Quindi il problema è che la politica si fa in Europa, con una sola mano che è quella europea. Alla Banca Centrale Europea interessa semplicemente quello che chiede il fiscal compact cioè aumentare gli avanzi primari, sempre e comunque, anche se sono sempre più ottenuti con aumenti di tasse e riduzioni lineari di spesa che hanno generato il quadro tendenziale di crescita asfittica e di disoccupazione in aumento che è stato presentato da Mario Baldassarri. Qualcuno ha giustamente detto che la risposta a questi problemi deve 244 essere politica. Ecco perché allora, quindici di noi hanno formato un comitato promotore ed hanno presentato in Cassazione quattro quesiti referendari sulla legge 243/2012 che introduce nell’ordinamento italiano il fiscal compact che, ovviamente, non può essere modificato unilateralmente, ma certamente si possono e si debbono “depennare” le aggiunte di maggior ottuso pseudo rigore fatte unilateralmente dall’Italia e non richieste dallo stesso fiscal compact. Questo Comitato Promotore è composto da Mario Baldassarri, Danilo Barbi, Leonardo Becchetti, Mario Bertolissi, Melania Boni, Flaviano Bruno, Rosella Castellano, Massimo D’Antoni, Paolo De Joanna, Antonio Pedone, Nicola Piepoli, Gustavo Piga, Riccardo Realfonso, Giulio Salerno, Cesare Salvi. Le firme che dovranno essere raccolte hanno come obiettivo quello di salvare l’Europa, salvare l’euro e permettere finalmente che quello che oggi appare un “dibattito proibito”, cioè quella analisi e quelle proposte contenute nel Rapporto di Mario Baldassarri, diventi finalmente il dibattito fondamentale per le future generazioni. TAINO Chiedo ora al Professor Bagella di commentare anche quanto sosteneva in precedenza la Professoressa Kostoris sulle questioni valutarie e sulla deflazione, cioè sulla possibilità di disegnare uno scenario di parità tra euro e dollaro e quali relazioni con gli Stati Uniti questo scenario dovrebbe prefigurare. MICHELE BAGELLA, Università di Roma “Tor Vergata” I commenti precedenti sul Rapporto di Economia Reale fanno leva su due questioni di carattere generale. Una prima questione riguarda la possibilità, la sostenibilità per meglio dire, di una manovra di bilancio che contenga quei tagli che sono stati indicati in precedenza sui trasferimenti, sulla spesa improduttiva, sull’IRPEF, e sull’IRAP, secondo la strategia, meno tasse- meno spesa. A questo proposito, a sostegno della sua tesi, Mario Baldassarri ha citato alcuni dati contenuti nell’ultimo DEF, dove si parla, mi pare di ricordare, di 64 miliardi di spese non specificate e di altrettanto 60 miliardi di entrate non identificate, anche se è evidente che poi nella rendicontazione si sa qual è il centro di spesa, da una parte, e qual è la fonte di entrata, dall’altra. Cifre notevoli e consistenti sulle quali si possono fare degli interventi 245 da ambo i lati, ma sui quali si innesta quel dubbio, non di principio, ma secondo me, operativo sottolineato anche dalla Professoressa Kostoris, che diceva prima “ fate attenzione che qui si va incontro a delle barriere non facili da superare”. La seconda questione riguarda la politica del cambio, cioè l’idea di orientarla perché si giunga a una inversione di tendenza del rapporto tra euro e dollaro, e vedere l’euro progressivamente tendere verso livelli più bassi rispetto a quelli attuali. Non oso pensare alla parità, perché mi sembra veramente un wishful thinking, però credo che possa giungere a 1,20 dollari per euro, posto che le politiche economiche e monetarie di UE e USA lo rendano possibile. Sulla prima questione riguardante l’impostazione, il Rapporto propone una strategia di Politica Economica fondata su robusti tagli fiscali dal lato delle entrate e dal lato delle spese, per consentire una maggiore crescita del PIL e della occupazione. Di fatto, il Rapporto propone una rivoluzione della strategia di Politica Economica fin qui seguita, orientando il bilancio pubblico verso un ridimensionamento cospicuo per consentire alla economia privata di disporre di più risorse per farla ripartire a tassi più elevati. Un insieme di numeri sul fronte delle entrate e delle uscite che sembrano assumere la caratteristica di un modello paradigmatico per una Politica Economica che intende ridimensionare il peso dello Stato sulla economia. Viene allora naturale porsi innanzitutto la domanda su quanto una simile impostazione sia fondata, quali teorie la supportano, quali debolezze la contrastano. La risposta in ambito accademico spingerebbe alcuni a considerare scenari teorici alternativi e non socialmente compatibili con i tagli fiscali proposti. Altri auspicherebbero che detti tagli si attuassero nel nome del primato della libertà di mercato. Altri ancora, pur condividendo l’obiettivo finale di rilanciare i consumi e gli investimenti privati, consiglierebbero più prudenza perché ogni singola voce del bilancio dello Stato non è solo un numero, ma nasconde situazioni sociali non sempre facili da gestire e condizioni giuridiche complesse con cui i “tagli” devono fare i conti. Ma la proposta del Rapporto non è solo quella di indicare numeri con il segno negativo (tagli). Essa implica il principio che le scelte di politica economica vengono prima di leggi e regolamenti, i quali vanno resi compatibili con esse. Significa dire che se la Politica economica desidera andare effettivamente oltre la conservazione dell’esistente o del voler cambiare poco, deve mostrare di avere la forza di superare la barriera psicologica e operativa del “non si può fare”, perché incapace di liberarsi dei “lacci e lacciuoli” che il bilancio dello Stato insieme alle burocrazie autoreferenziali oppongono al suo rinnovamento, come un recente libro 246 ha ben evidenziato (R. Mania M. Panara, Nomenklatur: Chi comanda davvero in Italia, Laterza 2014) Come è stato sottolineato in precedenza, nel bilancio dello Stato ci sono voci oscure, che un governo che intende cambiare marcia dovrebbe rendere trasparenti, mostrando ai cittadini non solo l’intenzione ma anche la decisione di rottamare oltre che le persone anche i metodi fino a ora adottati nella gestione della “cosa pubblica” e del suo bilancio. Non c’è dubbio che se questo è l’obbiettivo, esso è molto ambizioso. Non è facile scardinare un sistema che è venuto consolidandosi nei decenni passati e che oggi mostra tutta la sua inadeguatezza a fronteggiare la crisi di struttura di cui è vittima l’economia italiana. Ma proprio per questo, ridimensionarlo, appare un’impresa tutt’altro che semplice. Come ha detto Gustavo Piga, il Governo deve prendere iniziative concrete per fugare l’aspettativa che il prossimo DEF sia copia conforme dei Documenti che lo hanno preceduto. Ecco, io credo che sulle scelte di Politica Economica il Governo gioca la sua credibilità, se non è capace di mostrare che è in grado di superare metodi, regole e gruppi che si oppongono al cambiamento. Se non sarà capace di farlo, Il Paese subirà una brusca accelerazione del declino che ormai da anni lo contraddistingue, che è espresso dai tre gap negativi della economia italiana rispetto alla economia della Germania e della media UE: il gap di produttività (Banca D’Italia, Relazione, Maggio 2014), il gap crescente di disoccupazione e il gap di crescita del PIL (M. Bagella, La Trilogia della Sfida competitiva della economia italiana. Fiducia, Trasparenza Merito, WP AISES 2014). Il cambiamento di queste tendenze richiede una ripresa dello spirito di impresa, una ripresa della fiducia sul futuro del Paese e sulla valorizzazione delle sue competenze e del suo capitale umano. Riprendendo un altro punto già richiamato, per far si che le aspettative delle Imprese e delle famiglie vengano invertite e orientate dall’area negativa verso l’area positiva, è necessario che le scelte di politica economica comincino a dare risultati chiari sui tre gap. Allora il cambiamento di clima e di sentimento dei mercati, non solo finanziari ma soprattutto reali, potrà esserci e la situazione si orienterebbe verso “il bello”. E non solo le aspettative a breve, ma quelle di più lungo termine potranno cambiare segno, richiamando investimenti anche dall’estero.. 2. Se si favorisce la ripresa della produttività nel medio termine, l’economia italiana può ritornare a crescere a tassi più elevati di quelli attuali. Purtroppo, questo è un Paese dove il lungo periodo è qualcosa di normalmente sconosciuto perché il dibattito politico-economico si concentra sempre sulla congiuntura: si è fatto questo, non si è fatto questo. Ora quando la congiuntura è negativa, come accade oggi, è importante parlarne perché colpisce nell’immediato gli interessi e quindi 247 tutto ciò che ha a che fare con essi (produzione e occupazione), però non si sottolinea abbastanza quanto sia cruciale guardare alle ragioni che la determinano. Il più delle volte, ma soprattutto oggi, esse sono dovute non a fattori del momento, ma dipendono da ragioni che vengono da lontano, come la cattiva regolamentazione dei mercati e ancora di più la difesa di interessi particolari a scapito degli interessi generali od ancora il cambiamento intervenuto negli ultimi decenni nelle relazioni economiche internazionali, ovvero la globalizzazione. Il punto cruciale sul quale va richiamata l’attenzione della opinione pubblica è questo: la contrapposizione fra interessi particolari e generali, sia fuori che dentro il bilancio dello Stato, sta indebolendo il ruolo della Politica Economica, che finisce per inseguire i primi a scapito dei secondi per creare consenso, ridurre i conflitti, sostenere posizioni diventate indifendibili. In ultima analisi, proponendo soluzioni che accrescono e non riducono la spesa pubblica e che di conseguenza richiedono più tasse, riproponendo il circolo vizioso che il Rapporto suggerisce di spezzare per riavviare consistentemente la crescita del PIL. Senza entrare nella questione dei moltiplicatori della spesa sul PIL, considerati più elevati di quelli della riduzione delle tasse, un dato è certo che la riduzione del debito pubblico non è più rinviabile per i nostri impegni europei. Se la Politica Economica non si ponesse questo obiettivo, la macroeconomia ne mostrerebbe tutte le implicazioni negative, al di là delle discussioni sulle politiche più o meno liberiste. La macroeconomia di bello ha anche questo: consente di proiettare sul futuro gli effetti delle scelte attuali e ne mostra le conseguenze, positive o negative che siano. Come tale, la macroeconomia non è solo una tecnica di previsione, ma, in virtù degli scenari di crescita e di occupazione che consente di elaborare, appare come una filosofia del possibile futuro della Società. Una filosofia coerente con i presupposti dell’economia di mercato, che permette di guardare oltre il quotidiano, di vedere più in là. Se in Italia il dibattito politico economico si orientasse un po’ di più su questi scenari di lungo periodo, sarebbe più chiaro ai cittadini e alle loro rappresentanze quale futuro attende le nuove generazioni, i nostri figli, i nostri nipoti. I media italiani tengono normalmente a sottovalutare questo aspetto, forse perché è più opinabile e forse perché fa “poco notizia”. Emilio Rossi ha presentato un quadro articolato della crescita dell’economia mondiale, ha parlato del Giappone ma anche della Cina, e degli altri paesi emergenti, dove stanno andando, dove sono. Se oltre al rapporto di Oxford Economics si prendono in considerazione altri rapporti di istituzioni internazionali come l’OCSE, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, si può avere una misura dei profondi 248 cambiamenti economico e sociali verificatisi in poco più di un decennio nel mondo, che stanno rivoluzionando la classifica dei Paesi produttori di beni e servizi. Non entro nei dettagli della crescita della Cina, che è diventato il primo paese produttore del mondo, o della avanzata dei BRICs o dell’eccesso di offerta di lavoro che sta rivoluzionando le strutture salariali, le scelte allocative degli investimenti, le politiche di welfare fin qui seguite. anche se mi piacerebbe farlo. Aggiungo solo che in Italia questo tipo di problematiche vengono lasciate ai commenti degli esperti e non vengono presentate abbastanza alla attenzione della grande opinione pubblica, come esse richiederebbero. E così, mentre i parametri di Maastricht li conoscono tutti, i dati sull’aumento della occupazione in Romania o in altri Paesi dell’est europeo vicini all’Italia, non li conosce praticamente nessuno, inducendo a pensare che la disoccupazione in Italia sia aumentata solo causa di detti parametri e non di ragioni interne e internazionali. Il Rapporto di Economia Reale, come ho indicato all’inizio, vede nell’euro forte una delle fonti del rallentamento della ripresa della economia italiana ed europea. La Banca Centrale Europea, come noto nel rispetto del suo mandato che non prevede tra gli obiettivi la stabilità del tasso di cambio, ne lascia la determinazione “ al mercato”. Mario Draghi ha espresso il suo pensiero in un convegno a Londra nel 2012, dicendo che avrebbe fatto qualunque cosa per salvaguardare l’euro, Whatever it takes, adottando anche misure non convenzionali, ovvero non proprio ortodosse. Ma una cosa è difendere l’euro dalle insidie dei debiti sovrani, altra cosa è intervenire nei mercati valutari per stabilizzarne il cambio a favore della economia reale. Per fare ciò bisognerebbe fare delle modifiche ai Trattati, cosa non semplice e rapida. Nel frattempo la BCE potrebbe accrescere la collaborazione con la FED su questa materia. C’è infatti all’orizzonte un evento che potrebbe favorire un simile percorso. Si sta discutendo tra gli Stati Uniti e la Commissione Europea il cosiddetto TTIP, il Trattato Transatlantico per la creazione di un mercato comune tra gli Stati Uniti, i Paesi dell’America del Nord, e i Paesi europei appartenenti all’Unione, e sono in corso trattative tra le due sponde dell’Atlantico che porteranno, si prevede, ad accordi sulle riduzioni tariffarie e delle barriere non tariffarie (leggi e regolamenti specie in materia ambientale). Il processo per giungere all’Accordo segue la strada dei “piccoli passi”, come è scontato in trattative così complesse, ma il risultato finale è prevedibile che ufficialmente o no coinvolgerà anche discussioni e linee di azione sul tasso di cambio. L’Europa infatti può trovare dei vantaggi specifici, aprendo i suoi mercati ai prodotti americani, sempre che i suoi prodotti possono essere competitivi nei mercato d’oltre Atlantico. Il che dipenderà in buona 249 parte anche dal tasso di cambio euro-dollaro. Se alla BCE non verranno dati strumenti di intervento simili a quelli della FED, come potrà essa bilanciare politiche monetarie espansive, che diminuendo il valore del dollaro finirebbero per ridimensionare od annullare i vantaggi derivanti dalle riduzioni tariffarie e non tariffarie? Il premio Nobel, Robert Mundell, in una conferenza del 2010 all’Università di Pechino, ha auspicato che si giunga ad un Accordo tra le principali potenze economiche del mondo, USA, UE, e Cina, riprendendo nella sostanza la proposta di J.M. Keynes dopo la seconda guerra mondiale di adottare una valuta comune il Bancor . Se appare prematuro parlare di una nuova moneta, certamente non lo è parlare di un accordo di cambio tra le due principali Banche Centrali, FED e BCE. Anche su questo tema è auspicabile che si vada avanti. In conclusione, il Rapporto di Economia Reale ha il merito di indicare una strada e sono d’accordo anch’io sull’idea che il Rapporto sia tempestivo, perché giunge in un momento in cui l’opinione pubblica è spaventata, stressata dai dati sulla congiuntura, e ha bisogno di guardare al futuro con più fiducia. Mi auguro che venga ripreso, che vengano mostrati i vantaggi della strategia proposta e che abbia anche la capacità di richiamare l’attenzione dei responsabili di Governo. Nelle sessioni successive avremo dei contributi che potranno indicare se la strategia meno spesa-meno tasse sia socialmente sostenibile, valutando anche se la tempistica proposta sia una tempistica compatibile. Sul piano della politica economica operativa tagliare la spesa pubblica significa tagliare la domanda interna, ma per evitare gli effetti recessivi, bisogna tagliare simultaneamente anche le tasse, verificandone i moltiplicatori. Non voglio andare oltre, però aggiungo che la tempistica degli interventi è cruciale perché questi diano risultati positivi e come tale va accuratamente predisposta. 250 Analisi istituzionali ALESSANDRO BANFI, TG COM Come indicato nel Rapporto di Economia Reale e come già emerso dagli interventi del precedente panel, il taglio della spesa pubblica corrente rappresenta la cosa più importante da fare. Ai partecipanti a questo panel tocca quindi il compito di affrontare nel merito l’argomento chiave di ciò che è stato giustamente definito il Piano Baldassarri. In precedenza Mario Baldassarri ha avanzato in modo articolato e con numeri precisi un’analisi approfondita dei conti pubblici e delle ultime tre manovre degli ultimi tre governi. Ha inoltre offerto una chiave di interpretazione ed una vera e propria “proposta” di manovra con modi, tempi e numeri definiti. La “chiave di volta” della proposta è certamente il taglio della spesa pubblica, la spending review. Ora uno dei meriti di questo workshop, come è stato detto in precedenza da Gustavo Piga, è stato quello di offrire a Carlo Cottarelli, che è il Commissario Straordinario per la spending review, una occasione pubblica per fare il punto sul suo operato ma anche, come è stato detto, in quali condizioni si trova ad operare. Pertanto nel chiedere a Carlo Cottarelli di dare il suo contributo, ricordo innanzitutto a me stesso che i tagli alla spesa proposti nel Rapporto di Economia Reale sono più o meno nell’ordine di grandezza che Carlo Cottarelli ha già accennato in qualche uscita pubblica e si aggirano complessivamente intorno ai 33/35 miliardi, spalmati fra il 2014 ed il 2018. Una domanda viene immediata e spontanea: è possibile davvero fare quello che in Italia è stato impossibile fare negli ultimi vent’anni e, in particolare, con gli ultimi tre governi e cioè andare a toccare quelle voci di spesa che in molti ritengono siano luogo di sprechi, malversazioni e ruberie che, come le ha già definite Mario Baldassarri, danno pesanti elementi di opacità del bilancio pubblico? CARLO COTTARELLI, Commissario Straordinario per la Revisione della Spesa Il mio intervento sarà focalizzato ovviamente sulla parte del Rapporto in cui si discute, citando appunto il Rapporto stesso, come rottamare i 251 numeri del DEF e raggiungere tassi di crescita del Pil molto più consistenti di quelli che sono presentati nel Documento di Economia e Finanza. Il Rapporto di Economia Reale propone di ottenere questo aumento del tasso di crescita del Pil con una strategia che ha tre componenti. La prima componente è un’azione di finanza pubblica mirata a tagliare tassazione e spese correnti ed a rilanciare gli investimenti. La seconda componente è un’azione per ridurre il debito pubblico attraverso le dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato. La terza componente è un’azione a livello europeo che porti al raggiungimento della parità di cambio tra l’euro e il dollaro. Ora, non ho molto da dire sul secondo e terzo punto e non credo di essere stato invitato qui per parlare di questi due punti, però vorrei dire comunque alcune cose su questi aspetti, per poi passare a quello principale che riguarda l’operazione di riduzione delle spese e della tassazione. Sulla riduzione del debito attraverso le dismissioni e in generale la valorizzazione del patrimonio immobiliare non posso che essere d’accordo, non è questa l’area su cui sto lavorando, per cui mi è difficile dire se gli obiettivi proposti sono adeguati, però occorre muoversi con decisione in questa direzione. Sul tasso di cambio credo che sarebbe senza dubbio utile per le imprese europee se il tasso di cambio fosse di 1 a 1 con il dollaro. Questo obiettivo mi sembra però un valore piuttosto lontano da quello che viene considerato (e qui mi metto un po’ il mio cappello che avevo prima quando lavoravo al Fondo Monetario Internazionale) un tasso di cambio di equilibrio sulla base di quelli che gli economisti chiamiamo fundamentals, cioè le determinanti fondamentali. Credo che il Fondo Monetario Internazionale indichi come valore di equilibrio qualcosa intorno all’1,3. Mi rendo conto che le stime dei tassi di cambio sono molto incerte, però ipotizzare che il cambio appropriato sia 1 mi sembra abbastanza fuori da quello che la maggior parte degli economisti riterrebbero qualcosa di sostenibile nel lungo periodo. Ed in ogni caso il cambio non è uno strumento facilmente controllabile. Prima di passare al punto principale del mio intervento circa le proposte in tema di spesa e di tassazione, vorrei anche sottolineare una questione di metodo nella preparazione dei quadri macroeconomici. Il Rapporto nota, giustamente direi, che il quadro di crescita del DEF non è particolarmente ambizioso e non è troppo diverso da quello dei due governi precedenti. Credo però che questo sia il risultato di una decisione presa volontariamente dai responsabili del DEF e in ultima analisi dal Ministro Padoan, e credo che lo abbia detto anche esplicitamente di voler assumere un quadro di crescita prudente. 252 Credo sia importante fare questo anche per una questione di credibilità, soprattutto di fronte a quadri eccessivamente ottimisti che erano stati presentati in passato. È meglio essere prudenti e essere sorpresi verso positivamente, piuttosto che presentare un quadro eccessivamente ottimista ed trovarsi una sorpresa negativa. Fra l’altro si sa che il quadro di crescita è anche utilizzato per prevedere l’andamento delle entrate tributarie, quindi del deficit e del debito. È meglio allora essere prudenti e magari essere sorpresi positivamente ad esempio rispetto all’andamento delle entrate. Se le entrate risulteranno più elevate del previsto il deficit e il debito scenderanno più rapidamente. Questo avverrà automaticamente se vengono introdotti nel nostro ordinamento dei tetti di spesa pluriennali come credo dovrebbero essere introdotti. L’introduzione di un quadro di finanza pubblica di medio termine in cui ci sono i tetti di spesa vincolati sarebbe una importante innovazione istituzionale. Questo si fa in tutti i paesi dove ci sono quelli che in inglese si chiamano medium-term expenditure frameworks. Si possono avere anche alcune eccezioni ad esempio per escludere le spese che sono più cicliche, ma avere un quadro di riferimento con dei tetti di spesa di medio termine è molto importante e consente, nel caso di una sorpresa positiva, di raggiungere una riduzione più rapida del deficit e del debito. Ora veniamo alle proposte relative alla manovra fiscale presentate nel Rapporto di Economia Reale ed, in particolare, a quelle presentate nella tavola 2. Queste proposte sono aggiuntive rispetto al quadro del DEF e comportano essenzialmente una manovra a saldo “zero”, con un taglio della spesa corrente di circa 38 miliardi entro il 2016 che servono a finanziare una spesa aggiuntiva per investimenti di 8 miliardi e un taglio della tassazione di 30 miliardi ugualmente divisi tra IRAP e IRPEF. Questo quadro mi spinge a diverse considerazioni. Prima di tutto non è troppo diverso, come è già stato detto, dalle proposte di revisione della spesa con cui era partito il mio lavoro e non è troppo diverso da quello che viene considerato nello stesso DEF in termini di obiettivi di riduzione della spesa primaria nel triennio rispetto al quadro tendenziale. Il DEF indica in 32 miliardi il risparmio di spesa ipotizzabile per il 2016, contro appunto i 38 miliardi proposti da Economia Reale, quindi non è una cifra drammaticamente diversa. Queste risorse dovrebbero appunto, e lo si dice esplicitamente nel DEF, essere reperibili tramite il processo di revisione della spesa. Quindi, inevitabilmente io sono d’accordo con questa strategia di progressiva e significativa riduzione della dimensione della spesa pubblica corrente per finanziare una detassazione e un aumento degli investimenti. Sugli investimenti pubblici occorre però muoversi con una certa 253 cautela perché sappiamo che non tutti gli investimenti sono ugualmente buoni. Un loro incremento di 8 miliardi sono una cifra abbastanza elevata, però credo che occorra lavorare prima anche sul miglioramento della qualità degli investimenti. È noto, per esempio, che la spesa per investimenti in Germania è stata significativamente più bassa rispetto al Pil di quella italiana senza che questo abbia causato un deficit di infrastrutture. Quindi l’importante è spendere bene e non soltanto spendere tanto. Torno ora alle proposte della tavola 2 del Rapporto. Un primo commento riguarda la spesa per beni e servizi per cui si propone una riduzione per il 2016 di 13 miliardi. La recente riduzione della spesa nel D.L. 66, per intenderci il decreto legge degli 80 euro, è essenzialmente per buona parte una manovra di riduzione di spesa per gli acquisti di beni e servizi, almeno 2,5 miliardi sono infatti tagli sulla voce beni e servizi. Credo che si possa andare ben al di là di questa cifra nel 2015 e nel 2016, arrivando forse a cifre vicine appunto a quelle di questi 13 miliardi che sono ipotizzati nel Rapporto. Nelle mie proposte, nel documento che è stato pubblicato sui giornali con le mie proposte di revisione della spesa, avevo ipotizzato un risparmio di 7 miliardi nel 2016, incluso il settore della sanità, per effetto della riforma del sistema di acquisto di beni e servizi implicitamente assumendo che questi risparmi potessero essere prevalentemente ottenuti attraverso prezzi più bassi. Prezzi più bassi dovuti all’aggregazione degli acquisti, quindi acquisti fatti non soltanto per importi maggiori ma soprattutto acquisti fatti da specialisti e anche forse con un miglior controllo rispetto a possibili fenomeni di corruzione, e acquisti che si ipotizzava, ed è quello che si sta cercando di fare, che saranno accompagnati ad un più rapido pagamento e i pagamenti più rapidi e meno incerti comportano anche prezzi più bassi. Ho indicato quei 7 miliardi incluso il settore della sanità, ma questo però non includeva risparmi sulle quantità, riguardava soltanto i prezzi. Occorre però agire anche sulle quantità e riduzioni nei volumi di acquisti possono essere ottenute attraverso un insieme di altre misure che venivano comunque proposte quali l’efficientamento nella gestione degli immobili, affitti, varie provvigioni pagate dallo Stato alle banche, le sinergie dei corpi di polizia, la riforma della presenza territoriale dello Stato e delle Regioni ecc.. La realizzazione di tutte queste riforme, nelle proposte che ho avanzato, avrebbero portato e porterebbero, se venissero adottate, ad una riduzione dei volumi di acquisto. Quindi tenendo conto dei 7 miliardi per quanto riguarda possibili minori prezzi e qualche altro miliardo per i volumi, si arriva a una cifra che non è troppo lontano da quei 13 miliardi che sono ipotizzati nel Rapporto. 254 Queste riforme naturalmente, sia per quanto riguarda quelle che sono volte a ridurre i prezzi di acquisto su cui stiamo lavorando che quelle che dovrebbero portare a una riduzione dei volumi di acquisto, richiedono tempo e quindi occorre muoversi il più rapidamente possibile in queste aree perché comunque sappiamo che per avere i risultati occorrerà tempo. La seconda proposta presentata nella tavola 2 riguarda la riduzione dei trasferimenti in conto corrente ed in conto capitale (fondi perduti) per 25 miliardi entro il 2016. A me pare una cifra molto elevata ed, infatti, nelle mie proposte la cifra prevista in termini di riduzione dei trasferimenti era di circa la metà e si indicava però in modo esplicito quali erano le componenti di questa riduzione dei trasferimenti. Quindi sarebbe interessante sapere di più su quelle che sono le intenzioni degli autori del Rapporto nell’indicare come ripartire questi 25 miliardi di riduzione dei trasferimenti. Ho già detto che questa è prima di tutto una domanda in qualche modo politica perché con i trasferimenti si tocca la distribuzione del reddito tra diversi soggetti ed aree territoriali, quindi è chiaramente una domanda politica. Però è anche una domanda fortemente economica perché le politiche di trasferimento, come le politiche di tassazione, sono politiche che influenzano in maniera fondamentale i comportamenti del sistema economico, quindi fa una grossa differenza dire che taglio per esempio le pensioni piuttosto che dire che taglio i trasferimenti alle imprese oppure taglio i trasferimenti a questo tipo di imprese. Anche qui quindi c’è la necessità di una maggiore specificità proprio per valutare qual’é l’impatto di queste operazioni sulla crescita sul Pil e in generale sull’efficienza economica. A questo proposito occorre considerare (di questo non si parla nel Rapporto ma credo sia importante in quanto simili ai trasferimenti seppure con segno opposto) le cosiddette spese fiscali che sono le varie agevolazioni fiscali di cui beneficiano famiglie e imprese e sono trasferimenti con il segno opposto. Anche qui credo si potrebbe intervenire. Nel D.L. 66 si riducono le spese fiscali che andavano a favorire l’agricoltura per circa 400 milioni. Credo che sia stato un primo passo importante e forse si potrà andare avanti in futuro perché occorre tenere presente questa miriade di agevolazioni fiscali che comportano, per altro, distorsioni ed iniquità nel sistema di tassazione. Il grande assente nelle proposte della tavola 2 è però il pubblico impiego. Infatti, non si ipotizzano risparmi dal pubblico impiego. Il DEF assume la continuazione, per il 2015 e il 2016, del blocco dei contratti, quindi mi sembra che questa sia la stessa ipotesi che venga fatta nel Rapporto e per questo, appunto, non ci sono risparmi aggiuntivi rispetto a quelli ipotizzati nel DEF. Per ottenere risparmio occorrerebbe ridurre 255 gli stipendi, il che non appare possibile per la grande massa dei dipendenti pubblici. Nelle proposte che ho presentato c’è invece una riduzione abbastanza consistente nelle remunerazioni dei dirigenti pubblici che si è realizzata soltanto in parte e soltanto attraverso la fissazione di un tetto di retribuzione per i dirigenti apicali, i famosi 240 mila euro. Mi sembra di capire che anche gli autori del Rapporto non ritengono che ci si possa muovere ulteriormente in questa direzione o nella direzione di una riduzione complessiva nel totale degli occupati della pubblica amministrazione, quindi anche qui credo sia un’ipotesi implicita, però chiaramente tutta la manovra è concentrata su beni e servizi e trasferimenti. Passiamo al lato della riduzione delle tasse. Si fanno due proposte: la prima è la riduzione dell’Irap per 15 miliardi; la seconda è la riduzione dell’Irpef per lo stesso ammontare di 15 miliardi. Per l’Irap la proposta è abbastanza chiara e ben identificata. Per l’Irpef credo che occorra invece una maggiore chiarezza per valutare l’impatto della manovra sulla crescita. Credo che, dal mio punto di vista, la priorità dovrebbe essere in questo momento la riduzione del cuneo fiscale che si è cominciata a fare nel D.L. 66. Prima di quel decreto legge il gap nel livello del cuneo fiscale, cioè nella tassazione del lavoro, rispetto all’Europa era di circa 32 miliardi compresa la componente Irap. Ora, riducendo l’Irap si riduce il cuneo fiscale, però lo stesso non vale per l’Irpef in generale. Cioè l’Irpef viene pagata da tutti, non viene pagata soltanto dai lavoratori, e quindi la domanda che si pone è che nel decidere quale componente dell’Irpef si vuole andare a toccare, occorre anche chiedersi perché si vuole ridurre l’Irpef, perché si vuole ridurre la tassazione. E rispondere a questa domanda è essenziale proprio perché ci dice quale tasse è prioritario ridurre. Se si pensa che il problema che si intende risolvere è quello del cuneo fiscale, allora è essenziale ridurre la tassazione sul lavoro e non per esempio quella su altri redditi come le pensioni. Quindi di nuovo la mia domanda agli autori del Rapporto è anche qui una domanda di chiarimento: quali riduzioni dell’Irpef ritengono più appropriate per stimolare la crescita. Qui di nuovo il punto non è tanto quello di stimolare la domanda perché se l’obiettivo fosse stimolare la domanda allora si sarebbe proposto un pacchetto che aumenti il deficit. No, qui è un pacchetto di riforme strutturali in cui c’è una riduzione della tassazione e una riduzione della spesa per stimolare il supplies side dell’economia, il lato dell’offerta dell’economia. Ma allora diventa critico – questo è il mio commento generale – andare ad identificare esattamente quali sono le componenti della spesa che si vogliono tagliare, quali sono le componenti della tassazione, e in modo più 256 specifico di quello che viene fatto nel Rapporto, che si vogliono tagliare per stimolare l’offerta e il cambiamento strutturale dell’economia Italiana. MARIO BALDASSARRI, Economia Reale Vorrei sgombrare il campo da eventuali equivoci. Carlo Cottarelli ha ragione nel dire che nel Rapporto non siamo entrati in tanti dettagli. Vorrei però dare alcuni chiarimenti su come abbiamo svolto l’esercizio di previsione e di impatto delle nostre proposte. Un primo punto di chiarezza è che noi ci riferiamo ai Trasferimenti alle imprese in conto corrente ed in conto capitale. Per quanto riguarda i trasferimenti correnti (circa una ventina di miliardi) essi sono “nascosti” dentro la voce “Altre spese correnti”. Quel generico calderone riferisce di un ammontare di spesa oscillante negli ultimi dieci anni tra i 60 e gli 80 miliardi di euro all’anno, il 7/8% della spesa pubblica totale. È come se in un bilancio di una qualsiasi azienda fosse indicata una voce di pari dimensioni come “altre spese”. Non credo che un consiglio di amministrazione ed una assemblea dei soci di qualunque azienda privata affronterebbe una qualunque discussione sul bilancio della società senza pretendere un maggiore dettaglio circa il contenuto di tale stessa voce. Ebbene, la Ragioneria Generale dello Stato sa perfettamente cosa ci sia dentro i 60 miliardi di “Altre spese correnti” e quindi basterebbe chiedere un più decente dettaglio di queste “altre spese”. Poi ci sono i trasferimenti in conto capitale che sono precisamente indicati nel Def, che sono attorno a 16/17 miliardi di euro all’anno. Di questi “trasferimenti”, per quello che sappiamo, circa 12 miliardi su un totale di circa 36, sono quelli che vengono dati ad Anas, Ferrovie e Trasporti pubblici locali, che potremmo anche mettere in discussione ma nel Rapporto noi abbiamo immaginato che continuino ad essere erogati. Quindi dei 36 rimangono 24 miliardi di euro. Di questi, 17 miliardi all’anno sono distribuiti direttamente dalle Regioni e 7 miliardi circa dal Governo centrale. Nei giornali li trovate scritti come corsi di formazione per parrucchieri, per estetisti e varie altre faccende. Allora la nostra ipotesi è che quelli in conto capitale occorra trasformarli in credito d’imposta. Questo comporterebbe un risparmio di spesa per 4–5 anni finché non si va a regime. Questo credito d’imposta sarebbe spendibile nell’arco di 4–5 anni e significherebbe che l’erogazione non avviene più “in contante a fondo perduto all’inizio del progetto”. Il soggetto beneficiario deve realizzare il progetto e renderlo profittevole, poi recupera quei fondi come credito d’imposta. 257 Per i trasferimenti correnti abbiamo immaginato che siano effettivamente tagliati. Da qui viene il ragionamento e vengono i numeri che abbiamo presentato su quella tabella 2 citata da Carlo Cottarelli. Per quanto riguarda l’Irap è chiaro che se arrivassimo a 22 miliardi di sgravio l’avremmo azzerata completamente. Tale è infatti il gettito complessivo dell’IRAP al netto di quanto contabilizzato per le pubbliche amministrazioni che rappresenta una semplice partita di giro. La nostra proposta è invece cominciare ad azzerarla per dimensioni di aziende, vale a dire: prima fino a 50 addetti, poi 100 addetti, poi 200 addetti, ecc. Proponiamo cioè di arrivare all’azzeramento dell’Irap a regime incorporando prima le aziende piccole e medie e poi le altre. Sull’Irpef invece abbiamo fatto l’esercizio immaginando la moltiplicazione per 2,5 delle deduzioni per carichi familiari, e questo costa circa 15 miliardi di minore imposta. Abbiamo proposto questo meccanismo perché riteniamo che, oltre all’abbassamento del carico fiscale sui lavoratori, occorra anche tenere conto dei carichi familiari in termini di equità orizzontale. I risultati che abbiamo ottenuto e che abbiamo illustrato nel Rapporto sono quindi conseguenti a queste specifiche proposte di manovra. BANFI Passiamo ora la contributo di Fabrizio Balassone, Vice Capo del Servizio Struttura Economica della Banca d’Italia. FABRIZIO BALASSONE, Vice-capo Struttura Economica, Banca d’Italia Essendo stato invitato a partecipare alla sessione “analisi istituzionali”, ho preparato una presentazione che cerca di riferire quale sia il punto di vista della Banca d’Italia sulla situazione economica italiana e quindi parlerò poco di spending review, se non alla fine facendo un accenno alle politiche per il prossimo triennio, anche perché mi sembra giusto lasciare questo tema a Carlo Cottarelli che sicuramente è la persona più qualificata a farlo e lo ha egregiamente fatto nel suo precedente intervento. Comincerei il mio intervento con le buone notizie, anche per cambiare un po’ il tono della discussione precedente che ha sottolineato aspetti in gran parte preoccupanti. La buona notizia principale è che nell’ultimo anno, ma già anche nel 258 2012, le condizioni finanziarie nell’area dell’euro sono molto migliorate e sono migliorate anche nel nostro Paese, come si vede decisamente dall’andamento dei divari tra i rendimenti dei titoli sovrani dell’area. La politica monetaria ha giocato un ruolo molto importante in questo miglioramento. Come illustrato nel grafico 1, in coincidenza dei due cambiamenti di tendenza degli spread nell’area, ci sono due importanti interventi della Banca Centrale Europea: il primo è duplice, sono le due operazioni di rifinanziamento più a lungo termine fatte a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012; il secondo è l’annuncio delle operazioni monetarie definitive nell’estate del 2012. 259 Grafico 1. L’area dell’euro: 1. condizioni migliorate. Le condizioni finanziarie sono migliorate. Il contributo della politica monetaria è stato determinante… Questo contributo della politica monetaria è stato possibile ed efficace perché si è inserito nel contesto di una strategia portata avanti insieme da un largo numero di attori, sia a livello nazionale che a livello europeo. Credo che l’esempio più evidente di questa strategia concordata lo si possa avere guardando i prestiti che sono stati erogati ai paesi in difficoltà durante la crisi, che ammontano a circa 350 miliardi nel periodo qui indicato dal 2010 al maggio di quest’anno. Questi sono i prestiti erogati da paesi europei o da istituzioni europee, ai quali andrebbero aggiunti quelli del Fondo Monetario Internazionale non inclusi in questi dati. Questa cifra è tanto più sorprendente se pensiamo che al momento in cui esplose la crisi, cioè nel 2010, non c’erano gli strumenti né legali né tecnici per erogare questi prestiti. C’è pertanto voluto uno sforzo notevole da parte dei paesi dell’area per mettere in piedi il macchinario che consentisse di effettuare queste operazioni. E non si tratta solo del “macchinario tecnico” ma anche della necessità di contrastare il clima che si era venuto a creare al momento dell’esplosione della crisi che sicuramente non era favorevole a sforzi di solidarietà 260 all’interno dell’area. Quel clima ostile è stato cambiato grazie a una serie di accordi internazionali che hanno profondamente rivisto e rafforzato la governance dell’unione economica e monetaria ed anche grazie agli sforzi fatti a livello nazionale per riportare sotto controllo le finanze pubbliche lì dove era necessario, contrastando gli squilibri macroeconomici nei paesi dove questi erano più forti (vedi Grafico 2). 261 Grafico 2. L’area dell’euro: 1. condizioni migliorate. Le condizioni finanziarie sono migliorate. Il contributo della politica monetaria è stato determinante nell’ambito di una strategia articolata, nazionale ed europea. Sostegno finanziario ai paesi in difficoltà: 2010 2011 2012 2013 Irlanda Portogallo Grecia Spagna 22,0 14,7 7,6 0,8 21,0 19,3 6,6 3,0 49,9 21,0 31,9 108,3 25,3 6,3 192,8 39,5 Cipro Totale 2014 Totale (maggio) 1,9 45,1 41,4 4,6 0,2 4,8 21,0 74,9 181,8 46,0 10,3 334,0 Questo sforzo ha sicuramente migliorato le condizioni finanziarie dell’area però non è stato uno sforzo fatto senza costi. Infatti, alla recessione abbiamo sommato politiche restrittive e quindi evidentemente questo ha avuto un impatto sull’economia e sulle persone soprattutto. I dati sulla disoccupazione sono evidentemente dati che non possono lasciare soddisfatto nessun policy maker. Nell’area dell’euro siamo ad una media di quasi il 12%, l’Italia è quasi al 13, in Spagna siamo sopra il 25 (vedi Grafico 3). 262 Grafico 3. L’area dell’euro: 2. costi elevati per evitare il peggio. I costi di recessione e politiche restrittive sono stati elevati ma la correzione di bilancio nei paesi in crisi era inderogabile Tasso di disoccupazione: Totale* Germania 15–24** 5,1 7,9 Francia 10,4 24,8 Italia 12,7 40,0 Spagna 25,3 55,5 Area dell’Euro 11,8 24,0 * marzo 2014, al netto dei fattori stagionali ** media 2013 263 Rendimento dei BTP decennali (dati giornalieri; valori percentuali): Questa scelta non è certo stata fatta a cuor leggero o scegliendo tra numerose alternative. Sempre nel grafico 3 si riporta l’andamento del rendimento dei nostri titoli di stato decennali tra la fine del 2010 e la fine del 2011: siamo partiti da meno del 4% ed eravamo arrivati a quasi il 7,5. E con tassi al 7,5 diventa dubbia anche la possibilità di accedere al mercato. Non voglio qui rievocare lo scenario di allora, però sicuramente quella era una situazione di grande emergenza. E se c’è un dubbio sulla possibilità di accedere al mercato semplicemente per rinnovare il proprio debito, c’è da chiedersi come si possa pensare in quelle circostanze a manovre espansive, nel senso tradizionale del termine, per sostenere l’economia con più deficit pubblico. In Banca d’Italia abbiamo provato con il nostro modello econometrico a fare un esercizio contro fattuale, retrospettivo, per individuare cosa ha causato la recessione ed abbiamo raggruppato le fonti di calo del Pil in tre grossi blocchi: uno è la domanda estera; il secondo sono le correzioni al bilancio pubblico; il terzo è una categoria un po’ più ampia e cioè il clima di incertezza legato alla crisi con gli effetti sui tassi di interesse e sull’offerta di credito. 264 Grafico 4. L’area dell’euro: 2. costi elevati per evitare il peggio. I costi di recessione e politiche restrittive sono stati elevati ma la correzione di bilancio nei paesi in crisi era inderogabile. Determinanti della recessione: 2012 2013 Totale Domanda estera -0,7 -1,2 -1,3 Correzioni bilancio -1,1 -1,2 -2,3 Tassi, credito e incertezza -1,7 -0,8 -2,5 Totale -3,5 -3,2 -6,7 Ora, se guardiamo a queste tre componenti nel biennio 2012–2013, vediamo che le correzioni di bilancio hanno implicato una perdita di crescita di Pil di più di 2 punti percentuali, ma comunque meno di quello che è stato l’effetto della crisi finanziaria per se, che è di 2,5 punti. Questo in un contesto in cui i tassi, dopo l’impennata mostrata nel precedente grafico 3, hanno cominciato a scendere in un contesto in cui le tensioni del credito, pur fortissime, sono diminuite rispetto a quelle iniziali. Si può allora immaginare quale avrebbe potuto essere la perdita di Pil (quel 2,5%) se non fossimo intervenuti per tempo. Nel nostro Paese la recessione si è, peraltro, arrestata a partire dalla fine dello scorso anno, ma già nella seconda metà dello scorso anno la situazione mostrava chiari segni di miglioramento. Non è una situazione che ci possa soddisfare, perché questo arresto della recessione sostanzialmente si traduce in una stagnazione di fatto, il Pil non è tornato a crescere a livelli pre-crisi e al contrario nell’ultimo trimestre è stato negativo. 265 Grafico 5. L’Italia: 1. il lascito della recessione. In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno. Prodotto interno lordo dell’Italia (variazioni percentuali sul periodo precedente): Peraltro il lascito della recessione è decisamente pesante. Il Pil è quasi 10 punti inferiore al livello raggiunto nel 2008 e che la preoccupazione principale è che gli investimenti sono inferiori del 25% al livello pre-crisi. 266 Grafico 6. L’Italia: 1. il lascito della recessione. In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno ma il suo lascito è pesante. PIL dell’Italia e principali componenti della domanda (indici: 1º trimestre 2008=100): Qualche consolazione può invece arrivare dalle esportazioni che sono l’unico elemento che è tornato quasi ai livelli precedenti la crisi, anche se questa performance delle esportazioni non è omogenea sul territorio nazionale. Se guardiamo le Regioni ce ne sono soltanto sei che hanno un dato positivo, sono quelle sei che contribuiscono alla performance delle esportazioni italiane, le altre sono in realtà ancora con il segno meno. 267 Grafico 7. L’Italia: 1. il lascito della recessione. In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno ma il suo lascito è pesante. Esportazioni a valori correnti (variazioni percentuali, 2008=100): 268 Esportazioni a valori correnti (contributi alla crescita): Nel grafico 8 sono riportati gli effetti sull’occupazione e sulla disoccupazione, sui quali non mi dilungo ulteriormente. 269 Grafico 8. L’Italia: 1. il lascito della recessione. In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno ma il suo lascito è pesante. Numero di occupati e tasso di disoccupazione (dati trimestrali destagionalizzati; milioni di persone e valori percentuali): 270 Grafico 9. L’Italia: 1. il lascito della recessione. In Italia la recessione si è arrestata alla fine dello scorso anno ma il suo lascito è pesante. PIL per macroarea (variazioni percentuali sul periodo precedente; medie annuali) Sicuramente su questi andamenti ha influito il credito. Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7% e la contrazione ha riguardato soprattutto le imprese. Cosa c’è dietro questa contrazione? Il fattore principale, secondo noi, è la rischiosità del credito in questa fase. Le banche sono preoccupate della rischiosità dei propri prenditori di fondi e questo condiziona l’offerta. 271 Grafico 10. L’Italia: 2. le banche e il credito. Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7 per cento. Prestiti bancari (tassi di crescita sui 12 mesi): Nel grafico 11 è riportato l’andamento delle sofferenze nel corso della crisi. Nel 2013 abbiamo raggiunto il 4% dei prestiti come flusso di nuove sofferenze. In questo quadro il sistema bancario ha compiuto uno sforzo per rafforzare il patrimonio. È vero che i coefficienti sono alti perché si sono ridotte le attività, ma è anche vero che il patrimonio è stato accresciuto ed il coefficiente relativo al patrimonio di migliore qualità è aumentato molto nonostante la crisi, vedi grafico 12. 272 Grafico 11. L’Italia: 2. le banche e il credito. Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7 per cento. L’offerta di credito è ancora condizionata dai rischi elevati. Flusso di nuove sofferenze (dati trimestrali; in percentuale dei prestiti): 273 Grafico 12. L’Italia: 2. le banche e il credito. Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7 per cento. L’offerta di credito è ancora condizionata dai rischi elevati. Il rafforzamento patrimoniale: determinante per preservare la fiducia. Coefficiente relativo al patrimonio di migliore qualità (Core tier 1; percentuale): Questa operazione, molto voluta anche dalla Banca d’Italia, è stata a volte soggetta a critiche aspre. Si temeva infatti un effetto negativo di questa operazione sull’offerta di credito. In realtà credo che sia stato fondamentale per mantenere la fiducia dei mercati nei nostri istituti e quindi nel non peggiorare le condizioni del credito, e soprattutto vorrei, richiamando la vostra attenzione su questo grafico, ricordare che nonostante quello che spesso si dice, il nostro è, tra i paesi europei, quello che ha meno utilizzato fondi pubblici per sostenere le banche in questo periodo. Per l’Italia, ho dovuto mettere una freccetta nel grafico per far sì che fosse chiaro dove ci troviamo perché con questa scala non è neanche visibile. Infatti è allo 0,3% del Pil. 274 Grafico 13. L’Italia: 2. le banche e il credito. Nel 2013 i prestiti bancari si sono contratti del 3,7 per cento. L’offerta di credito è ancora condizionata dai rischi elevati. Il rafforzamento patrimoniale: determinante per preservare la fiducia; realizzato pressoché per intero con capitali privati. Intervento pubblico nel settore finanziario (impatto massimo sul debito pubblico – 2007/2013; % del PIL): In questo quadro abbastanza fosco non mancano però i segnali positivi, primo fra tutti l’andamento della produzione industriale che è in ripresa dalla fine dell’anno scorso ed anche gli ultimi dati sono incoraggianti. 275 Grafico 14. L’Italia: 3. le prospettive. Non mancano, anche da noi, segnali positivi: la produzione industriale è in lieve aumento. Produzione industriale in Italia (1): Ci sono anche i giudizi degli imprenditori sui livelli degli ordini e della produzione che sono in miglioramento netto, anche se, come al solito, il nostro Paese non presenta mai un quadro uniforme: le Regioni meridionali presentano dati meno positivi di quelli relativi al resto del Paese. Ci sono anche altri indicatori qualitativi che migliorano, per esempio il clima di fiducia tra le imprese. Però, è inutile negarlo, una vera ripresa stenta ad avviarsi e lo vediamo anche nei piani di spesa delle imprese. I piani di spesa delle imprese, per investimenti, prevedono ancora, per il 2014, un segno negativo, in forte riduzione questo segno negativo rispetto agli anni precedenti, ma comunque permane. 276 Grafico 15. L’Italia: 3. le prospettive. Non mancano, anche da noi, segnali positivi: la produzione industriale è in lieve aumento; i giudizi sui livelli degli ordini e della produzione migliorano. Livello degli ordini e della produzione (1): 277 Grafico 16. L’Italia: 3. le prospettive. Non mancano, anche da noi, segnali positivi: la produzione industriale è in lieve aumento; i giudizi sui livelli degli ordini e della produzione migliorano; così pure altri indicatori qualitativi. Indice di fiducia delle imprese (ISTAT), medie mobili a tre termini: 278 Grafico 17. L’Italia: 3. le prospettive. Ma una vera ripresa stenta ad avviarsi. Investimenti realizzati e piani di spesa per il 2014 delle imprese nell’industria in senso stretto e nei servizi privati non finanziari (variazioni percentuali sull’anno precedente): Quali sono le prospettive? A breve termine, secondo i principali analisti, la ripresa dovrebbe proseguire piuttosto lentamente nel corso di quest’anno. Consensus prevede addirittura un rischio di un rallentamento nella seconda metà del 2014. Nel medio termine c’è una certa convergenza tra i principali previsori a una graduale accelerazione nel 2015 della ripresa. Naturalmente questi dati sono precedenti alla release dell’ultimo trimestre fatto dall’Istat qualche giorno fa, quindi in qualche misura potrebbero essere soggetti a revisioni e sicuramente, dato il segno del risultato del primo trimestre, non al rialzo. 279 Grafico 18. L’Italia: 3. le prospettive. Nel breve termine, secondo i principali analisti, la ripresa procederebbe lentamente nel prosieguo dell’anno: 2004 I II III IV Principali analisti 0,2 0,3 0,4 0,4 Consensus 0,3 0,2 0,1 0,1 Nel medio termine ci sarebbe una lieve accelerazione. Rischi: rallentamento economie emergenti, tensioni geopolitiche, condizioni del credito e del lavoro. Possibili fattori positivi: riforme strutturali, miglioramento del clima di fiducia. 2014 2015 OCSE (nov 2013) 0,6 1,4 Commissione UE (inv 2014) 0,6 1,2 FMI (apr 2014) 0,6 1,1 Governo (apr 2014) 0,8 1,3 Banca d’Italia (gen 2014) 0,7 1,0 I rischi ed i possibili fattori positivi sono elencati nello stesso grafico e sono quelli che sono stati anche discussi melle precedenti sessioni: un rallentamento nelle economie emergenti, un acuirsi delle tensioni geopolitiche e naturalmente, in casa nostra, le condizioni del credito e del lavoro. Fattori positivi vengono dalle riforme strutturali. Nelle considerazioni finali il Governatore della Banca d’Italia, il 30 maggio scorso, ha posto l’enfasi sulla necessità di una strategia che coniughi domanda e offerta e, a me pare, che è anche ciò che è emerso da questo dibattito: servono le riforme strutturali, ma le riforme strutturali hanno dei costi, cerchiamo di sostenere, nel frattempo, la domanda. Per quanto riguarda l’azione sull’offerta, noi vediamo come prioritario dare attuazione a tutti quei provvedimenti che sono stati approvati nel corso degli ultimi due anni. Il grafico 19 da le percentuali dei provvedimenti attuativi delle riforme approvate negli ultimi due anni, che ancora sono da approvare. Sono quasi il 50% per quelli approvati durante il governo Monti e sono quasi il 20% per quelli approvati durante il governo Letta. Per una buona parte di questi provvedimenti attuativi sono anche scaduti i termini, quindi si conferma ancora una volta questa difficoltà nel nostro Paese di applicare le riforme dopo averle concordate. 280 Grafico 19. L’Italia: 4. le politiche. È necessaria una strategia che coniughi offerta e domanda, dando piena attuazione alle riforme avviate. Provvedimenti adottati e provvedimenti per i quali sono scaduti i termini (percentuale sul totale dei provvedimenti da emanare; dati alla fine del 2013): Questa strategia di accompagnare domanda e offerta si può fare, secondo noi, sfruttando anche i margini che sono stati aperti per il nostro Paese dai miglioramenti sui conti pubblici ottenuti negli anni precedenti. In parte questi margini sono già in corso di sfruttamento. Il fatto che noi in Europa siamo il Paese con il più alto avanzo primario, anche se siamo il Paese con il secondo debito più alto, questo fatto ci da dei margini e ci ha consentito di fare alcune cose. Insieme a questo non dimentichiamoci i risultati che sono stati ottenuti nel contrastare l’andamento della spesa più sensibile agli andamenti demografici come le pensioni. L’Italia è in Europa il paese che ha l’aumento futuro previsto di spesa per pensioni più basso rispetto a quello che si vede in altri paesi dell’area. 281 Grafico 20. L’Italia: 4. le politiche. È necessaria una strategia che coniughi offerta e domanda, dando piena attuazione alle riforme avviate sfruttando i margini aperti dal miglioramento dei conti pubblici. Avanzo primario delle Amministrazioni pubbliche nel 2013(percentuale del PIL): 282 Grafico 21. L’Italia: 4. le politiche. È necessaria una strategia che coniughi offerta e domanda, dando piena attuazione alle riforme avviate sfruttando i margini aperti dal miglioramento dei conti pubblici. Projected change in strictly age-related expenditure AWG reference and risk scenarios, 2010–60. Overall change in age-related expenditure (percentage points of GDP): È vero che questi margini li abbiamo già in parte sfruttati. Dovremmo però essere un po’ più generosi con noi stessi per le cose che riusciamo ad ottenere. Ad esempio, l’azione sulla riduzione del cuneo fiscale avviata dal governo Letta, proseguita dal governo Renzi e, sperabilmente, ancora intensificata, è sicuramente una cosa positiva ed è una cosa che è stato possibile fare grazie ai sacrifici fatti in precedenza. Lo stesso vale per l’accelerazione del pagamento dei debiti commerciali da parte delle Pubbliche Amministrazioni. 283 Grafico 22. L’Italia: 4. le politiche. C’è flessibilità nelle regole europee, può essere sfruttata nell’ambito di una strategia convincente di riforme strutturali. Cuneo fiscale per un lavoratore dipendente senza carichi familiari (1) (in percentuale del costo del lavoro): 284 Grafico 23. L’Italia: 4. le politiche. C’è flessibilità nelle regole europee, può essere sfruttata nell’ambito di una strategia convincente di riforme strutturali. Debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche (miliardi di euro): Concludo con un solo accenno alla questione della spending review. Il richiamo è, giustamente credo, all’efficienza della spesa. Vogliamo ridurre la spesa per ragioni di bilancio e dobbiamo fare in modo che questa spesa sia una spesa migliore. L’esempio secondo me più eclatante è la spesa per investimenti pubblici, per le infrastrutture. 285 Grafico 24. L’Italia: 4. le politiche. C’è flessibilità nelle regole europee, può essere sfruttata nell’ambito di una strategia convincente di riforme strutturali. Indici monetari e indici fisici di dotazione di infrastrutture nei principali paesi europei: Nel grafico 24 si presenta, a confronto con altri paesi, una valutazione della dotazione di infrastrutture del nostro Paese basata sul calcolo dell’inventario permanente, quindi prendendo i flussi finanziari, la spesa che ogni anno è stata fatta negli ultimi 20–30 anni nel nostro Paese e nei principali paesi europei (vedi barre blu). Come si vede l’Italia e la media di Francia, Germania e Regno Unito più o meno si equivalgono. A fianco ci sono invece delle barre che guardano alla dotazione fisica, cioè quelli che sono gli indicatori materiali: chilometri di ferrovie, chilometri di strade, naturalmente ponderati per la popolazione. Con tutte le cautele del caso, è lì dove emerge il divario. Allora la domanda è: la nostra dotazione di infrastrutture è un problema di risorse o è un problema di come spendiamo poi le risorse? Chiudo con un richiamo a quello che è il problema posto anche nel Rapporto di Economia Reale ed emerso più volte nei precedenti interventi: l’andamento del rapporto tra debito e Pil. 286 Grafico 25. L’Italia: 4. le politiche. La riduzione del rapporto debito/prodotto resta la sfida. La sua velocità dipende dal ritorno alla crescita. Debito delle Amministrazioni pubbliche (percentuale del PIL): È questa sicuramente la sfida principale che fronteggia il nostro Paese. Sicuramente il successo in questa sfida dipende dal ritorno alla crescita, non si può ridurre il rapporto tra debito e prodotto a dispetto di un Pil che è stazionario o, peggio, se dovesse ritornare a ridursi. Voglio anche dire però che la regola del ventesimo dettata dal Fiscal Compact non è una follia in condizioni normali. Se noi avessimo il tasso di crescita (anche solo quello che avevamo prima della crisi che vorrei era comunque un tasso di crescita di un paese in difficoltà, intorno all’1%), e una situazione di inflazione normale, il rapporto tra debito e prodotto, con il pareggio strutturale, sarebbe in calo in conformità con le regole europee. È la situazione attuale che è particolare e che rende questa regola difficile da rispettare. Però torno a dire che i margini di flessibilità nelle regole europee ci sono, le regole non sono così astruse come alle volte le si vuole raccontare, e il punto è che questi margini si possono sfruttare se ci si presenta con una strategia complessiva credibile e questa è, come dire, “qui dove si parrà della nostra nobiltade”. 287 BANFI Ringrazio molto Fabrizio Balassone perché ha aggiunto altri argomenti molto interessanti che inducono a confermare quello che ha detto in precedenza Danilo Taino e cioè che abbiamo una finestra di opportunità, proprio nei prossimi sei mesi dovuta a una congiuntura internazionale ma anche ad una specie di riscoperta delle nostre virtù, diciamo così fra virgolette. Tutto sta a vedere se riusciremo davvero a sfruttare questa finestra che comunque c’è. Passiamo ora all’intervento di Salvatore Tutino, che con la Corte dei Conti, è istituzionalmente colui che tutti i giorni dovrebbe pensare alla spending review, o no? SALVATORE TUTINO, Corte dei Conti Devo dire che le simulazioni che ci offre Economia Reale sono molto accattivanti. Sono simulazioni che, soprattutto se prese nel loro insieme con i tre tipi di intervento (o meglio i due interventi veri e propri con la manovra sulla legge di stabilità con tagli di spesa e tagli di prelievo e con l’aggressione allo stock del debito valutati anche nell’ipotesi di una convergenza del tasso di cambio dollaro-euro verso la parità), chiaramente danno effetti eccezionali. Riassumendo, abbiamo un tasso di crescita che si triplica rispetto al tendenziale, una riduzione di due terzi del tasso di disoccupazione, la riduzione di un terzo dello stock del debito pubblico e l’indebitamento netto cambia di segno completamente da un deficit del -1,7% ad un surplus del +3,3%, cinque punti di miglioramento. È questo un panorama che tutti sarebbero disposti a sottoscrivere, anche se per fare questo occorre mettere mano a un intervento che, soprattutto dal lato della spesa, non penso che sia un intervento senza lacrime e sangue. Detto questo, penso però che, prima ancora di confrontarci sulla tipologia di intervento delineata (che comunque mi sembra apprezzabile e penso che sia ampiamente condivisibile), dovremmo provare ad interrogarci sulla praticabilità di tale intervento e sul modo in cui il quadro tendenziale effettivamente oggi si pone e quello che è realmente, per capire poi come su questo quadro, si possa impostare una manovra di vero rilancio della crescita e dell’occupazione associata ad un forte riequilibrio dei conti pubblici. Da questo punto di vista, bisogna tenere conto del forte intreccio che c’è fra spesa e entrata, come sottolineato in precedenza da Carlo Cottarelli. 288 Infatti, il quadro tendenziale su cui si innesta questa manovra include già tagli di spese fiscali, come ricordava sempre Cottarelli, per 3 miliardi nel 2015, 7 nel 2016 e 10 nel 2017, come risultato di una revisione delle cosiddette agevolazioni fiscali. In realtà quindi queste cifre bisogna farle per avere un tendenziale come quello già delineato. In secondo luogo, questo tendenziale non tiene conto della correzione che pure lo stesso Def mette in campo: i 3 decimi di Pil per il 2015 e 6 decimi dal 2016 in poi per conseguire gli obiettivi programmati in termini di indebitamento netto rispetto all’andamento tendenziale. Terzo punto. Il tendenziale non tiene conto dell’impegno assunto dal governo, perché bisogna trovare risorse per fare questo, per far diventare strutturale la manovra sul cuneo fiscale che per il 2014 è stata fatta in via sperimentale e temporanea. Quarto punto. Non si tiene conto di un effetto di sostituzione che si ha quando si tagliano i trasferimenti, in particolare ai trasferimenti degli enti locali. Tagliare i trasferimenti agli enti locali finora ha significato, non un semplice taglio di spese ma un taglio di spese a cui è seguito un aumento di entrate, poiché gli enti locali hanno utilizzato la facoltà loro concessa di aumentare le imposte di loro competenza quali addizionali Irap e quant’altro piuttosto che tagliare le loro spese. In questo senso quindi si può partire con una manovra che taglia la spesa ma che alla fine diventa paradossalmente un aumento di entrate. Infine bisogna tenere conto anche delle nuove tendenze, che vanno manifestandosi ancora una volta e che erano tendenze molto forti nel passato, di utilizzare forme di copertura come dire “improprie”. Su questi cinque punti mi soffermerò molto brevemente. I tagli alle spese fiscali. Noi le chiamiamo spese fiscali, come dire all’americana, in realtà sono agevolazioni positive. Però bisogna capire fino a che punto sono agevolazioni. Ci sono alcune cosiddette agevolazioni che fanno parte della struttura stessa del sistema in positivo e quali le detrazioni per lavoratore dipendente, le detrazioni per carichi di famiglia, le agevolazioni – tra virgolette – che riguardano l’Irap. Queste fanno parte del sistema. Voglio dire che il sistema Irpef, per semplificare, è fatto di quattro gambe: ci sono gli scaglioni, ci sono le aliquote, ci sono le detrazioni e ci sono le deduzioni. Eliminiamo e riduciamo le deduzioni? Eliminiamo e riduciamo le detrazioni? Benissimo, in un quadro complessivo delle due l’una, o interveniamo modificando gli altri parametri, aliquote o scaglioni, oppure aumenta la pressione fiscale. E guarda caso è un aumento che interesserebbe in particolare i redditi bassi, in particolare per le detrazioni d’imposta. Quindi si può immaginare quale blocco ci sarebbe quando qualcuno dovesse provare a fare queste cose. E già un anticipo l’abbiamo avuto 289 con la legge di stabilità che prevedeva un taglio per 500 milioni per quanto riguarda la percentuale di valorizzazione degli oneri detraibili, per esempio le famose spese mediche, dal 19% al 18%. Ebbene, quelle proposte sono state accantonate. Naturalmente potremmo dire che, rispetto a 253 miliardi di agevolazioni fiscali, non dovrebbe essere difficile recuperare 3 miliardi, 7 miliardi, 10 miliardi, così come sono quantificati dalla Commissione Ceriani. In realtà questo discorso del taglio alle agevolazioni fiscali parte da molto lontano. Un primo tentativo ci fu negli anni ’90-’91, allora era Ministro Formica che con la legge 408/91 prevedeva un taglio delle agevolazioni fiscali e con le risorse recuperate, circa 7000 miliardi di lire, si poteva finanziare una riforma dell’Irpef nel senso di tutelare la famiglia parlando allora di introdurre il quoziente familiare. Da 7000 miliardi di lire si passò a 1700 miliardi in un ultimo tentativo di decreto e poi non se ne fece nulla. Ed ovviamente non si fece neanche la riduzione della tassazione delle famiglie. Non voglio dire che anche oggi potrebbe ripetersi questo evento, ma se ci furono opposizioni fortissime allora non sono da escludere che si ripetano oggi. Valutiamo anche altri aspetti. In un anno in cui abbiamo aumentato al 50% la percentuale di detrazione sulle ristrutturazioni edilizie o su opere di questo genere, oppure interventi di contrasto all’evasione, che facciamo li tagliamo improvvisamente, cioè cambiamo politica? Possiamo farlo, certo, ma scegliamo di cambiare completamente politica, scegliamo di aumentare l’imposta e quindi scegliamo di aumentare la pressione fiscale. Secondo punto. Dicevo prima che lo stesso Def prevede già una manovra correttiva nel 2015 e poi dal 2016 in poi. Ed allora, questa manovra correttiva su cosa si baserà? Porterà un aumento di entrate oppure andrà a tagliare le spese? E se andrà a tagliare le spese queste spese fanno parte già dei risparmi derivanti dalla spending review? Perché se è così è chiaro che l’operazione dovrà diventare ancora più ampia. Terzo aspetto. Si è fatta l’operazione che chiamano “bonus Renzi”. Riguarda una platea di contribuenti che è costata circa 7 miliardi. Si propone ora di ripetere in via “strutturale” questa operazione dal 2015 in poi. Occorreranno qualcosa come 10 miliardi di euro all’anno. Di questi 10 miliardi, circa 2,7 sono già stati accantonati nel fondo per il riequilibrio e la riduzione della pressione fiscale. Ne mancano oltre 7 miliardi. Come si ottengono? Si ottengono aumentando il prelievo? Si ottengono riducendo la spesa pubblica? O si ottengono, e qui arriverò dopo, con i proventi cosiddetti dell’evasione fiscale? Ecco un problema che complica maledettamente le cose e le prospettive. 290 Quarto punto, l’effetto sostituzione. Allora, il decentramento fiscale e il federalismo in particolare, nel nostro Paese sono stati caratterizzati da un messaggio: “Vedo, voto, pago”. In realtà non è stato così, ma: “vedo, non voto e pago”. Non voto perché per esempio, nel caso della tassazione degli immobili tutta la tassazione è stata orientata sulle seconde case e sugli immobili strumentali delle imprese mentre le prime case sono esonerate. Taglio dei trasferimenti agli enti locali e Regioni. Sono stati fortissimi e ripetuti ed in questo modo il bilancio dello Stato si è potuto ridimensionare e si è andati verso un riequilibrio dei conti pubblici, ma in cambio di cosa? In cambio della facoltà accordata agli enti locali, Regioni e Comuni in particolare, di aumentare le imposte di loro competenza. Sono stati posti dei limiti molto blandi, ognuno ha fatto quello che poi ha voluto. Noi oggi abbiamo un prelievo locale che è distribuito in questo modo: le realtà più povere sono quelle che pagano di più perché chiaramente sono quelle che sono in situazione di dissesto e quindi in base alle regole vigenti sono costrette ad aumentare l’Irap, sono costrette ad aumentare le addizionali regionali e comunali. Quindi queste realtà pagano di più. Oggi come oggi sul cuneo fiscale incide l’Irpef sicuramente, che sul reddito medio pesa intorno al 20%, incide però anche il prelievo locale, addizionale comunale e regionale, che pesa mediamente per 2 punti, quindi il 10%. Negli ultimi 10 anni l’aumento di prelievo sul reddito medio è stato per il 40% dovuto all’aumento delle addizionali, non all’aumento dell’Irpef, all’aumento delle addizionali non all’imposta madre. In realtà abbiamo un sistema fiscale parallelo che è questo degli enti locali che in qualche modo amplifica il prelievo centrale ma soprattutto lo distorce perché a livello locale ogni ente si è mosso come gli è parso, ha individuato la struttura delle aliquote che ha voluto, ha introdotto sistemi di progressività per classi o per scaglioni, detrazioni in un modo o in un altro, insomma ognuno ha fatto come ha voluto. Chiaramente il punto di arrivo è quello che leggiamo in questi giorni in cui su Tasi e Imu dove abbiamo la bellezza di circa 200 mila aliquote effettive e nascono ovviamente dalla combinazione di diverse variabili. Quindi, chiunque voglia intervenire sul futuro con delle simulazioni deve tenere conto di queste difficoltà e complicazioni inestricabili. Il professor Baldassarri con il Rapporto di Economia Reale ha fatto un’opera meritoria non fosse altro perché capiamo dove è possibile arrivare con una manovra virtuosa. Dico però che chi assume questi stimoli deve anche calarsi un po’ nella realtà, deve tenere conto che ci sono serie di vincoli che in qualche modo possono veramente essere molto forti. Ultimo punto. L’evasione fiscale. Negli anni passati il recupero 291 dell’evasione fiscale è stato utilizzato per coprire pezzi crescenti di spesa pubblica. In pratica si è coperto con entrate incerte una spesa certa; e questo in maniera strutturale. Il tutto è avvenuto senza che ci fosse il minimo tentativo serio di valutare quanta parte del maggior gettito registrato di anno in anno è dovuto al recupero di lotta all’evasione, quanto parte di questo recupero è veramente strutturale e quindi utilizzabile in prospettiva per coprire strutturalmente spese o riduzioni di imposta. Questo fino al 2011 è avvenuto in misura rilevante. Dal 2012 il fenomeno è cessato e anche nel 2013 non si è verificato. Adesso, e l’esordio è con il bonus, abbiamo che si riprende a lavorare, come mezzo di copertura, utilizzando la lotta all’evasione. Sono già 300 milioni che sono stati utilizzati per coprire il bonus fiscale. E sono stati già annunciati altri 2–3 miliardi ma non 2–3 miliardi che dovrebbero provenire da un recupero dell’evasione fiscale nel 2014. Se si va a vedere in cosa consiste questo recupero, sono esattamente i miliardi che vengono ogni anno annunciati, si parla in genere di 12–13 miliardi, e vengono indicati come i recuperi dell’evasione. In realtà sono quello che incassa Equitalia. Sapete cosa c’è dentro? C’è un recupero di materia imponibile dell’evasione, poi ci sono sanzioni e interessi, e questo non è recupero di imponibile, poi ci sono le contravvenzioni dei comuni, poi c’è il recupero di utili di Stato ecc.. Ci sono cioè diverse componenti che non rappresentano recupero di evasione. Bisogna quindi stare molto attenti in futuro a ragionare su queste cose. Infatti, il rischio qual è? Che si vada avanti su un equilibrio instabile, in qualche modo melmoso e che si aggiunga instabilità ad instabilità. In conclusione, mi sento di dover dire: barra a dritta, nervi saldi, ma ragioniamo tenendo fermi i fondamentali. 292 Economia e mutamenti sociali e politici STEFANO FOLLI, Il Sole24Ore Come ogni anno la lettura di questo interessantissimo Rapporto di Economia Reale, grazie all’iniziativa e al coordinamento del professor Baldassarri, è una lettura stimolante in una prima fase e sconfortante in un’altra. Infatti, il quadro che emerge è … quasi agghiacciante. Inoltre, nel Rapporto si fa vedere in riferimento all’ultimo decennio, come le previsioni ufficiali sono quasi sempre state ottimistiche, mentre le tendenze reali sono sempre state peggiori delle stesse previsioni ufficiali. Nella seconda parte del Rapporto ci sono poi le proposte di Economia Reale che sono proposte molto interessanti perché tentano di far vedere come si possa evitare quell’andamento tendenziale inerziale secondo il quale noi non torneremo ad avere i livelli del 2007 in termini di reddito e di occupazione prima di altri 7–8 anni, cioè attorno al 2022–2023 fra quasi dieci anni. Allora la domanda che ci si pone, passando su un livello più politico e istituzionale, è: innanzitutto qual è la fotografia del Paese su cui queste cifre, che qui vengono così bene esposte, impattano? Qual è oggi, 2014, la fotografia del cosiddetto Paese reale. C’è poi una domanda successiva e correlata. Siamo in un momento in cui la politica sembra in una fase di rinascita in cui ci sono fenomeni politici nuovi, sia pure asimmetrici, riguardano il centrosinistra molto più che il centrodestra che invece vive una fase di grandissima difficoltà. Allora la domanda è: questi fenomeni politici sono reali, hanno radici nella società reale e tengono conto del quadro economico che ci viene riassunto e spiegato in questo Rapporto, oppure sono esclusivamente mediatici e quindi più effimeri e più legati a circostanze particolari? Siamo di fronte ad una politica istituzionale che ha ingranato una marcia in più per cercare di riavvicinarsi alla realtà economica e sociale di questo Paese, oppure, viceversa, stiamo assistendo ad un gioco di specchi e quindi il distacco è destinato ad aumentare? ENRICO VAIME, autore e regista Tv Sono qui per giustificare la mia presenza che effettivamente può 293 considerarsi anomala in un consesso come questo fatto di economisti, sociologi e politologi. Io sono quindi un referente, forse un interlocutore, o comunque un bipede in plume, capitato in questa situazione ideologica e tecnica con l’incompetenza tipica della mia generazione e del mio passaporto. Sono un italiano medio che non sa niente di quello del quale ci avete parlato fino ad ora o, per lo meno, sa molto poco, sa quello che gli arriva dai talk show, cioè il minimo: parole, chiacchiere, numeri buttati lì a caso e ripetuti per pigrizia ma senza avere la consapevolezza di quello che si sta dicendo. Noi, parlo della mia generazione, siamo le vittime della riforma Bottai. Non so se ho fatto un passo indietro anche troppo vigoroso, ma insomma noi siamo degli incolti in qualche modo, gente che ha privilegiato Carducci rispetto all’algebra e rispetto alla tecnica mentre il mondo spingeva ad altre soluzioni. Diciamo quindi che siamo ignoranti e siamo qui per capire. Personalmente sono qui perché Baldassarri, che io voglio chiamare Professore perché è un titolo che mi sento di concedergli assolutamente con grande pertinenza, quando spiegava alcuni fenomeni di carattere economico, nelle trasmissioni televisive alle quali ho partecipato anche io, colpo di scena: io capivo. E questa era una delle prime acquisizioni che mi hanno spinto a venire qui e a giustificarmi in qualche modo. Alcune cose spiegate dal professor Baldassarri io le capisco. Le capisco perché me le spiega, sono acquisizioni che non vengono da lontano ma vengono da questa fonte. Siamo ignoranti, la nostra cultura media è bassissima e quindi non ci possiamo lamentare poi tanto se non riusciamo a venirne fuori da certe difficoltà di carattere socio-economico. È dovuto all’ignoranza, è dovuto alla scarsa preparazione, alla superficialità, a quell’atteggiamento così scanzonato che ci rende popolari all’estero ma impopolari con i nostri simili. Siamo abbastanza cialtroni, diciamolo francamente, però non siamo contenti di come ci troviamo e quindi vorremmo capire. Così come nei talk show con il professor Baldassarri riuscivo a capire quello che diceva, vorrei capire anche qui quello che è stato detto da parte di tutti coloro che hanno dato il contributo a questo confronto. Vorrei soprattutto capire se si può intravedere una soluzione. Teniamo presente che io sono un italiano medio e cioè sono inutilmente laureato in una materia che si e no che mi ricordo, mi pare si trattasse di giurisprudenza, ma non me ne fregava niente e pensavo che fosse obbligatorio come un vaccino, come l’antitifica, come qualcosa da fare. Non ci siamo mai preoccupati di prepararci all’impatto con un mondo che era molto più avanzato rispetto a quello che noi avevamo immaginato. Quindi sono qui per imparare, per capire, e molte cose 294 delle cose dette e delle cose che ho letto sfogliando questo pacco di allarmanti nozioni che bisognerebbe diffondere in tutto il Paese, spiegarle, dire che questi sono dati, sono numeri, sono cose che sono veramente successe, non sono pettegolezzi. Ecco, sono qui per dire contate su di me, nei limiti naturalmente della mia maledetta cultura umanistica quanto inutile quanto velleitaria, ma sappiamo che ci sono dei problemi che vanno risolti con la tecnica. Voi siete la tecnica, scusate l’espressione è un po’ generica e forse vi può spaventare, siete cioè le persone in grado di spiegarci una via di fuga, in qualche modo, da questa tragedia. Ho letto dei numeri, li ho letti più volte perché non ci potevo pensare che fossero veri, eppure sono veri. Ecco, questi numeri e questi dati bisognerebbe portarli a conoscenza di tutti, ma portarli a conoscenza veramente, non a livello di pettegolezzo, non per sfruttarli per polemizzare sul piano politico. Sono catastrofi che noi abbiamo agevolato in qualche modo con la nostra insufficienza, con la nostra cialtronaggine e dobbiamo fare qualcosa, se non altro capire perché e fino a dove possiamo riparare ai danni fin qui fatti. Lo so che è un discorso velleitario che lascia il tempo che trova, però sono qui sperando che con me vengano tante persone, tante generazioni illuse da una visione della vita che non corrispondeva alla realtà e che stanno pagando un prezzo troppo alto rispetto agli errori fatti dai nostri nonni, dai nostri padri e un po’ anche da noi, diciamocelo francamente, perché non è che siamo nati ieri. Quindi diciamo io sono qui per imparare, per cercare di capire, per venire incontro a quanti, anche trattandoci con violenza, ci rimproverano alcune debolezze, le debolezze che voi sottolineate nei vostri fogli che mi hanno messo nella disperazione in questi ultimi giorni di lettura spasmodica e stupefatta, perché chi poteva immaginare che si arrivasse a tanto. Quei numeri devono farci capire che esiste una tecnica per venirne fuori, esiste comunque la possibilità di conoscere le ragioni, se non altro quelle che ci hanno portato alla catastrofe. Catastrofe non scritta nel grande libro del destino e come tale va accettata e buonanotte al secchio. No, si deve poter reagire. Reagire non è facile per un popolo abbastanza pigro come il nostro, però noi dobbiamo farlo se non vogliamo cadere in quel pozzo per altri cinque anni, come viene detto in un foglio allarmante di questo pacco che mi ha mandato Baldassarri e che è risultato un incubo per questi notti. Per cinque anni saremo ancora in fondo al pozzo. Speriamo proprio di no, speriamo di capire perché ci siamo arrivati e come si fa a venirne fuori. Sono qui per testimoniare la buona volontà e niente altro, non la competenza perché non l’abbiamo, ma la buona volontà, la voglia di 295 capire e di lavorare insieme per uscire da questa cloaca nella quale, anche per colpa nostra, ci siamo trovati. GIUSEPPE ROMA, Censis Che ci sia un cambiamento nel clima sociale lo ha rilevato anche recentemente un rapporto del Censis sulle attese delle famiglie italiane nei confronti dell’economia. Abbiamo registrato in marzo, già prima delle elezioni europee, che, almeno guardando gli ultimi due anni, si è invertita la proporzione fra ottimisti e pessimisti, cioè gli ottimisti sono diventati in maggioranza, abbastanza rilevante, 13 punti in più dei pessimisti. E siccome i pessimisti erano normalmente 10% in più degli ottimisti, diciamo che c’è un quarto della popolazione che ha cambiato atteggiamento (Fig.1). 296 Fig. 1. Tornano ad aumentare gli ottimisti ed a ridursi i pessimisti, ma è l’incertezza che prevale e che descrive un quadro congiunturale ancora molto debole 297 Ora il direttore Folli giustamente ha detto è reale o non è reale? Direi assolutamente non reale in quanto perché si determini un cambiamento strutturale, forse non basta l’ennesimo governo, e anche perché il nuovo esecutivo ha pochi mesi ed evidentemente ciò che registriamo è solo l’andamento del clima, del tono sociale. Però io rispondo: ma il clima è importante o non è importante? Perché io credo che questo sia il primo punto. Dopo anni di stato depressivo, sarà per un leader politico, sarà per un provvedimento che per la prima volta ha detto agli italiani “invece di aumentarvi la tassazione ve le riduco”, vero o non vero che sia se poi andiamo a fare i conti. C’è però un vulnus a questo cambiamento rilevato anche dall’Istat e che registra un periodo di altissima volatilità. Si può mutare molto rapidamente d’opinione, la svolta positiva si è concretizzata nel giro di poche settimane, ma non va considerata stabile e duratura. La seconda cosa importante che però vorrei sottolineare (presente nella stessa fig. 1) è la parte tratteggiata dell’istogramma che indica come, oltre agli ottimisti, in blu, aumentano anche gli incerti. Questo secondo me è il primo elemento su cui ragionare, perché c’è una quota di popolazione, di società, di famiglie, che continuano ad avere un forte senso di precarietà e incertezza. Questo deriva anche dai messaggi ondivaghi che vengono dalle istituzioni e dalla politica, amplificato dal 298 quotidiano dibattito sui media. Dal pasticcio di Imu, Tasi, Tari, ecc., che ha non poco danneggiato il Governo Letta, alle pensioni, ai tagli si vive una condizione di assoluta incertezza. E questo fattore influenza molto i comportamenti sociali, perché è quello che provoca, per esempio, un atteggiamento cautelativo nella spesa delle famiglie, specie quelle del ceto medio. Il mercato interno è una delle componenti stagnanti, anzi in regresso. I consumi non ripartono e, dato il rilevante peso che hanno sul Pil, tengono il prodotto interno “frenato”. Oltre alle obiettive condizioni di difficoltà per una parte significativa del corpo sociale, causata dalle ridotte opportunità di lavoro, a deprimere i consumi è anche il comportamento prudente e rinunciatario anche chi ha disponibilità reddituali, ma non spende. Per i beni durevoli come automobile, arredo, elettrodomestici o anche per i lavori di ristrutturazione della propria abitazione, prevale il rinvio e la rinuncia. (Figg. 2–3). Nel caso dell’acquisto di un auto, la domanda potenziale, cioè quelli che dicono “vorrei comprare la macchina e ho anche dei soldi per farlo”, riguarda circa il 13% delle famiglie, però il 10% rinvia questo acquisto e solo il 3% lo effettua. 299 Fig. 2. Un po’ più di ottimismo ma i consumi non crescono, prevale la tattica del rinvio. Ristrutturazione abitazione. 300 Acquisto di una nuova autovettura. 301 Fig. 3. Pochi consumi, prevale la tattica del rinvio. Acquisto di nuovi mobili per la casa 302 Acquisto di nuovi elettrodomestici. Quindi, su tre consumatori che spenderebbero, due rinviano l’acquisto e solo uno procede a effettuarlo. Questo vale per tutti quei beni che oggi costituiscono un volano importante sia per l’innovazione che per dare dinamicità al sistema produttivo. All’incertezza va poi ad aggiungersi un diffuso sentimento di precarietà delle famiglie e soprattutto della middle class : per cui solo il 21% delle famiglie italiane definisce la propria situazione economica solida, il 41% precaria e il 17% addirittura ad alto rischio (Fig.4). 303 Fig. 4. Capacità d spesa ridotte al minimo. Oltre 4 milioni non hanno coperto le spese con le entrate e più di 16 milioni di famiglie vanno in pari 304 Come definirebbe la condizione economica della sua famiglia? Una componente molto sentita nel determinare una condizione di vulnerabilità sociale è data dall’alta tassazione; per il 28% degli italiani avere le risorse per pagare tasse e tariffe costituisce fonte di forte preoccupazione (Fig.5) 305 Fig. 5. Famiglie attanagliate da preoccupazioni che depotenziano le capacità di spesa 306 Si tratta, come è facile intuire, di una situazione assurda, visto che la tassazione dovrebbe prevedere un peso ragionevole, e non esorbitante, sul reddito disponibile. Per come si configura l’ampio ventaglio delle forme di prelievo (diretto, indiretto, addizionali, contributi, accise sui carburanti, ticket sulle prestazioni sanitarie etc.), il risultato complessivo, per una quota non piccola di contribuente, è di destinare al fisco una quota molto significativa delle proprie risorse. Altro fattore che influenza le scelte dei consumatori è la situazione del mercato del lavoro soprattutto per quel che riguarda le nuove generazioni (Figg. 6–7). Ma questo è un argomento che non ha bisogno di ulteriori approfondimenti. 307 Fig. 6. La mancanza di lavoro toglie ogni prospettiva e capacità di spesa agli italiani. Quali sono le priorità che il governo dovrebbe immediatamente affrontare? 308 Quali sono i problemi che frenano la crescita dell’Italia? 309 Fig. 7. … e il deterioramento del mercato del lavoro tocca un numero ampio di persone Allora, è il momento di agire perché c’è un terreno favorevole; ci sono fenomeni positivi, penso ad alcune cose che il Censis ha evidenziato recentemente come, per esempio, il ruolo che sta assumendo il mondo femminile;l’impresa femminile sembra resistere meglio alla crisi di quella guidata da uomini . E poi c’è l’universo giovanile che oggi non è solo un mondo demotivato e passivo di precari, disoccupati, ecc., perché dobbiamo apprezzare l’atteggiamento di quel 1,2 milioni di giovani che, non si fanno scoraggiare e vanno a soddisfare all’estero la loro volontà di realizzarsi, È un fatto negativo per l’Italia perché perde 1,2 milioni di persone generalmente di buon livello professionale, ma dal punto di vista sociale indica che la generazione dei ventenni e trentenni, ha scelto l’azione rispetto all’attesa, la sfida internazionale piuttosto che la protezione familiare. Il terzo aspetto positivo è la presenza della realtà degli immigrati che non solo da un contributo in molti settori produttivi e soprattutto rende possibile un welfare diffuso che non sarebbe alla portata né dell’intervento pubblico né di un sistema imprenditoriale privato. Poi ci sono i fatti che conosciamo, cioè l’industria manifatturiera. I 310 dati recenti lo confermano, è viva e vitale anche se non mancano gli aspetti critici, le chiusure, se c’è cassa integrazione, indicatore di un impatto differenziale della super competizione globale sul nostro sistema produttivo. L’industria va comunque vista come un elemento di forte vitalità non solo in quanto le esportazioni tengono nonostante l’euro forte, ma anche per questa capacità di ristrutturare e di rigenerare un tessuto produttivo. Secondo me, tuttavia, oltre alle emergenze di cui si alimenta il dibattito politico, vi sono due ragioni strutturali per i quali il nostro Pil resta impantanato, oltre naturalmente l’enorme debito pubblico, cui si riferiscono le proposte positive che Mario Baldassarri propone da tempo . Il primo è la bassa dotazione di investimenti esteri residenti in Italia. Non avevo mai visto recentemente il dato perché tutti parlano esclusivamente dei flussi annuali, ma noi oggi siamo il Paese europeo con il minor stock di investimenti stranieri pari a 360 miliardi di dollari, la Svizzera ce n’ha più di 600 come la Spagna e l’Olanda, la Germania e la Francia hanno 1000 miliardi. FOLLI Aggiunga qualcosa su questo punto specifico di come ci presentiamo nel mondo rispetto agli investimenti esteri. ROMA Se vogliamo, questa ritrosia degli investitori esteri a rischiare i propri capitali in Italia ci fa capire quali rischi e difficoltà trova qualsiasi iniziativa produttiva nel nostro paese. Qui, non si tratta solo dei giorni e dei costi per avviare un’azienda – l’impresa di fare un’impresa - ma l’atteggiamento delle istituzioni, e anche dell’opinione pubblica nei confronti di ogni nuova iniziativa : una fabbrica, come un’infrastruttura, un parcheggio come un parco commerciale. Gli sforzi encomiabili per risanare le finanze pubbliche, purtroppo non fanno ripartire l’economia, anzi ci hanno consegnato alla recessione. Se la presenza in Italia di investitori stranieri è così limitata, non utilizziamo che minimamente una leva che in altri paesi contribuisce in modo determinante a creare occupazione e Pil. Se siamo un paese che può contare sulla metà degli investimenti esteri che attrae l’Olanda, e di un terzo di quelli presenti in Germania, allora è più difficile sostenere i confronti in termini di crescita e di occupazione. Penso quindi che non si possa lavorare solo sui conti pubblici. Questa è anche la sfida della politica oggi: il paese deve 311 adeguare rapidamente agli standard internazionali il sistema delle regole, nel senso della semplificazione e dell’apertura al mercato. Sono operazioni non costose dal punto di vista finanziario ma costosissime dal punto di vista degli interessi, dei gruppi di pressioni, delle lobby, ecc. La sfida dei prossimi mesi sarà proprio su questo punto. A marzo 2014 l’opinione pubblica si è affidata completamente alla svolta politica: il 42% riteneva abbastanza probabile che il Governo Renzi fosse in grado di tirarci fuori dalla crisi ed il 52% riteneva che sarebbe riuscito a fare quello che stava dicendo (Fig.8). È evidente che blindare il consenso ottenuto sul piano elettorale attraverso provvedimenti efficaci e l’azione di governo, negli ultimi vent’anni non è riuscito a nessun leader. Ed è la sfida, la messa alla prova, anche per l’attuale Governo. Faccio un ultimo esempio: le privatizzazioni, in particolare quello che in gergo tecnico passa sotto la voce valorizzazione del patrimonio immobiliare. È evidente, che se il problema principale è quello di mettere mano alla riduzione del debito, una delle strade più ragionevoli è quella di utilizzare il patrimonio nelle mani dello Stato. Non entro nella problematica relativa alle imprese, ma solo in quello che attiene ai beni immobili, poiché in effetti lì esiste una grande opportunità, ma al tempo stesso questa opportunità non viene colta da più di dieci anni. 312 Fig. 8. Il Governo Renzi dispone di un rilevante capitale di fiducia utile a rimettere in moto il Paese. Quanto crede possibile che il governo Renzi possa permettere all’Italia di superare l’attuale crisi economica? 313 Pensa che il governo Renzi riuscirà a realizzare il piano di riforme annunciato? L’equivoco è dato dal fatto che edifici, caserme, castelli, terreni, isole, caselli ferroviari etc. non sono valutabili in astratto (in euro per mq.), ma solo in quanto hanno un mercato, possano interessare concretamente a un investitore. Paradossalmente si potrebbe affermare che senza un progetto il patrimonio dello Stato non vale niente. C’è da chiedersi, infatti, chi acquisterebbe un castello o una caserma sottoposti a vincoli urbanistici, di tutela e magari a un vincolo di destinazione in quanto rinvenienti da passate donazioni (come nel caso dell’Ospedale San Giacomo di Roma)? Per determinare valori economici in grado di scolmare il debito pubblico gli immobili di Stato devono determinare convenienze per una domanda solvibile che lo acquista o lo affitta. Senza questa domanda solvibile che lo affitta e lo acquista si può fare poco anche giustamente utilizzando l’ingegneria finanziaria, che prima o poi dovrà confrontarsi con l’economia reale (ricordiamoci dei sub-prime). Certo si possono ottenere risparmi razionalizzando i costi di insediamento della Pubblica Amministrazione, riducendo gli affitti e riconvertendo caserme a uffici pubblici. Ma per questa via si contribuisce limitatamente alla riduzione del debito. È mia opinione, quindi, che è prioritario mettere mano al debito, che è necessario ristrutturarlo “finanziarizzando” il patrimonio di proprietà pubblica, ma che contestualmente è indispensabile procedere a una strategia di valorizzazione che ha più a che vedere con una capacità di progettare nuovi assetti urbani e territoriali che con l’intermediazione della finanza immobiliare. 314 Per concludere, oggi abbiamo un patrimonio di fiducia che non va dissipato. Questo patrimonio di fiducia è trasversale rispetto agli schieramenti politici trasversali, aggrega tutti quelli che responsabilmente intendono mobilitarsi per rimettere in moto il paese. Ma allora, che cosa si deve fare? Mettere mano seriamente e con competenza alle due aree di maggior sofferenza per le imprese: giustizia e burocrazia . Qui, però entra in campo la competenza dei politologi. Allora chiedo al direttore Folli che leggo con grandissima attenzione: ma la politica ce la farà? Ma i politici hanno davvero compreso che la sequenza non è una sequenza nella quale approvare 725 decreti non necessariamente cambia il contesto e lo rende più favorevole allo sviluppo. In fin dei conti, tutto poi si riduce alla cultura politica dominante e al modo in cui si esercita il potere. FOLLI Infatti le domande iniziali erano proprio queste perché io ho molti dubbi che sia così e la lettura del Rapporto mi incoraggia a dubitare, anzi è sconfortante come dicevo in precedenza. Coinvolgo ora Giuliano Urbani. C’è un capitale di fiducia che si è aggregato intorno a Renzi ma in un quadro, ci dice Giuseppe Roma, di volatilità, di incertezza di fondo, con la sensazione che però poi la politica ha difficoltà a capire dove si può svolgere un reale rinnovamento degli strumenti politici. La politica, cioè, ha difficoltà ad interpretare realmente le esigenze di un sistema paese nella sua complessità e quindi di riforme che siano figlie di un progetto realmente dinamico. Questo è il punto: ma allora questo capitale di fiducia rischia anche di evaporare rapidamente così come si è aggregato? GIULIANO URBANI, Emerito Università Bocconi Milano Proverei a rispondere molto selettivamente a questa grande questione toccando tre punti. Devo dire che a questo tavolo Enrico Vaime ha dato un contributo apparentemente anomalo ma che io ritengo importante perché, come sapete, Vaime è un maestro dell’ironia e temo che se non si cerca di rispondere con l’ironia a tutto questo, si sfiorano altre tonalità. Allora non provo neanche a imitare Vaime, non ci provo nemmeno perché 315 siamo amici. ma abbiamo coltivato interessi e mestieri troppo distanti l’uno dall’altro. Allora, la mia preghiera, fatta con grande umiltà, è di trattare con grande attenzione tre parole che usiamo sempre e queste tre parole sono pericolose. La prima parola è “tendenze” in atto. È iniziata una “tendenza”, lo si dice in continuazione, per effetto dei risultati elettorali naturalmente adesso si sono scatenati tutti. Io sono un sostenitore, sono un ammiratore del vecchio Bauman che ci definisce società liquide. Ed allora nel movimento liquido le tendenze sono quanto di più precario si possa immaginare, provvisorio e, ahimè, approssimativo. Ricordiamo le lezioni di Bauman, quindi non parliamo di tendenze prendendoci sul serio. Spesso e volentieri parliamo di tendenze perché etichettiamo così delle nostre speranze. Speriamo che prendano una certa direzione i fatti e quindi parliamo di tendenze. Ma attenzione a non illuderci, non è il momento di parlare di tendenze, non ci sono tendenze degne di questo nome in atto. Naturalmente ci sono orientamenti, è come in mezzo al mare quando c’è una corrente, ma definirla tendenza è esagerato. Quindi per favore non parliamo di tendenze. Noi eravamo abituati a vivere in società prevalentemente ideologiche e le ideologie erano delle meravigliose, sublimi, stupende boe ed attorno a quelle ci muovevamo. Oggi non ci sono proprio veramente più. Quindi teniamone conto. Una volta l’avvocato Agnelli diceva “dobbiamo convivere con l’inflazione”. Tutti lo irridevano ma era vero. Oggi dobbiamo convivere con le società liquide. Seconda parola chiave: istituzioni. Qui ci stiamo innamorando delle istituzioni come passe-partout e come soluzioni palingenetiche. Mi ricordo che un collega particolarmente colto, mentre ero negli Stati Uniti, in questo caso nell’Università di Princeton, mi regalò un libro che era intitolato “Non fidarsi mai troppo delle istituzioni”. Era Samuel Huntington, non so se mi spiego, perché è uno dei maggiori cultori contemporanei delle istituzioni. Ma perché? Lui aggiungeva un’altra cosa, un’altra frase, e diceva “Conta più la cultura”. Agli studenti faceva quell’esempio che ormai varie generazioni di professori hanno usato nei confronti degli studenti quando dovevano spiegare l’impatto delle istituzioni, l’impatto della cultura sul funzionamento delle istituzioni, e avete visto, i sistemi presidenziali, il sistema presidenziale americano al Nord, gli Stati Uniti, e poi i sistemi presidenziali in Sud America, che sono stati copiati alla lettera dal sistema istituzionale americano. C’è stata una certa differenza sì o no? I caudillo non se lo sono 316 inventati a Princeton. Questo per dire che i modelli culturali con cui leggere queste cose (seguito o non seguito, consenso o non consenso, controllo o non controllo) hanno un impatto enorme. Quindi usiamo naturalmente le riforme istituzionali perché sono naturalmente una speranza. Ma trattiamole con grande cautela perché le istituzioni non sono passe-partout e soprattutto non sono soluzioni buone a tutto. Non che non dobbiamo fare le riforme istituzionali, ma se facciamo “solo” le riforme istituzionali e poi non ci rendiamo conto di altre cose, la corruzione si incancrenisce invece di diminuire, perché un dittatore con tutti i poteri è più pericoloso di un paese semianarchico. Ultima parola chiave: “implementation”. Sembra un termine inglese ed invece è di origine latina e quindi in italiano dovremmo dire “implementazione”. Prendiamo la pubblica amministrazione italiana. Uno può fare tutte le riforme che vuole – ve lo dice uno che ha dedicato una vita allo studio delle pubbliche amministrazioni – di adeguamento, di cambiamento, ma se non entriamo nel labirinto della “implementazione” facciamo al limite una buona norma ma questa norma produce mostri applicativi, a cominciare dalla discrezionalità e ahimè dalla corruzione. Quindi grande attenzione anche su questo. Oggi, ad esempio, abbiamo non solo troppe leggi in Italia, ma troppe leggi mal fatte, il che vuol dire che sono leggi condannate ad avere una cattivissima applicazione. Questa è una tragedia per il Paese, perché poi il magistrato può essere il più bravo del mondo ma fa confusione, il burocrate può essere il più onesto del mondo ma fa confusione, e il cittadino che ha a che fare con tutto questo non può che cercare il ventre molle, cioè i punti deboli, i punti di attacco. Quindi anche su questo facciamo grande attenzione, ma non dimentichiamoci che le pubbliche amministrazioni con le loro norme (che ne abbiano cinquantamila o cinquemila è secondario) in ogni caso configurano un labirinto inesorabile, inestricabile. Ebbene, per muoversi nel labirinto devi avere una bussola, perché senza bussola non ne esci. Noi purtroppo rischiamo molto, non voglio irridere i giovani Ministri che si interessano di questo, ma francamente quando li sento parlare di queste cose provo in parte tenerezza, molta, ma in parte paura, molta di più. Perché? Perché dimostrano che loro il labirinto non lo conoscono. Ora, fare la riforma della pubblica amministrazione non conoscendo il labirinto, c’è da rimanere attoniti. ROBERTO MAZZOTTA, Istituto Luigi Sturzo Vorrei proporre tre argomenti per proseguire il ragionamento fatto in 317 precedenza da Mario Baldassari, utilizzando le sue riflessioni e cercando di applicarle. Prima considerazione. Dopo tanti anni, una ventina secondo me, si sta ricostituendo un soggetto politico. Abbiamo infatti passato vent’anni di sistema rappresentativo privo di soggetti politici. Ora, si sta ricostituendo un soggetto politico moderno, con caratteristiche interclassiste e interopinioni, che può ambire ad essere il contenitore di una parte rilevante abbastanza stabile di opinione pubblica amante della continuità istituzionale e della soluzione dei problemi economici e sociali, cioè di una opinione pubblica ragionevole. Questo soggetto politico ha sconfitto l’irragionevole. L’irragionevole non sarebbe stato sconfitto senza l’esistenza di questo soggetto politico. Quindi credo che si debba considerare con interesse il fatto che probabilmente il periodo della mancanza di politica strutturata può, in qualche maniera, incominciare a dare l’idea di essere concluso. E mi guardo bene dal dire che è una tendenza in atto perché altrimenti cado nella trappola di cui parlava prima Giuliano Urbani. Questa, a mio parere, è la prima cosa che vale la pena di considerare perché è un elemento nuovo. Seconda considerazione. Qui utilizzo a man bassa il lavoro di Mario Baldassarri e del Centro Studi Economia Reale. Ritengo infatti che l’unica politica economica possibile è quella di stabilire la riduzione delle tasse, perché chi si vuole imbarcare nella riforma della pubblica amministrazione, come diceva Urbani, si perde. Chi vuole fare la ripresa giocando con i parametri dei Trattati o con le stupidaggini del contenzioso europeo e cose di questo genere di fatto prende tempo o forse perde tempo. Se si vuol fare una operazione shock e se si ha a disposizione un soggetto politico interclassista occorre dire qual è l’unica possibilità per rimettere in moto la macchina evitando che continui ad essere distrutta dalla tassazione. La causa principale del rallentamento economico, della mancanza di buona volontà, della mancanza di fiducia, della mancanza di investimenti, della mancanza di tutto, è che siamo in presenza di una tassazione che è andata largamente al di là del limite ed il limite è quello che comporta distruzione di ricchezza, da una parte e, dall’altra parte, riduzione di introiti complessivi dello Stato. Questo è dimostrato dal fatto che negli ultimi quindici anni governi di buona volontà, guidati da persone di larga esperienza, non avendo minimamente toccato questo aspetto, ma avendo giocato con questo aspetto per varie ragioni hanno fatto politiche economiche sostanzialmente identiche portando tutti al formidabile aumento di spesa corrente e di tassazione. Infatti, gli ultimi 318 quindici anni hanno avuto tutti questi due elementi comuni: spesa corrente dilatata e tassazione in crescita. Allora se si vuole cominciare ad evitare la spesa corrente dilatata occorre portare via l’acqua. L’operazione shock che può rimettere in moto il Paese è fare un piano preciso, scadenzato, di abbattimento della tassazione. Che non è l’operazione più intelligente. È l’unica operazione efficace. In genere l’efficacia nella vita non ha sempre molto a che fare con l’intelligenza. L’intelligenza serve per spiegarla. Ma ha a che fare con la presa d’atto di quello che funziona e di quello che non funziona, avendo la pelle adatta a gestire la rozzezza. Questa nostra è una realtà che può riprendere fiato e può riprendere corpo se il passaggio è un passaggio che ha queste caratteristiche. Dai dati presentati da Mario Baldassarri (elencati, precisi, puntuali) si trae questa considerazione e questa conseguenza. Condivido ciò che ha detto Giuseppe Roma e cioè che pensare di valorizzare il patrimonio per farlo diventare movimentazione economica è illusorio se non si è rimesso in moto il mercato. Il patrimonio ha un valore in relazione alla capacità di mercato di dargli valore. E il mercato non lo si rimette in moto se non si usano due strumenti che oggi sono tramortiti: lo strumento della fiscalità e lo strumento del credito. Il problema più rilevante, dal punto di vista politico, è quello della fiscalità. Il problema più rilevante, dal punto di vista dell’onestà, della trasparenza e della verità, è quello del credito perché è ovvio che un sistema bancario all’ottavo anno di recessione non può essere altro che patrimonialmente debilitato, anche se ha il buon gusto di comunicare l’opposto. Ritengo che questi siano i passaggi ineluttabili. Se il soggetto politico che mostra di essere nato e se, come io auspico, troverà compagnia sul fronte del centrodestra, perché la solitudine nella realtà politica e democratica porta male, allora possiamo sperare in una vera svolta. C’è da sperare che anche da altre parti ci siano dei risvegli, però un soggetto politico è comunque nato, e allora che tipo di politica può darsi per costruire la fine del rallentamento e della debilitazione. L’avvio di una svolta è infatti questo: non finanziare più lo spreco pubblico che colpisce tutte le categorie sociali, tutte. Questa è la verità! Terza considerazione. Noi siamo, come sappiamo tutti, un paese che vive con l’estero. Negli ultimi tempi abbiamo dato una comunicazione devastante per chi lavora all’estero, esporta, chiede soldi. Abbiamo fatto la comunicazione dell’Expo e del Mose, che sono due strumenti di comunicazione 319 internazionale tipici, perché l’Expo chiama tutto il mondo qua e noi abbiamo fatto vedere a tutto il mondo quello che abbiamo fatto vedere. Dai cinesi del Yangtze, fino agli australiani e ai canadesi, se uno parla dell’Italia magari non sanno cos’è, se gli dici Venezia lo sanno. E noi abbiamo comunicato quelle vicende note. Qui mi pongo un quesito che non mi pare ponga nessuno. Certo, sarebbe bene che noi diminuissimo la quota di ladri e va benissimo. È una cosa che può succedere, deve succedere. Intanto che siamo impegnati nel vedere di fare questo sforzo, abbiamo però proprio bisogno che le nostre procedure di rappresentazione in tutto il mondo abbiano questa formidabile enfasi tipica dell’apertura della rivoluzione di giustizia nel territorio punito? No, mi chiedo anzi se sia una realtà normale quella in cui apriamo le procedure giudiziarie con operazioni sistematicamente da mega scoop. Tutti hanno il terrore di parlare di questo argomento perché può sembrare copertura al peggio. Io invece sono del parere che questo Paese ha avuto dei danni immensi e continua ad avere dei danni immensi per colpa della corruzione e per colpa di come si organizza l’anticorruzione. Magari poi la corruzione deve andare all’inferno e l’anticorruzione solo in purgatorio, però nessuno deve andare in paradiso, perché sono due elementi che creano forte danno reale alla vita complessa del Paese, che vive anche di reputazione. Non penso assolutamente che noi abbiamo un numero di scorrettezze maggiori di quelle che hanno i tedeschi. Ma noi facciamo sempre di queste mega rappresentazioni, commiste tra indagini giudiziarie e moltiplicatore di comunicazione, che secondo me sono assolutamente devastanti. Questo è un altro argomento che bisognerebbe mettere nell’insieme delle cose che, con santa pazienza, dobbiamo cercare di gestire meglio, se vogliamo cercare di trovare il bandolo dell’uscita dopo quindici anni dal declino progressivo. FOLLI Una giustizia inefficiente ma spettacolare? MAZZOTTA No. Poiché la magistratura italiana è frequentata da un numero considerevolissimo di persone di grande qualità ed io vedo nella spettacolarizzazione come una richiesta di sostegno pubblico. 320 Comunichiamogli che ce l’hanno tutto, spettacolarizzazione. Non so cosa bisogna fare di più. anche senza FOLLI Il direttore del Censis Giuseppe Roma aggiunge qualche riflessione sulla questione welfare. ROMA Come hanno detto bene sia Urbani che Mazzotta, riconosciamoci tutti un deficit di cultura, perché è come se fossimo stati investiti da un grandissimo fenomeno che è il globale, il mondo che si globalizza. Allora, ma è mai possibile che il tema della corruzione siano soltanto i controlli? La ritengo una cosa completamente fuori luogo. Sono le stazioni appaltanti che devono essere trasparenti. Non è che possiamo pensare di lasciare le norme che ci sono, decine di decisori su qualsiasi operazione, poi però mettiamo l’anticorruzione. L’anticorruzione è un segmento limitante, ma c’è un processo che va per fatti suoi. Questa Expo è stato culturalmente un errore perché non si può passare anni a stabilire dove farlo, cioè quali sono le aree da valorizzare quando già a Londra le Olimpiadi si sono fatte per valorizzare un’area fuori Londra e i cantieri ci sono dopo le Olimpiadi. Hanno smontato lo stadio che era fatto apposta per l’evento, 60.000 persone. Dopo il West End se l’è preso e l’hanno riportato a 25.000. Quello è una infrastruttura, l’evento serve per fare un pezzo di futuro di un paese, di una città, ecc., o no? Non viene fatto perché ci sono le procedure speciali, ci sono i soldi pubblici e ci sono delle aree da valorizzare. Poi dietro questo c’è la corruzione. Ma anche se ammettessimo che non ci sia stata nessuna forma di corruzione, già noi abbiamo sbagliato a fare un evento in quel modo lì. L’altra cosa che volevo dire parlando direttamente di welfare è che abbiamo anche una forte necessità di visibilità che non è comunicazione. Secondo me ogni mattina bisogna trovare qualcosa da comunicare, non sempre sono le cose più giuste, non sempre le decisioni sono quelle più giuste. Noi abbiamo elaborato un progetto che riguarda il welfare. Come vogliamo approcciare il problema del welfare oggi? Diminuendo gli sprechi pubblici, certamente. Cercando di non ridurre i servizi cioè non fare tagli per le persone. E allora noi, ad esempio, abbiamo elaborato 321 qualcosa che razionalizza il sistema attuale basato fondamentalmente sulla spesa delle famiglie, valorizzando al massimo quella spesa in un sistema che possa creare anche lavoro, occupazione, ecc.. Ora tutto questo ha un costo, costa circa 1,3 miliardi il primo anno e ne recupera circa 1,1 miliardi con l’emersione del lavoro nero delle badanti ecc.. Chiaro che questo tipo di approccio ha difficoltà perché il Tesoro dice no, quant’è il mancato gettito? 1,3 milioni? Non se ne fa nulla. Tutto il resto sono previsioni incerte. Però, se noi non incominciamo mai perché probabilmente non è neanche una di quelle cose che va sui giornali non ne usciremo mai. Non penso che la nostra conferenza stampa sulla proposta vada sui giornali più di tanto. Perché? Perché sono dei progetti paese che cercano di rimettere in moto delle aree, dei settori, in questo caso l’economia legata ai servizi alla persona, che è un pezzo importantissimo di tutte le economie moderne, che oggi è gestito da imprese e non soltanto dallo Stato, e che ha tutti gli strumenti di razionalizzazione necessari. Oggi una famiglia che ha una persona in casa non autosufficiente, prende una badante, paga mille euro al mese e ci paga anche le tasse sopra perché non ha nessuna forma di detrazione, quindi quello è considerato come se fosse reddito. Allora, ci sono tante cose, per ritornare al tema centrale, che oggi la società italiana potrebbe risolvere se ci fossero culture adeguate a fare questo tipo di operazioni. Il successo di Renzi è anche che talvolta le soluzioni sono molto banali. Quelle soluzioni che lui propone in maniera molto semplificata, prima rimanevano coperte dal modo contorto con cui le cose si fanno. Quindi secondo me oggi la tassazione certamente è un dato, ma l’elefantiasi della pubblica amministrazione lo è altrettanto ed io partirei da lì tagliando persone e leggi. FOLLI Una domanda per Urbani. Dice Giuseppe Roma: è un problema di cultura politica. Dice il presidente Mazzotta: la priorità è tagliare le tasse. Ora, doveva essere il core business di una forza di centrodestra tagliare le tasse o no? Molto più che di una forza di centrosinistra. Non è stato fatto. Adesso lasciamo perdere il perché, ma la domanda è: può oggi una forza di centrosinistra riuscire a fare un tipo di politica di questo genere dove è invece fallito il centrodestra? URBANI 322 È una bella domanda ma non è proprio una domanda facile per la semplice ragione che sono molti i paesi in cui, quando una coalizione o un parlamento hanno fallito, quello che viene dopo è costretto a prendere di petto il problema sul quale il precedente ha fallito e quindi ci proverà. FOLLI In genere succede l’opposto. Tony Blair si avvantaggiò del lavoro della Thatcher. URBANI È possibile tutto. Resta il fatto che è molto difficile per una semplice ragione: occorre, qui sì, un grosso consenso popolare per tutte le misure impopolari, di qualunque tipo siano. Serve la capacità di un leader politico di dire “Seguitemi, è per il vostro bene”. Ma è difficile, è davvero molto difficile. Personalmente credo che questa storia della riduzione delle tasse saremo costretti a farla perché altrimenti non andiamo avanti. Però, credo che sia più facile che ci riesca la Troika e non l’assenza della Troika. Per la semplice ragione che le imposizioni dall’esterno ad un certo punto diventano più sopportabili o meno rifiutabili. Non è la strada che preferisco, è una strada che considero un fallimento, me ne dispiace enormemente, però realisticamente credo che sia così. FOLLI Perché questo soggetto politico che si ricostituisce intorno a Renzi, si ricostituisce più facilmente nell’area del centrosinistra mentre la destra è in così grande crisi? URBANI Per la semplice ragione che il centrodestra queste cose non è riuscito a farle. Io porto qualche responsabilità individuale nell’avere inventato il centrodestra e soprattutto la base programmatica, quella che è stata chiamata la “svolta liberale”. La grande speranza del ’94 era fondata essenzialmente su queste cose. 323 Ho coordinato quattro programmi di quattro legislature successive, nel primo mi riconoscevo del tutto, nel secondo un pochino meno, nel terzo un pochino meno, il quarto l’ho rifiutato addirittura. Perché? Perché tu non puoi fare i programmi raccontando poi le bugie agli elettori. Sul debito pubblico abbiamo raccontato la bugia, tant’è vero che lo abbiamo aumentato. Sulla pressione fiscale abbiamo raccontato la bugia, perché speravamo che ci fosse un tale sviluppo dell’economia da pagare anche debiti pregressi e futuri, anche questa era una bugia perché il tasso di sviluppo della nostra economia non consentiva assolutamente questo. Allora, avendo detto tre bugie in quattro legislature, francamente non c’era la possibilità di dire la quinta bugia. Quando si dice che Renzi sta tentando un programma che assomiglia a quello del centrodestra, è vero. Ma è vero soprattutto per una ragione, perché l’agenda dei problemi da affrontare è quella e non puoi sfuggire all’agenda perché l’agenda la stabiliscono i fatti, non la stabiliscono i commentatori, quindi nemmeno noi. Ecco la ragione per la quale il tentativo va fatto. Può andare in porto questo tentativo? Solo se si forma anche un’opinione pubblica molto sensibile, molto avvertita di questo e disposta ai sacrifici. Lo siamo? Non so rispondere. BALDASSARRI Ascoltando questo panel, mi è venuta in mente una riflessione: aumentare le tasse e tagliare sul serio la spesa, non è popolare. È evidente che non è popolare. Allora, poiché i numeri che abbiamo illustrato nel Rapporto dimostrano che tutti i governi hanno scelto l’impopolarità di aumentare le tasse piuttosto che l’impopolarità di tagliare la spesa, la mia conclusione è: non è che il sistema politico, di qualunque colore, è molto più legato alla spesa e molto meno legato alle tasse? FOLLI Infatti questa era proprio la domanda che volevo proporre, ma l’hai detta molto meglio di come l’avrei detta io. Perché è giustissimo quello che dice Mazzotta: la priorità è questa, però, se effettivamente gli sprechi sono connaturati a un sistema, se toccano proprio l’esistenza stessa di intere categorie elettorali, come si può pensare che un leader, soprattutto se è un leader di centrosinistra 324 che ha un certo tipo di insediamento sociale, possa colpire così duro lì, alla fine proprio nel suo elettorato, o comunque in una certa logica profonda del sistema, in vista di un bene superiore, un bene però dilazionato nel tempo. C’è stato chi ha fatto riforme e le ha scontate. Shröder, in Germania, ha fatto delle riforme e ha perso le elezioni, il beneficio lo ha ricevuto la Merkel. Allora qui come la mettiamo con questa contraddizione? MAZZOTTA Qui, secondo me, abbiamo una situazione che è molto interessate da analizzare, non è interessante affatto da gestire. E siccome tutti noi abbiamo la fortuna di analizzare e non abbiamo il compito di gestire possiamo anche divertirci a proporre. Partiamo dalla premessa, che però è essenziale. Siamo in una fase di avvitamento nella quale, se non c’è effettivamente ripresa delle attività produttive, non siamo in grado di salvare nessun equilibrio di finanza pubblica e di salvare nessun equilibrio sociale nei prossimi anni. Se si parte da questa premessa, le cose da fare per favorire la ripresa delle attività produttive e dei consumi sono la fiscalità e il credito. Poi ce ne sono mille altre, ma i pilastri grossi sono questi due. Lasciamo perdere il credito che ha questioni diverse anche se tutte reali e, a mio modesto parere, non ancora affrontate. Sono convinto che una battaglia per l’abbattimento dei livelli di fiscalità abbia un livello di popolarità immenso e sono di questo parere perché profonda è la mia tristezza sulla ragione, perché tale è il discredito di tutto il sistema pubblico, che la proposta di dargli meno soldi suscita l’entusiasmo popolare. Sono anche convinto però che il vero freno a questo è l’intermediazione della finanza pubblica che serve a tutto quello che può essere distribuito a pioggia e che viene fatto poi pagare con l’imposizione. I percettori di questi benefici in gran parte non hanno una diffusione elettorale fantastica, hanno però una capacità di ricatto politico altissimo e sono l’establishment della mano pubblica, che non hanno rilievo elettorale, ma hanno capacità di condizionamento relazionale. Allora parto dal presupposto che se nasce un movimento con capacità di appello popolare è meno condizionabile dal sistema relazione tradizionale al quale sono stati sempre sottomessi i politici deboli. Perché il sistema relazionale ha avuto sempre nelle mani la tranquillità e la stabilità di chi non aveva sufficiente forza propria. 325 Mi permetto di dire che questo sistema relazionale si è enormemente gonfiato negli ultimi vent’anni, è sempre esistito ma era più debole prima. Quando c’erano i partiti forti questo sistema era enormemente più debole. Quando la politica è diventata debole, la capacità di ricatto del sistema relazionale è diventata più forte. Sapete meglio di me qual è, cosa è, dove è questo sistema relazionale. È al centro ed alla periferia, è nello Stato centrale, nelle Regioni e nei Comuni. È sparso, ma oggi è fragile e il passaggio politico significativo secondo me è questo. In sostanza questo benedetto uomo che ha usato una terminologia che a me francamente piace molto poco, perché secondo me “rottamare” il prossimo è una intenzione non benevola, poco cristiana ed anche dal punto di vista tecnico si presta a diversi ragionamenti sull’organizzazione della carrozzeria. Però, se uno volesse rottamare l’establishment della rendita, a mio avviso, avrebbe una campagna interessante da fare. A mio avviso è molto più difficile resistere senza farla, che poter sviluppare consenso politico facendola. 326 Proposte della politica MASSIMO LEONI, SKY TG Nelle sessioni precedenti è stata affrontata tutta la questione dell’analisi quantitativa e qualitativa dei dati di Economia Reale. I numeri ci parlano di una situazione macroeconomica italiana molto difficile. In questa sessione dobbiamo parlare di politica con la politica. Vedo due corni dai quali prendere la questione delle politiche economiche in Italia: c’è il corno europeo, importantissimo, e c’è poi quello delle politiche interne. Quello delle politiche europee riguarda soprattutto le politiche macroeconomiche in generale, politiche di bilancio. Quello che attiene all’Italia e che hanno uno spazio di autonomia maggiore, sono le politiche sulla produttività, sulla microeconomica cioè le misure di riforma. Chiedo allora a Filippo Taddei: dopo le elezioni europee lei è più o meno fiducioso che l’Italia possa incidere in qualche modo rispetto agli obiettivi ma anche agli strumenti, visto che parliamo di politica economica, che l’Europa ci ha imposto e che noi ci siamo imposti un po’ da soli, e parlo di cose che al momento appaiono di impossibile realizzazione come gli obiettivi sul debito pubblico del fiscal compact per esempio. FILIPPO TADDEI, PD Sono più ottimista per un insieme di ragioni e per una convergenza di interessi che ha a che fare con l’identità produttiva dell’Europa, quello che noi ci aspettiamo di produrre come europei. Le difficoltà combinate e note di due paesi che sono Italia e Francia e una difficoltà più nascosta che è la Germania. La combinazione di questi tre problemi in realtà sarà un buon elastico per l’Europa. Se guardiamo all’Europa nel suo complesso macroeconomico, l’identità europea è un’identità fortemente caratterizzata dalla presenza industriale, del manifatturiero in particolare. E all’interno di questa identità produttiva c’è un paese che ha patito più degli altri la crisi 327 economica, in particolare in termini di riduzione del suo settore di riferimento che è il suo settore manifatturiero e cioè l’Italia. Se ci riferiamo alla percentuale di valore aggiunto che viene dal manifatturiero, si può notare che in Germania è fondamentalmente stabile tra pre e post crisi, mentre in Francia è calata leggermente di un punto percentuale. In Italia invece si è ridotta drammaticamente, nell’ordine di quattro punti percentuali di Pil. Una riduzione gigantesca, pertanto, che non minaccia solamente l’identità produttiva italiana, ma l’identità produttiva europea, se è vera l’analisi che facevo prima ricordando che l’Europa è l’economia avanzata che si regge sul manifatturiero. Di questo tema l’Europa è bene edotta ed è edotta anche della qualità di questo problema, non solamente a livello di principi, non tanto a livello di implementazione delle politiche, ma se in Europa esiste un programma che si chiama appunto industrial compact è perché riconosciamo che la nostra identità produttiva è venuta meno. Per questo sono fiducioso che dall’Europa in realtà verrà sostegno perché l’industrial compact riconosce un problema di portata generale e riconosce soprattutto che è un problema particolarmente importante: l’identità produttiva industriale che si applica a questo Paese. Quindi da lì verrà un sostegno in più piuttosto che un sostegno in meno. Tutto questo per noi è cruciale e si interseca con il problema del fiscal compact perché quest’ultimo lo possiamo affrontare in due modi. Il Rapporto di Economia Reale sottolinea con grande nettezza qual è il rischio, a livello di dinamiche, del debito pubblico per i prossimi anni. È un Rapporto che ha, se vogliamo, un eccesso di pessimismo in queste dinamiche e che si porta al di là di quelle che sono le previsioni di altri istituti quali ad esempio Prometeia che fa lo stesso tipo di stima a livello quinquennale. Ciò che emerge chiaramente però è che in questo Paese ci dobbiamo porre il problema di come ridurre il debito pubblico. Lo possiamo fare intervenendo sul numeratore (che è quello che abbiamo fatto fino ad oggi facendo una politica fiscale molto cauta), oppure pensando a come tirare su il denominatore. Se si dice che il fiscal compact prevede 50 miliardi di tagli, in realtà si sta dicendo che assumiamo che il paese di oggi resti così per sempre. Assumiamo cioè che il paese che ha perso rispetto al 2008 più di 1,1 milioni di posti di lavoro, quasi 10 punti di Pil resti così per sempre. È evidente allora che se il paese che abbiamo di fronte agli occhi oggi rimarrà identico a se stesso, allora c’è un unico modo per riportare quel rapporto di debito pubblico in bilanciamento: l’intervento sulla riduzione dei saldi del bilancio pubblico o aumentando le entrate, se qualcuno ci crede ancora, o riducendo ancora le uscite. Naturalmente 328 questo è un punto di vista estremamente pessimistico che presume appunto che il Paese non cambi. C’è però un’altra relazione che è pienamente compatibile con il fiscal compact e che intreccia il fiscal compact con l’industrial compact. In quale modo l’Italia può rilanciare la propria identità industriale e tornare a crescere per fare in modo che quegli obiettivi di finanza pubblica del fiscal compact siano raggiungibili, non perché facciamo una draconiana riduzione della nostra spesa pubblica di 50 miliardi all’anno (che nemmeno nelle ipotesi più avanzate è lontanamente concepibile), ma perché questi stessi obiettivi sono perseguibili ripristinando un settore di crescita che ci riporti più o meno a quello che noi eravamo prima della crisi. Quello che è sorprendente è la rapidità nel cambiamento che abbiamo subito con la crisi, cioè la riduzione di 10 punti di Pil che è avvenuta nel breve lasso di tempo di sei anni. È una cosa impressionante. Ma allora, senza nessun tipo di trionfalismo, ma senza nemmeno catastrofismo, questo è lo stesso Paese che con un lasso di tempo abbastanza breve può tornare al livello del 2008. Anche perché quel livello del 2008 non era un livello con cui far festa. Eravamo già allora un Paese che aveva i problemi strutturali che abbiamo sempre discusso, soprattutto la carenza di produttività che abbiamo sempre indicato. Dobbiamo quindi dare una dimensione ai nostri problemi distinguendo quello che è il problema strutturale (cioè l’Italia che cresce meno tra tutti i paesi sviluppati già prima del 2008) e quello che invece è la malattia acuta, questo shock incredibile che è durato sei anni. Ora, questo shock incredibile è molto più facilmente riassorbibile. Non confondiamo i due temi. Non è che riassorbendo lo shock radicale e drammatico avremmo risolto tutti i nostri problemi, però senza catastrofismo riconosciamo che si possono fare un paio di cose che hanno a che fare con il cambiamento strutturale che però riassorbiranno lo shock radicale, quello della grande crisi, permettendoci poi di soddisfare non solo gli obiettivi di finanza pubblica ma anche di ritornare al punto del 2008. LEONI A Irene Tinagli vorrei chiedere quanto, secondo lei, la politica sia impegnata nelle ipotesi di dismissione di patrimonio, cioè di stock contro stock per diminuire il debito pubblico. È un problema politico o – diciamo la versione spacciata per anni – è un problema tecnico? 329 IRENE TINAGLI, Scelta Civica Se fosse un problema tecnico, avrei difficoltà a dirlo perché nelle legislature precedenti io non c’ero. Posso quindi dire che osservo i risultati e i risultati sono quelli che abbiamo visto, cioè non c’è stato un intervento della portata e con i risultati che ci si auspicava. Presumo che ci sia stato molto probabilmente un vulnus di volontà politica perché, per quanti possano essere i problemi tecnici, non credo che possano avere impedito decisioni efficaci. Abbiamo iniziato a parlare di privatizzazione quando io ero alle elementari. In questo arco di tempo, se ci fossero stati dei problemi tecnici immagino che forse si poteva trovare una soluzione, se ci fosse stata la volontà politica per farlo. Sugli aspetti più strettamente tecnici magari dovremmo chiedere a persone che hanno una maggiore esperienza di quegli anni. Vorrei però aggiungere che ogni volta che si cita la parola “privatizzazioni” questa dovrebbe essere accompagnata anche dalla parola “liberalizzazioni”, perché le due cose disgiunte possono anche provocare dei danni, a meno che non si parli di dismissioni del patrimonio immobiliare (palazzi, aree, caserme ecc.). Se parliamo in senso proprio di privatizzazioni vere (enti, società, partecipazioni dove veramente c’è la ciccia) non si può prescindere dal processo di liberalizzazione. Ebbene, in questo senso mi piacerebbe che si facesse molto di più anche perché in questi mesi non ho visto una forte spinta in questo senso, non ho visto all’interno del Def un programma di liberalizzazioni incisivo che potesse davvero sbloccare alcune situazioni per rafforzare il sistema della concorrenza, i poteri dell’autorità, fare in modo che davvero ci siano dei meccanismi e dei metodi per rafforzare la concorrenza e il mercato in Italia. Perché dico questo? Perché se vogliamo sollevare, come diceva Filippo Taddei, non solo il numeratore ma il denominatore del rapporto Debito-Pil, non possiamo prescindere anche dal creare un’economia più dinamica, più libera, più concorrenziale, perché questo è quello che attira gli investimenti produttivi. Se si liberalizzano alcuni settori, ci saranno nuove imprese che nascono, ci saranno investimenti esteri, ci saranno posti di lavoro e quindi questo aiuterà a generare Pil. Quindi a me piacerebbe che quando si parla di rilancio dell’economia, di dinamizzazione, di diminuzione del rapporto debito-Pil, in particolare quando si parla di privatizzazioni, questa parola fosse abbinata alla parola liberalizzazioni. LEONI 330 A Ferdinando Adornato faccio la stessa domanda che ho fatto ad Irene Tinagli, anche perché è politico di più lungo corso e quindi può avere maggiore esperienza sulla questione del patrimonio pubblico di cui sbarazzarsi, che vuol dire di fatto come ridurre il perimetro pubblico che è un altro grosso problema politico che in Italia si fa fatica ad affrontare. Poi vorrei le sue valutazioni sulla riduzione delle spese perché nel Rapporto di Economia Reale questo è uno degli argomenti forti anche perché, come in varie occasioni Mario Baldassarri ha anche esplicitamente detto, lì dentro c’è anche il malaffare, gli sprechi, le ruberie. FERDINANDO ADORNATO, Per l’Italia Vorrei rompere un po’ la dittatura degli economisti perché in fondo anche al Circolo di Bloomsbury non c’era solo Keynes. Non so se sono un politico di lungo corso, sicuramente sono impegnato da tanti anni. Più che il politico però, farei anche il politologo di lungo corso, quindi mi affianco agli economisti in questa veste. Quando ho salutato Mario Baldassarri all’inizio di questo workshop gli ho detto che aveva fatto un Rapporto terribile. Lui ha allargato le braccia come per dire non è colpa mia. Allora, mi è venuto in mente quell’aneddoto – che credo molti ricorderanno – del generale nazista che entra dentro l’atélier di Picasso e vede Guernica e chiede: “Chi ha fatto questo obbrobrio?”. E Picasso risponde: “Lei Signor Generale”. Quindi, in questo caso Mario Baldassarri fa il pittore e dipinge un Rapporto terribile il quale però pretende delle risposte di carattere economico, ma anche delle risposte di carattere prettamente politico. Il processo che il Rapporto di Economia Reale descrive in termini di distruzione del risparmio ed assassinio della crescita si è accompagnato alla distruzione del sistema politico. Ora è chiaro che le politiche pretendono soggetti che agiscano per attuarle. Il nostro problema è moltiplicato all’ennesima potenza, perché oltre a non trovare una strada o non averla trovata per riformare il sistema economico e produttivo ci troviamo di fronte alla paralisi del sistema politico che è stato distrutto e quindi all’incapacità dei soggetti politici di determinarlo. Chi è che non si ricorda (lo dico con un po’ di autocritica perché ne ho fatto parte insieme a Mario Baldassarri) di quella bellissima ma nefanda stagione referendaria quando tutti gli italiani al 97% pensavano come noi e cioè che serviva il bipolarismo proprio per rompere il partito della spesa pubblica. Non è che, ormai vent’anni fa, questa cosa fosse ignota agli italiani o che noi non ce ne fossimo accorti. Tutti ce ne eravamo accorti che 331 bisognava rompere quell’incrostazione lì. Purtroppo però abbiamo avuto un bipolarismo del tutto anomalo, quindi non siamo entrati affatto in Europa. Volevamo andare a Philadelphia e ci siamo trovati a Beirut, cambiando il sistema politico con un bipolarismo rissoso e inconcludente chiamato seconda Repubblica. Nella prima Repubblica c’erano gli immutabili senza alternanza, chiamiamoli così in una visione un po’ d’insieme. Nella seconda Repubblica c’è stata l’alternanza degli immutabili. Perché di fatto questi vent’anni sono stati lo scontro Berlusconi-Prodi e i gruppi di poteri, le classi dirigenti che si raggruppavano intorno a Berlusconi e Prodi erano sempre le stesse, per vent’anni. Vinceva uno, vinceva l’altro quindi all’apparenza c’era l’alternanza. Ma i sistemi di potere, quindi quel partito della mano pubblica di cui si parlava prima e che è il vero responsabile, sostanzialmente non facevano altro che uniformarsi al cambiamento. Quindi l’immutabilità del sistema di potere effettivo. LEONI In precedenza Giuliano Urbani ha parlato della rivoluzione liberale con cui un’aggregazione politica nuova si era presentata alla ribalta più o meno vent’anni fa e quindi in nome di quella rivoluzione c’erano i germi per evitare che la spesa pubblica diventasse comunque una modalità di consenso politico. Io personalmente ritengo sia una cosa grave perché lì si è spacciato una cosa per un’altra, ma tutto sommato la sinistra invece… ADORNATO Mi ha anticipato, ci stavo arrivando. Tra l’altro io c’ero a tutte quelle fasi perché ho partecipato alla stagione referendaria e poi ho creduto anche nella rivoluzione liberale, quindi le disillusioni per me sono state molteplici. BALDASSARRI Anche io c’ero… 332 ADORNATO Proprio in nome delle cose dette mi affido a Filippo Taddei, a Renzi e al suo gruppo dirigente consigliando di ascoltare Mario Baldassarri. Questa è la sintesi che io farei. Ma di qualcuno bisogna pur fidarsi, non è che bisogna sempre fare il grillo parlante. E qui bisogna che affrontiamo questo tema nel modo in cui Renzi lo ha descritto. A me non preoccupa però se Renzi ci riesce o meno. Ovviamente, se Renzi non ce la facesse sarebbe peggio per tutti, oltre che per lui. Ma ho sentito Mario Mauro che dice che non si garantisce la libertà ed ha parlato addirittura di dittatura. Ora, ogni opinione è legittima, ma se c’è stata in questi ventitrent’anni (perché di riforme si è cominciato a parlare quando Irene Tinagli non andava alle elementari ma all’asilo) una dittatura è stata la dittatura del blocco politico-culturale che ha bloccato le riforme sempre e non certo una dittatura dei riformisti. Sento anche dire: “ma come allora bisogna fare le riforme senza discutere?”. Sì, ma sono trentacinque anni che discutete ragazzi! La gente ragiona così, è da trentacinque anni che discutete ed ancora state a discutere!? Non è più il tempo di vedere quale sia il sistema che preferisco: il sistema francese, il sistema inglese, il modello tedesco, il modello di qua, il modello di là. Ora è ora di fare! E Renzi ha detto “Basta, adesso facciamo!”. Ha ragione! Che vuoi stare a discutere? Ti metti a votare contro il processo riformatore per l’ennesima volta? Non si può fare. È una mia opinione: le riforme vanno fatte. Terzo punto: chi le fa? Siccome ci vogliono dieci anni per recuperare la situazione, anche se Mario Baldassarri ci fa qualche sconto quando auspica che si attui una strategia forte di politica economica, è chiaro che allora il problema non è solo Renzi. Noi dobbiamo tornare a quel modello virtuoso che il popolo referendario, che Dio l’abbia in gloria, pretendeva per l’Italia. Abbiamo avuto per vent’anni un sistema politico bipolare, come ho detto, comunque più retto dal carisma di Berlusconi che dall’altro polo perché la sinistra faceva governi con cinquantamila forze, si disperdeva in mille rivoli e via dicendo. Adesso abbiamo il contrario. Abbiamo finalmente il PD e sottolineo finalmente avendo scritto del partito democratico nel 1991 quasi per primo ed inascoltato. Ora sono felicissimo che ci si sia arrivati finalmente con Renzi. Ma mi domando: e dall’altra parte? Se Renzi non riuscisse, quale garanzia ha oggi questo Paese di continuare il processo riformatore che pure è così difficile? Allora la soluzione che capiscono anche dei bambini 333 delle elementari e che in Germania hanno già fatto e che noi non riusciamo a fare è il governo di larghe intese. La filosofia del montismo, la filosofia di Enrico Letta era questa: bisogna mettersi insieme, affrontare magari per cinque-sei anni questo nodo, che il Rapporto ha bene inquadrato, e dopo ci ridividiamo per una competizione virtuosa visto che questo bipolarismo non ha funzionato. Allora, io auguro a Renzi di avere tutta la fortuna perché è l’Italia che in questo caso ne avrebbe. Faccio il tifo per lui, lo appoggio, visto che stiamo con la maggioranza nel governo, ma mi devo porre il problema di una continuità non solo di Renzi, che potrebbe anche rivincere nel 2018 e governare per altri cinque anni, ma di una continuità del sistema. Ecco che allora la palla passa alle forze della maggioranza che non fanno parte del PD. Ho visto che adesso si comincia a discutere tra Alfano e Berlusconi su come unire i moderati. Ma su che cosa? Che vuoi unire i moderati! Allora, faccio una proposta concreta: Alfano, visto che parliamo delle forze di maggioranza, dovrebbe dire a Silvio Berlusconi pubblicamente la seguente cosa: “io ho il tuo stesso obiettivo di unire i moderati, ma sono indisponibile a questa prospettiva se Forza Italia non appoggia il governo e se anche con un appoggio esterno non si crea un clima in cui tutto il Paese collabora agli obiettivi che abbiamo, perché solo così possiamo poi ridividerci, perché come si fa a unire i moderati fra uno che dice che vuole uscire dall’euro e quell’altro che parla di Don Sturzo e di De Gasperi? Non si può fare. Allora lasciamo stare se ci vediamo o non ci vediamo la sera, se ci vediamo ad Arcore o ci vediamo alla nostra sede di NCD, il problema è il governo del Paese. Allora Forza Italia è disposta ad appoggiare il governo, con un appoggio interno o esterno, o no?”. Solo questa è la condizione perché, fra due anni, si possa decretare la nascita di polo di centrodestra. Viceversa, l’obiettivo da coltivare è che alle prossime elezioni si presentino in coalizione le forze che attualmente governano. Non lo dico per scelta di sinistra o di destra. Sto facendo un discorso che riguarda la tenuta del sistema politico visto che esso è attaccato da forze populiste, barricadere, irresponsabili, irrazionali. O noi ricostruiamo un bipolarismo responsabile, e la dimostrazione è che Forza Italia appoggi il governo se vogliamo entro due anni costruire un polo alternativo a Renzi, come dovrebbe essere nel dna di un paese civile. Viceversa, se questo non avviene, occorrerà non baloccarsi sul fatto dove ci vediamo, quanto ci vediamo, ci sarà Fratelli d’Italia o ci sarà la Lega, ma prepararsi al fatto di dire agli italiani perché nel 2018, sperando di arrivarci, non sarà risolta la questione che le forze che hanno governato insieme si candidano, naturalmente ciascuno con le sue 334 posizioni distinte, a governare il Paese contro le forze che lo vogliono affossare. LEONI Faccio un paio di riflessioni. Mi pare che la prospettiva che diceva Adornato prima si stia un po’ allontanando. Mi sembra cioè che la tentazione del centrodestra sia quella di fare in modo che la Lega sia il motore politico di quella parte lì, quindi non mi pare che si stia andando verso quella che lei diceva essere una possibilità. E lì si fa esattamente il discorso contrario, cioè Salvini e la Lega dicono che il presupposto per parlare di un’alleanza è che non ci sia in questa alleanza chi sostiene adesso il governo. Quindi Forza Italia addirittura dovrebbe uscire anche dal processo riformatore più in generale e NCD dovrebbe uscire dalla maggioranza. Si può parlare di un’alleanza di centrodestra organica? Questa è la prima riflessione. La seconda riflessione la vorrei fare sulle riforme. Sono parzialmente d’accordo con quello che diceva Adornato perché credo che riformare vuol dire non mettere B al posto di A, ma essere convinti ed aver riflettuto attentamente sul fatto che B sia meglio di A. E allora in questa prospettiva mi spiego la difficoltà di fare compiutamente questa riflessione. Credo che poiché poi le riforme ce le dobbiamo tenere, nel senso che sono cose di ampio respiro e di lungo periodo, non so se il fattore tempo ridotto e la fretta sia una cosa di cui dobbiamo per forza dotarci. Questa legislatura, forse improvvisamente con le europee, sembra avere un respiro diverso, quindi si parla addirittura del 2018. Possiamo utilizzare questo tempo per fare una ulteriore riflessione, e per abbandonare l’urgenza delle riforme, ma per riflettere un po’ di più se forse nei testi di cui stiamo parlando c’è qualche stortura che a me pare che ci sia. ADORNATO Lei ha ragione totalmente, non ha ragione per me. Nel senso che io sono stanco di pensare che si parla di fretta dopo trentacinque anni. Le do ragione sul serio, direi anche io la stessa cosa che dice lei. Solo che dopo trentacinque anni che ho sentito dire che non bisogna agire di fretta e via dicendo, mi sento di dire che comunque è meglio cominciare, magari poi correggendo in corso d’opera, se necessario, piuttosto che restare di nuovo paralizzati dalla dittatura antiriformista. 335 TINAGLI Voglio fare due considerazioni. Sulla questione della fretta “è trent’anni”, questo credo che sia il sentimento che le persone pensano istintivamente: abbiamo aspettato tanto, adesso facciamo. Però c’è anche da stare attenti al come si fanno le cose, perché se noi guardiamo una delle poche riforme vere che sono state fatte in questi ultimi vent’anni è stata la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 che ha portato dei disastri tremendi, ha portato ad un incremento delle spese delle Regioni di 90 miliardi, che noi ci troviamo sul groppone, ed ha portato anche clientelismi, tutti i bubboni della corruzione che stanno venendo fuori adesso. Allora io dico che magari quando si tratta di cose di un certo tipo si può anche rischiare e buttare il cuore al di là dell’ostacolo e provare a fare le cose più in fretta. Ma quando si tratta di mettere mano alla Costituzione e a riforme importanti come legge elettorale, Senato, istituzioni, ecc., magari un po’ di attenzione non guasta, perché poi le conseguenze si pagano nei prossimi venti-trenta anni e prima di poterci rimettere mano è una cosa un po’ complicata. Più che di fretta, ne faccio anche una questione di metodo. Qui devo dire che Renzi quando se l’è giocata molto rischiosa, perché pensare di giocare la partita delle riforme con una maggioranza, la partita di governo con un’altra maggioranza, inevitabilmente ha generato delle tensioni, delle conflittualità, perché comunque poi quando vai a pensare a delle riforme istituzionali le devi fare in maniera partecipata. Il problema che c’è stato e che io vedo da alleata di governo è che le riforme istituzionali, ecc., ecc., non sono state fatte davvero con l’idea di fare partecipare tutti e di allargare la maggioranza di governo, ma di creare una maggioranza alternativa a quella di governo. Abbiamo visto Renzi parlare con Berlusconi e Verdini, ma mai parlare di queste cose con, per esempio, i vertici degli altri alleati della maggioranza di governo. Ed è inevitabile che questo porti dei problemi, perché nel momento in cui ci sono delle forze politiche rappresentate in Parlamento, che fanno parte del governo, appoggiano tante riforme, se si vuole che partecipino al processo e votino le riforme in qualche modo bisogna condividere le proposte e le riforme che si vogliono andare a fare. Non so se sia stata una ingenuità tattica di strategia politica che è stata adottata, però è anche evidente che adesso quel metodo si sta un pochino arenando. Quindi non è una questione di voler rallentare o accelerare, è una questione di scegliere un metodo di lavoro che consenta di arrivare a delle soluzioni di qualità e condivise fra tutti. L’idea, che ha proposto 336 Adornato, di far entrare Forza Italia al governo per fare delle vere larghe intese, risolverebbe probabilmente questa contraddizione di disallineamento fra le due diverse maggioranze, però, francamente, penso che potrebbe portare altri problemi, perché noi siamo stati quelli che già dall’inizio del governo Letta dicevamo che era necessario avere larghe intese. Purtroppo però devo riconoscere che, nei mesi del governo Letta in modo particolare, il sistema politico italiano non ha dimostrato quel tipo di maturità politica necessaria per far funzionare le larghe intese. Il patto di coalizione non è mai stato fatto, poi alla fine Forza Italia, durante il governo Letta, ha utilizzato il palcoscenico del governo per portarsi a casa dei risultati, abolire l’Imu per fare campagna elettorale, poi appena sono venute fuori le magagne sulla Tasi e sulla Tare si è data a gambe levate, ha lasciato il governo con il cerino in mano e poi lo ha attaccato per le conseguenze delle azioni che loro stessi avevano fatto quando erano al governo. Allora, francamente io non credo che riportare questo tipo di approccio dentro al governo adesso, aiuterebbe il processo di riforme nell’interesse del Paese. Si fanno le larghe intese se c’è il senso di responsabilità di farle funzionare, di lavorare tutti insieme e non di utilizzare comunque lo stare al governo per portarsi a casa delle bandierine elettorali, perché se deve essere così siamo punto e a capo. Quindi, per farle funzionare ci vuole una maturità politica di tutto un sistema, che magari in Germania c’è, probabilmente per qualche motivo da noi fa ancora un po’ fatica a maturare. LEONI Quando Adornato parlava di bipolarismo di ritorno dopo un periodo di larghe intese e di riforme, mi era venuto in mente che tutto sommato quest’Italia non è più tanto bipolare perché abbiamo dimenticato che c’è una forza, il Movimento 5 Stelle, che ha da un terzo a un quarto dell’elettorato, quindi abbiamo forse tralasciato un particolare grosso. A Filippo Taddei volevo chiedere questo. Adornato parlava dell’eliminazione, in qualche modo dell’azzeramento, di una classe politica. C’è, secondo Taddei, anche una mancanza nella classe dirigente imprenditoriale di questo Paese? I dati sulla crescita degli ultimi 10–15 anni hanno anche a che fare con una diminuzione della qualità dell’imprenditore italiano? Laddove cercava innovazione e mercati adesso non li cerca più con la stessa insistenza, con la stessa efficacia, con la stessa intelligenza? E servono riforme per questo o altro? 337 TADDEI Penso che questa sia una domanda centrale, ma la risposta sta nella politica, quindi adesso mi butto anche in politica. La classe imprenditoriale, come in realtà tutti gli agenti economici, reagiscono alle condizioni di contesto ed agli incentivi. Il contesto. Noi abbiamo convinto, nella maniera peggiore ma più efficace, gli italiani di due cose: che lavorare non fosse l’attività centrale della loro vita e che investire sul proprio lavoro non fosse, tutto sommato, l’unica vera cosa che importa, e abbiamo convinto una buona fetta, non tutti per fortuna, ma una buona fetta di imprenditori di questo Paese che, fondamentalmente, invece che cercare di innovare, sperimentare, cercare un mercato di sbocco in più, magari bastava fare un altro tipo di investimento. Non è che i nostri imprenditori non investono, è che hanno orientato il loro investimento in una direzione diversa, meno efficace o se vogliamo meno utile per il Paese, che è appunto il capitale relazionale, di rendita politica, di intreccio con la politica e di contatto con la politica. LEONI Nel capitale relazionale mette anche le mazzette? TADDEI Nel capitale relazione ci metto non solo le mazzette in senso stretto, ma anche delle mazzette più sofisticate che sono questo tipo di relazioni privilegiate. LEONI Le chiamiamo in tanti modi ma insomma, “capitale relazionale” è carina. TADDEI Le mazzette sono la rappresentazione plastica del problema. Però ce n’è una più bassa e che emerge anche in questo Rapporto di Economia Reale: pensiamo alla spesa per acquisto di beni e servizi di questo Stato. Ora noi cosa abbiamo: spendiamo all’incirca 135 miliardi all’anno, 60 338 sono intermediati da Consip, rimangono fuori grosso modo 75 miliardi. Se leggete questo interessante Rapporto troverete che c’è anche una grossa enfasi su quello che si può ottenere in termini di riduzione di spesa. Abbiamo 75 miliardi di acquisti che non sono intermediati da nessuna agenzia centrale e nemmeno nessuna delle grandi agenzie regionali che passano questi acquisti. Io sono emiliano e quindi prendo un esempio dalla mia Regione. Noi abbiamo il contesto del Comune, Provincia di Parma e Università di Parma che dietro richiamo esplicito di Consip che dice “Guardate la cancelleria, le penne, quello che volete, le tipiche cose per funzionare, anziché acquistarle privatamente acquistatele attraverso Consip, c’è un risparmio del 30–40%” . Risposta: zero. Naturalmente non è che la risposta nulla sia una risposta perché questa gente non è intelligente, non è razionale, ma perché c’è un investimento, perché naturalmente se tu decidi di pagare un oggetto il 40% in più, c’è un imprenditore che sta facendo degli extra profitti, che ha investito, bada bene, per portare a casa quegli extra profitti del 30–40%. Ha investito, appunto, in termini di quello che io chiamo con una certa nonchalance “capitale relazionale”: voglio essere amico di Massimo, così Massimo poi mi fa fare questa cosa. Vorrei dare però una veste politica a questa che è un’affermazione solo apparentemente tecnica, cioè uno guarda l’ammontare e dice 75 miliardi di spesa all’anno non sono intermediati, potrebbero essere concentrati. Se solo risparmiassimo un 10% su questi, che sembra un obiettivo minimo di risparmio, sono 7,5 miliardi di risparmio all’anno. Cifra spropositata se ci pensate. Perché non avviene? Tecnicamente è quasi banale. Non avviene perché effettivamente noi abbiamo detto a buona parte degli imprenditori di questo Paese che dovevano investire in capitale relazionale e adesso loro vogliono il pay-off, vogliono il rendimento per il loro investimento. Cambiare politicamente questo è estremamente costoso. La vera sfida politica, quella che attenderà noi forze di maggioranza, sulla legge di stabilità che sarà una legge di stabilità durissima e che già anticipiamo, sarà esattamente questo: dire a persone che per decenni hanno investito in capitale relazionale che sono finiti i canditi, che questo non si può più fare, che attualmente la siringa la compriamo dal tizio che ce la fa pagare 1 euro e non 5 euro perché quell’extra profitto non ha nessuna ragione, distoglie investimenti e crea un sacco di cattive cose. Ora, a questo punto la domanda è: perché adesso dovremmo riuscirci quando il tema, pur essendo arcinoto in passato, non è mai stato risolto. Stiamo riscoprendo l’acqua calda? Ho ascoltato Ferdinando Adornato con ammirazione quando ha ricordato le grandi battaglie perse. Io ero uno di quei ragazzetti che perdevano le proprie giornate a raccogliere le 339 firme su quei referendum di cui voi eravate leader nazionali e oggi sono qui a fare il responsabile economico del PD. Quindi quella esperienza mi ha portato bene. Vorrei dire che oggi, pur permanendo nelle difficoltà, noi abbiamo molta più probabilità di successo, perché l’entità della crisi ci da una mano. Il capitale politico fondamentale di questo Paese è sempre l’emergenza e adesso abbiamo un sacco di capitale politico, perciò un sacco ancora di emergenza, ma, in aggiunta a questo, questo pasticciato bipolarismo che abbiamo creato, è comunque molto migliore di prima. Qui il reduce più giovane vorrebbe dire ai reduci più anziani che in realtà questo sistema è comunque molto più virtuoso dei precedenti, c’è molta più speranza di cambiamento in questo momento rispetto ai precedenti. E se noi in questo momento vogliamo fare un invito a Forza Italia, non dovremmo invitarli a entrare con noi nel governo, ad aggiungere eterogeneità ad una coalizione che ha punti di contatto secondo me molto buoni. Chiediamogli invece una condivisione delle regole. Pensate se domani Forza Italia ci dicesse: “guardate, chiudiamo questo bipolarismo, una volta per tutte, facciamo delle riforme istituzionali che riducano la parcellizzazione della spesa pubblica attraverso questi enti locali, le competenze concorrenti che hanno creato sprechi giganteschi, cerchiamo di fare una legge elettorale bipolare, facciamo un maggioritario domani, 100%, doppio turno o turno unico, quello che volete, facciamolo domani”. Se Forza Italia concordasse su questo sarebbe il mio sistema prediletto. O diciamo che sottoscrivano domani l’accordo di governo. Concludiamo questo bipolarismo. Va bene, tutto il resto si aggiusta. Il motivo per cui oggi dobbiamo essere ottimisti è perché oggi siamo molto, molto più vicini alla mèta di quanto fossimo in passato. Questo è un grande vantaggio ed è una cosa che mi fa ben sperare sul futuro. In aggiunta a tutto questo c’è il fatto che abbiamo un Partito Democratico che, a differenza del passato (questo è l’unico vero capitale politico che io posso mostrare), non ha solamente ottenuto un grande consenso popolare rispetto al passato, ma soprattutto ha la determinazione a impiegare quel capitale politico in una direzione unica e semplice, che magari è limitata, magari non coinvolge tutti i grandi nodi di questo paese, ma ne coinvolge uno centrale che ha a che fare appunto con il livello di tassazione del lavoro e con la struttura della spesa pubblica. LEONI Voglio ancora coinvolgere Taddei: “Le piace il quantitative easing 340 all’europea proposto” TADDEI Più che piacermi dico che non c’erano alternative. Abbiamo una Banca Centrale Europea che è fuori target, cioè in questo momento… LEONI Il 2% dell’inflazione. TADDEI Ma non glielo abbiamo dato noi, se lo sono dati loro o meglio se l’è dato l’Europa in particolare. Ora, non avevano alcuna scelta, la questione fondamentale, e questo è un problema però di tecnica di trasmissione della politica monetaria, il problema è come realizzarlo. Perché in Europa noi manchiamo degli asset pre-definiti per poter fare questo tipo di quantitative easing. Non possedendo quegli asset per noi fare quantitative easing è più complesso. Non voglio dire che sia inavvicinabile ma voglio dire che è più complesso farlo. Questo aggiungerà qualche complicazione. Ma più che essere contenti o meno, dobbiamo dirci che c’è un’alternativa a questo tipo di posizione di politica monetaria? E la risposta è che non c’è. TINAGLI Voglio proporre un approfondimento sul ruolo del tessuto imprenditoriale anche nella scarsa crescita, ecc.. Noi qua abbiamo tante cose che riguardano la struttura del nostro tessuto produttivo e anche dei nostri imprenditori. Io ora non ho i dati dell’ultimo anno, ma ricordo due o tre anni fa avevo fatto una ricerca per cui quasi la metà degli imprenditori italiani, per esempio, ha un titolo di studio inferiore alla terza media. Non c’è niente di male, molti sono imprenditori che hanno creato le loro aziende negli anni ’60, hanno vissuto momenti di un grande boom, l’istruzione non era neanche probabilmente particolarmente utile. Adesso però ci troviamo un patrimonio di imprese che magari hanno anche una grande sapienza artigiana, manifatturiera, ecc., ma che fanno fatica a cogliere le sfide dell’informatizzazione, della 341 digitalizzazione, della globalizzazione. L’anno scorso Unioncamere ha fatto un rapporto dove diceva che noi abbiamo 70000 imprese, se non ricordo male, che per struttura, per tipologia di prodotto, vocazione, ecc., industriale, di settore, avrebbero un potenziale di esportazione molto buono, però non esportano. Sono imprese che noi dobbiamo in qualche modo portare all’estero e qui, secondo me, prima si ironizzava sulla nozione che aveva dato Filippo Taddei di “capitale relazionale”, i nostri imprenditori coltivano capitale relazionale inteso in accezione negativa. Il capitale relazionale è invece importante per un imprenditore, bisogna vedere come lo si declina. Per gli imprenditori coltivare un capitale relazionale per esempio in chiave internazionale con gli investitori, con i venture capitalist, con i partner stranieri, con i distributori per andare a portare i propri prodotti in Cina, in Brasile o dove che sia, è fondamentale. Quindi dobbiamo anzi stimolare gli imprenditori a creare questo capitale relazionale. Dobbiano cioè fare uscire il capitale relazionale dal perimetro della propria provincia o della propria regione e porlo in un’ottica diversa supportando questo cambiamento culturale in molte maniere, per esempio, intervenendo sulle agevolazioni agli incentivi a fondo perduto, visto che ancora ne diamo tantissimi con meccanismi non particolarmente trasparenti. Ora non voglio aprire un altro capitolo, però lì c’è veramente tanto da fare e se mettiamo mano lì si spinge un importantissimo cambiamento culturale. Il potenziale per le nostre imprese è enorme, perché ci sono paesi che stanno crescendo, non solo la Cina e l’India, ma anche i paesi dell’America Latina, la Colombia, il Perù, il Messico stanno crescendo al 6–7%, poi c’è tutta l’Africa che sta piano piano crescendo. Tutto questo significa che si sarà un ceto medio che avrà bisogno non solo del nostro made in Italy, ma della nostra meccanica, dei nostri ingegneri, dei nostri architetti, per cui c’è un potenziale di crescita anche per le nostre professionalità più elevate. Quindi sono per questo molto ottimista, però bisogna scardinare quella vecchia e vetusta cultura. LEONI Voglio dare seguito, con Irene Tinagli, a un argomento che poi è passato un po’ trasversalmente in questa discussione che è quello della corruzione. Sono profondamente convinto che una importante parte del tessuto imprenditoriale italiano, soprattutto per quanto riguarda medie e forse grandi imprese, preferisca investire nella corruzione piuttosto che nell’innovazione di processo e di prodotto per rendersi più competitivi. 342 Cioè l’arma della competizione diventa l’abitudine a corrompere. Questa è la questione forte di questo Paese. TINAGLI Perché in Italia è molto redditizia e quindi qui si parla di milioni di euro. Si pensi quanto deve fare di fatturato un’azienda manifatturiera italiana per avere anche solo 5, 6, 7 milioni di utile. La corruzione ti protegge dalla concorrenza, ti protegge dal mercato, ti garantisce appalti a prescindere dal tuo reale livello di competitività e siccome molte imprese vivono bene in questo clima protetto e ci guadagnano, lo alimentano e se ne fanno parte attiva. Noi dobbiamo tagliare questo problema. LEONI È strano perché la politica, da una parte, dipinge la concorrenza come un valore che bisogna perseguire e invece, dall’altra, si allea con il malaffare per impedirla. TINAGLIA Per forza, perché la concorrenza cosa significa? Significa che inevitabilmente ci saranno imprese che soccombono, imprese che dovranno ristrutturarsi, ci saranno degli esuberi, ci saranno delle situazioni difficili di crisi aziendali da gestire, ci saranno lavoratori che dovranno essere riqualificati, che andranno in mobilità, andranno in disoccupazione e dovranno essere ricollocati. Mantenere un clima economico dinamico, dove la concorrenza funziona, significa che lo Stato non deve intervenire per prevenire quelle crisi, ma per saperle gestire e fare in modo che ci sia un mercato che ricolloca i lavoratori in maniera snella, servizi per l’impiego che funzionano, servizi di ammortizzatori sociali che funzionano. Quindi è chiaro che è oneroso, è duro per chi lo subisce, imprese e lavoratori, e faticoso da organizzare per lo Stato. Forse è per questo che noi in Italia abbiamo magari preferito fare in modo di evitare di entrare in questi mercati concorrenziali perché è più facile per gestire il consenso, poi comunque le crisi le rinvii, dai la cassa integrazione in deroga, un anno, due anni, tre anni, e dici tanto la cassa in deroga per due anni, nel frattempo cambiano tre governi, a me che me ne importa? Io intanto mi tutelo di fronte agli elettori. 343 LEONI Almeno però quella è una pratica legale. L’ultima riflessione che volevo fare è questa. La grande quantità di attività di corruzione fa in modo di chiudere sempre più il sistema Italia, nel senso che da una parte le nostre imprese non sono abituate alla concorrenza e quindi con difficoltà possono andare all’estero perché lì non ci sono da pagare mazzette ma c’è da produrre in maniera concorrenziale appunto, e dall’altra è un grosso freno all’arrivo di imprese dall’estero per produrre qui. TINAGLIA Certo. Però non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ci sono tantissime imprese italiane che con una fatica enorme sono competitive all’estero e in realtà vivono grazie alla loro competitività sui mercati esteri perché magari nei mercati italiani non avrebbero chance. È un po’ come i nostri cervelli che emigrano. Siccome in Italia non riescono neanche a prendersi un assegno di ricerca, mentre all’estero magari riescono a fare carriera perché lì c’è la competizione. Queste sono persone e aziende che competono. Bisogna rompere i meccanismi dentro al nostro Paese. Secondo me ci sono e ci possono essere tante realtà competitive che potenzialmente possono essere competitive. Occorre, però, fare scelte impopolari nel breve periodo anche perché nei confronti degli investitori esteri chiaramente la corruzione, i clientelismi, gli appalti, i giochini, ecc., sono un disincentivo enorme. Ed a questo si aggiunge anche la continua instabilità. Negli ultimi tre anni un’azienda straniera che magari ha avviato un dialogo con il Ministero per venire a fare uno stabilimento produttivo, si è trovata a cambiare tre, quattro interlocutori nel giro di tre anni e tutte le volte dover ripartire da zero. Non si può pensare di fare crescita così. ADORNATO Una chiosa su questa ultima cosa della corruzione. Luigi Sturzo nel 1947 scriveva: “Non capisco perché per nominare il direttore del Teatro La Fenice di Venezia bisogna riunire il CNL”. Riunire il CNL, il problema sta lì. Non solo per i partiti che facevano parte del CNL, ma perché questo è diventato uno spirito italiano. E da questo punto di vista, ma qui andremmo lontano, il sistema della prima Repubblica dopo De Gasperi e Einaudi, quindi a partire dalla fine degli anni cinquanta, è stato un sistema post-fascista, non anti-fascista. Ma qui 344 ci avventureremmo in ipotesi e teorie varie. Però il problema è lì, in quella frase di Sturzo. Bisognava riunire il CNL per nominare il direttore de La Fenice di Venezia. Siccome ho stima di tutti gli interlocutori di questo dibattito, vorrei non lasciare ombre perché ho visto qualche obiezione che vorrei precisare. Primo, io non ho proposto di fare entrare Forza Italia nel governo, forse sono stato troppo sbrigativo, evidentemente mi sono spiegato male se più d’uno mi ha fatto la stessa obiezione. In realtà ho detto un’altra cosa e parlavo del centrodestra. Ma perché parlavo del centrodestra? Perché Massimo Leoni ha ragione nel chiedere se il sistema sia ancora bipolare? Ebbene, Renzi è arrivato al 40% convincendo gli italiani. Immaginiamo che dall’altra parte ci fosse non dico una persona come Renzi ma, insomma, una persona affidabile. Se così fosse, credo che Grillo non ci starebbe più o sarebbe molto ridimensionato. Il problema delle forze antisistema nasce quando il sistema è moribondo, quando il sistema forse è già morto o cadaverico. Ecco perché mi preoccupavo del centrodestra, perché ero partito dalla domanda: “Tifiamo Renzi. Aiutiamo Renzi”. Ma siamo sicuri che nel frattempo non bisogna mettere, attraverso le riforme, un sistema politico in grado di reggere la continuità riformista. Perché viceversa, fra quattro anni forse ci troveremmo di fronte, non per il fallimento di Renzi che non mi auguro affatto da italiano, ma ci troveremmo di fronte al dramma che non possiamo continuare la strada intrapresa. Allora bisogna occuparsene subito. E cosa dicevo? Siccome ci sono due che dicono di unire i moderati tutti e due perché lo dice Alfano e lo dice Berlusconi, dicevo che a me interessa sapere su che cosa unire i moderati se non sulla politica. O li dobbiamo unire solo sulle primarie? Io sono per le primarie, sono per imitare il percorso del Partito Democratico. Non c’è niente di male ad essere umili e ad ammettere che dall’altra parte si è fatta una cosa che poi può essere giusta, può essere sbagliata, ma ha funzionato. Chiarito questo però non puoi dire semplicemente “facciamo le primarie”. Si presenta Ferdinando Adornato che vuole uscire dall’euro e Mario Baldassarri invece che è amico della Merkel, e facciamo le primarie? Ma ci immaginiamo una cosa del genere? Allora dicevo che subito va fatto il chiarimento. Non spetta a Renzi far entrare Forza Italia nel governo, ma ad Alfano e company, poi forse pare che nella company ci sarò anche io fra un po’ e quindi avrò maggiore titolo per parlare. Ed Alfano dica a Fitto che non c’è chiarimento su primarie, su chi comanda, chi non comanda perché non ci frega niente di chi comanda. Il problema è se noi aiutiamo l’Italia, come noi stiamo facendo al governo, in questa 345 fase o no. Se tu non aiuti l’Italia, magari con appoggio esterno, fai quello che vuoi, ma allora io Alfano non sono disponibile a fare nessuna alleanza. La parte più importante del mio ragionamento, che forse è sfuggita, è che, se questo non avviene, se non c’è una risposta politica a questa roba qui io personalmente comincerei a lavorare per presentare le prossime politiche in coalizione alle forze che attualmente governano. Questa secondo me è la parte più importante. LEONI Il Partito Democratico della Nazione diciamo. ADORNATO No, non un partito ma una coalizione. Ognuno deve rimanere distinto. Questo il primo chiarimento. Può essere che mi sbaglio nell’analisi, ma questo volevo dire e non il fatto di fare entrare Forza Italia al governo. Secondo chiarimento. Sono d’accordo che le riforme è meglio farle seriamente e non potete pensare che io pensi di non fare seriamente le riforme. Ho fatto un altro discorso, se si vuole un po’ paradossale ed insisto su quel discorso. Perché? Se mi si dice “tu vuoi fare questa riforma, la vuoi fare subito perché è trentacinque anni che non si fa, sono d’accordo con te, ne discutiamo per farla seriamente”. Ma non è questo il caso. Sono trentacinque anni, qui fidatevi della mia esperienza, che si cercano tutti i pretesti possibili e immaginabili per non farle le riforme e spesso quando uno dice (non Irene Tinagli né Filippo Taddei): “ Voglio fare seriamente e quindi non le faccio adesso”. Questo è il punto. È avvenuto tante volte e faccio un esempio ravvicinato nel tempo. Nella scorsa legislatura il sottoscritto, Luciano Violante e Gaetano Quagliariello si sono messi a un tavolo per elaborare un piano di riforma elettorale e costituzionale. Inaudito, eravamo in tre. Non c’era mai riuscito nessuno. Abbiamo elaborato nel giro di tre-quattro mesi, non senza fatica, un testo di riforma elettorale sul modello tedesco e una riforma istituzionale. Quelle proposte sono state incardinate al Senato. Per la prima volta dopo trent’anni l’insieme delle forze politiche proponeva un progetto di riforma condiviso. Bersani però, a un certo punto dopo le elezioni amministrative perché il PD era andato bene al doppio turno, dice “ci vuole il doppio turno”. Ma se Violante era stato fino al giorno prima a fare il modello tedesco, adesso ci vuole il doppio turno? Dall’altra parte allora si è detto “A beh, 346 ma se ci vuole il doppio turno bisogna mettere il presidenzialismo”. E hanno cominciato tutti e due le parti a discutere e a litigare su doppio turno e presidenzialismo. E quel testo incardinato al Senato non si è fatto. In quella fase, se si chiedeva a Bersani o a Berlusconi, “ma siete contro le riforme?”, avrebbero risposto: “Ma come siamo contro le riforme, io voglio il doppio turno e quell’altro vuole il presidenzialismo” e quell’altro “Io voglio il presidenzialismo quell’altro vuole il doppio turno”. Nessuno cioè dirà mai che è contro le riforme, ma di fatto sono contro le riforme tutti quelli che pongono obiezioni alle riforme concrete, reali, cioè quelle che stanno incardinate al Parlamento. Questo è il punto nero e perciò che ogni atteggiamento dilatorio è un atteggiamento antiriformista. Purtroppo è così, e dopo trentacinque anni, non è più tollerabile. BALDASSARRI L’ultimo panel è un panel falcidiato perché i gruppi delle opposizioni sono bloccati da impegni parlamentari di ordine superiore. C’è presente solo Giancarlo Giorgetti del gruppo della Lega che ha ora la possibilità di un faccia a faccia con Mirta Merlino, che ringrazio come tutti gli altri per aver voluto dedicare un po’ del suo tempo a questo workshop. MYRTA MERLINO, La 7 Ho letto con attenzione l’VIII Rapporto sull’economia italiana e l’ho trovato un documento interessantissimo non solo perché è pieno di dati, di analisi, ma perché è un documento originale. A me arrivano tra le mani centinaia di rapporti, studi, relazioni, dai quali vengono fuori tante cose. Ma questa idea del confronto è una idea iperinteressante perché evoca il famoso giochino “trova le differenze”, che secondo me è molto utile per capire quello che è capitato in questi ultimi anni in Italia. Dopo il nostro faccia a faccia con Giancarlo Giorgetti, segue l’intervento di chiusura di Fabrizio Saccomanni che ha avuto una esperienza di governo nel governo Letta, però credo che sia entrato in Banca d’Italia negli anni sessanta, quando io non ero nata e anche lui aveva i calzoni corti, quindi l’economia italiana la conosce come le sue tasche. Partirei subito dal tema del debito pubblico perché è la cosa su cui c’è un’analisi molto interessante, i numeri sono impietosi. Cito giusto l’incipit di questo Rapporto: 1 milione di euro nel 1861, 100 milioni nel 347 1940, 10 miliardi nel 1968 per arrivare ai 2000 miliardi del 2013, duecento volte di più rispetto al 1968 stesso. Un Paese con questo debito pubblico che prospettive ha? Noi sappiamo bene Giorgetti che voi della Lega avete fatto la campagna elettorale alle europee tutta con un unico obiettivo preciso, cosa che vi ha peraltro premiato, perché mentre della campagna elettorale di gran parte del centrodestra devo dire che nessuno di noi ha capito bene cosa volevano, con voi si è capito bene che l’idea era: “fuori dall’euro”. Ora io mi chiedo: con questo fardello gigante sulle spalle, con tanti investitori che ogni volta che i nostri titoli del debito pubblico vengono emessi sul mercato devono sottoscriverli, insomma questa uscita dall’euro è una giusta provocazione per dire che il Paese è allo stremo o è qualcosa di più, perché come si fa con una situazione così a dire basta euro? GIANCARLO GIORGETTI, Lega Nord La provocazione di uscire dall’euro vorrei collegarla subito al discorso del debito pubblico. Penso che l’euro sia nato con una serie di motivazioni di carattere politico e una serie di difetti di carattere economico. La prima tra tutti è quella di un cambio sostanzialmente non compatibile con la realtà dell’economia italiana. Possiamo discutere sulle aree ottimali diverse che ci sono anche in Italia rispetto a quel tipo di cambio. Nell’analisi nelle proposte fatte nel Rapporto di Economia Reale, c’è poi una terza parte molto interessante: la stima dell’impatto sull’economia che si avrebbe se il cambio euro-dollaro andasse alla parità, cioé 1 a 1. Credo che questa sia forse la soluzione migliore e di maggiore impatto rispetto alle altre proposte di intervento. Ma come si collega il cambio alla questione del debito? Credo che sia oggettivamente utile ma illusorio, per quanto riguarda il debito, cercare di affrontare la montagna dello stesso debito con una serie di avanzi primari derivanti da una politica fiscale di austerità. Utile, questa politica di austerità, nella misura in cui influenza e condiziona le aspettative. Non utile, alla fine, qualora comprime le possibilità di sviluppo del Pil perché solo con una crescita economica sostenuta e sostenibile si può, in qualche modo, fronteggiare la massa del debito. La massa del debito è rilevante soprattutto nella misura in cui l’economia reale non è in grado di sostenerlo. Ci sono altri paesi in giro per il mondo che hanno un rapporto debito pubblico/Pil più elevato del nostro ma possono essere in grado di 348 ridurlo anche attraverso una sostenuta crescita. Per noi il problema è che non cresciamo più. E qui arriviamo al punto di collegamento perché non cresciamo più in termini reali, ma non cresciamo più neanche in termini nominali. È chiaro che la Banca Centrale Europea nasce sulla impostazione della Bundesbank che aveva, ha sempre avuto e continua ad avere una precisa linea di condotta e di guida che fa riferimento a un tasso di inflazione che non deve disallinearsi verso l’alto rispetto al 2%. Ora siamo in una situazione ben diversa con una crescita zero o sottozero ed una inflazione allo 0,3%, ma in realtà la politica che si sta portando avanti in termini monetari è sempre stata molto molto prudente. E così è stato scritto il Trattato. Perché allora il trattato è stato ispirato dalla filosofia della Bundesbank. Ora, tutti applaudono (e anch’io applaudo) il comportamento di Mario Draghi, ma se vogliamo dircela tutta Mario Draghi lavora al limite e ha lavorato al limite rispetto a quelli che erano i dettati e i limiti stabiliti dal trattato. Se tutti invocano una Banca Centrale Europea all’americana, alla Federal Reserve, bisogna avere il coraggio di cambiare il trattato. Questa stessa cosa l’ho detta due anni fa in un convegno alla Camera dei Deputati. Mi hanno guardato tutti come fossi un marziano perché allora non si poteva toccare l’impostazione monetarista di stampo tedesco. Però oggi questa è la realtà. Allora sembrava di infrangere un tabù, ma questo tabù qualcuno dovrà pure infrangerlo. Possiamo anche dire a Mario Draghi: fai quello che vorremmo che tu debba fare anche se il trattato non te lo permette. Adesso si dice che anche la deflazione va contro la stabilità monetaria e quindi la BCE faccia pure ciò che il trattato formalmente non consentirebbe. Il problema di fondo è che oggi, anche con una crescita modesta, diciamo dell’1%, e con un tasso di inflazione al 2% fai un Pil nominale del 3% che in qualche modo ti permette di aggredire quella misura di debito. Questo è il collegamento che vedo tra il “no euro” e il problema del debito. Poi il debito si affronta anche in un altro modo e cioè valorizzando l’attivo, disinvestendo l’attivo e cercando di portarlo a copertura del passivo. Questa è la regola di ogni bilancio di tipo privatistico aziendale, ma vale anche per il bilancio dello Stato. MERLINO Ma se ho capito bene le piacciono le soluzioni delle quali parla il 349 Rapporto di Economia Reale come quella della parità euro-dollaro, che significa evitare che l’euro sia così tanto più forte del dollaro. GIORGETTI Intendo dire che il tasso di cambio si forma per una serie di fattori, non è che ci sia qualcuno che a Francoforte decide che deve andare così e va così. Anche negli Stati Uniti agiscono probabilmente altri tipi di fattori, sono dei flussi e degli interessi che devono essere composti. Quello che voglio dire però è che per la prima volta e coraggiosamente Economia Reale ha messo lì una questione rilevante: quale sarebbe l’impatto sul Pil reale di una parità dollaro/euro 1 a 1? E lì nel Rapporto ci sono delle stime che, come tutte le stime, possono essere assolutamente disconfermate dalla realtà quando vengono implementate le politiche economiche. Però questo esercizio è stato fatto. Mi fa piacere dare atto che nel Rapporto si è usciti allo scoperto anche su questo tema, di cui nessuno parla. MERLINO Ho detto prima che quella di Economia Reale è una visione originale anche perché il secondo capitolo ha un titolo molto azzeccato “Rigore ed austerità negli anni duemila: finanza pubblica ed economia reale, le bugie degli annunci, la verità dei numeri” che è la cosa in cui siamo dentro perennemente tutti noi. Parliamo di austerità. Voi della Lega avete fatto una buona campagna elettorale per le europee e secondo tutti avete un buon risultato rispetto anche alla crisi in cui la Lega si trovava prima di queste europee. Adesso però dovete andare a Bruxelles e dovete provare a contare anche per dire la vostra sul tema dell’austerità del quale l’Italia è stata una delle vittime eccellenti. Come sappiamo avete avviato un confronto con Marine Le Pen. Allora cosa pensate realisticamente di poter fare a Bruxelles? E se Matteo Renzi, come dice, andrà a Bruxelles senza sbattere i pugni sul tavolo ma per dire: “L’Europa così com’è per noi non va più bene, siamo un Paese che ha delle necessità e che ha deciso di farsi sentire”. Voi darete una mano come opposizione in Italia? GIORGETTI Probabilmente strumentalmente siamo stati anche utili e saremo utili. Il 350 fatto che in giro per l’Europa abbiano vinto i partiti euroscettici significa solo che questi sono degli alleati, diciamo non dichiarati, di questo tipo di impostazione. Voglio pensare che chi ha fatto il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Economia nei governi precedenti non siano andati in Europa per non fare gli interessi nazionali. In realtà, sono andati a fare gli interessi nazionali in Europa in una determinata fase storica. Ora, per Renzi si aprono delle situazioni diverse per cui una forte componente del Parlamento (quasi un terzo) ha posizioni euroscettiche e quindi bisogna cercare di contenere questo euroscetticismo allargando un po’ i cordoni della borsa. Probabilmente la stessa Merkel si ritrova un po’ più isolata rispetto al passato. Ecco allora che, probabilmente, Renzi qualche tipo di risultato lo potrà anche ottenere. Non ritengo però che questo tipo di risultato possa essere né rapido, né decisivo. In fase di ricostituzione della Commissione Europa, almeno per sei mesi, di decisioni se ne prenderanno poche o nessuna. Si è visto anche recentemente, quando si trattava di tirare le orecchie al governo italiano per non avere rispettato, diciamolo onestamente, in modo rigoroso gli impegni, non hanno avuto il coraggio di farlo perché era una Commissione in uscita. Pertanto abbiamo di fronte un periodo in cui si discuterà tanto sul futuro dell’Europa, ma di decisioni se ne prenderanno assai poche da qui alla fine dell’anno. Poi, quando ci sarà la nuova Commissione Europea, si vedrà. MARIO BALDASSARRI, Economia Reale Ringrazio Giancarlo Giorgetti per essere presente a questo nostro workshop. Ma lo ringrazio anche per un secondo motivo sul quale vorrei un chiarimento. Nel Rapporto lo si dice molto chiaramente: il problema non è uscire dall’euro perché il problema vero, per l’Europa e non solo per l’Italia, è la elevata quotazione dell’euro che è tutt’altra cosa. Facciamo quattro conti. Siamo entrati nell’euro con una lira a 1936,27. Dopo qualche tempo il rapporto euro-dollaro è sceso fino a un minimo di 0,80 centesimi ed è come se avessimo svalutato la lira fino a 2336. Poi c’è stata la follia iniziata dalla BCE di Trichet che è stata quella di aumentare i tassi quando la Federal Reserve li diminuiva. Si diceva che la Banca Centrale Europea deve guardare esclusivamente che l’inflazione non superi il 2% e quello che succede al cambio dell’euro non interessa. Ecco allora che l’euro è schizzato in alto verso 1,5–1,6! Oggi è a 1,35. Bene, è come se noi 351 avessimo la lira a 1255. Cioè, dal punto massimo di massima svalutazione a 2336 lire per dollaro, abbiamo rivalutato la lira a 1255. È evidente che questo crea problemi nell’economia reale. Quindi, mi fa piacere che Giorgetti abbia sottolineato questo punto e cioè che il problema non è la moneta unica in quanto tale, ma come viene gestita la stessa moneta unica. È vero che i cambi li fanno i mercati, ma con il renminbi cinese che fa il pegging sul dollaro con decisione politica, con la Fed americana che giustamente ha tutti gli strumenti in mano, c’è poco da dire il mercato. Il mercato determina il cambio date le condizioni delle politiche monetarie delle grandi istituzioni e delle grandi aree del mondo. Quindi non possiamo dire che il cambio ed adottare un benign neglect. Certo, il cambio lo fa il mercato, ma date le condizioni prima ricordate e quindi tu sei cretino se aumenti i tassi di interesse quando invece li dovresti ridurre. Il mercato prende la lezione e fa il suo mestiere. Ed una oscillazione da 2336 a 1255 lire nella storia di questo dopoguerra non è mai avvenuta. La lira sul dollaro era passata a 550 quando all’inizio degli anni ’70 si era un pochino rivalutata e nella crisi del famoso venerdì nero, quando il prestito Eni piombò all’improvviso sul mercato valutario nonostante la Banca d’Italia avesse avvertito l’Eni di non procedere in quella operazione, il fixing salì sopra le 2200 lire, ma ci rimase solo due giorni. Dal 1950 in poi, un’oscillazione di cambio di queste dimensioni non si è mai avuta. Quando si dice che l’euro è a 1,35 rispetto al dollaro non tutti capiscono esattamente, ma se dico che siamo passati da 2336 lire (quando il dollaro era a 0,8) a 1255 lire (adesso che il dollaro è a 1,35) si capisce subito che abbiamo subito una rivalutazione della nostra moneta ed una conseguente perdita di competitività via cambio quasi del 50%. Detto questo, voglio proporre una controprova. C’è un paese europeo che è nell’Unione Europea e che non è nell’unione monetaria. Questo paese ha avuto un tasso di crescita medio quasi doppio rispetto alla media europea. Questo paese è entrato nell’Unione Europea dopo la caduta del Muro di Berlino, quindi con tutte le difficoltà strutturali che aveva dietro, ma ha semplicemente svalutato lo Zloty del 35% nei confronti dell’euro, cioè ha fatto il pegging sul dollaro. Questo paese si chiama Polonia. Questo per dire che il cambio è uno strumento della politica economica. La BCE non può avere un occhio solo, deve avere due occhi. Così come Maastricht non può avere un occhio solo, ma deve avere due occhi. Perché? Perché se tu fai, come è stato detto in precedenza (e riprendo questo punto perché forse è uno spunto anche per Fabrizio Saccomanni nel suo successivo intervento di chiusura), quando si è stabilito il 3% di 352 Maastricht, quel numero era quasi un giochetto aritmetico. Infatti, perché il 3% di rapporto deficit-Pil e non il 2 o il 4%? Perché si diceva la crescita in Europa era al 3%, l’inflazione era al 2% ed il Pil nominale aumentava del 5%. Il debito pubblico era in media pari al 60% del Pil. Pertanto, per mantenerlo costante al 60%, se fai un deficit attorno al 3% stabilizzi il rapporto debito/Pil al 60%. Infatti, 60% moltiplicato 5% fa esattamente 3%! Attenzione però, c’è un’ulteriore informazione da tenere in conto. All’epoca il bilancio medio pubblico aveva un pareggio di parte corrente e il retro-pensiero di coloro che trattavano a Maastricht era che il 3% di deficit fosse destinato ad investimenti, avendo come retroterra scientifico il mio maestro Robert Solow quando propose la golden rule. In quelle condizioni quindi tutto funzionava: perché tu avevi il limite del 3% di deficit, il deficit era destinato praticamente tutto a investimenti, quindi era la golden rule. Ma allora, la vera regola era il pareggio di parte corrente del bilancio, cioè evitare che il bilancio pubblico produca risparmio pubblico negativo. Questo è quello che abbiamo messo in evidenza nel Rapporto. Ma se oggi la crescita è 0,1, l’inflazione, anzi la deflazione, è 0,5%, è evidente che tutta quella impalcatura salta per aria, Lega o non Lega, Le Pen o non Le Pen, o tutti gli antieuropeisti ed euroscettici o non. In Europa, a mio parere, si sbaglia nel reagire per distruggere l’infrastruttura europea e non per utilizzare l’infrastruttura europea per attivare una politica economica e monetaria che abbia tutti i parametri sotto controllo, cioè, come già detto, due persone con un occhio solo ciascuna, non fanno una persona sana, come in quel film americano, simpaticissimo, dove uno era sordo e quell’altro era cieco, si aiutavano insieme ma non è che avessero grandi possibilità di successo. MERLINO Mi ricordo che Mario Baldassarri, in Senato, votò contro il fiscal compact in Parlamento. BALDASSARRI Sì e contro il pareggio di bilancio in Costituzione. Ma per i motivi opposti a quelli della Lega. Io votai contro in quanto europeista convinto. Però ero da solo. 353 MERLINO Voi della Lega avete votato a favore? GIORGETTI No, noi abbiamo votato contro il fiscal compact e a favore del pareggio di bilancio. Fortunatamente scrivemmo l’“equilibrio di bilancio” e non esattamente il “pareggio di bilancio”, tout court, come veniva chiesto. Perché, ci si ricorda poco di questo dato di fatto. Nella Costituzione della Repubblica Italiana, non nei trattati europei, non nella richiesta della signora Merkel, non nelle richieste dei commissari europei, c’è scritto equilibrio di bilancio a partire da una determinata data. Quindi, chiunque va al governo in Italia deve ricordarsi che, oltre alle cose che tratta in Europa, deve rispettare anche la Costituzione della Repubblica Italiana che offre dei margini da usare con intelligenza per quanto riguarda, appunto in occasione di recessioni prolungate, la possibilità di andare al di là, ovviamente andare non in equilibrio. Quindi non ci sono semplicemente i vincoli europei ma c’è anche il vincolo della Costituzione italiana e di questo molto spesso nel dibattito politico italiano ci si dimentica tranquillamente. Aggiungo, vincoli che non riguardano soltanto lo Stato ma riguardano anche le Regioni e i Comuni, e anche di questo in tanti si dimenticano. Votai a favore di quella riforma costituzionale perché, da federalista convinto, ritenevo che introdurre in Costituzione il principio che l’equilibrio di bilancio dovesse riguardare ogni singolo Comune, ogni singola Regione fosse la riforma federalista più importante che ci potesse essere. MERLINO Cioè creava un meccanismo di responsabilità. GIORGETTI Sì, naturalmente ci vogliono i trasferimenti perequativi e compensativi. Qualcuno in precedenza ha ricordato il disastro che ha causato al federalismo la riforma del Titolo V. Riprendo esattamente le parole che Gianfelice Rocca ha usato ad una recente Assemblea Assolombarda. Ci sono delle Regioni che hanno sfruttato bene i margini di autonomia: la Regione Lombardia paga mediamente in 17 giorni i fornitori, il 354 problema dei pagamenti della pubblica amministrazione per la Regione Lombardia non esiste. Se tutti avessero gli indici standard e i costi standard della sanità della Regione Lombardia, ogni anno, automaticamente, con gli standard qualitativi della Regione Lombardia per quanto riguarda la sanità, che vi assicuro sono abbastanza buoni rispetto alla media nazionale, si risparmierebbero 8 miliardi di euro all’anno. Il problema è portare tutte le Regioni e tutti gli enti a quegli standard, o meglio ai parametri di eccellenza delle Regioni e dei Comuni più virtuosi. Ora, la provocazione che facciamo noi: questo benedetto federalismo fiscale con i costi standard, fabbisogni standard, sui cui a questo punto abbiamo anche una mole di dati impressionante, lo vogliamo attuare si o no? Perché questo governo dovrà pure risponderci anche su questo punto. Lasciamo perdere le grandi questioni di principio, le competenze, non le competenze, parliamo soltanto in ottica aziendale dei costi dei fabbisogni standard, si vuole fare entrare in vigore quella legge si o no? O la si cancella? Se la si cancella però mi devono dire come effettivamente, come diceva qualcuno prima, costringere tutti a comprare le siringhe a 1 euro e non qualche Regione a 1 euro e qualcun’altra a 5 euro. Qual’é lo strumento che si può utilizzare? BALDASSARRI Voglio dare qui una testimonianza storica. La Lega in quel momento contribuì a scrivere la norma in Costituzione nel senso che dice Giancarlo Giorgetti, cioè la proposta iniziale era “zero deficit” e la Lega disse no, mettiamo “equilibrio di bilancio”. Io però feci un emendamento più di fondo che era quello di dire che non si può mettere solo zero deficit ma occorre inserire anche un tetto o sulla spesa o sulle tasse. Perché se si dice semplicemente “zero deficit”, significa che il pareggio di bilancio lo posso fare aumentando sia la spesa che le tasse, e cioè spostando il confine Stato-cittadini e quindi minando le basi della democrazia effettiva. Questo era il mio tema di fondo da europeista e da liberale convinto. Quell’emendamento fu bocciato, anche con il voto contrario della Lega. MERLINO Voglio farle tre domande flash. Prima: a proposito delle bugie e degli 355 annunci, al di là dei numeri, gli 80 euro alla fine come li valutate, come una buona mossa? GIORGETTI Sinceramente, quel provvedimento non è coperto. È il tentativo di dare al motorino di avviamento una spintarella e così vedere se parte. Io non so come potrà agire sulle aspettative di famiglie e imprese, temo però che non si avranno gli effetti sperati e, se è l’ultima e unica misura che fa il governo in quel senso, credo che sia un’occasione sprecata. MERLINO Seconda domanda flash: sulla spending review la Lega starà con il fiato sul collo del governo? GIORGETTI Assolutamente sì. Prima di Cottarelli si sono cimentati tanti altri, poi quando è arrivato al dunque perché spending review significa lacrime e sangue e c’è da vedere dove si interviene e dove si taglia. Noi siamo per tagliare gli sprechi, soprattutto nei Comuni e nelle Regioni viziose e non virtuose. Se si ha il coraggio di fare questo si fa anche un’opera di giustizia sociale. MERLINO Ultima domanda l’Expo. Lei è d’accordo con Maroni sul fatto che è difficile che per il 30 aprile dell’anno venturo l’Expo possa aprire i battenti? GIORGETTI Oggettivamente impossibile a quello che so io. Nel senso che in base ai crono programmi pert è impossibile. Non credo di dire una cosa misteriosa e cioè che il governo stava pensando a un decreto legge per introdurre delle deroghe per accelerare i lavori e per arrivare a rispettare i tempi. Adesso mi sembra invece che siamo nella situazione 356 completamente diversa e cioè introdurre ulteriori misure, in qualche modo di cautela, per il fenomeno di malaffare ma che probabilmente indurranno dei ritardi. Ultima annotazione, siamo in una situazione per cui credo che dirigenti, politici, chiunque abbia a che fare con una situazione di firma in questo momento ci penserà su mille volte prima di firmare e si crea quella situazione, che abbiamo già conosciuto, di stallo decisionale totale indotto da un legittimo timore, una legittima paura che possa succedere qualcosa. MERLINO Mi permetto di segnalare a Fabrizio Saccomanni due tre cose che sono venute fuori nel dibattito precedente rispetto alle quali chiedo una sua opinione. La prima, sostenuta da Giorgetti, è che i partiti antieuro sono gli alleati non dichiarati di chi vuol cambiare l’Europa. La seconda è la quotazione dell’euro, che è un altro tema che Baldassarri ha ben spiegato e su cui invece non c’è stata attenzione nel dibattito pubblico in Italia. Ed infine, la BCE deve avere due occhi: guardare all’inflazione ma anche guardare al cambio della moneta ed alla crescita economica? 357 Considerazioni finali FABRIZIO SACCOMANNI, già Ministro dell’Economia e D.G. Banca d’Italia Non ho intenzione di commentare nei dettagli il Rapporto di Economia Reale, che pure ho letto e che è effettivamente molto interessante, né voglio fare il controcanto al governo Renzi. Sono sempre stato abbastanza riservato nei commenti pubblici quando ero Ministro ed a maggior ragione adesso che non lo sono più. Detto questo, evidentemente condivido gli obiettivi del Rapporto che sintetizzerei nel modo con cui obiettivamente si sono mossi gli ultimi tre governi, cioè cominciando dal governo Monti, al governo Letta, al governo Renzi. Tutti e tre hanno portato avanti tre obiettivi essenzialmente. Il primo era quello di rilanciare la crescita, ridurre la disoccupazione, aumentare gli investimenti e quindi, da questo punto di vista, non ci sono grosse differenze tra loro e con quanto proposto da Economia Reale. Debbo anche dire però, che il primo vero obiettivo che aveva il governo Monti era quello di fermare la crisi finanziaria. È stato un compito arduo, ma sostanzialmente è riuscito perché la crisi si è indubbiamente fermata. Certo, ci sono stati gli interventi della BCE, interventi verbali per il momento, ma comunque significativi. Noi abbiamo cercato di rimettere in moto la crescita soprattutto perché, quando abbiamo preso il governo, l’economia si contraeva al tasso del 2% a trimestre (primo trimestre -2,4, secondo trimestre -2). Nel terzo trimestre, con le misure che abbiamo preso, siamo andati a zero ed il quarto trimestre è stato leggermente positivo. Purtroppo poi, il primo trimestre di quest’anno è stato nuovamente leggermente negativo, ma su questo poi mi soffermerò un momento. Sia Monti che noi e ancora a maggior ragione Renzi, abbiamo tutti messo l’enfasi sulla necessità di riaprire il capitolo delle riforme strutturali, che per qualche ragione era rimasto abbastanza dormiente negli anni precedenti in cui si tendeva a proiettare l’idea che l’Italia non avesse sostanzialmente grossi problemi. Ora, le proposte che vengono fatte nel Rapporto di Economia Reale secondo me sono tutte condivisibili perché vanno nella direzione che 358 avevamo già indicato. Si propongono tagli alle spese e ai trasferimenti pubblici, si propongono maggiori investimenti, meno Irpef e meno Irap, riduzione del debito della pubblica amministrazione, cosa anche questa che era stata iniziata sul piano normativo da Monti e noi l’abbiamo portata in Parlamento e l’abbiamo poi attuata ad un tasso che nel semestre in cui l’abbiamo attuata è stato di oltre 22 miliardi di euro che non è stata certamente una cifra indifferente, sono quasi più di un punto di Pil nel giro di sei mesi. Ancora, la proposta di privatizzazioni. Anche questa è una cosa che era certamente nei nostri programmi, abbiamo portato i documenti autorizzativi al Consiglio dei Ministri, abbiamo fatto tutto il lavoro preparatorio per la privatizzazione delle Poste e anche di Enav, poi di alcune società come la Fincantieri e la Sace, che sono di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti. E poi c’è la proposta che non è una proposta ma sostanzialmente auspica di deprezzare il cambio dell’euro fino a portarlo alla parità con il dollaro. È certo che l’euro sia troppo forte e quindi occorre correggere la quotazione dell’euro e non fare uscire l’Italia dall’euro che sarebbe una vera e propria catastrofe. Adesso vorrei fare alcune osservazioni di carattere generale. Visto che c’è stata questa continuità nell’azione tra Monti, Letta e Renzi sugli obiettivi, che cosa è che non ha funzionato sostanzialmente? Secondo me la prima causa è l’incertezza politica italiana. Dobbiamo infatti realizzare questo fatto che Monti ha governato per tredici mesi, dal novembre del 2011 al dicembre 2012. Poi c’è stato poi un vuoto di quattro mesi fino a quando noi abbiamo preso il governo alla fine di aprile del 2013. Il governo Letta è durato dieci mesi, dopodiché c’è stato probabilmente una fase di apprendimento da parte del nuovo team e, quindi, la politica nuova del governo sta cominciando a venire fuori adesso, quindi sono trascorsi altri due-tre mesi dal febbraio 2014. Ora, bisogna che in Italia la gente capisca una cosa fondamentale, che l’incertezza politica ha un effetto sul funzionamento del sistema economico. Quando mi hanno detto “Ma come ex Ministro, non ha visto che il Pil è diminuito nel 2014 nel primo trimestre?” Allora io ho detto “Il primo trimestre si compone di gennaio, di febbraio e di marzo. A gennaio il governo è di fatto entrato in crisi, a febbraio ha smesso di governare, a marzo è entrato in funzione un nuovo governo il quale ha cominciato a chiarire un pochettino le sue linee. Chi volete che investa, chi volete che consumi, chi volete che presti dei soldi alle imprese in una situazione di questo genere?”. E se volete, il quarto trimestre del 2013 è stato anch’esso un trimestre di incertezza politica, perché il governo Letta ha avuto la fiducia del Parlamento il 2 di ottobre, con la maggioranza più ristretta perché era uscita la componente che adesso si chiama di Forza Italia. Noi speravamo e io avevo ostentatamente messo nella legge di stabilità un obiettivo di crescita di almeno l’1%. Quella non 359 era una stima, perché la stima la so fare pure io prendendo le previsioni di consenso. Io ho detto invece che stavamo facendo delle riforme, stavamo facendo le privatizzazioni, stavamo facendo il rientro dei capitali, stavamo facendo la spending review, stavamo ripagando acceleratamente i debiti delle pubbliche amministrazione ecc., quindi era realistico porsi un obiettivo di crescita e non fare una semplice previsione. MERLINO Quindi la stabilità è un valore di per sé checché se ne dica. SACCOMANNI Certamente sì. La Polonia che citava prima il professor Baldassarri è un paese che da otto anni ha lo stesso governo. Sì, avranno anche svalutato il cambio, ma è un paese che spende il 98% dei fondi strutturali comunitari entro i termini previsti. Noi abbiamo ancora da spendere 20 miliardi di euro del bilancio comunitario che è scaduto nel 2013 e abbiamo un po’ di tempo fino al 2015, per spendere questi fondi. Però il problema è che noi non li spendiamo perché presentiamo dei progetti che l’Unione Europea non accetta perché sono delle fandonie. Quindi, secondo me, questo è un fattore fondamentale, cioè le economie come l’economia italiana, sono delle economie complesse, abbiamo 60 milioni di cittadini, abbiamo più di 5 milioni di imprese, non si può improvvisare una politica economica ogni cinque minuti, bisogna dare della stabilità di approccio, di linea e portarla avanti. E quindi, secondo me, auguri al governo attuale. Ma chiunque legge i giornali pensa “ah, bene, però si andrà alle elezioni a settembre, forse sì, forse l’anno prossimo”. Secondo me questo è un altro scenario assolutamente da evitare, perché comporterà sicuramente ulteriori reazioni negative da parte dei consumatori, degli investitori, da parte di coloro che invece di investire in Italia investiranno in Spagna e in Portogallo e in Irlanda perché in quei paesi c’è maggiore certezza politica. Che cos’altro non ha funzionato? Direi che il quadro congiunturale europeo è globale. Questo è un tema che va approfondito. Noi continuiamo a lavorare nell’ipotesi che abbiamo avuto una grave crisi quindi dobbiamo dare una forte risposta, dopodiché tutto va come prima. Personalmente, da economista, noto che ci sono stati dei cambiamenti strutturali nel modo in cui i sistemi economici capitalistici reagiscono 360 alle crisi, insomma, la gente consuma di meno, è diventata più cauta, più prudente, ci vorrà del tempo prima che si ritorni a livelli di crescita diciamo pre 2007. E del resto questo non succede solo in Italia, succede anche negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti c’è stata quella che si chiama una jobless recovery, cioè una ripresa economica anche significativa (2,5–3%), però senza creazione di nuovi posti di lavoro. Poi nel primo trimestre del 2014, invece, il Pil americano è diminuito dell’1%. Questo che cosa vuol dire? Che siamo in una situazione di volatilità e di fragilità che non è solo italiana, non è solo europea, non è solo la Merkel, ma è una situazione di un sistema economico che ormai è globalizzato e che esce da una crisi profonda. A parte la Cina che è un caso a sé e che peraltro ha i suoi problemi probabilmente di eccesso di indebitamento, di eccesso di investimenti nel settore immobiliare, di bolle che sono più o meno nascoste, ma che comunque è una grande potenza e che quindi sicuramente riuscirà a risolvere i suoi problemi senza arrivare ad una crisi, ma non senza creare poi ripercussioni sul resto del mondo, gli altri grandi paesi emergenti (India, Brasile, Russia, paesi del Sud-Est Asiatico) sono tutti nuovamente in condizioni di avere accumulato forti disavanzi di bilancia dei pagamenti, hanno un’inflazione elevata, incertezza politica. Si pensi alle situazioni che ci sono in Tailandia, nella stessa Corea del Sud, in Ucraina e cose di questo genere. Quindi ci sono una serie di focolai di crisi che ancora una volta hanno poi un impatto sulle scelte degli investitori e dei consumatori. In Europa, è vero, abbiamo avuto l’austerità e abbiamo avuto meno crescita e più disoccupazione, ma anche qui cerchiamo di capirci. Nel giugno del 2013, il Presidente del Consiglio Letta è andato alla riunione del Consiglio Europeo ed ha detto: “Guardate, noi abbiamo due problemi fondamentali: uno, la crescita; due, la disoccupazione in particolare giovanile. Abbiamo poco tempo per fare qualche cosa, per cercare di correggere questa situazione prima di arrivare alla scadenza elettorale europea dove, se non mostriamo di avere fatto qualche cosa di significativo e di immediato, rischiamo di avere un effetto molto negativo sul piano elettorale”. Ecco, questo era il quadro a giugno. A questo punto c’erano un paio di misure sul tappeto. La prima era l’idea di rilanciare gli investimenti a lungo termine, in particolare nei settori delle infrastrutture, attraverso la Banca Europea degli Investimenti e quella di cercare di utilizzare in maniera anticiclica i fondi del bilancio comunitario, tutte cose che richiedevano delle intese politiche forti e che dovevano essere attuate rapidamente. L’altra iniziativa era quella della garanzia per i giovani per la disoccupazione. Entrambe queste cose sono state sostanzialmente abbandonate nei mesi successivi per tutta una 361 serie di ragioni tecniche ecc.. La realtà è stata che in Germania c’erano le elezioni del parlamento tedesco in settembre e quindi prima delle elezioni non si poteva fare nulla perché il governo tedesco temeva ripercussioni negative. Dopodiché, dopo le elezioni non si è fatto nulla ancora fino a dicembre, perché i negoziati per formare un governo in Germania sono durati tre mesi, quindi il governo ha firmato un patto di coalizione il 18 dicembre del 2013 avendo la Germania votato il 22 settembre del 2013. Dopodiché siamo entrati nella fase pre-elettorale europea. Abbiamo fatto a gennaio una riunione del governo italiano con la Commissione Europea, presenti il Presidente del Consiglio Letta, il Ministro degli Esteri Bonino, il ministro del lavoro Giovannini, Zanonato ed io e per la c’era il Presidente Barroso e tutti i commissari. In quella sede abbiamo ripetuto: “Guardate che le elezioni europee stanno arrivando, qui non stiamo facendo niente per la crescita e per l’occupazione”. Van Rompuy ci ha detto: “Guardate, privatamente io non posso fare nulla perché oramai siamo alla scadenza del mandato”. Barroso ha ripetuto la stessa cosa. Il problema quindi è che, senza che sembri che la voglia buttare sempre in politica, anche qui abbiamo un problema di incertezza politica che ha bloccato tutta una serie di iniziative di carattere anticiclico che non rientrano nell’armamentario normale degli strumenti comunitari. Cioè, la Comunità Europea non possiede strumenti anticiclici tranne la Banca Centrale Europea, che qualche cosa sta facendo, però lo strumento che un paese ha di usare il bilancio, la politica fiscale, per fare una politica anticiclica, l’Europa non ce l’ha. Allora, si dice, se non ce l’ha se lo deve dare. Questo è il problema che ci troviamo di fronte adesso. Allora, che cosa si può fare? Mi sembra di capire che il Rapporto del professor Baldassarri e dei suoi collaboratori, propone sostanzialmente di fare una legge di stabilità a settembre/ottobre, più energica di quella che emerge dal dibattito attuale facendo quelle cose che dicevo prima. Qui vorrei dire molto chiaramente che il problema con la legge di stabilità è il passaggio parlamentare. Il passaggio parlamentare della legge di stabilità significa, inevitabilmente, maggiori tasse e maggiori spese, o se volete maggiori spese finanziate con maggiori tasse perché qualcuno dice che una tale spesa è assolutamente una necessità, e se non si riesce a tagliare la spesa da qualche altra parte facciamo la spesa lo stesso aumentando l’accisa, aumentando il bollino, aumentando qualche cosa di questo genere. Questo è l’atteggiamento che c’è nel Parlamento, perlomeno nei dieci mesi in cui io l’ho frequentato. Onestamente non vedo dei correttivi procedurali e istituzionali che siano in preparazione per evitare che il passaggio parlamentare non porti necessariamente a tentativi di sforamento, tentativi di aumentare appunto sia le tasse che le spese. 362 Ricordo che la legge di bilancio in Italia è la legge che è più lasciata agli emendamenti parlamentari di qualsiasi altro paese democratico con il quale ci vogliamo confrontare. In altri paesi cioè la legge di bilancio viene considerata come il caposaldo della politica del governo. Il governo la presenta perché è un insieme coerente di misure, dopodiché se il parlamento non l’approva il governo cade e la cosa finisce lì. L’idea che il governo presenti una legge che ha una sua coerenza, che poi il parlamento con tremila emendamenti la trasforma in un’altra cosa, è un unicum italiano. È quindi un problema di regolamenti parlamentari? È un problema di Costituzione? Non voglio solo sembrare antiparlamentare. Il Parlamento è sovrano, è il sale della democrazia, però c’è un problema di coerenza della manovra. Non si può pretendere che una manovra concepita in un modo e che quindi, magari sbagliando, sembrava essenziale per raggiungere certi obiettivi, viene completamente cambiata dopodiché gli obiettivi devono essere sempre quelli di prima. Purtroppo non funziona così ed è opportuno che la gente lo sappia. L’altro aspetto che secondo me è assolutamente da realizzare è una strategia di rilancio delle politiche anticicliche a livello comunitario. Noi ci troviamo oggi in una situazione in cui l’Unione Europea non ha grandi strumenti, ma è bene che se li dia. Questa è una stagione di transizione: c’è un nuovo parlamento, c’è una nuova Commissione, e forse l’Italia ha effettivamente una chance, come ha detto Romano Prodi, di cogliere questo momento in cui non ci sono punti di riferimento fermi perché non c’è ancora la Commissione, il Parlamento si deve ancora riunire, deve ancora scegliere le cariche fondamentali, e quindi è possibile che la presidenza di turno, che forse normalmente non ha tanti poteri, in questo momento di vacanza istituzionale di altri poteri, possa invece effettivamente svolgere un ruolo. Ecco, questo ruolo lo deve fare nel promuovere fortemente il rilancio degli investimenti in Europa. Ora, il fabbisogno di investimenti nelle infrastrutture di base è oramai considerato un dato scontato. Un illustre analista tedesco, il professor Roland Berger, stima che ci vogliono investimenti per 1000 miliardi in Europa, non solo nel sud ma compresa la Germania, nel campo dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’agenda digitale, dei trasporti, ecc.. Allora, questi 1000 miliardi sono una cifra modesta in confronto alla massa di liquidità, di fondi di capitale che sono disponibili sul mercato dei capitali. Questo mercato dei capitali però oggi non vede l’opportunità o la convenienza di investire in progetti infrastrutturali di lungo periodo perché manca, secondo me, l’incentivo, la molla che l’investimento pubblico può fornire, o quanto meno l’indicazione politica che l’Europa si vuole dotare per esempio di reti di elettricità integrate, quindi possiamo scambiarci l’elettricità o il gas naturale a 363 seconda delle esigenze. Vogliamo veramente creare una rete digitale, a livello europeo, e fornire l’innovazione tecnologica, in misura maggiore che in passato, alle imprese. Quando la gente parla e dice che ci vuole il Piano Marshall, ci vuole Franklin Roosevelt, ecc., significa che, appunto, ci vuole una policy che dica “gli investimenti europei in infrastrutture e innovazione sono insufficienti, bisogna rilanciarli, bisogna creare la base regolamentare perché questi investimenti vengano effettuati”. Poi secondo me il settore privato verrà, perché sta lì per quello. Inoltre, bisogna riaprire quello che la gente chiama il patto intergenerazionale. Abbiamo oggi una disoccupazione giovanile molto alta, i giovani europei oggi hanno delle prospettive future molto peggiori di quelle che avevamo noi quando eravamo alla loro età e vedevamo invece un futuro di crescita senza problemi e di occupazione sempre a condizioni più vantaggiose. Quindi bisogna fare un patto, bisogna dare più protezione ai giovani disoccupati ecc., in cambio di maggiore flessibilità del mercato del lavoro e creare gli strumenti che si chiamano la flexsecurity che consentano alla gente di avere protezione, di avere un reddito garantito, di avere sussidi di disoccupazione, collegati ad un impegno di riqualificazione, di trasformazione delle loro skills o insomma delle loro capacità di lavoro, perché in tutto il mondo, non soltanto in Europa o in Italia, oggi la preoccupazione è che lo sviluppo tecnologico distrugge posti di lavoro, distrugge posti di lavoro anche nei posti di lavoro più semplici. Ci saranno le macchine che raccoglieranno le olive, i pomodori, meglio e a costi più bassi della stessa manodopera di importazione che fa questi lavori oggi. Quindi attenzione perché c’è un problema crescente di divario tra le conoscenze che i giovani hanno quando escono dalle scuole superiori o dall’università e le conoscenze che sono richieste dall’industria per dar loro un lavoro. Questo knowledge gap è un problema che esiste in Germania, esiste in tutta Europa, allora bisogna che noi lo chiudiamo. Ma non si può chiudere questo gap se non, appunto, studiando di più e fornendo le protezioni di cui dicevo prima. Vengo ora al punto finale, il tasso di cambio dell’euro. Ho avuto occasione di dirlo pubblicamente anche ad una conferenza internazionale che ho fatto: oggi il problema del tasso di cambio dell’euro è un problema di fallimento del coordinamento internazionale. Sono abbastanza vecchio per aver vissuto quando c’era un sistema dei cambi che era governato dal Fondo Monetario. Quel sistema è saltato nel 1971. Ci sono stati però degli esempi di gestione attiva dei cambi fatti dai principali paesi del G7, e oggi dovrebbero esser appunto G7 … più Cina, Brasile, India, ecc.. L’esigenza di un coordinamento delle politiche del cambio secondo me è fondamentale, in questo sono d’accordo con Mario Baldassarri ed anche con l’onorevole Giancarlo Giorgetti. 364 Non è una scelta della Merkel o dei tedeschi, ma è effettivamente stata una scelta dei mercati, ma l’euro è diventato la moneta di ultima istanza nei confronti della quale tutti finiscono per deprezzarsi, gli americani per un verso perché hanno le loro scelte politiche, i cinesi, ecc.. L’Europa, obiettivamente, resta un’area importante che ha, per motivi storici, assunto questa linea di indifferenza nei confronti del cambio, con una eccezione, perché quando il cambio dell’euro ha fatto l’inversione di cui il professor Baldassarri ricordava prima i numeri. Quell’inversione è stata fatta grazie a un intervento coordinato congiunto delle Banche Centrali del gruppo dei sette compresi gli Stati Uniti i quali erano preoccupati delle ripercussioni che un crollo verticale dell’euro avrebbe avuto. Eravamo agli anni iniziali e quindi c’era anche la preoccupazione che questo esperimento, che era nato nel ’99, fallisse. A quel punto tutte le potenze maggiori hanno detto no perché quella eventuale crisi dell’euro sarebbe stata una crisi che potenzialmente avrebbe avuto degli effetti destabilizzanti, ben al di là del rapporto dollaro-euro, ecc., ecc.. Da allora il mercato ha capito la lezione, ha capito che il mondo non voleva far fallire l’euro e quindi si è adeguato. Poi dopo, naturalmente, il mercato di per sé, preso atto di quali sono state le scelte politiche, però ha esagerato e le ha amplificate, portando l’euro a livelli spropositati che vanno appunto corretti con qualche altro segnale che invece complessivamente è mancato. Con la crisi dal 2007 in poi, come per tutte le crisi purtroppo, il messaggio che la gente ha: ognun per se e Dio per tutti. Ed ecco allora che a quel punto il cinese riprende a svalutare di nuovo lo yuan, l’americano pensa agli affari suoi, ecc., ecc.. Adesso, però, è venuto il momento di riprendere in mano questo tema nei termini che ho detto prima. Dobbiamo cercare di ricostruire, all’interno delle sedi internazionali, un consenso sul fatto che non è possibile che, se gli americani riducono la politica monetaria di uno 0,25, ecc., ecc., il cambio del real brasiliano si deprezza del 20% ecc. Queste sono, appunto, delle reazioni eccessive che vanno in qualche modo gestite e non si può dire “ma il mercato sa meglio di lui”, perché il mercato dei cambi oggi è diventato un mercato che ha una forte componente speculativa che non riflette necessariamente le situazioni di competitività relativa, ma guarda anche alle prospettive future. Bisogna riconoscere che l’Europa, nel contesto internazionale, al suo complesso come area dell’euro, ha una bilancia dei pagamenti in attivo, gli Stati Uniti hanno invece un forte disavanzo, il Brasile pure, l’India pure. Quindi la finanza pubblica europea è più sana di quella americana. Il disavanzo ed il debito pubblico complessivo dell’area Europa è più basso. Allora il mercato tiene conto di questi fattori e dice “bah, tra i due, 365 tutto sommato, teniamo conto e dividiamo un po’ in dollari e un po’ in euro”. Questo tiene l’euro più su di quanto noi vorremmo. Però diciamo le politiche che la Banca Centrale Europea ha assunto vanno nella direzione di ridurre questa percezione di relativa stretta monetaria maggiore in Europa rispetto agli altri paesi e soprattutto vanno nella direzione di indirizzare la liquidità verso investimenti produttivi, verso il settore reale, quindi questo mi pare un buon segno verso una inversione di tendenza nella quotazione dell’euro che sia più favorevole alla ripresa della crescita e dell’occupazione in Europa. MERLINO Professor Saccomanni, mi permette due mini curiosità. La prima: lei ci ha raccontato che Enrico Letta è andato più volte in Europa a dire guardate che abbiamo un problema, se qui non si riprende con la crescita e con l’occupazione non si va da nessuna parte. E che però in Europa, in maniera diversa da Barroso a Van Rompuy, hanno detto non sappiamo bene come affrontare il problema, non abbiamo le leve per farlo. Secondo lei, dopo queste elezioni europee, con un Parlamento Europeo rinnovato, una Commissione rinnovata, ci sono le condizioni per cui questo argomento venga posto con più forza e venga affrontato seriamente? SACCOMANNI Secondo me sì. Tra l’altro, mi ricordo che ero ancora Ministro, fui largamente frainteso perché dissi a uno che mi chiedeva “ma se i partiti antieuropei saranno presenti in parlamento questo è un bene o un male?”. Io dissi “ma, guardi, paradossalmente può essere pure un bene… MERLINO Lo diceva Giorgetti, sono gli alleati non dichiarati. SACCOMANNI No, perché, contrariamente a quello che può essere sembrato, io sono convinto che è bene che i partiti che sono favorevoli all’euro e all’Unione 366 Europea, cioè il partito popolare, il partito socialista, si confrontino nel parlamento con le forze politiche che hanno un’opinione diametralmente opposta. E devono uscire da questa situazione di autocompiacimento per cui in realtà se va tutto bene è merito dei governi nazionali, se le cose vanno male il problema è dell’Europa. Io spero che le forze anti euro ingaggino un dibattito che spinga i partiti di maggioranza a uscire da questa situazione che in fondo è una situazione in cui poi alla fine gli egoismi nazionali o le precedenze nazionali hanno finito per prevalere sulla visione integrata europea che era ed è sempre stata una visione di tipo solidaristico e di tipo, appunto, comunitario. MERLINO Un’ultima curiosità flash. Le faccio una domanda come economista. Gli 80 euro in tasca agli italiani sono in grado di far ripartire i consumi secondo lei? SACCOMANNI Questo rientra tra le domande alle quali io non rispondo. MERLINO Ci ho provato. Grazie. SACCOMANNI Grazie a Lei per la comprensione. 367 Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.panorama.it Scacco matto alla crisi. Tre mosse per far vincere l’Italia e l’Europa di Mario Baldassarri © 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Ebook ISBN 9788852057557 Panorama Direttore responsabile: Giorgio Mulè Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. via Bianca di Savoia 12 – 20129 Milano Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. 368 Indice Copertina 2 L’immagine Illibro L’autore 2 3 4 Frontespizio 5 Scaccomattoallacrisi.Tremosseperfarvincerel’Italiae 6 l’Europa Introduzione 7 Leprospettivedell’economiamondialeedeuropea 9 VIIIrapportosull’economiaitaliana,2014–2018.I.Le 44 analisi Premessa 45 1.IlDebitoPubblicodall’Unitàd’Italiaadoggi:quando, 47 come,perchéabbiamofattodebiti(1861–2013) 2.BilancioPubblico:idati“storici”2000–2012(Berlusconi78 Tremonti,Prodi-PadoaSchioppa,Monti-Grilli) 3.TreDEFaconfronto:Monti-Grilli,Letta-Saccomanni, 80 Renzi-Padoan 4.Daungovernoall’altro:comefrenarel’economiarealee costruirelacrisidiproduzioneeoccupazione,alimentandoil 122 DebitoPubblicoeinseguendofragilieprecariequilibri finanziari Alleoriginidelpersistentealtolivellodeldebitopubblico 132 Bibliografia 169 VIIIrapportosull’economiaitaliana,2014–2018.II.Le 174 previsioni 5.Leprevisioni“tendenziali”dell’EconomiaItaliana2014– 2018,setuttovabenerestiamoinfondoalpozzoperaltri 175 setteanni…finoal2022/23 369 6.ProposteperunaLeggediStabilitàdelgovernoRenzi: riformeeconomicheedeffettisull’economiaitaliana,una stradaperusciredallacrisientroil2018,cioè…cinqueanni prima Interventiedibattito Analisiepropostedeglieconomisti Analisiistituzionali Economiaemutamentisocialiepolitici Propostedellapolitica Considerazionifinali Copyright 370 189 229 230 251 293 327 358 368