La crisi economica e le diseguaglianze

La crisi economica
e le diseguaglianze
di Tony Atkinson
Senior research fellow,
Nuffield College, Oxford
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede che l’attività economica si ridurrà
a un ritmo senza precedenti nel dopoguerra. L’economia mondiale è in recessione e
il termine depressione potrebbe rivelarsi appropriato. Il discorso è tutto concentrato sull’economia aggregata, su un calo del Pil. Ciò di cui si parla meno è come
tutto questo si tradurrà in un impatto sui singoli individui. Questi mutamenti negli
aggregati statistici come incideranno sulle persone reali? Su chi graverà l’onere
della recessione? Sarà ripartito in parti uguali? Un recente articolo di Forbes Magazine sui miliardari nel mondo ha affermato: «le persone più ricche del mondo sono
diventate più povere, proprio come tutti noi». Ma è vero?
Questo è il tema: l’impatto distributivo della crisi economica. Mi occupo di economia della povertà e di disuguaglianza da quarantatre anni, ma questo aspetto non
è mai apparso più importante di quanto lo sia oggi. L’attuale crisi economica può
avere un effetto devastante sulle singole famiglie e può segnare le future generazioni.
Desidero concentrarmi su ciò che sta accadendo in Europa, nel vostro e nel mio
Paese, il Regno Unito. Tuttavia, dovrei iniziare sottolineando che alcune delle conseguenze distributive più gravi sono verosimilmente quelle relative alla disuguaglianza globale. La crisi finanziaria può avere preso l’avvio nei paesi avanzati, ma
l’impatto economico si sta diffondendo rapidamente a livello mondiale. A differenza della Grande Depressione degli anni Trenta, quando il Pil dei Paesi ricchi diminuì drasticamente, mentre quello dei Paesi poveri fu meno colpito, la crisi
attuale sta producendo i suoi effetti anche sui paesi emergenti e in via di sviluppo.
Il commercio: ci sono meno camion sulle strade dell’Inghilterra, ci sono meno navi
portacontainer nei nostri porti e tutto questo riflette il calo nelle importazioni.
Questo fenomeno ha colpito l’Europa orientale e la Cina in particolare. I prezzi
delle materie prime sono crollati. Le rimesse costituiscono un’importante fonte di
sostegno. Nel 2008, per esempio, i Caraibi hanno ricevuto rimesse per 70 miliardi di
dollari, cifra che aveva smesso di crescere ed è, con buona probabilità, destinata a
calare. E ancora: il protezionismo finanziario. I rischi per l’APS per via dei vincoli di
bilancio nei paesi ricchi. Sottolineo questi aspetti perché è importante che noi non
ci sottraiamo alle nostre responsabilità globali.
Guardiamo ora all’Europa, e dico “Europa” a ragion veduta, dato che la situazione
in Europa è diversa da quella degli Stati Uniti sotto un aspetto importante. Il punto
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è che la crisi negli Stati Uniti può essere rappresentata come la profonda stasi che
fa seguito a una grande fase di espansione economica. La recessione segue un
lungo periodo di rapida crescita economica. In Europa, però, la gente potrebbe giustamente chiedere “ma quale fase di espansione economica?”. Per un decennio
l’andamento economico in Europa è stato oggetto di critiche: l’Europa era considerata “in ritardo”; e, in effetti, incrementare il tasso di crescita europeo era l’obiettivo della strategia di Lisbona.
A ben vedere, però, l’andamento non è stato poi così negativo. Nel decennio tra il
1995 e il 2005, il Pil pro capite nell’UE da 15 è cresciuto del 20%. Si tratta di un
forte aumento. Il problema è che questo non è stato percepito da molti cittadini. In
Italia, le ragioni di questo fenomeno sono state analizzate da Tito Boeri e Andrea
Brandolini nel 2007. In parte, sono motivazioni statistiche; in parte riflettono
aspettative deluse. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’economia italiana è cresciuta a un ritmo senza precedenti, che non poteva certo durare nel tempo: il tasso
di crescita ha registrato una regressione costante.
I ricchi patiscono gli effetti delle crisi finanziarie?
Uno dei motivi per cui la gente non ha avvertito i benefici della crescita economica
è che, in modo sproporzionato, questi sono andati a vantaggio dei ricchi. Ciò è particolarmente vero negli Stati Uniti, ma è vero anche in Italia, dove la quota guadagnata da quell’1% di persone che gode dei redditi più elevati è passata dall’8 al 9%
tra il 1994 e il 2004. Se i ricchi hanno tratto guadagni dalla fase dell’espansione
economica, ciò significa che saranno i ricchi a patire maggiormente le conseguenze
della recessione?
A prima vista, potrebbe sembrare così. Forbes Magazine segnala un calo nel numero di miliardari in tutto il mondo, ma questo dato non va enfatizzato. Il numero
di miliardari, 793 al febbraio 2009, è esattamente lo stesso del 2006. La loro ricchezza è inferiore, ma soltanto di un 8% in media. Comunemente si pensa che le
conseguenze del crollo di Wall Street del 1929 siano ricadute sulla stessa Wall
Street. Ciò che ebbe davvero importanza fu la conseguenza del crollo del mercato
finanziario statunitense, cioè la Grande Depressione, che provocò perdite non ai
ricchi, bensì al resto della popolazione. Se poi guardiamo alle recenti crisi bancarie
verificatesi nei paesi dell’OCSE, che ne ha individuate sei e tutte hanno portato a
un notevole calo della produzione. Durante questo periodo, in tutti i casi, la quota
guadagnata da quell’1% di persone che gode dei redditi più elevati è aumentata, in
alcuni casi in modo piuttosto marcato.
La crisi dell’occupazione
La conseguenze macro-economiche, in effetti, vanno considerate prevalentemente
nei termini delle loro ricadute sul mercato del lavoro. Siamo di fronte a una crisi
dell’occupazione. Anche in questo caso dobbiamo inquadrare l’impatto nel contesto. Negli ultimi anni in Europa abbiamo assistito a una crescita occupazionale. In
buona parte, però, questi posti di lavoro sono stati determinati da un incremento
nella disponibilità di posti di lavoro precari, ovvero da una riduzione della tutela dei
lavoratori. Ciò significa che il previsto aumento della disoccupazione ricadrà soprattutto sui lavoratori più vulnerabili, e costituirà un ostacolo all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.
Uno dei motivi per
cui la gente non ha
avvertito i benefici
della crescita
economica è che,
in modo
sproporzionato,
questi sono andati a
vantaggio dei ricchi.
Questo è molto importante quando si analizzano gli effetti dell’aumento della disoccupazione sulla distribuzione del reddito e sul rischio di povertà. Ciò dipende, a
sua volta, da due fattori principali. Il primo è la distribuzione tra le famiglie dei
posti di lavoro e della disoccupazione. Per certi versi la migliore protezione per un
lavoratore disoccupato è quella costituita dal mantenimento del posto di lavoro di
altri membri della famiglia. L’impatto della recessione può risultare decisamente inferiore, se, in un milione di famiglie con due persone attive, perde il posto una delle
due, rispetto a mezzo milione di famiglie in cui nessuno ha mantenuto il proprio lavoro. L’impatto è certamente grave, ma è moderato. La domanda chiave, quindi, è:
chi si ritrova disoccupato? In questo senso ciò che preoccupa, in particolare, è che
determinate aree geografiche o gruppi specifici, come i migranti, saranno particolarmente esposti.
Il secondo fattore importante è la protezione sociale. Dal 1979 al 1984, le richieste
di sussidio di disoccupazione sono salite da un già preoccupante 5% a un livello
veramente drammatico del 12%. L’aumento della disuguaglianza prodotta da questo cambiamento nel tasso di disoccupazione è stato impressionante. La disparità
di reddito di mercato delle famiglie, misurata in base all’indice di Gini, è passata
dal 43,5% del 1979 al 48,6% del 1984. Per sottolineare l’importanza di questo incremento, possiamo osservare che per ridurre l’indice di Gini di 5 punti percentuali
si sarebbe dovuto innalzare l’aliquota base per le imposte sul reddito di circa 8
punti percentuali.
Reddito e politica sociale
I dati relativi alle disparità di reddito di mercato, tuttavia, non forniscono un quadro completo. Il reddito di mercato è il reddito al lordo delle imposte e al netto dei
trasferimenti. Ma sono proprio questi due gli strumenti che i governi possono utilizzare per attenuare l’impatto della recessione economica su coloro che sono più
vulnerabili. Se guardiamo al reddito disponibile delle famiglie (che comprende i vari
trasferimenti pubblici di competenza dello stato sociale) emerge un quadro molto
diverso. L’aumento della disoccupazione dei primi anni Ottanta non ha avuto praticamente alcun effetto sul reddito disponibile calcolato con l’indice di Gini (che, dal
1979 al 1984, si è mantenuto straordinariamente stabile intorno al 27/28%).
Nella recessione dei primi anni Ottanta, quindi, la politica sociale ha svolto efficacemente una funzione di ammortizzatore nel limitare le ripercussioni negative della
disoccupazione e della più ampia crisi economica sulla disuguaglianza. Questi strumenti della politica risulteranno oggi altrettanto efficaci? La risposta, purtroppo,
non induce all’ottimismo. Da allora, lo stato sociale britannico ha conosciuto profondi cambiamenti e i governi che si sono succeduti, sia conservatori sia laburisti,
hanno contribuito alla trasformazione del welfare (indennità di previdenza sociale)
in workfare (sussidi concessi a determinate condizioni). Margaret Thatcher ha
messo in atto un programma di graduale riduzione del sistema di previdenza so-
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ciale che lo ha reso meno generoso e ha scardinato le assicurazioni sociali. Tali misure hanno avuto un impatto cumulativo che è andato rafforzandosi nel corso degli
anni Ottanta. I governi di John Major hanno rafforzato ed esasperato questo approccio rispetto all’assistenza previdenziale. Il sussidio per chi è in cerca di lavoro
(JSA), istituito nel 1996, ha efficacemente trasformato il welfare in workfare. Questo programma ha introdotto varie condizioni, quali la frequenza di corsi di formazione, per poter beneficiare dei sussidi di disoccupazione. L’intensificazione della
condizionalità ha avuto l’ulteriore effetto di sviare l’attenzione dai livelli di assistenza fornita. Oggi, l’assegno settimanale ammonta soltanto a £60,50, appena un
ottavo del guadagno medio di un lavoratore a tempo pieno. Da anni non si riesce a
mantenerlo al passo con l’aumento delle retribuzioni.
Spesa pubblica e sistemi pensionistici
Negli ultimi trent’anni, nel Regno Unito, ci siamo decisamente distaccati dal tradizionale sistema pensionistico statale. I governi che si sono succeduti hanno ridimensionato le pensioni calcolate su base retributiva, incoraggiando i lavoratori ad
aderire ai piani pensionistici dei rispettivi datori di lavoro ovvero a sottoscrivere
programmi pensionistici individuali. Queste due alternative, tendenzialmente, si basano entrambe su meccanismi contributivi, perciò le pensioni corrisposte sono in
funzione del valore del capitale accumulato e dei tassi di interesse. Tutto questo significa che la nostra spesa pubblica per le pensioni è una piccola frazione del Pil.
Ma significa anche che i nostri pensionati sono molto più esposti. Infatti, a fronte
dei ribassi dei tassi di interesse, essi si troveranno ad avere reddito di molto ridotto.
Per dare un’idea, oggi, per percepire una pensione pari alla metà del mio stipendio
avrei bisogno di avere accantonato due milioni di euro.
Ciò è particolarmente grave nel Regno Unito, ma si applica più in generale alla diffusione delle pensioni private. Nella sua recente relazione, l’OCSE inizia dicendo
che «gli ultimi dieci anni sono stati un periodo di rapida espansione dei piani pensionistici privati», per poi proseguire immediatamente dicendo che «purtroppo, gli
ultimi dieci anni sono stati anche un periodo di turbolenza nei mercati finanziari».
Spostandoci all’estremo opposto per fascia d’età, e sempre al di fuori della categoria dei lavoratori attivi, il secondo gruppo cui accennavo precedentemente è quello
dei bambini. Negli ultimi anni, l’Unione europea si è mostrata sempre più attenta
al problema della povertà infantile. Il Comitato per la protezione sociale europea ha
pubblicato un’eccellente relazione su questo tema lo scorso anno. Vi è il grosso rischio che l’aumento della disoccupazione, quand’anche temporanea, possa avere
effetti duraturi su coloro che crescono in famiglie in difficoltà a causa della crisi.
Che cosa possiamo fare?
Su questo argomento si può dire molto e, senza dubbio, c’è molto da discutere. Voglio accennare solo a una questione. In passato la ridistribuzione è stata considerata un costo economico, si tendeva a rilevarvi un conflitto tra uguaglianza e
crescita. Ma, oggi non è più così. L’adozione di misure per ridistribuire il reddito
verso coloro che sono maggiormente esposti contribuirà a risolvere la crisi econo-
mica. Dopo tutto, la maggior parte delle preoccupazioni espresse in relazione ai
pacchetti di incentivi all’economia verteva sul fatto che i consumatori non sono disposti a spendere. L’insicurezza per il futuro inibisce la spesa e inibisce gli investimenti. Le prestazioni previdenziali sono, quindi, un ingrediente importante per
risolvere la crisi economica. Si fanno frequenti riferimenti a Keynes, il quale aveva
compreso che la sicurezza sociale andava di pari passo con la macropolitica. Questo è il motivo per cui, in collaborazione con Beveridge, ha lavorato alla progettazione dello stato sociale.
Abbiamo bisogno,
con urgenza, di
sottoporre a prove
di tenuta (stress
testing) lo Stato
sociale.
Ed ecco perché vorrei ribadire che a livello di Unione europea si dovrebbe prevedere un reddito minimo in relazione ai minori, e per questo, secondo il principio di
sussidiarietà, ogni Stato membro dovrebbe fornire assegni familiari pari almeno a
una determinata percentuale del reddito medio di quel paese.
Vorrei concludere con una proposta concreta. A mio parere abbiamo bisogno, con
urgenza, di sottoporre a prove di tenuta (stress testing), lo stato sociale. Si è molto
parlato delle prove di tenuta svolte (o non svolte) sulle istituzioni finanziarie, ma si
possono applicare anche ai nostri meccanismi di tutela sociale? Abbiamo bisogno
di sapere con che probabilità questi possono riuscire a sopportare le pressioni che
ormai sono ampiamente previste.
Che cosa intendo quando suggerisco di sottoporre gli stati sociali europei a prove
di tenuta? In termini concreti, voglio dire analizzare l’impatto della perdita del
posto di lavoro e della perdita di reddito sulla qualità di vita degli individui e delle
loro famiglie, tenendo conto delle fonti di assistenza cui essi possono verosimilmente attingere. Come abbiamo visto, l’impatto dipende da un’interazione tra le
condizioni finanziarie dei singoli nuclei familiari e gli strumenti politici in vigore
nel loro paese. Per questo motivo, non siamo in grado di valutare l’impatto in
astratto. Non possiamo ipotizzare una serie di famiglie “tipo” e calcolare in che
modo sarebbero colpite dalla perdita dei rispettivi posti di lavoro. Dobbiamo, piuttosto, prendere in considerazione la situazione di un campione rappresentativo di
persone reali.
Innanzitutto è necessario disporre di informazioni sulle condizioni di un campione
rappresentativo di famiglie, poi, si deve provvedere ad adeguare di conseguenza la
risposta dello stato sociale. Supponiamo che il reddito da risparmio degli anziani si
sia dimezzato. I pensionati potrebbero pagare meno imposte sul reddito e questo
consentirà di ridurre il problema. Ma potrebbero anche scoprire, con una valutazione del reddito, di avere diritto all’assistenza abitativa, che potrà così costituire
un ulteriore ammortizzatore. L’effetto combinato potrebbe lasciare i pensionati in
condizioni ancora non agiate; ma uno stato sociale efficace riuscirà a scongiurare il
rischio della povertà.
È importante ribadire che una “prova di tenuta” non è uno strumento previsionale.
Questo per due motivi: in primo luogo, è una pratica del tutto diversa, e per certi
aspetti più facile; in secondo luogo, se sottoporremo gli stati sociali europei a
“prove di tenuta” con una certa sollecitudine, allora saremo in grado di adottare
misure per incrementare la loro efficacia e ridurre al minimo l’aumento della povertà.
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