Bernstein - Filippo Del Corno

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BARRY SELDES
Leonard
Bernstein
VITA POLITICA
DI UN MUSICISTA AMERICANO
Traduzione dall’inglese di
Francesca Cosi
I
Indice del volume
Un giovane americano
Bernstein a Harvard
I. Un giovane americano. Bernstein a Harvard
II. Gli anni Quaranta. L’ascesa e la lista nera
III. Biedermeier americano, 1951-1959
IV. I lunghi anni Sessanta, 1960-1973
V. Le Norton Lectures, 1973
VI. Bernstein prende il largo, 1974-1990
VII. Comprendere Bernstein
Epilogo. Un uomo in tempi bui
Indici
Questo fascicolo riproduce alcune pagine del libro di Barry Seldes con
l’intento di presentarne i contenuti; per ragioni di spazio abbiamo
scelto di non includere in questo contesto le note che contribuiscono
a documentare e precisare le affermazioni dell’autore.
Nel 1982, a sessantaquattro anni, Leonard Bernstein inserì
nella raccolta Findings alcuni saggi scritti in gioventù che
prefiguravano elementi significativi della sua vita adulta e
della sua carriera. Il primo, Father’s Books, scritto nel 1935,
a diciassette anni, parla del padre e del Talmud. Per tutta
la vita, Bernstein fu sempre consapevole di essere ebreo;
compose musica su temi ebraici e in vecchiaia si definiva un
“rabbino”, un insegnante con la tendenza a trasmettere agli
orchestrali conoscenze di alto livello, saggezza e tradizioni
culturali. Inoltre, Bernstein giunse ad adottare una voce
da profeta del Vecchio Testamento in gran parte della sua
musica, comprese la prima sinfonia, Jeremiah, e la terza,
Kaddish. Il secondo saggio, The Occult, redatto nel 1938 a
vent’anni, per un corso di composizione del primo anno a
Harvard, riguardava l’incontro con Dimitri Mitropoulos,
che lo indusse a dedicarsi alla direzione d’orchestra. Il terzo,
la sua tesi dell’aprile 1939, era di fatto un manifesto programmatico che invocava una musica organica, autoctona,
fondata sul ritmo e marcatamente americana, una musica
che in seguito sostenne dal podio e realizzò nelle composizioni per il palcoscenico di Broadway, le sale da concerto
e i teatri lirici.
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Barry Seldes
Leonard Bernstein. Vita politica di un musicista americano
Bernstein profeta del Vecchio Testamento? Il padre di Leonard, Sam, nacque nel 1892 in Russia, in uno shtetl ebraico
ultraortodosso. Le sue aspirazioni a una carriera da rabbino
andarono in frantumi quando fu richiamato per il servizio
militare nel brutale esercito zarista. Sam fuggì negli Stati
Uniti nel 1908, fu assunto come assistente pescivendolo
presso il Fulton Fish Market di New York e dopo diversi
anni finì per diventare un uomo d’affari di grande successo
nel campo dei prodotti di bellezza a Lawrence, Massachusetts. A quanto pare Sam, dopo aver rinunciato alla vocazione rabbinica, fu comunque rabbino per hobby. Sua moglie
Jennie (Resnick da nubile), nata nel 1898 in Russia, giunse
negli Stati Uniti nel 1905 e nel 1912, a quattordici anni, andò
a lavorare nei lanifici di Lawrence. Sam e Jenny si sposarono
e diedero vita a una famiglia ebraica conservatrice. Secondo
il figlio Burton, Sam, di giorno uomo d’affari, la sera era
una «figura dell’Antico Testamento» che presiedeva alla
vita familiare con una «presenza dominante, onnisciente».
Era un profeta al tavolo da pranzo intorno al quale sedevano Louis, in seguito chiamato Leonard, nato il 25 agosto
1918, Shirley, nata nel 1923, e Burton, nato nel 1932. Sam
pontificava su argomenti che spaziavano dalle meditazioni
del Talmud alla storia del popolo ebraico dai tempi biblici
fino alla penosa situazione sotto il potere nazista in Europa.
Nelle famiglie ebraiche dell’epoca, la conversazione toccava
anche le condizioni degli ebrei americani e la devozione
al presidente Roosevelt, che molti di loro consideravano
un baluardo sia contro i fascisti stranieri, sia contro quelli
americani del calibro di padre Coughlin (le cui trasmissioni
erano viste in tutto il paese), e altri antisemiti.
Le speranze di Sam che il primogenito realizzasse i
suoi progetti frustrati di diventare rabbino andarono in
frantumi quando sua sorella Clara regalò alla famiglia un
pianoforte, dando in tal modo il via al destino musicale di
Leonard. Questi non solo divenne inseparabile dal pianoforte, ma dimostrò anche, fin dall’inizio, di essere precoce
e di provare gioia nel suonare. A quanto pare, Jenny incoraggiò l’applicazione di Leonard al pianoforte; per Sam, al
contrario, l’incessante suonare di Leonard era un continuo
martellamento che lo faceva andare su tutte le furie. Sembra
che, da adolescente, Leonard affrontasse con tranquillità la
collera paterna. Presto riuscì a far fruttare la propria musicalità reclutando Shirley e altri ragazzi perché recitassero
nelle rappresentazioni teatrali musicali che dirigeva dal
pianoforte e che la sua troupe interpretava di fronte a un
pubblico adulto nel luogo di villeggiatura sul lago dove le
famiglie passavano le vacanze estive.
Leonard persuase Sam a pagargli le lezioni di pianoforte
e fece rapidi progressi, passando da principiante a musicista completo sotto la direzione di diversi insegnanti, tra
cui Helen Coates, che lavorerà poi per lui come segretaria
dagli anni Quaranta agli anni Settanta. Bernstein andava
ai concerti ed era sempre più assorbito dalla musica; dopo
il diploma alla prestigiosa Boston Latin School nel 1935, fu
accettato a Harvard come studente di musica. Sam sperava
che Leonard, pur non diventando rabbino, avrebbe almeno preso il suo posto nella ditta di famiglia. Ma la musica?
Fare musica era un’abilità tenuta in scarsa considerazione
dagli ebrei ortodossi dell’Europa orientale, la cui tradizione religiosa non vantava alcun Bach né Telemann né, di
fatto, alcuna musica strumentale. In quei paesi, il maestro
del coro canta a cappella e, a parte il soffio dello shofar, o
corno di ariete, nel giorno sacro del Kippur, la musica non
ha spazio alcuno nella sinagoga ortodossa. Se nella cultura
yiddish esisteva un posto per la musica strumentale, era
riservato all’umile arte della musica klezmer, suonata ai matrimoni e ai bar mitzvah da artisti che mangiavano insieme
al personale di cucina e poi uscivano dalla porta di servizio.
La scelta professionale di Leonard, dunque, rappresentava
per Sam un passo indietro nell’ascesa della famiglia dalle
misere condizioni di immigrata: una macchia sul blasone
familiare. Tuttavia, Leonard riuscì a fare a modo proprio e
nel settembre 1935 entrò nello Harvard Yard, passando così
dallo shtetl a cosmopoli.
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I primi anni: una voce profetica
Barry Seldes
Leonard Bernstein. Vita politica di un musicista americano
Quando, nell’autunno del 1935, Bernstein iniziò il semestre
del primo anno, le notizie dall’estero facevano riflettere: la
violazione del Trattato di Versailles da parte di Hitler con
il riarmo della Germania fu affrontata solo con un debole
lamento da parte della Francia. Il fascismo di Mussolini
aveva ottenuto l’imprimatur della Chiesa cattolica e anche in
Austria, Portogallo e Romania il governo era retto da regimi
fascisti. Negli Stati Uniti i fascisti, così come molti membri
del Partito repubblicano, erano pronti a sostenere la candidatura del generale Douglas MacArthur alla presidenza.
Tuttavia, se da un lato il giovane studente di musica si
preoccupava per queste gravi notizie, dall’altro trovava nel
college motivi di entusiasmo. Harvard appariva pervasa da
una nuova musica piena di instabilità ritmica, un’ampia
tavolozza di colori strumentali e un cromatismo arrogante che tendeva alla dissonanza e addirittura all’atonalità.
Grazie a questi aspetti, tale musica rappresentava un taglio
radicale con quella classica e romantica del diciannovesimo secolo. Inoltre, nascevano dibattiti appassionanti
all’interno delle due grandi fazioni della nuova musica: i
neoclassicisti franco-russi e gli atonalisti tedeschi. I primi,
rappresentati da Eric Satie, Maurice Ravel e Igor Stravinsky, sostenevano l’economia, la semplicità, la chiarezza e
un senso dell’ironia e della parodia; i secondi, guidati da
Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern, trovavano
nella musica atonale e nel serialismo un modo per aggirare
quelle che consideravano le rigidità del tonalismo, considerandoli il mezzo migliore per dare espressione al caos sociale
e politico e al crollo psicologico. Tuttavia, quali che fossero
le battaglie tra questi due gruppi, i difensori della nuova
musica concordavano sul fatto che le tradizioni musicali del
diciottesimo e diciannovesimo secolo avessero ben poco da
dire sulla metropoli dell’era delle macchine del ventesimo
secolo, e sugli effetti cacofonici e caleidoscopici da questa
esercitati sui sensi. Non che la nuova guardia intendesse
rifiutarsi di onorare i vecchi maestri. A differenza dell’avan-
guardia futurista italiana e dei poeti cubisti-futuristi russi
che disdegnavano il passato, questi nuovi compositori veneravano i predecessori. Tuttavia, desideravano una musica
nuova che esprimesse la realtà del proprio tempo. Questi
giovani musicisti americani guardavano con particolare
entusiasmo al crescente utilizzo, da parte di Stravinsky,
Ernst Krenek, Kurt Weill e Darius Milhaud, di forme
jazz per rappresentare alcuni stati emotivi contemporanei,
ad esempio la camminata dell’uomo di città, la primitiva
ferocia dionisiaca, l’erotismo sporco e cupo e la sensualità
seduttrice, il brivido di terrore, la sensazione di ironia, sarcasmo e cinismo oscuri, incombenti o lascivi, il turbinio
dell’ebbrezza, dello stordimento o del delirio da ubriaco.
Tutte queste condizioni erano cancellate da quel senso di
sicurezza, affermazione e trionfo che veniva trasmesso agli
spettatori delle sale da concerto dall’equilibrata tonalità e
dalle solide consonanze e cadenze dei repertori classici e
romantici del diciottesimo e diciannovesimo secolo.
La nuova musica aveva sedi importanti a Harvard e a
Boston. Il modernista americano Walter Piston presiedeva la facoltà di musica di Harvard e, in città, l’emigrato
russo Serge Koussevitzky dirigeva regolarmente la Boston
Symphony Orchestra nelle esecuzioni di opere moderniste francesi, russe e americane. Bernstein avrebbe incontrato Koussevitzky nel 1940, con effetti importantissimi
sulla propria carriera; tuttavia il primo incontro decisivo
con un grande mentore musicale fu con un altro esponente del modernismo, il direttore d’orchestra Dimitri
Mitropoulos. Nel gennaio del 1937 Bernstein assistette a
un concerto di Mitropoulos a Boston e rimase incantato dall’espressivo stile di direzione del maestro. Grazie a
un colpo di fortuna, Bernstein fu invitato dalla Harvard
Greek Society a suonare il pianoforte a un evento in onore di Mitropoulos e, dandosi da fare, riuscì a procurarsi
un incontro privato con il direttore d’orchestra, durante
il quale pare sia rimasto impresso all’anziano musicista.
Un anno più tardi, nel febbraio 1938, Bernstein narrò
questa conoscenza casuale nel resoconto romanzato del
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Bernstein a Harvard: Mitropoulos
Barry Seldes
Leonard Bernstein. Vita politica di un musicista americano
loro incontro, The Occult. Il saggio raggiunge il culmine
della sensualità gastronomico-erotica quando il maestro
depone, con la propria forchetta, un’ostrica nella bocca
dell’estasiato protégé. Incontrando il giovane a un concerto, immediatamente dopo i fragorosi applausi del
pubblico, il maestro esorta l’allievo a realizzare il proprio
destino, la propria «missione»: comporre. Tuttavia, in una
performance di Mitropoulos, mentre Bernstein osservava quelle che il biografo di Mitropoulos chiama «estasi
coreografiche», «pura fisicità» ed «esperienza sessuale tra
il direttore e l’orchestra» accadde qualcos’altro. Bernstein
scoprì il suo secondo destino: dirigere.
Dal 1935 al 1939, il suo periodo a Harvard, il principale
mentore di Bernstein fu un professore di estetica, David
Prall. Bernstein incontrò Prall nel 1936 e venne introdotto
nella cerchia dei suoi laureati, che comprendeva il compositore Arthur Berger, il pittore Robert Motherwell e il
poeta e saggista Delmore Schwartz. Prall aveva un’enorme
influenza su questi uomini, artisti creativi che si sentivano
lontani dalla comunità accademica di Harvard, di orientamento analitico. In quegli anni la vita universitaria era
pesantemente polarizzata verso il positivismo, verso i fatti
verificabili attraverso i canoni del metodo scientifico, e verso una critica che indagava le cause e analizzava le strutture.
Perfino i professori di estetica abbracciavano questa corrente, soffermandosi non sulla bellezza, ma sul “concetto”
di bellezza, e affrontando le opere con un distacco clinico,
sminuendo al tempo stesso l’“esperienza” dell’opera. Non
sorprende che i giovani artisti finissero per sentirsi insicuri,
frustrati e repressi.
La caratteristica di Prall che più li attraeva era la sua
critica ai modelli positivisti di bellezza e di studio decretati ufficialmente, e la sua opposta attribuzione di valore
all’esperienza e alla sensazione. Il campo dell’estetica, soste-
neva, non era un sancta sanctorum intellettuale riservato agli
specialisti. Al contrario, le persone esperiscono gli elementi
della natura e le opere realizzate dall’uomo, comprese le
opere d’arte, come “superfici estetiche”. La comprensione
del significato di un’opera d’arte aumenta quanto più ci si
impegna a comprenderne gli aspetti sensuali (i colori, le
masse, le figure e le forme di un dipinto, le melodie, i temi,
i ritmi e la combinazione di timbri di un’opera musicale) e
quelli spazio-temporali (nella pittura, la relazione spaziale
tra i colori su una tela; nella musica, le relazioni tra tonalità
strutturate in scale maggiori o minori e disegni cromatici).
Secondo Prall, la conoscenza e la sensazione non si escludono vicendevolmente. Al contrario, l’ascoltatore (o spettatore) acquisisce una sorta di conoscenza quando intuisce
o percepisce la “superficie estetica” di un’opera d’arte. Prall
affermava dunque che la forma, la sola a essere considerata
dalla comunità accademica, e la sensazione, così a lungo
trascurata, hanno entrambe valore; si tratta di due modalità
con cui un’opera viene alla luce ed è esperita. Promuovendo
questo punto di vista, di fatto Prall conferiva dignità alla
sensazione e legittimava l’innovazione.
Prall sosteneva inoltre la necessità di studiare un’opera
d’arte nel suo contesto. Anni dopo la sua permanenza a
Harvard, Bernstein dichiarò legittima la pretesa di Prall che
gli studenti studiassero un’opera da una varietà di punti di
vista disciplinari e filosofici. È probabile che abbia preso a
cuore anche l’apparente insistenza di Prall sul fatto che la
musica tonale sia naturale, se non altro per come è enunciata nel suo libro del 1936, Aesthetic Analysis. Prall sostenne
inoltre che l’artista ha la vocazione sociale a produrre opere
d’arte che vivifichino osservatori e ascoltatori grazie allo spirito del loro tempo; l’opera d’arte unisce dunque creatore
e pubblico in una comunità significativa dal punto di vista
sociale e politico. Bernstein arrivò a sostenere la medesima
opinione; di fatto, questa idea divenne uno dei fondamenti
della sua visione, e trovò espressione nelle sue composizioni, nel suo repertorio, nella sua filosofia estetica e sociale e
nel suo impegno politico.
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David Prall
Barry Seldes
Leonard Bernstein. Vita politica di un musicista americano
Un giorno, nel 1936, Arthur Berger pensò di presentare
al brillante e giovane collega le Piano Variations di Aaron
Copland del 1930. Opera di estrema austerità, spesso stridente e discordante, permeata di un’atmosfera cupa se non
addirittura opprimente, lontana anni luce dal lirismo di
Liszt o di Brahms, le Variations erano diventate l’inno dei
giovani modernisti americani. Bernstein fu enormemente
colpito dal pezzo e ne parlò subito a Prall. Quest’ultimo,
che dalla reazione euforica di Leonard doveva aver percepito che le Piano Variations erano rappresentative del nuovo
spirito dilagante nella musica americana, volle a tutti i costi
comprare lo spartito per Bernstein e studiarlo insieme a lui.
Bernstein padroneggiò rapidamente il pezzo di Copland e
lo imparò a memoria.
Poi, una sera di novembre del 1937, Bernstein si recò
a New York per un concerto e si ritrovò seduto accanto a
Copland: l’eternamente socievole Leonard attaccò subito
discorso. Copland fu preso dalla verve del giovane e lo invitò a una festa nel suo studio, dove Bernstein si vantò di
fronte a uno scettico Copland e agli ospiti riuniti, fra cui
Virgil Thomson e Paul Bowles, di conoscere le Piano Variations a memoria. Sfidato da Copland a suonare il pezzo,
lo eseguì, annunciando in tal modo il proprio arrivo sulla
scena musicale modernista di New York.
Dunque, a diciannove anni, studente del secondo anno,
Bernstein si sentiva ancora a proprio agio nel vecchio mondo ebraico di Sam, ma anche nella cerchia di Prall a Harvard e tra le figure centrali del mondo artistico newyorchese
che gravitavano intorno a Copland. Muoversi nei circoli di
Copland non solo portò Bernstein da Boston a New York,
ma lo immerse direttamente anche nell’inebriante crogiolo
dell’arte moderna. Copland aveva già un’influenza straordinaria sulla nuova musica americana. Tutti i giovani musicisti degli Stati Uniti riconoscevano in Copland la guida
e il coordinatore dei compositori americani.
Nato a Brooklyn nel 1900, Copland promuoveva una
musica nazionale che si inseriva nel più ampio tentativo di
creare una cultura americana spiccatamente modernista. Il
movimento aveva fatto la sua comparsa nel primo decennio del secolo, quando il fotografo Alfred Stieglitz aveva
esposto nella sua galleria newyorchese opere di Cézanne,
Brancusi e diversi pittori e scultori modernisti francesi, e
aveva poi ricevuto un enorme impulso dall’Esposizione
Internazionale d’Arte Moderna del 1913. Nel 1915 il critico
Van Wyck Brooks aveva sostenuto, nel volume America’s
Coming of Age, che i tempi erano maturi perché gli americani creassero una propria letteratura, per accantonare l’eredità puritana che aveva costretto l’individuo a scegliere tra
culture antagoniste: “intellettuale” contro “incolto”, “teorico” contro “pratico”. Secondo Brooks, tale biforcazione
culturale aveva allontanato l’uomo di pensiero dalla cultura
di massa, dominata dai valori di uomini d’affari, scienziati
e ingegneri, e colpevole di filisteismo, in quanto sminuiva le espressioni elevate dell’animo umano. Non esisteva
alcun terreno comune che collegasse l’individuo alla vita
attiva, palpitante e “organica” dei suoi concittadini. I nuovi
moderni avevano dunque bisogno di (e desideravano) una
cultura nuova, unificata, “organica”, modellata su radici
americane e tesa a formare un’identità nazionale. Ispirati
da modelli del calibro di Walt Whitman, tutti i “giovani
americani” – membri dell’ondata riformista della metà del
diciannovesimo secolo – potevano trovare la propria voce
autentica e il proprio posto all’interno di questa nuova e
vibrante cultura americana.
Whitman, con la sua poetica autoctona, aveva indicato
la strada per l’“inclusività”. Celebrava la vitalità dell’individuo e della collettività a cui l’individuo apparteneva, una
moltitudine pluralistica e democratica che costruiva una
democrazia vitale, carica di erotismo. Una “giovane America” nuova e moderna poteva ora mettersi alla ricerca di ciò
che Brooks, nel 1918, aveva definito un «passato fruibile»
– esperienze e modalità espressive a lungo dimenticate o
sommerse sotto il discorso ufficiale – per creare una nuova
cultura nazionale.
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Copland e il modernismo americano
Barry Seldes
Leonard Bernstein. Vita politica di un musicista americano
Questo appello non era in alcun modo rivolto alla
creazione di un provincialismo americano. Nei decenni
successivi, i membri dei circoli modernisti, tra cui i critici
Lewis Mumford, Waldo Frank e Paul Rosenfeld, Eugene
O’Neill e Harold Clurman, si resero conto di come questa
ondata culturale fosse un’esplorazione dei temi americani
all’interno dei diversi stili modernisti internazionali. Molte opere nuove e appassionanti, come The Hairy Ape (Lo
scimmione) di O’Neill (1922), The Adding Machine di Elmer
Rice (1923) e Four Saints in Three Acts di Virgil Thomson e
Gertrude Stein (1927) utilizzavano tecniche moderniste per
dare espressione ad aspetti estremamente intensi e toccanti
della vita contemporanea, non ultimi quelli estranianti e
tragici trascurati dall’ottimismo affaristico (rappresentato
nel romanzo satirico di Sinclair Lewis del 1922, Babbitt) che
dominava la discussione pubblica in America.
Copland si era arruolato presto nel movimento modernista. Era andato a Parigi nei primi anni Venti per studiare
con la celebre Nadia Boulanger, ed era tornato a comporre
musica integrando il modernismo francese e russo con lo
stile del jazz americano, esemplificato al meglio nel suo
Concerto per pianoforte e orchestra del 1926. In men che non
si dica, i membri della cerchia di Brooks avevano compreso
che Copland costituiva il modello del giovane artista americano. Nel 1929 Rosenfeld vide in Copland il musicista
della nuova era, autore di una musica che invitava l’ascoltatore a fondersi con «il flusso delle metalliche, moderne
cose americane».
A metà degli anni Trenta, i fautori del nuovo modernismo americano cominciarono a unirsi al Fronte Popolare:
un patto fra Liberali, Progressisti, Socialisti e Comunisti
per opporsi al fascismo. Nel novembre 1936, durante il
secondo anno di Bernstein a Harvard, il Fronte Popolare
americano stava guadagnando slancio, perché milioni di
lavoratori erano entrati nei nuovi sindacati industriali che
si erano formati con il sostegno dell’amministrazione Roosevelt. Questo nuovo clima si era manifestato per la prima
volta nel 1933, quando la first lady Eleanor Roosevelt e i suoi
collaboratori iniziarono a documentare i sacrifici affrontati
da innumerevoli americani, molti dei quali avevano vissuto
vite di silenziosa disperazione per anni, se non per decenni,
prima della crisi del 1929 e della conseguente depressione.
Un simile impegno dimostrava che i Roosevelt intendevano prendere provvedimenti. Il Segretario di Stato Harold
Ickes, uno degli eroi di Bernstein, creò la Public Works
Administration (Ente per i lavori pubblici), mentre un
collaboratore di Roosevelt, Harry Hopkins, istituì la Federal Emergency Relief Administration (Ente per l’assistenza
sociale) e la Work Progress Administration (altro importante Ente per i lavori pubblici), programmi che miravano
non solo a far riassumere milioni di persone, ma anche a
modernizzare le città e le periferie americane. Thomas Hart
Benton, incaricato da finanziatori istituzionali e aziendali
e, nel 1934, dal Federal Arts Project (Programma di sostegno alle arti visive), dipinse murales sulle pareti interne di
alcuni edifici pubblici rappresentando la visione produttivista del lavoro nobile e dignitoso. Ispirata dalla nuova
arte, emerse anche una nuova corrente politica i cui elettori
comprendevano operai e persone perlopiù delle aeree urbane e appartenenti a minoranze etniche. Molti di questi
erano naturalizzati da poco o erano americani di prima
generazione che votavano per la prima volta; molti di essi
aderirono agli scioperi, diventando membri politicamente
consapevoli di un movimento di massa e ingrossando le fila
del Partito democratico. A loro volta ispirarono progressisti
come John Dewey a spingere l’amministrazione del New
Deal a ripensare profondamente i rapporti tra il governo
democratico e l’economia, chiedendo al governo di assumere un ruolo più forte nel regolare il potere, altrimenti
incontrollato, dell’industria e della finanza americane che
aveva provocato la Grande depressione.
L’impulso riformista stava trasformando conoscenze e
forme espressive nell’intero panorama culturale. Gli studiosi di scienze sociali e i ricercatori, governativi e non,
raccoglievano informazioni per comprendere il funzionamento della vita americana. Altri scoprivano e cercavano
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Barry Seldes
Leonard Bernstein. Vita politica di un musicista americano
di riesumare elementi fino ad allora dimenticati del passato
culturale americano, per apportare vitalità alla nuova cultura. Ad esempio, lo storico di Harvard Perry Miller riscoprì
la forza morale e il lirismo della cultura puritana americana
del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Altri scoprirono
e registrarono la musica della gente comune. Martha Graham creò la coreografia di una danza moderna e socialmente critica che si allontanava dal balletto tradizionale, non
solo nella forma, ma anche nel contenuto, rappresentando
casi di cronaca contemporanea in cui i deboli venivano
oppressi dai più forti. La trilogia americana di John Dos
Passos (1930-36) utilizzava un’impaginazione e una veste
tipografica nuove, incorporava forme letterarie dell’Ulisse
di James Joyce e impiegava gli effetti di montaggio realizzati
nella cinematografia al fine di creare un’epica panoramica
dell’America che mostrava come i volgari valori del profitto
si insinuassero in ogni angolo politico e sociale della vita
nazionale. La sensibilità progressista era evidente anche
nella pièce Winterset (1934) di James Maxwell Anderson,
di grande successo a Broadway, una tragedia in versi che
narrava di un immaginario figlio di Sacco o Vanzetti. Un
anno dopo, la produzione da parte del Group Theater del
manifesto sindacalista di Clifford Odets, Waiting for Lefty
(Aspettando Lefty), registrò il tutto esaurito per mesi.
Molti tra le fila del pubblico di Broadway erano iscritti
ai nuovi sindacati e alle nuove organizzazioni di sinistra,
come l’International Workers’ Order (Ordine internazionale dei lavoratori), l’Associated Workers Club (Circolo
dei lavoratori associati), l’American League against War
and Fascism (Lega americana contro la guerra e il fascismo) e l’American Music League (Lega musicale americana). Erano interessati alla nuova musica impegnata?
Nella primavera del 1936, mentre Roosevelt si preparava
alle elezioni di novembre, il compositore Marc Blitzstein
pensava senz’altro di sì. «Il pubblico assalta i cancelli»,
scrisse su «Modern Music», «una grande massa di persone»
sta per «entrare finalmente nel campo della musica seria».
John Houseman scrisse: «Il cinquanta per cento del nostro
pubblico veniva da gruppi teatrali organizzati, per lo più di
sinistra, era pieno di pregiudizi e poco istruito, ma giovane
e generoso e desideroso di partecipare all’eccitazione che
solo il palcoscenico sembrava offrire in questi tempi incerti.
Ecco chi erano gli spettatori: in quello stesso mese, molti di
loro avevano partecipato ai sit in di protesta dei lavoratori
della wpa». Il celebre grido: «Sciopero!» alla fine dell’opera
Aspettando Lefty di Odets cercava di spronare gli spettatori
ad agire nel proprio posto di lavoro.
Lo stesso Copland si era spostato su posizioni politiche
radicali. Sosteneva che anche le Piano Variations, nonostante l’evidente austerità e la forte astrazione modernista,
cercavano di esprimere la «tragica realtà» non solo «al centro della nostra esistenza», ma anche «dei nostri tempi».
Il brano sinfonico Militant del 1935 (primo dei suoi Statements) era una chiamata progressista alle armi. Nel 1937
scrisse una canzone in occasione della Festa dei lavoratori
per la rivista di estrema sinistra «New Masses». Nel 1938, nel
tentativo di comporre una musica più accessibile alle masse
e di sostenere il Fronte Popolare, il lavoro di Copland entrò
in una fase popolar-elegiaca, in cui l’opera Billy the Kid,
commissionata da Agnes de Mille, fu la prima di una serie
di nostalgiche musiche della prateria o, come le chiamava
lui, “cowboy music” (in realtà, la svolta di Copland verso le
opere popolar-elegiache era iniziata con El salón México del
1936. Durante un viaggio in Messico, Copland aveva incontrato il compositore Carlos Chávez, che cercava di integrare
i temi folcloristici locali nello stile modernista). Copland
non era certamente solo nella lotta per la creazione di uno
stile specificamente americano. Edward Burlingame Hill,
uno dei professori di Bernstein a Harvard, compositore di
jazz e opere da concerto, «incoraggiava i propri studenti
a fare ricerca sulla musica autoctona del paese – musica
popolare, gospel – come possibile fonte di materiale per
opere da concerto autenticamente americane». Anche Marc
Blitzstein, Charles Ives e Carl Ruggles davano voce al tumulto e alle sofferenze della vita americana di tutti i giorni.
Roy Harris aveva composto musica che rappresentava sia le
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Barry Seldes
praterie aperte sia il «Weltschmerz urbano», come lo definiva
Copland. Roger Sessions, nonostante il suo universalismo,
reclamava esplicitamente una nuova opera americana che
riflettesse il presente, «definito così marcatamente da precise forze sociali e storiche» e con «temi drammatici […]
sufficientemente reali e sufficientemente importanti sia per
il compositore sia per il pubblico».
In breve, verso la fine degli anni Trenta, l’iniziale appello in favore di un’arte nazionale si era trasformato in
un invito agli artisti americani a forgiare una cultura nuova, vigorosa, politicamente significativa. Bernstein accolse
quell’invito e dedicò la propria carriera alla promozione di
questa nuova musica americana modernista e impegnata
nei confronti della comunità.
Titolo originale: Leonard Bernstein.
The Political Life of an American Musician
©2009 The Regents of the University of California.
Library of Congress Cataloging in Publication Datas
In copertina: Leonard Bernstein
Foto di Joe McNelly/Getty Images
©2011 per l’edizione italiana EDT srl
ISBN 978-88-6040-636-1
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