anno VII
numero 64-65
giugno-luglio 2010
PERSONAL JESUS
PERSONAL JESUS
Jesus Christ Superstar e Tommy vanno visti.
Sono la riconciliazione del rock con Dio. Il rock
non è di Satana, almeno non solo. il rock è estremamente religioso. Prendi alcuni martiri del
rock, che ne so Jim Morrison, profeta morto
giovane proprio come Gesù. E poi prendi i testi
delle canzoni, le vite disperate, le dichiarazioni
delle rock star, fanno quasi sempre riferimento
ai grandi nodi della cristianità , ai grandi contrasti che sono poi anche della vita. Ed ecco perché
esiste il rock che parteggia per Satana, perché il
rock è come la vita. Ma non solo. Il rock è fatto
di icone, di reliquie, di personaggi venerati per
generazioni, di immortalità, proprio come la religione. Esiste poi una sorta di spiritualità legata
alla musica e ai musicisti, una sorta di aura che
circonda gli artisti elevandoli facendogli perdere
alcune caratteristiche terrene. E i fedeli al verbo
del rock a volte sono sette votate a un solo santo,
partecipano al rito del concerto, ascoltano ripetutamente il verbo del loro personal jesus attraver-
so i suoi dischi. Un tema che è come un punto di
fuga, ricco di collegamenti, storie e aneddoti che
meriterebbero un libro. Ma lo spazio è poco e il
tempo sempre di meno. Alcuni, pochi in realtà,
avranno notato che questo numero ha tardato
molto ad uscire. Ci scusiamo per questo con i nostri lettori più affezionati. In compenso il tempo
a disposizione gli ha permesso di mantecare con
calma e di essere più ricco e denso di altre volte.
Il prossimo numero del giornale, come ogni anno
è dedicato ai racconti. Invitiamo chiunque di voi
voglia proporci un suo scritto, a contattarci scrivendoci a [email protected]. Sempre restando in tema mi piace segnalarvi la seconda uscita
della nostra collana editoriale Coolibrì. Il libro
sui libri è un volume dedicato alla passione per
la lettura, un amore che speriamo di trasmettere
ogni volta con queste, più o meno puntuali pagine.
Osvaldo Piliego
Editoriale 3
CoolClub.it
Via Vecchia Frigole 34
c/o Manifatture Knos
73100 Lecce
Telefono: 0832303707
e-mail: [email protected]
sito: www.coolclub.it
Anno 7 Numero 64-65
giugno-luglio 2010
Iscritto al registro della
stampa del tribunale di Lecce
il 15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Cesare Liaci, Antonietta
Rosato, Dario Goffredo,
Pierpaolo Lala
Hanno collaborato a questo
numero: Dino Amenduni,
Gianluca Morozzi, Marco
Montanaro, Giancarlo
Susanna, Salvatore Caracuta,
Ennio Ciotta, Nino G. D’Attis,
Alfonso Fanizza, Rino De
Cesare, Tobia D’Onofrio, Marco
Chiffi, Federico Baglivi, Dario
Quarta, Roberto Conturso,
Fabio Rossi, Fulvia Balestrieri,
Silvia Margiotta.
In copertina: John Lennon
Ringraziamo Manifatture
Knos, Officine Cantelmo,
Cooperativa Paz di Lecce e le
redazioni di Blackmailmag.
com, Radio Popolare
Salento, Controradio di Bari,
Mondoradio di Tricase (Le),
Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
quiSalento, Lecceprima,
Salento WebTv, Radiodelcapo,
Musicaround.net.
Progetto grafico
erik chilly
Impaginazione
dario
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione con più di
un mese di ritardo, ma non se
ne è accorto nessuno.
Per inserzioni pubblicitarie e
abbonamenti:
[email protected]
3394313397
PUGLIA SOPRA LE RIGHE
Dio è morto 6
Icone 10
Idolatria? What’s idolatria? 12
Siamo in missione per conto di Dio 17
musica
A Toys Orchestra18
Amor Fou 22
Recensioni 26
Salto nell’indie - Interbang 40
Libri
Davide Enia 42
Francesco Dimitri 44
Recensioni 46
Cinema Teatro Arte
Federico Zampaglione 54
Edoardo Winspeare 56
Dalla vita in poi 57
Eventi
Calendario 59
sommario 5
6
In foto Kings of Leon
DIO È MORTO
Sacro e profano nella musica rock
L’icona non muore, assurge al mito e conquista
l’eternità. Ogni persona o idea che raccoglie intorno a sé fedeli ha un che di religioso. Vale per
Gesù Cristo come per Michael Jackson.
E tutte le fedi vivono di piccoli grandi misteri,
il segreto che solo l’immaginazione può colmare.
Il proselitismo musicale collima con quello religioso e insieme a lui converge nel fanatismo.
La musica si nutre di religione. Da lei attinge
nella costruzione del rito, nella sua solennità,
nel grande carico simbolico e iconografico.
Santi e divinità diventano nomi d’arte. Solo pochi giorni fa i giornali titolavano: Dio è morto.
E non si riferivano certo a Nietzsche o al nuovo
marito della pop star Madonna (al secolo Louise
Veronica Ciccone) ma al cantante Ronnie James, leggenda dell’heavy metal (leader, tra gli
altri degli Heavenandhell, tanto per rimanere in
tema).
Sacro e profano sono materie che collimano, si
sovrappongono e si sopraffanno, nella cronaca di
tutti i giorni, così come nel rock. Un gioco, a volte
pericoloso, una provocazione, a volte gratuita, un
tendenza a voler prendere le distanze da ciò che
è comune per diventare “altro”.
Il desiderio, l’aspirazione, il mistero sono sentimenti che animano il fedele. Sentimenti che
fanno del musicista una star e che bisogna proteggere in un mondo che sembra muoversi nella
direzione opposta.
I reality hanno rovinato la musica, lo dicono
tutti. La gente ha smesso di sognare e di avere
incubi e le nuove stelle della musica sono comete
che si eclissano in una stagione. La vita svelata
uccide la poesia, l’aura che circonda le cose.
Anche per questo abbiamo scelto di dedicare
questo numero del giornale al sacro e al profano
in musica. Perché oggi più che mai abbiamo bisogno di credere in qualcuno e qualcosa: che sia
dio o un anticristo.
Per molti il rock è la musica del diavolo. Per certi versi è vero ma esiste d’altro canto tutta una
scena musicale fatta di conversioni, misticismo
e spiritualità.
A molti il nome di Aleister Crowley suonerà
familiare. È considerato il padre del satanismo
moderno. La sua filosofia aveva un che di edonista che ben si conciliava con lo spirito del rock.
La sua immagine campeggia sulla copertina di
Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band
degli insospettabili baronetti di Liverpool. Gli
stessi Beatles cambiarono di lì a poco rotta per
seguire il Maharishi in India e abbracciare la
meditazione trascendentale. Tutte esperienze
che si ripercuotono in qualche modo sul pubblico
ma anche sulla musica che assume sfumature
nuove legate appunto alla predisposizione “spirituale” del periodo. Orientare l’anima verso
un credo porta inevitabilmente a solleticarne la
sensibilità musicale. Ecco che storie e leggende
in tal senso cominciano ad avere un peso importante nell’evoluzione della musica. È evidente,
giusto per fare un esempio, ascoltando la musica
di Richard Thompson. Abbandonati i Fairport
Convention intraprenderà una carriera solista
che nei primi album lo vede esplorare il rock and
roll delle origini e la musica popolare inglese fino
al 1975, anno in cui esce Pour down like silver,
album che coincide con la sua conversione al sufismo islamico e che è intriso di atmosfere musicali decisamente nuove e “mistiche”.
Una conversione decisamente più rumorosa fu
quella di Bob Dylan, che alla fine degli anni settanta abbracciò la religione cristiana dividendo
l’opinione pubblica e i fan. Un cammino cominciato nel ’79 con l’album Slow train coming e che
porta lo stesso Dylan, nel 1997, a suonare al cospetto del papa, che nel corso del suo discorso
compie un gesto incredibile per la storia della
religione: cita dei versi di Blowing in the wind
e abbatte per un attimo, e forse per sempre, il
confine tra sacro e profano.
Altre volte l’adesione a una fede è nascosta.
Celebri sono i messaggi criptati che popolano
alcuni dischi famosi. Si dice ad esempio che suonando al contrario Starway to heaven (potenza e
unicità del vinile) dei Led Zeppelin sia possibile distinguere “Ecco il mio dolce Satana, la cui
piccola via non mi renderà triste...”e cose simili.
Anche loro come i Beatles erano appassionati di
Aleister Crowley e sono stati i primi a utilizzare simboli satanici su una copertina. Non sapevano che dopo di loro si sarebbe letteralmente
scatenato l’inferno. Con l’avvento dell’hard rock
e dell’heavy metal il diavolo torna di moda alla
grande. La lista di band e di canzoni che fanno
esplicito riferimento al male è lunghissima, tra
tutti il nome più suggestivo e fantasioso è sicuPERSONAL JESUS 7
ramente Impaled Nazarene.
Difficile e pericoloso è stabilire quanto le band
cosiddette sataniste o pseudo sataniste abbiano
un’influenza reale sull’avvicinamento di alcuni
giovani alle pratiche sataniche. È un argomento
delicato. Di sicuro la musica e più nello specifico
gli idoli sviluppano emulazione.
Canzoni come Suicide solution di Ozzy Osbourne pur non contemplando il male, è un invito al
suicidio.
Quindi a parte la religione, la musica diventa
una questione etica e il ruolo dei musicisti si carica di responsabilità, senza esagerare però.
La beatificazione di musicisti fa male. Personaggi come Bono Vox, invasato nelle sue campagne
per ridurre il debito o il carrozzone del LiveAid
di Bob Geldof trapassano la musica, diventano
politica che è sicuramente peggio della religione.
Ci sono poi storie che non ti aspetteresti mai. Gli
Who ad esempio, la loro carica vitale e “distruttiva”, la vita fatta di eccessi (celebri le scorribande
del batterista Keith Moon) a tutto farebbero pensare tranne che alla religione. Eppure forse non
tutti sanno che Baba O’ Riley, canzone contenuta nell’ album Who’s next del 1971, è dedicata al
guru indiano Meher Baba. Sempre restando in
zona di guru altre celebri conversioni sono quella
di Santana che in un disco appare al fianco di Sri
Chinmoy nella posizione del loto e quella di Cat
Stevens che a un certo punto della sua carriera
ha addirittura ripudiato le sue origini musicali
(con cui si è riconciliato solo recentemente) cambiando il suo nome in Yusuf Islam.
Contrariamente a quello che si pensa, i sex
symbol non devono essere necessariamente belli
e dannati. Ne è un esempio una delle band più
cool del momento: i Kings of Leon, tre fratelli
figli di un pastore pentecostale e un cugino cresciuti a pane e gospel.
E poi alla fine, pensandoci bene, cosa c’è di più
rock and roll di Gesù?
Osvaldo Piliego
In foto Yusuf Islam
ICONE
La musica, la religione e i nuovi culti pagani
Cinque lettere bastano a spiegare un fenomeno.
La parola icona deriva dal greco eikon: immagine. In particolare, una raffigurazione di eventi o
personaggi appartenenti alla sacralità. L’icona è
un’icona (scusatemi il gioco di parole) cristiana.
Gesù e la Madonna sono i personaggi pop, i più
raffigurati in questa speciale forma d’arte.
Ed eccoci al punto di contatto tra culture, storie,
mondi che forse sarebbe bene tenere separati, su
binari perfettamente paralleli, ma che la blasfemia ci impone di unire.
Icona come la Madonna, icona come Madonna.
Nessuno crede che fra 2000 anni pregheremo
su ciò che resta di Louise Veronica Ciccone (ma
forse non pregheremo nemmeno sulla Madonna,
l’originale), ma oggi come oggi è difficile stabilire
quale delle due sia la più vera e quella più ogget10 Personal Jesus
to di narrazioni mitiche, quale sia la pop, qual è
la più decisiva sull’evoluzione pedagogica della
società occidentale.
L’uso della parola icona accanto alla parola pop,
o accanto a personaggi del mondo della musica,
non può essere certamente frutto di una casualità. I grandissimi hanno saputo attivare meccanismi di fidelizzazione talvolta estremi, al limite
della devozione, del dogmatismo, del fondamentalismo. Si arriva a fare di tutto pur di esserci,
pur di avere un contatto con l’icona, pur di entrare in simbiosi con lo Spirito.
Questi comportamenti sono difficilmente codificabili, ancor di meno sono inquadrabili in una
qualche categoria psicologica: i fan sono persone
perfettamente normali, ma si lasciano andare ad
un’allucinazione individuale e allo stesso tempo
collettiva. C’è chi si fa dell’oppio della religione,
chi si fa di copie esclusive del DVD del concerto
dal vivo in cui il paladino o la paladina di turno
stecca a ripetizione, ma lo fa con grande stile.
Sarà un caso, ma le icone della musica pop (e
dintorni) non sono mai persone perfettamente a
posto. O hanno sconvolto la storia della musica
o si sono sconvolti con droghe e vite dissolute; o
hanno abusato del sesso o si sono inventati improbabili percorsi di astinenza ed ascesi; o hanno
affrontato profondi stati depressivi o hanno fatto
fatica a tenere a bada il proprio ego (o entrambe
le cose, peggio per loro); o sono morti molto giovani, o molto poveri, o molto soli. Hanno avuto
tutto, e forse non ne hanno avuto idea.
Gesù e la Madonna non fanno eccezione: anche
loro hanno avuto una vita decisamente fuori da-
gli schemi. I loro fan li seguono con immutata
devozione da millenni. E in fondo se lo meritano. Non si può dire che le icone della musica pop
abbiano avuto la stessa grazia: alcuni musicisti
sono ancora amati dopo 40 o 50 anni, ma la tendenza più ricorrente dei tempi è bruciare le giovinette dopo averle sovraesposte. Certo, niente
di così doloroso: in alcuni casi i Santi e i protagonisti dell’iconografia cristiana conoscevano le
fiamme, senza figure retoriche. Però, proprio per
questo, la parola icona rischia di perdere quel significato magico che ha avuto per anni, pur con
improbabili traslazioni tra sacro e profano.
Lady Gaga, salvaci tu.
Dino Amenduni
PERSONAL JESUS 11
Idolatria? Ma dite quella cosa, tipo, non so, le fan
dei Beatles che strillavano così forte da assordare i musicisti sul palco, le fan di Michael Jackson
in lacrime davanti al moonwalking, i fan pazzi
che ammazzano l’idolo che secondo loro li ha
traditi? Nooo. Non so di cosa stiate parlando. Io
vado ai concerti da vent’anni, e questo fenomeno
dell’idolatria delirante non credo di averlo mai
visto.
Per esempio, quella fan tedesca di Bob Dylan che
somiglia in parte a un bulldog e in parte al geometra Filini, quella che segue Bob Dylan dappertutto, quella che una volta, a Padova, mentre
era appoggiata alla transenna, quando una madre aveva sporto il proprio bambino oltre la transenna coprendo al bulldog la visione di Bob Dylan per pochi secondi, e lei allora aveva spostato
di lato il bambino con un gesto brusco al limite
della violenza sui minori, quella che davanti a
Dylan esibisce tre tipi di gesti, il gesto di agitare
le chiavi, che vuol dire: Bob, non dormire sul tour
bus o in qualche squallido motel stanotte, vieni
in camera con me, il gesto del pollice alzato, che
12 Personal Jesus
vuol dire: grazie, Bob, ho capito che stai cantando questo verso per me, perché hai notato la mia
maglietta tematica e la mia pettinatura, il gesto
delle corna alzate, che può voler dire: viva il metal o Bob ti amo, con qualche moderata certezza
in più per la seconda possibilità, ecco, quella fan
tedesca a me non sembra un’idolatra, mi sembra
una persona molto lucida.
E quella fan emiliana di Bob Dylan che a trentacinque anni ha mollato lavoro e famiglia e si è
messa a girare il mondo con il cartello I need a
free ticket esibito davanti a ogni luogo dell’esibizione di Bob Dylan, e siccome il mondo non si gira
a piedi e ogni tanto il cibo e un letto sono un’esigenza necessaria si fa mandare soldi dai genitori,
ma se glielo chiedete lei non dice che sono i soldi
dei genitori, sono soldi che le manda proprio Bob
Dylan, per mantenerla in questa sua attività di
fan internazionale e globale, e si arrabbia anche
un po’, quando racconta questa cosa, dice Non capisco perché Bob deve umiliarmi così, perché i soldi non li dà direttamente a me anziché mandarli
ai miei genitori?, e poi aggiunge, di tanto in tanto,
IDOLATRIA?
WHAT’S IDOLATRIA?
Confessioni di una persona molto lucida
io e Bob unendo i nostri poteri potremmo fermare
i terremoti e le inondazioni, ma lui è così pigro,
ecco, anche questa non è un’idolatra, è una persona assolutamente lucida. O quel fan di Bob Dylan
un po’ più anziano, che alla fine di ogni concerto
afferra per un braccio il vicino di posto e comincia
a sfogarsi, Ma basta, dice, è ora di finirla, ma perché Bob deve ostinarsi a suonare con una band?,
lui deve tornare a suonare da solo, chitarra e armonica!, lo dico tutte le sere da quarant’anni, sono
quarant’anni che mi arrabbio con Bob, e dopo lo
sfogo dice Beh, allora ci vediamo domani sera al
concerto di Lipsia, vero?, ecco, anche quest’uomo,
che da quarant’anni gira il mondo per vedere un
concerto che gli fa schifo, sperando tutte le sere
che Bob Dylan impazzisca e decida di rimettersi a
fare una cosa che ha smesso di fare nel 1965, non
è mica un idolatra, è un uomo molto lucido, no?
Oppure, cambiando cantante – che altrimenti sembra che solo Bob Dylan abbia dei fan
così lucidi al seguito –, quella volta che Bruce
Springsteen è sceso un po’ alticcio nella hall di
un albergo di Monaco, nel ’93, e c’erano dei fan
italiani, e lui è andato da una fan italiana piuttosto carina e le ha messo allegramente la lingua in bocca, e il giorno dopo il marito di questa
la esibiva come un trofeo dicendo a tutti Le ha
messo la lingua in bocca!, Bruce le ha messo la
lingua in bocca!
Oppure, per esempio, quando un fan a caso, uno
che assomiglia molto al tizio bolognese che sta
scrivendo questo pezzo, trovandosi di fronte Bruce Springsteen per le vie della sua città, Bruce
Springsteen che usciva da una palestra del centro, dove si teneva in forma per il concerto del
giorno dopo, questo fan, avendo davanti il proprio idolo, avendo in mano un pennarello e un cd
dell’artista in questione, volendo dire al proprio
idolo mille cose, tutto quello che significava per
il fan la musica e i dischi e i concerti dell’artista,
e invece si ritrova a dire la seguente frase commossa: “Uuuuuuh”, e si limita a porgere a Bruce
Springsteen il pennarello e il cd, anche lui non
è mica un idolatra. È una persona molto lucida.
No?
Gianluca Morozzi
PERSONAL JESUS 13
JOHNNY CASH TRA
SACRO E PROFANO
14
«Ma il messìa è solitario.[…] è l’affilato che squarta il
tempo in due:
prima di lui è premessa, dopo di lui è scaduto,
concessione di supplementari.»
Erri De Luca
Quanto meno insolito. Chissà che faccia avranno fatto i suoi fan, ascoltandone la voce a sette anni dalla morte, quando il vecchio Johnny
Cash è tornato per cantare: «Nessuna tomba
può trattenere il mio corpo». E’ tornato sotto
forma di inedito per il sesto album della collana
American, in un pomeriggio di febbraio, cantando di resurrezione. Tra la sacralità delle ultime
composizioni di Cash, del suo rapporto coi fan, e
il profano di una mossa commerciale, c’è solo da
perdersi. Certo il vecchio Cash tra sacro e profano ha rischiato più volte di lasciarci le penne.
Lasciate perdere le acconciature cotonate degli
show televisivi, le uscite con gli Highwayman,
lasciate perdere i film e le piazzate da Al Bano
dell’Arkansas. Johnny Cash sapeva dove andava: dove doveva andare. E forse per questo ogni
tanto finiva nel deserto.
Il deserto: luogo unico della mitologia americana; ma anche del Vecchio Testamento. Cash era
capace di sparire nel deserto per giorni. Fuggiva in auto, con sé solo della buona musica spiritual. Andava a perdere/trovare se stesso o le
leggi in cui stentava a credere (la legge che lo
arrestava per detenzione di sostanze stupefacenti o la legge del mercato che lo poneva dietro
Elvis, re del rock’n’roll, mentre Cash inseguiva
il sogno di pubblicare un disco di soli spiritual)
come accadeva a molti ebrei qualche millennio
prima. Come accade tutt’ora a molti. Alla ricerca della storia: Cash inseguiva tanto le frecce
degli indiani rimaste conficcate nelle caverne
quanto le tracce dei soldati di fanteria. Cash
inseguiva la storia americana per intero – così
fu che la cantò, vittime e colpevoli unico coro –
declinandola secondo la sua fede. Perché la fede
è racconto.
Capita a chi si occupa di storie – che lo faccia
per iscritto, in musica o coi pennelli – di porsi
il dilemma. Chi racconta storie può non credere
alle Scritture? Non può fare spallucce. Così ad
oggi A singer of songs del vecchio Johnny Cash
rimane una delle più toccanti canzoni su Elohìm e sulla necessità sociale del profeta come
narratore. Il narratore – cantore – che neppu-
re davanti al Creatore china il capo e dichiara,
fiero, di aver solo raccontato storie. Senza possibilità di sottrarsi al dovere, con il solo attimo
in cui si riprende fiato come spazio minimo per
il libero arbitrio – esattamente quanto accadde
ad Abramo con Isacco. Nel declinare storie secondo una qualsiasi fede – idea? principio? – c’è
la conferma suprema di sé, del non essere soli,
o unici.
Ogni cosa ha poi necessità di riscontro fisico;
concreto e materiale. Risulta difficile inseguire il sogno di Cash, il cortocircuito tra sacro e
profano – realizzato probabilmente solo con il
colpo di coda finale della serie degli American
– tornando alla realtà delle nostre chiese. Mi è
capitato con una statua di Sant’Antonio in una
chiesa di Lecce. Ci provo col barocco. Dell’umanità affamata di storie – di conferme di non
esser soli – che riecheggia nei versi di Cash –
spesso eco di altri versi, è la tradizione – c’è ben
poco nel culto nostrano. Passato per il paganesimo dei campi, dove pure si cantava, adesso
è congelato. Fermo alla statua, immobile nel
chiacchiericcio delle mode del Venerdì Santo –
appare incolmabile il distacco tra sacro, sempre
più sacralizzato, e profano, che è solo profanabile; mentre sfilano i pellegrini con le croci non
c’è silenzio, a malapena sforzo. L’appartenenza
è fatica fisica, sudore. Non appartiene a questa
parte di mondo. Le confraternite – un tempo
composte da muratori, venditori ambulanti –
arrivavano nella piazza del paese affaticate e
sbronze con le statue in spalla. Erano profani
assoluti che s’inventavano il sacro. Delimitare
il campo per il passaggio della statua era allora
questione di vita o di morte. Per questo si arrivava al contatto fisico, perché in quel campo
scampo non c’era. Ad oggi guardi i crociferi e
pensi chi gliela fa fare. Il Klu Klux Klan sfila
in paese.
Anche il KKK fu sulle tracce di Cash. A seguito
del primo arresto per droga, finì sui giornali la
foto di lui che usciva dal carcere accompagnato
dalla prima moglie, Vivian. Pare che in quella
foto Vivian avesse i tratti tipici di una negra
(non lo era). Il KKK insorse. Voleva fargli la
pelle. Poi una storia d’avvocati persa nel nulla.
Ma anche questa dev’esser confluita nel poema
I am the nation in cui Cash riesce a mettere
insieme ogni pezzo d’America dall’Alaska ai
nativi americani. L’unico che diventa contraddizione, moltitudine, nel nero del vestito degli
ultimi: il raccontabile tra gli spazi del sacro e
del profano. Noi dove siamo?
Marco Montanaro
PERSONAL JESUS 15
NON C’È UNA SOLA
RISPOSTA A NULLA
Le idee religiose di John Lennon
John Lennon – con o senza Yoko Ono al suo fianco - sembrava proprio nato per fare scandalo o
creare polemiche. Il suo anticonformismo, già
presente quando era ancora un ragazzo e frequentava la scuola, venne poi amplificato dal
suo status di leader dei Beatles, uno dei fenomeni mediatici più importanti del secolo passato.
Ancora oggi una sua affermazione sulla popolarità dei Beatles rispetto a quella di Gesù Cristo
– sparata a grandi lettere sui titoli dei giornali,
con effetti dirompenti anche nei confronti degli
altri tre Beatles – viene ricordata da chiunque
decida di occuparsi di lui. Quella volta John fu
costretto a spiegare che il suo non era stato un
giudizio sul valore e sull’importanza della religione cristiana, ma la semplice constazione di un
dato di fatto.
Quando i Beatles si separarono, nel 1970, si sentì finalmente libero di esprimersi senza rischiare
di danneggiare qualcuno e realizzò “John Lennon/Plastic Ono Band”, l’album più duro e impietoso di tutta la sua carriera. Un album, va
sottolineato, sulla cui busta interna erano riportati tutti i testi, cosa all’epoca ancora non molto
comune. Furono in modo particolare due canzoni
di quel disco ad attirare l’attenzione dei critici:
“Working Class Hero” e “God”.
Nella prima John racconta la sua storia e la sua
presa di coscienza dei danni e delle sofferenze
che il potere può infliggere a un adolescente. Per
chi scrive queste righe, costretto a frequentare
il liceo in una scuola cattolica, “Working Class
Hero” fu importante quanto “La Buona Novella”
di Fabrizio De André – in particolare “Il testamento di Tito” – per capire di non essere isolato.
Non sarò certamente il primo a tentare di spiegare quanto peso abbiano avuto alcuni artisti
nell’indicare la strada della consapevolezza a
un’intera generazione.
«Sono stato cresciuto nella religione cristiana – è
John Lennon a parlare - e in ogni modo soltanto
adesso capisco alcune delle cose che Cristo dice16 Personal Jesus
va in quelle parabole. Mi sono allontanato dalle
interpretazioni che mi sono state gettate addosso per tutta la vita. C’è di più. (…) non voglio dire
nulla di un uomo (Bob Dylan, ndr) che ha cercato qualcosa o che l’ha trovata. È una sventura
quando la gente dice “questa è la sola strada”. È
l’unica cosa cui sono contrario: se qualcuno dice
“questa è la sola risposta”. Non voglio sentirlo.
Non cè una sola risposta a nulla».
E ancora: «La gente ha idea che io fossi anticristiano o anti-religioso. Non lo sono per nulla.
Io sono molto religioso. Religioso nel senso che
c’è… che esiste più di ciò che appare. Di sicuro
non sono un ateo. C’è più di quanto potremmo
sapere. Credo che questa magia sia soltanto un
modo per definire la scienza che non conosciamo
ancora o che non abbiamo ancora esplorato. Questo non è per nulla anti-religioso».
In “God”, Lennon disegna con l’acutezza che gli
era abituale l’autoritratto di un laico. Soltanto
gli integralisti avrebbero potuto sentirsi offesi
dalla sua sincerità e dal suo testardo sottrarsi al
ruolo di leader o di portavoce che tanti volevano
attribuirgli.
In questa canzone – come anche in “Imagine” –
Lennon sostiene che ognuno deve pensare con la
sua testa e agire di conseguenza.
«Devi farti il tuo sogno. (…) Produci il tuo sogno. Non aspettarti che Carter o Reagan, John
Lennon o Yoko Ono, Bob Dylan o Gesù Cristo
vengano e lo facciano per te. (…) Io non posso
svegliarti. Tu lo puoi fare. Io non posso curarti.
Tu puoi curarti»
Il verso che dice, “Dio è il concetto con cui misuriamo il nostro dolore” è seguito da un elenco
di idee o di persone in cui Lennon non credeva
– compresi i Beatles – e da una frase molto semplice,
“Io credo solo in me, in Yoko e me, e questa è la
realtà”.
Giancarlo Susanna
SIAMO IN MISSIONE
PER CONTO DI DIO
I Blues Brothers dal cabaret al mito assoluto
All’inizio erano due personaggi da cabaret. Due
musicisti strampalati che si esibivano al Saturday Night Live, la più grande trasmissione comica
della televisione americana. A impersonarli Dan
Aykroyd, faccia da schiaffi della commediola made
in Usa, e l’introverso John Belushi, eccentrico e
scapestrato. Rivisitavano il blues della tradizione,
vestiti come detective da film noir, abito e cravatta
neri, camicia bianca, in testa un Borsalino da gangster e inconfondibili Ray-ban Wayfarer, introducendo uno stile che sarà poi tanto caro alle future
iene tarantiniane nonché teleitaliche. Dopo le prime apparizioni, sgominato l’iniziale scetticismo, il
duo conquista il pigro spettatore americano. E in
un’epoca di glamrockstar brillantate e popballerine, riportano in vita l’anima soul dell’America meticcia, riprendono il blues lì dove era rimasto, nei
club notturni sulle rive del Mississippi, e lo fanno
arrivare in tutto il mondo. Quando partoriscono
l’idea del film, insieme a John Landis, quello che
sembrava un duetto da qualche minuto televisivo
si trasforma in un vero e proprio mito planetario,
intramontabile come tutti i cult. Jake ed Elwood
Blues sono cresciuti in un orfanotrofio cattolico, gestito dalle suore. La struttura sta per chiudere, a
causa di un mancato pagamento al Fisco. I fratelli
Blues vorrebbero contribuire al reperimento dei 5
mila dollari necessari, ma suor Mary Stigmata non
si fida della loro fedina penale. Sarà Cab Calloway,
nei panni di Curtis, un inserviente dell’orfanotrofio, l’uomo che aveva introdotto i fratelli, da piccoli,
al mondo del blues, a suggerirgli una soluzione. La
posta in gioco sembra alta. E “quando il gioco si fa
duro, i duri iniziano a giocare”. Curtis li convince a
recarsi nella vicina chiesa battista di Triple Rock,
dove il reverendo Cleophus James, uno strepitoso James Brown, conduce una liturgia in perfetto
stile gospel. Accompagnato dal James Cleveland’s
Southern California Community Choir, il Padrino
del Soul (così amava definirsi James Brown) interpreta un emozionante gospel, “The Old Landmark”,
che servirà a far comprendere ai due fratelli la “sacra” necessità di rimettere insieme la loro band e
racimolare i soldi necessari ad evitare la chiusura
dell’orfanotrofio. La “rivelazione” si manifesta con
Jake illuminato da una luce divina nella chiesa
battista, durante la roboante funzione religiosa. Da
quel momento, i Blues Brothers sono “in missione
per conto di Dio”. Gospel in inglese si traduce con
Vangelo. Le chiese afroamericane degli anni ‘30 iniziarono a trasformare i cori religiosi delle funzioni
ecclesiastiche in vere e proprie esecuzioni canore.
Al coro faceva da contraltare, come un solista, la
voce del reverendo, che intonava salmi e passi della Bibbia come fossero testi di canzoni blues. Ad
un certo punto entrò in contatto con i gruppi musicali di un genere analogo, il Jubilee, in voga già
all’inizio del Novecento. I predicatori diventarono
sempre più protagonisti, introducendo in chiesa gli
strumenti musicali del jazz, le percussioni, i fiati.
Il Gospel infine uscì dalle sacre mura delle chiese
e divenne un genere musicale autonomo, suonato
nei club da quartetti che, via via, introdussero altri
temi, oltre a quelli religiosi, e innovazioni ritmicoarmoniche. Negli anni Sessanta, i Gospel avevano
finanche lo scopo di dare messaggi di protesta politica a chi frequentava le chiese, contro la segregazione razziale e la repressione dei diritti civili.
Predicatori e reverendi impegnati, non disdegnavano l’inserimento subliminale di strofe non propriamente evangeliche. Dalle chiese nere del sud degli
Stati Uniti, i cori gospel si espandevano in tutti gli
Stati Federati, infondevano coraggio a chi sognava
l’uguaglianza in ogni angolo d’America. Nel 1980 i
due fratelli “bianchi” cantano classici della tradizione musicale “nera”, pezzi di Robert Johnson (Sweet
Home Chicago) e Solomon Burke (Everybody needs
somebody to love), ispirati da Ray Charles e Cab
Calloway (memorabile la sua esecuzione di Minnie
The Moocher in stile Cotton Club), illuminati dal
carisma di James Brown e dalla sacra luce del Dio
dei Gospel. Questa era la loro strampalata missione
per conto di Dio. Una missione che andava ben oltre
le apparenze, uno spartiacque culturale e sociale.
Un testamento musicale per un’America che stava
sparendo. E che, paradossalmente, due comici in
abito scuro avrebbero fatto ricordare per sempre.
Salvatore Caracuta
PERSONAL JESUS 17
MUSICA
Foto di Graziano Staino
18
A TOYS
ORCHESTRA
Le chiacchiere di mezzanotte dell’orchestra salernitana
Le cose fatte bene non si possono etichettare, tantomeno le si può assegnare un luogo. Ho sempre
creduto che le fantomatiche città musicali (Roma,
Firenze, Bologna, Milano) siano solo delle piazze
dove le cose hanno più spazio per farsi vedere.
Le cose belle, quelle preziose veramente nascono
ovunque, dove meno te lo aspetti. A toys orchestra
è la dimostrazione suonante che un gruppo di ragazzi della provincia di Salerno è capace, grazie
a un talento cristallino, di conquistare il mondo.
Questo nuovo album Midnight talks è la conferma
di una band in continua crescita.
Midnight talks è un disco che conferma la
vostra attitudine musicale fedele alla melodia ma allo stesso tempo libera e sorprendente. Il caleidoscopio di citazioni musicali a cui attingete è immenso ma convive
incredibilmente. C’è una traccia che segui
quando cominci a scrivere?
Beh, in effetti non seguo alcuna traccia definita o
un qualunque tipo di iter. Non mi è mai capitato
di pensare “adesso scrivo una canzone” o “in questo testo parlerò di questo” o tantomeno “oggi
faccio un pezzo alla Clash”.
Diciamo che il mio non è un approccio di scrittura “colto”, piuttosto lo definirei istintivo, anzi
impulsivo. È ovvio poi che quello che mi accade
intorno confluisca nella scrittura… ma non mi
limiterei a parlare di influenze provenienti dalla
sola musica… L’ispirazione può essere così vasta
che non può circoscriversi al solo ambito in cui
si agisce.
Come dire, i pittori non si ispiravano per forza
ad altri quadri. È normale però che dalla musica si denotino maggiormente le caratteristiche
delle contaminazioni dei “maestri” di questa categoria… ovviamente in quanto alunni abbiamo
appreso, apprendiamo ed apprenderemo sempre
la lezione… Ma ci sono tanti impulsi dalla vita
e dal mondo intorno a noi che è difficile affidarsi solo ad un tipo di influenze… per me sarebbe
troppo meccanico.
Questo disco arriva dopo 10 anni e una serie di esperienze. Pensavi di fare tanto partendo da Agropoli?
Ovviamente agli inizi non ci preoccupavamo
molto di quello che sarebbe successo poi… Certo, l’ambizione è stata sempre una costante dei
Toys, tutt’ora ne è la colonna portante. Venendo
poi da una piccola provincia del sud sentivamo
forte l’esigenza di crearci qualcosa… In realtà
non saprei dire quanto abbiamo scelto questo
tipo di vita o quanto esso abbia in un certo senso
scelto noi… ma quando si inizia questo percorso
uno dei motivi che ti spinge a farlo è il sognare...
E alle volte i sogni si costruiscono con le realtà…
Nonostante cantiate in inglese la vostra
musica ha un retrogusto italiano (nel disco
avete anche un brano che omaggia Celentano e non solo nel titolo). Che rapporto avete con la musica italiana d’annata? E con
quella di oggi?
Personalmente sono un grandissimo cultore
della tradizione italiana, davvero a tutto tondo.
Partendo dagli anni trenta di Rabagliati, passando per Modugno, fino alla felicissima parentesi che va dai sessanta agli ottanta e quindi da
Tenco, De Andrè, Mina, Battisti, Dalla, Gaetano, Celentano fino a Camerini, Rettore, i Decibel
e così via… Non trascurando poi l’aspetto dei
grandi compositori di cinema e teatro… ovviamente Morricone, Fiorenzo Carpi, Nino Rota,
Bruno Nicolai… o chessò nella tradizione teatrale napoletana, “la gatta cenerentola” ad esempio che ha delle musiche che adoro… La musica
italiana è quella che ascolto di più. A qualcuno
potrà sembrare paradossale ma è così. C’è una
tale ricchezza al solo interno del nostro piccolo
stivale che non basta una vita per esplorarla
tutta… Proprio qualche giorno fa ne parlavo in
furgone con Beatrice (Antolini)… dicevo appunto
che adesso avrei voluto dedicare la mia attenzione all’epoca prog italiana, a band come gli Area,
le Orme, gli Osanna… che avevano un approccio
MUSICA 19
20
libero alla composizione davvero affascinante
che oggi sembra essersi quasi del tutto estinto.
Mi intriga moltissimo approfondirlo. Della musica attuale non saprei… ci sono delle realtà importanti, quelle che alla fine non hanno bisogno
di grandi presentazioni... insomma potrei essere
molto banale… Almeno per quanto concerne la
musica italiana (cantata in italiano) pecco però
un po’ di “passatismo”… diciamo che a mio avviso dopo i novanta qualcosa si è rotto… con le dovute eccezioni certo, ma a mio umile parere dopo
gli ottanta qualcosa forse si è spezzato…
Siete un gruppo solido, nonostante tu scriva le canzoni e i testi, l’effetto musicale
sembra molto corale. Come lavorate?
Dici bene… È così perché siamo a tutti gli effetti una band. Tutti hanno un ruolo vitale per il
gruppo… il mio è quello di scrivere le canzoni…
Di solito funziona che io compongo a casa al piano o alla chitarra e poi le rielaboriamo insieme in
sala prove… Come dire, io sono il motore… ma
la macchina per muoversi ha bisogno inevitabilmente anche di ruote, sterzo, marce…
Midnight talks è un titolo molto suggestivo.
Cosa vuol dire per te?
La mezzanotte nel titolo è intesa come componente di incognita, mistero… Come quel lasso di
tempo sospeso tra l’oggi e il domani, quindi oniricamente tra passato e futuro. Nel booklet del cd
ho scritto una frase “cos’è la mezzanotte? È l’oggi
o il domani?” ecco questo è l’emblema del concetto. La mezzanotte come limbo temporale che
conferisce questa accezione indefinita ai “dialoghi di mezzanotte” che poi altro non sono che
dialoghi d’amore… quell’amore che però sfugge,
ferisce, frastorna, stordisce… non è certo l’amore
dei “tvtb” quello di Midnight Talks… ma è il tentativo di esplorare quel sentimento che è pregno
di gioia e di estasi ma che è al contempo gemello
dell’odio, del dolore… ma anche della passione
accecante, del desiderio carnale, o dell’istinto
infantile. E ancora dell’impulso mistico e spirituale… quel sentimento che tiene in ostaggio
l’umanità dall’alba dei tempi… quello stesso
sentimento che può essere chiamato con un infinità di appellativi diversi e che probabilmente
null’altro è che un sinonimo della vita stessa.
Nel disco ci sono una serie di ospiti che
rendono il tutto più prezioso. Ce ne parli?
I musicisti con cui abbiamo collaborato sono
delle persone fantastiche oltre che cari amici.
Enrico Gabrielli in veste di arrangiatore d’orchestre, Rodrigo d’Erasmo (Afterhours), Luciano
Macchia e Raffaele Kohler (Vinicio Capossela)
come esecutori strumentisti, e Asso Stefana (Vinicio Capossela) in qualità di arrangiatore di lap
steel e dobro… Tutte persone con cui abbiamo
condiviso l’entusiasmo nel godere insieme la gioia della creazione... Tutto nasce quando decisi di
coinvolgere Enrico Gabrielli nella stesura degli
arrangiamenti. Ci conoscevamo da tempo e le
doti di Enrico non sono un segreto per nessuno.
Avevo però bisogno del suo entusiasmo e del suo
coinvolgimento emotivo ancor prima delle sue
immense doti tecniche. Quando Enrico ascoltò i
provini il suo ardore fu talmente convincente al
punto da dar vita a questa collaborazione davvero in modo atipico. Infatti, nonostante l’impressionante mole di lavoro di arrangiamento da lui
scritto, già di per se indice della sua sensibilità
al progetto, non volli ascoltare nulla di quanto
stava facendo se non direttamente in studio a
registratore acceso… Niente… neanche una sola
prova, nè un provino audio… nulla… tutto affidato alla fiducia… all’alchimia empatica che ero
sicuro che fosse l’ingrediente fondamentale…
L’entusiasmo e l’empatia sono dunque stati la
chiave del successo di questa collaborazione..
Tutti hanno “sentito” questo disco sulla propria
pelle.
La vostra musica è romantica, ironica, nel
vostro mondo quanta realtà entra?
Tanta… tantissima… Poi sta noi decidere se e
come elaborarla.. Si può partire da un concetto
materiale per poi inerpicarsi nell’astrattismo più
puro… Per fortuna non ci sono regole nella musica… Ovviamente per me l’input parte dal mondo
che abbiamo intorno... È incredibile quello che
ogni giorno ci accade. Forse siamo solo troppo
abituati e un tantino alienati… ma se si prova a
soffermarsi con maggiore attenzione allora ci si
accorge che l’incredibile prende vita ogni secondo, minuto, ora, giorno… e la fantasia non è altro
che una delle appendici della realtà. Diceva Bukowski “l’umanità e il più grande spettacolo del
mondo, e non si paga neanche il biglietto”.
Avete molte date in programma, la dimensione live è fondamentale per gruppi come il
vostro. Come sarà il vostro nuovo spettacolo?
Abbiamo riportato le canzoni di questo disco alla
loro essenza più pura… Era difficile portare in giro
queste canzoni così come sono sul disco… ci sarebbe voluta un intera sezione d’orchestra... magari
più in là accadrà anche questo… Ma per adesso
abbiamo deciso di spogliarle dall’abito sgargiante e
sofisticato del disco per metterle a nudo… È un live
quindi dove il tasso emotivo è molto alto.
Osvaldo Piliego
MUSICA 21
AMOR FOU
La band milanese ci racconta i moralisti d’Italia
Realizzare un concept come I moralisti è una cosa
rara per la musica italiana. Il nuovo album degli
Amor fou è una visione poetica e spietata del nostro Paese, uno sguardo neorealista che emerge
attraverso dieci personaggi e dieci storie capaci
di raccontare trent’anni di storia. I moralisti è un
disco importante perché segna il passaggio all’età
adulta dell’indie italiano che si riconcilia con la nostra canzone d’autore. Oggi gli Amor fou sono Alessandro Raina, Leziero Rescigno, Giuliano Dottori e
Paolo Perego e il 27 luglio saranno a Lecce, ospiti
della rassegna Sud Est Indipendente.
22 MUSICA
Un album come uno sguardo sul nostro
tempo. Chi sono i moralisti di oggi?
Tutti e nessuno. I ‘nostri’ moralisti sono persone
che nella loro normalità risultano immediatamente scollati o semplicemente ‘altri’ rispetto a
gran parte della società che hanno attorno. Sono
persone che compiono delle scelte radicali perché
hanno il coraggio (o la sfrontatezza) di compierle
ed andare fino in fondo. Persone la cui etica di
pensiero o regola di vita costituisce di per sé una
forma di radicalismo, forse l’ultima rimasta in
piedi dopo il tramonto delle ideologie. Probabil-
mente nella società stessa ce ne sono molti di più
ma per qualche motivo evitano o non riescono ad
agire secondo determinati principi per un arco
della propria vita tale da poter determinare un
evento o un cambiamento, positivo o negativo
che sia.
Musicalmente il disco sembra sospeso tra
una tensione verso la canzone d’autore
anni ’70 e una propensione rock che aleggia
sul fondo. Come vi siete approcciati all’arrangiamento di questi brani?
Abbiamo cercato di sintetizzare le tantissime
suggestioni che i generi citati ci hanno trasmesso nel passato e nel presente, cercando quindi
di coniugare elementi tipicamente italiani con
formule di estrazione internazionale, per vedere
cosa accadeva. Non ci siamo posti il problema di
coniugare canzone d’autore e new wave piuttosto che il mood francese anni ‘70 e il pop inglese.
Pensiamo anzi sia uno degli elementi più stimolanti nel fare musica oggi.
Ogni canzone è una storia. Come hai scelto
i personaggi e le vite che animano I moralisti?
Sono le storie ad essersi imposte. In tre anni di
vita on the road si incontrano tane persone e
tante Italie che poi sono sempre la stessa grande provincia che prova a diventare grande senza
riuscirci mai fino in fondo. In questo abbiamo
cercato di fare nostro lo sguardo neorealista e
l’attitudine del Pasolini di Comizi d’Amore, ossia
di eclissarci come autori e far parlare le persone,
senza interpretarle più di tanto.
Di questi tempi un disco come il vostro suona come un’assunzione di responsabilità.
In un momento in cui la musica sembra
virare verso il disimpegno, voi chiedete attenzione. Cosa credi stia succedendo alla
musica oggi?
La musica è una grande forma di intrattenimento e da sempre esiste la musica ‘disimpegnata’,
spesso di grande qualità. Il problema si pone
quando artisti assolutamente disimpegnati vengono fatti passare per cantautori dalla critica
che dovrebbe contestualizzarli e al contempo
la musica perde appeal e si assiste al ritorno
in auge della figura dell’interprete come unico
esponente della cultura ‘pop’ di un paese.
Si crea un panorama in cui cover e brani originali stanno sullo stesso piano, gli autori scompaiono e il virtuosismo è l’unica forma espressiva.
Ognuno è libero di schierarsi dove può e come
può, noi cerchiamo di fare nostro un certo arti-
gianato e di restituire una piccola parte di dignità a una tradizione musicale altissima che ci ha
reso persone migliori.
Il passaggio a un major cambia un po’ i contorni di ciò che vi circonda. Come vivete
questa nuova avventura?
Con la certezza di dover essere autonomi e capaci di delineare il nostro futuro. Una major ha
potenzialità enormi e al contempo pone problematiche a volte superflue ma ineludibili, per cui
occorre sempre grande capacità di mediazione e
interazione. Per ora siamo soddisfatti ma al contempo pensiamo si possa e si debba sempre fare
di più.
Alcuni vi hanno apostrofato come gli antiBaustelle. Cosa ne pensi?
I Baustelle sono già loro stessi gli anti-Baustelle!
Scherzi a parte stimiamo moltissimo la penna di
Francesco Bianconi che rispetto a me credo scriva canzoni molto più ciniche e al contempo molto
più easy. Tuttava il taglio sonoro, la produzione
e il modo di interpretare la musica scelto dalle
due band è radicalmente diverso, al di là dei gusti, e mi pare abbastanza immediato da capire
ascoltando il nostro sound o vedendo come affrontiamo il live, evitando valanghe di turnisti,
post-produzioni, voci in base (…) e cercando di
risultare ancora piu’ viscerali e ‘free’ rispetto al
disco. In questo guardiamo molto di più a progetti esteri che non ai Baustelle che nel bene e nel
male rappresentano bene la scena italiana da cui
sono, peraltro meritatamente, emersi.
La vostra passione per il cinema è nota a
chi vi ascolta e a chi vi ha visto suonare. I
moralisti si può definire un disco neorealista?
Assolutamente si. Insieme la cinema inchiesta
di Rosi e Petri quello del neorealismo resta uno
sguardo attualissimo ed esemplare nei confronti
della realtà umana che ci circonda.
Amor fou è una creatura cangiante. Chi
sono oggi gli Amor fou?
Sono diventati finalmente una band che suona
e condivide degli spazi, con una struttura che
li dispensa da una immane mole di lavoro non
strettamente artistico e un fonico con cui mettere a punto tutti gli aspetti del live che rispetto al
disco si basa su variabili molto meno controllabili e richiede una enorme applicazione per offrire
ogni sera al pubblico lo spettacolo che merita.
Antonietta Rosato
MUSICA 23
FONOKIT
La nuova avventura del gruppo rock salentino
Tutti ricordano i Blundinvidia, una band che in
tempi non sospetti ha portato il Salento rock in
giro per l’Italia, che prima di tutti, forse, è sbarcata su Mtv, e che insieme a pochi altri è sopravvissuta agli ’90.
Oggi la creatura rinasce, risponde al nome Fonokit, assesta un po’ la formazione e rigenera il
suo sound proiettandolo in una direzione nuova
capace di conciliare il rock e l’elettronica. Il risultato è Amore e purgatorio, un disco maturo,
una prova di grande stile senza mai perdere la
rabbia.
Fonokit è la reincarnazione di un progetto che per anni ha dettato un suono che
ha influenzato molto rock salentino e non
solo. Questo cambiamento vuole segnare
24 MUSICA
una nuova stagione dei Bludinvidia o è una
nuova storia ?
Direi che per noi è una nuova storia sotto molti
punti di vista. È chiaro che un gruppo di musicisti che ha lavorato insieme e fatto cose per più
di 10 anni ha difficoltà a nascondersi dietro un
semplice nome. Poi non mi è mai piaciuto il concetto di nome di gruppo, mi ha dato sempre la
sensazione di roba adolescenziale, anche quando
io stesso ero adolescente, ma d’altronde non ci
potremmo chiamare i “Marco Ancona, Paolo Provenzano e Ruggero Gallo”. In genere il metodo
che ho trovato per riuscire a sopportare il nome
di gruppo, è pensare che sia solo una denominazione di un progetto musicale. Ed è esattamente
ciò che è Fonokit.
Il disco ha un suono nuovo, un felice incontro tra rock ruvido dall’attitudine punk
wave e un’elettronica mai troppo invasiva
che contribuisce a rendere la struttura robusta e accattivante. Come siete arrivati a
questa formula?
Grazie al fatto di aver raggiunto il traguardo di mettere su un nostro studio personale, per la prima volta abbiamo deciso di
cimentarci nella produzione completa di
un disco sia a livello artistico che tecnico.
Ci siamo potuti prendere tutto il tempo di cui
abbiamo avuto bisogno per sperimentare soluzioni sonore, senza nessun discografico che ci
correva dietro per spendere il meno possibile. Il
risultato viene da tentativi di produzione mirati a un qualcosa di nuovo che avevamo in testa,
a una sonorità che era esattamente come l’hai
descritta. In particolare non volevo che le mie
chitarre suonassero come le solite chitarre che
potevo aspettarmi da me stesso, come allo stesso
tempo ci piaceva l’idea di ottenere delle batterie
acustiche che suonassero con un feel quasi da
drum-machine.
Le canzoni sono storie, l’uomo che si muove
in un mondo che non capisce o non vuole
accettare, ma anche un uomo e i suoi rapporti interpersonali. Cosa volevi raccontare con queste canzoni?
In generale direi il mio essere disadattato a gran
parte delle cose che circondano un po’ tutti.
Visto però come girano le cose e da quello che
si vede in tv ecc.., pare appunto che gran parte
delle persone è ben adattata al merdaio in cui
viviamo e ne è anche felice. Io no e vivo volentieri
una mia realtà parallela nel bene e nel male.
Il disco ha un buon potenziale radiofonico
senza essere un disco commerciale. Si può
ancora fare della buona musica e sposare
il mercato?
Non lo so, ci sono dinamiche molto particolari
intorno alle programmazioni radiofoniche dei
grandi network, soprattutto poi quando si parla di fasce orarie particolari che sono quelle che
fanno il grosso mercato. Tra queste dinamiche
diciamo che il fattore “qualità della musica” non
è mai al primo posto, ma la speranza che un giorno potrebbe esserlo resta sempre.
Ci sono una serie di rimandi al buon rock
classico, quali artisti e quali dischi ti hanno
influenzato nella scrittura di questo album?
Analizzandolo ora a freddo, credo che esca fuori
tutto il nostro gusto per le sonorità punk-wave di
fine anni ’70 ma anche codici musicali appartenenti alla scena indie dei ’90.
Non mi viene in mente qualche artista o qualche
disco in particolare però. La lavorazione di Amore o Purgatorio è stata molto lunga e complessa e, per tutti i due anni che ci sono voluti per
completarla, ogni giorno che uscivo dallo studio
facevo qualsiasi cosa fuorchè ascoltare musica..
Perché Amore o purgatorio?
L’album affronta problematiche, paure, decisioni
e indecisioni che normalmente si vivono nel passaggio dall’essere giovani all’età adulta soprattutto in questo periodo storico e nel contesto che
stiamo vivendo. Il titolo potrebbe indicare il dubbio che affiora quando arriva quel momento in
cui non sai più se le passioni e i valori, nei quali
hai sempre creduto, siano qualcosa che tutto ciò
che hai intorno inficia, a tal punto da pensare
che gli stessi siano peccati dai quali redimersi.
Nella musica non si parla di maturità ma
di crescita continua. Questo album arriva
in una stagione creativa particolarmente
buona, cosa ne pensi?
Beh, era un po’ di tempo che nella scena indie
italiana non c’erano contemporaneamente tante proposte così diverse tra loro e mediamente
di buona qualità. Mi fa particolarmente piacere
perché non siamo immersi in un grande periodo
a livello sociale, politico ed economico che possa
tendere ad incoraggiare la creatività.
Questo numero di Coolclub.it è dedicato al
sacro e al profano in musica. Credi in un
senso spirituale della musica, nelle conversioni di alcuni artisti, vedi la musica come
qualcosa di mistico in sé, come un rito pagano, o cosa?
Vedo la musica come qualcosa di “mistico” nel
senso che secondo me ha una vita superiore alla
nostra dimensione: non sai per quale motivo è
capace a volte di darti delle sensazioni così estreme e forti, non sai neanche da dove viene e dove
va a finire. Di conseguenza la si potrebbe contemplare come si contempla la natura o il sentimento dell’amore o cose così.
Detto questo però, secondo me non c’entra niente
con la religione. Non credo che Dylan abbia scritto di meglio o di peggio da quando si convertii...
ed è andata bene. Little Richard smise di fare
rock’n’roll perché ritenuta la musica del diavolo.
E musica del Diavolo sia !
Osvaldo Piliego
MUSICA 25
UNKLE
Where did the night fall
Surrender All
Disco dopo disco, il progetto
inglese attivo dal 1994 e guidato da James Lavelle è riuscito
a conquistare il rispetto della
critica e l’attenzione di un pubblico eterogeneo congiungendo
due sponde apparentemente
lontane: elettronica e rock. Merito di un Dj-produttore tra i
migliori sulla piazza, autentico
genio che in studio di registrazione si muove come un regista
cinematografico (un Kubrick,
un Hitchcock, per intenderci)
in grado di plasmare le doti
dei collaboratori scelti (DJ
Shadow, Thom Yorke, Richard
Ashcroft, Ian Brown sui primi
lavori) alle direzioni musicali
degli Unkle. Con Where did the
night fall siamo al quinto capitolo, opera anticipata un anno
fa dal brano Heavy drug e oggi
da Follow me down, frutto della collaborazione con i californiani Sleepy Sun e, sul piano
visivo, con gli artisti Warren
Du Preez e Nick Thornton Jones, alla regia di un sensuale
videoclip interpretato dalla top
model Liberty Ross. La lista
degli ospiti chiamati a prestare servizio in studio di registrazione include anche Mark
Lanegan (al microfono nella
nerissima Another night out),
Joel Cadbury dei South (Ever
rest), Katrina Ford dei Celebration (Caged bird), Gavin Clark
(Falling stars; The healing) e i
texani Black Angels (Natural
selection). Si avvertono ancora
I riverberi delle scosse psych
26 MUSICA
prodotte da Josh Homme nel
2007 in War Stories, album che
ebbe anche l’enorme merito di
resuscitare la voce di un imbolsito Ian Astbury nei cinque
emozionanti minuti di Burn my
shadow. Psichedelia, dunque
(con virate verso lo space-rock),
ma anche punk-wave (On a
Wire, featuring ELLE. J), soul
di matrice rigorosamente black
per una rilettura dei generi
(dance inclusa) fatta con equilibrio, classe e idee da vendere.
Chitarre, tastiere, ritmica in
primo piano, voci che raccontano storie legate a tutte le possibili facce della notte. Un disco
da avere nella doppia, lussuosa edizione con booklet di 30
pagine illustrato da Du Preez,
Thornton Jones e Ben Drury e
versioni strumentali della tracklist principale.
Nino G. D’Attis
SORRY-OK-YES
Rubberized
Halidon/ Bloom
Soprannominati “i The Kinks
aggiornati al 21 secolo”, i Sorry-Ok-Yes si presentano come
il classico duo alternative-rock
in formazione tipica chitarra e
batteria che tanto sta imperversando nei postriboli della
scena indie italiana.
Dopo l’ottima prova ostentata
con l’ep, Doing more with less
(del 2008), Materazzi (voce e
chitarra) e Ferrari (batteria) si
concedono l’onore e l’onere di
esordire sulla lunga distanza
pubblicando l’album Rubberized, grazie anche al supporto
artistico garantitoli dalla presenza di Mac chitarrista dei
Negrita.
Come consuetudine accertata,
il fraseggio chitarra-batteria
funzione in modo eccellente, e
i Sorry-Ok-Yes dimostrano la
loro affinità a questa predisposizione strumentale erogando
canzoni di forte impatto, una
decina di “schegge” rock’n’roll
contaminate di richiami garage-pop/ new wave (Sixteens e
No reason (to be true), influenze alternative (Stick and home)
e forti impulsi blues al giusto
grado di acidità (What is your
name e O’blues), il tutto rigorosamente cantato in inglese.
Rubberized risulta coinvolgente, energico, ricco di estro e ben
curato, denotando la dinamicità di alcuni brani come Sixteens, Prime time idiocy, Love is
fear e Keep on goin’home.
Alfonso Fanizza
THE BLACK KEYS
Brothers
Nonesuch Records
Dimenticate il graffiante garage-blues degli esordi, qui non
ne troverete traccia, o forse
lo coglierete a tratti, stemperato da ondate di primitivo
rock’n’roll, tracce quasi ‘70s
brit-glam, numeri soul, interferenze funk e vaghi sentori folk.
Una mescolanza di sonorità
profonde e decelerate, che per
poco meno di un’ora vi accompagnerà attraverso qualche
sperduta autostrada nel torrido ma afoso sud degli States,
fra paludi, zanzare e un’umidità prossima al 100%. Dan
Auerbach e Patrick Carney,
nella penombra della loro cantina, si ostinano ad ingrassare
il blues elettrico dei Cream con
la sessualità del voodoobilly dei
Cramps, con il gusto avariato
di Jon Spencer, con quello ruffiano dei White Stripes. “Brothers” ci racconta, insomma,
di una ormai avvenuta trasfor-
mazione da impavidi banditori
garage-rock-blues degli anni
recenti a smaliziati interpreti
della nuova onda indie americana. Comunque vividi, passionali e grandi Black Keys!
Rino De Cesare
ROY PACI & ARETUSKA
Latinista
Etnagigante/Universal
JOHN GRANT
Queen Of Denmark
Bella Union
John Grant, americano 35enne,
forse inconsapevolmente portabandiera di un non becero revivalismo tipicamente 70’s, ci propone un brillantissimo esordio.
Per realizzarlo si è avvalso della
preziosa collaborazione dei compagni d’etichetta Midlake che
hanno partecipato generosamente alla registrazione e all’arrangiamento dei suoi pezzi. Il dato
è significativo poiché “Queen of
Denmark” è stato registrato proprio nello stesso periodo in cui vedeva la luce l’ultimo e bellissimo
“The Courage of Others” proprio
degli stessi Midlake. Non solo, la
leggenda vuole che le registrazioni dell’ultimo album della band
texana abbiano subito notevoli
ritardi proprio a causa dell’entusiasmo che questa stava mettendo nel partecipare al lavoro di
John Grant. Che ne sia valsa la
pena poi, appare evidente sin dal
primo ascolto: il risultato è superlativo! Uno dei maggiori pregi di
“Queen Of Denmark” sta, tuttavia, proprio nella capacità manifestata da Grant di saper creare,
con magico equilibrio, un intero
album senza cadere nel solito
clichè di un repertorio basato su
languide ballate strappalacrime.
Fortunatamente, l’artista ameri-
Una lunga lista di collaborazioni alle spalle e una serie infinita di progetti fanno del trombettista siciliano Roy Paci
uno dei musicisti italiani più prolifici, apprezzato e richiesto in tutta Europa e non solo. Da Manu Chao a Mike Patton, dagli Africa Unite ai Lou Dalfin, da Vinicio Capossela
a Amy Denio, da Trilok Gurtu ai Subsonica, in pochi sono
sfuggiti al fascino dell’energia di Roy. Da dodici anni a questa parte poi porta in giro il suo progetto Aretuska. Dopo
tre anni di silenzio discografico, compensato da una attività
live interminabile, la band torna con Latinista. Un disco che
parla di sud, di Sicilia, di Brasile (dove il disco è stato pensato e preprodotto), di Salento (dove Roy si è trasferito e ha
registrato il disco nella sua casa/studio), di Africa, di Messico, di Caraibi. Dagli esordi esclusivamente ska e rock steady
è passato molto tempo. Roy Paci sembra quasi cercare (e in
parte trovare) una nuova idea di cantautorato in bilico tra
ritmi in levare e testi impegnati, canzoni d’amore e fanfare, funk e riflessione. Compagni di strada di questa nuova avventura sono Jovanotti, autore e interprete del primo
singolo Bonjour Bahia, Caparezza, che propone una sorta
di triangolo in NoStress, e Eugene Hutz, carismatico leader
dei Gogol Bordello, nella commistione linguistica de Il Segreto. Sicuramente anche quest’anno Roy Paci & Aretuska
saranno tra gli ospiti più richiesti di festival e piazze (pila).
cano rifugge dai consunti tratti
caratteristici del genere e riesce
a realizzare un lavoro onesto ed
intenso.
Rino De Cesare
VEX’D
Cloud Seed
Planet Mu
Registrato tre anni fa, questo
incompiuto secondo album dei
Vex’d ci riporta alle atmosfere
noir-apocalittiche che hanno
contribuito a consacrare il duo
britannico come una delle più
importanti realtà dell’universo
dubstep. Basi dub industriali e
malate che incontrano l’infuocata voce roots di Warrior Queen (Take Time Out) e il suadente cantato trip-hop di Anneka
(Heart Space). Devastanti linee
di basso che si uniscono a devianze post-industriali (Out Of
The Hills). Improvvise luminescenze sinfoniche che si intrecciano con rigurgiti tribali e minimal-tech. Un impressionante
lavoro, oscuro ed ipnotico, che
apre uno squarcio sui paesaggi
urbani del futuro.
Tobia D’Onofrio
MUSICA 27
VIRGINIANA MILLER
Il Primo Lunedì Del
Mondo
Zahr Records
Ci sono voluti quattro anni per
dare un seguito al piacevole,
seppur carente, “Fuochi fatui
d’artificio”. Difficile eguagliare
un disco come “La verità sul
tennis”, autentica opera-manifesto, tanto eccezionale quanto
sottovalutata, per i Virginiana
Miller ma con “Il primo lunedì
del mondo” i livornesi ci sono
quasi riusciti. In questo disco,
opera pregevole ed elegante
in ogni più piccolo dettaglio,
ci sono tutti quegli elementi
che hanno reso i VM una delle band più significative della
moderna musica italiana. C’è
un suono ormai divenuto classico e c’è una voce espressiva. Ciò che rimane costante è
un’attenzione rivolta a piccole
storie private. Qui sta forse la
maggiore differenza rispetto al
disco precedente. Perché è vero
che nella loro musica c’è la classica canzone italiana, però c’è
anche un gusto musicale unico, c’è l’ironia di Simone Lenzi.
Prestate orecchio, tanto per
fare un esempio, a “La carezza
del Papa”. Poi c’è la familiare
e sempre bella miscela di alta
e bassa cultura, dalle citazioni
di Sartre ne “L’inferno sono gli
altri”, all’elenco in inglese di
“Frequent flyer”. Insomma, un
altro bel colpo e un altro bel
centro. Speriamo almeno che
questa volta qualcuno, oltre ai
soliti noti, si accorga finalmente di loro!
Rino De Cesare
28 MUSICA
SIKITIKIS
Dalla Sardegna con ironia
Partiamo da un contrasto. Nella vostra musica
emerge una passione
neanche celata per le atmosfere vintage ma allo
stesso tempo rinunciate
per scelta allo strumento
classico del rock (la chitarra). Ci spieghi questa
scelta per lo meno particolare?
La verità è che non si tratta
di una vera e propria scelta.
Quando abbiamo formato il
gruppo abbiamo iniziato a
provare con questa formazione in attesa di trovare un
THE SOFT PACK
The Soft Pack
Heavenly/Cooperative
Music
Si chiamavano all’inizio ‘The
Muslims’ (era il 2007) ma dopo
attacchi e commenti razzisti decisero di cambiare nome in ‘The
Soft Pack’. Per il resto c’è poco da
dire a parte che vengono da San
Diego, California, e hanno tirato
fuori questo esordio omonimo,
divertente ed energico. E infatti
quello che importa è proprio il
disco, che sorprende in quanto a
varietà di stili. Ci ritrovi gli Strokes e tutto quell’indie del duemila (che ormai ha stancato chiun-
chitarrista. Col tempo, mentre il suono prendeva forma
con questa line-up, ci siamo
semplicemente dimenticati
di continuare a cercarla.
Ora l’assenza della chitarra
(pur nella ricerca dell’ingrediente vintage) è un limite
che ci stimola disco dopo
disco a trovare nuove strade per rinnovare il nostro
suono.
Una domanda da terrone a isolano. Venite da
Cagliari, terra misconosciuta dal punto di vista
que) ma soprattutto c’è una
certa attitudine lo-fi mischiata
a rock e blues che rimandano a
Velvet Underground e soci dei
tardi sixties. Pezzi come ‘C’mon’
e ‘Answer to yourself’ sono tutti
da ballare mentre ‘Mexico’ sorprende con un’andatura da ballatona da spiaggia. La strategia
è quella di mischiare l’indie-chevende a generi diversi. Lo fecero
i Vampire Weekend rifacendosi
all’afrobeat. Ma è rischioso perché ti va bene oggi ma domani
non si sa. Tre anni fa c’erano
i Vampire Weekend e ci sono
ancora. Oggi ci sono i The Soft
Pack, vedremo tra tre anni.
Marco Chiffi
musicale. Oltre ai Tazenda e Marco Carta, com’è la
Sardegna dal punto di vista
musicale?
Lo stato di salute della musica indipendente in Sardegna
è ottimo. La “scena” è ampia e
straordinariamente produttiva. Il pubblico frequenta i live
in un numero soddisfacente
anche per i progetti più di nicchia. Il mercato musicale sardo
è decisamente più vivo di quello italiano se i numeri vengono
analizzati attraverso le dovute
proporzioni.
Proprio per questi motivi il futuro del nostro suono è, in questo momento, indeterminabile.
La tendenza interna alla band
suggerirebbe una strada alla
ricerca di un groove sempre più
potente e di una scrittura musicale e letteraria sempre più
asciutta. Ma è troppo presto
per dirlo.
Rispetto agli esordi la vostra attitudine musicale è
più pop, avete messo a fuoco una visione della musica
definita e personale… dove
credi sia arrivato il vostro
sound e dove credi andrà in
futuro?
Il bello di aver fatto un disco
come dischi fuori moda, è che
ci siamo liberati definitivamente di quella tensione creativa
che ha caratterizzato le fasi di
gestazione dei primi due lavori.
Dischi Fuori Moda è, infatti,
soprattutto un disco libero tanto da sovrastrutture quanto da
auto-censure.
L’ironia è da sempre una
della vostre caratteristiche.
Non è comunque sempre
leggera come nel caso di
“Salvateci dagli italiani”. Ci
parli di questa canzone?
Salvateci dagli italiani è un
gioco che ci ha divertito molto fare. Tutto è partito da una
scritta su un muro di Cagliari
che recita: “Extracomunitari,
salvateci dagli Italiani”.
Noi sappiamo bene che quella
scritta, sul muro della nostra
città, ha un legame con le più
moderne tendenze indipendentiste che stanno prendendo forma sull’Isola.
Noi ne abbiamo colto la profonda ironia anche in chiave
polemica nei confronti delle
posizioni del governo italiano
sull’argomento immigrazione.
L’elenco di luoghi comuni che
TYING TIFFANY
Peoples Temple
Trisol
LALI PUNA
Our Inventions
Morr Music
Esce per la tedesca Trisol, il
terzo album di Tying Tiffany,
reginetta dell’electroclash che si
è già fregiata di collaborazioni
con i padri del genere, come Pete
Namlok e Nic Endo degli Atari
Teenage Riot. Riducendo la presenza dell’urlo monocorde e della
frenetica battuta hard-core, qui
si allargano gli orizzonti esplorando le atmosfere dell’electro,
del synth-pop e della dance più
cupa degli anni ’80. Un disco piacevole e ben fatto che riempirà le
piste dei locali notturni.
Tobia D’Onofrio
Sono tornati, e pare essere tornata anche la Morr, anche se
per poche produzioni. A cinque
anni da Faking the Books ritornano i maestri dell’indietronica
pop tedesca. Sono ritornati for-
compare nel brano viene cantato citando la melodia di “Come
Together” dei Beatles. Questa
citazione crea un legame ipertestuale con le parole. In pratica è come se, per tutto il brano,
invitassimo gli extracomunitari ad unirsi “tutti insieme”
(appunto) per fare ciò che gli
italiani non hanno più voglia di
fare: lottare.
Ci parli del vostro progetto
parallelo Brain dept?
Il Dipartimento Cervello è un
vero e proprio laboratorio di
sperimentazione dei Sikitikis. È il contenitore nel quale
elaboriamo tutta una serie di
progetti per la sonorizzazione
di cinema, teatro, libri e reading letterari, musei e monumenti, performance di danza
e quant’altro possa legarsi o
necessitare di musica.
Questo progetto oltre ad essere estremamente divertente, ci
permette di aprire il gruppo a
infinite collaborazioni, a lavorare su composizioni musicali
meno strutturate ed a cercare
soluzioni che possono successivamente essere applicate
anche agli arrangiamenti delle
canzoni.
se anche per ricordarci le origini di questa etichetta tedesca
che ultimamente ha intrapreso
una strada un po’ più lontana
dai suoi suoni elettronici caratterizzanti. Our Inventions
dei Lali Puna ci ricordano chi
è la Morr e da dove viene. Va
bene, il disco non è quel disco
che ti aspetti dopo cinque anni
di silenzio, magari qualcuno si
aspettava il disco indelebile.
Non è cosi, ma in realtà questo
non è importante, sono sempre
loro, i Lali Puna. Sono quella
commistione perfetta di elettronica e pop, sono quell’unione
di glitch con una voce suadente che ricopre le dieci tracce
MUSICA 29
dell’album. Sono quei quattro musicisti che anche nella
semplicità di un beat ripetuto
dall’inizio alla fine riesco a trovare una bellezza disarmante. Un buon disco nella prima
metà, a scemare negli ultimi
pezzi. Ma, ripeto, sono pur
sempre i Lali Puna, li stavamo
aspettando da cinque anni.
Federico Baglivi
JONSI
Go
Parlophone
Immediatamente riconoscibile,
la voce di Jonsi dei Sigur Ros
ci conduce in un nuovo emozionante viaggio sonoro. Le affinità con il gruppo madre riguardano alcune scelte melodiche e
cromatiche, ma nel complesso
l’album brilla di un’esuberanza ritmica sconosciuta ai
rarefatti paesaggi dipinti dal
gruppo islandese. La frenesia
percussiva, infatti, è uno degli
elementi che caratterizzano
maggiormente questo emozionante lavoro; una vigorosa vitalità sprigiona dalle ritmiche
di Samuli Kosminen. I complessi e originali arrangiamenti sono del “giovane maestro”
Nico Muhly (già collaboratore
di Philip Glass) e le contagiose
melodie pop, sognanti e solari,
prevalgono sui momenti più
riflessivi, riconducibili all’estetica Sigur Ros. Una fuga dagli
schemi, dunque, o un tentativo di andare oltre le sonorità
sperimentate in precedenza.
In tempi in cui ci si concede
raramente il lusso della speri30 MUSICA
mentazione, Jonsi ci regala uno
splendido album, la colonna sonora perfetta per un’estate calda e gioiosa.
Tobia D’Onofrio
SO SO MODERN
Crude Futures
Transgressive
L’esordio della band neozelandese parte con un tripudio di
taglienti chitarre post-punk. Il
crescendo lievita dolcemente
fino al climax squarciato dalle rasoiate synthetiche. Poi si
passa a costruzioni math-rock
che sembrano filtrare insieme
i Fugazi e Perry Farrel. Occasionali aperture corali (Island
Hopping) e infine un disco-punk
che mette insieme anni 80 e
neo-psichedelia (Dusk & Children). Fresco, travolgente, privo
di cadute di tono, quest’album
ci presenta una band da tenere
assolutamente sott’occhio.
Tobia D’Onofrio
ANAÌS MITCHELL
Hadestown
Righteous Babe
Nato come produzione teatrale ispirata al mito di Orfeo ed
Euridice, questo Hadestown
è la consacrazione di Anaìs
Mitchell, giovane e talentuosa
cantautrice del Vermont: una
fantastica opera folk-blues
costruita con l’aiuto di Justin
Vernon aka Bon Iver, Ani
Di Franco (amica e titolare
dell’etichetta), Greg Brown e
Ben Knox Miller. L’opera si articola fra molteplici suggestioni. Inontra l’immaginario co-
rale di Tom Waits (Way Down
Hadestown) e le ballate diabolicamente romantiche alla Nick
Cave (Little Songbird, Why We
Build..), pillole di chamber music e momenti d’illuminante
estasi (Gone, I’m Gone), scanzonati vaudeville (When The
Chips Are Down), vocine maligne alternate a cori angelici
West-Coast (Wait For Me), jazz
ubriachi (Our Lady) e momenti
più funambolici e sperimentali
(Papers). Splendidi i dialoghi
tra le voci in Epic (Part II). Una
vera boccata d’aria fresca!
Tobia D’Onofrio
COCOROSIE
Grey Oceans
Sub Pop
Le Cocorosie sono due sorelle
di Brooklyn che hanno saputo
creare un originale ibrido di
folk psichedelico, hip-hop ed
elettronica lo-fi. Le parti vocali
alternano recitazione sommessa, rap, opera, isterici falsetto,
litanie infantili e graffianti a
metà tra Joanna Newsom e
Bjork (Grey Oceans). Eclettiche ed imprevedibili, le Cocorosie destrutturano i generi
componendo dei collages postmoderni che sanno regalare
emozioni e trascinanti spunti
melodici. Smokey Taboo si perde in una bolla orientaleggiante, fra tablas e irraggiungibili
gorgheggi. Hopscotch unisce
una percussività frenetica ed
atmosferica (stile Matmos)
con un giocattoloso vaudeville.
Stralci di antiche melodie, misti a frammenti hip-hop e campionamenti esotici (The Moon
Asked…) si alternano a ballate
più regolari, fra incursioni negli anni 50 (Lemonade) e tessiture per arpa, voce, carillon
e miagolii (Gallows). Un disco
con un po’ di maniera, se confrontato con l’urgenza espressiva dei precedenti.
Tobia D’Onofrio
AUTECHRE
Oversteps
Warp
mente croccanti, fra momenti
anthemici e aggressivi, cavalcate sopra le righe e parti più
scanzonate. Manca un po’ il
desiderio di sperimentare nonostante le doti tecniche. Who
Fell Asleep incrocia Pavement
e Deus discostandosi dalla
formula power-pop. Plan A ha
un incipit incendiario, come
fossero le L7 o le Red Aunts. I
Warned You sembra rubata dal
catalogo Wolf Parade. Magari
il prossimo lavoro sarà un po’
più personale.
Tobia D’Onofrio
THE CHILD OF A
CREEK
Find A Shelter Along
The Path
Seahorse Recordings
Alfieri della cosiddetta IDM
(Intelligent Dance Music), gli
Autechre sono passati dalle landscapes techno-trance all’estrema scomposizione ritmica delle
loro elucubrazioni digitali. Il
nuovo album lambisce paesaggi
ambient occasionalmente scossi
da pulsazioni e morbidi glitch.
Known(1) taglia a fette le suggestioni d’Oriente e le comprime
in una sorta di enfatico carillon
al silicio. Di rado l’andamento
delle tracce segue un battito
regolare (Treale) e le melodie
si accostano l’un l’altra come in
un collage di acquerelli astratti.
Piccoli tocchi di magia che stregano con i ripetuti ascolti.
Tobia D’Onofrio
LOS CAMPESINOS
Romance Is Boring
Arts&Crafts
Terzo album per i gallesi Los
Campesinos che alternano
l’alt-rock anni 90 con la nuova onda canadese di Broken
Social Scene e Wolf Parade
(canadese è anche l’etichetta
Arts&Crafts). Il deciso piglio
punk rende i brani particolar-
Terzo lavoro per il multistrumentista livornese Lorenzo
Bracaloni, denso di atmosfere
elettro-acustiche, magiche e
psichedeliche. Il primo brano ricorda la malinconia di Alexander Tucker e non è un caso se il
nostro ha condiviso il palco con
Laura Gibson, Larkin Grimm,
Josè Gonzales e Nedelle Torrisi. Un viaggio in atmosfere folk
arcane ed inquietanti, con tanto
di flauto, balalaika e synth ed
un’ammaliante voce che spazia
dal tono baritonale a quello apocalittico, fino al flebile sussurro.
Resta forse da ampliare la tavolozza dei colori, ma Brancaloni
si conferma un sicuro talento
“da esportazione”.
Tobia D’Onofrio
MIDLAKE
The Courage Of Others
Bella Union
Americana, folk-rock, west
coast, psichedelia. Questi i territori in cui si muiove questo
folgorante album targato Bella
Union. Un umore più dark rispetto ai Fleet Foxes, al servizio di ballate magnetiche che
ridefiniscono lo spirito della
psichedelia folk anni 70, in particolare quella inglese di Fairport Convention e compagni,
anche se in molti hanno fatto
accostamenti con le canzoni dei
Radiohead. Un gran bel disco,
il cui unico neo sembra essere
l’eccessiva compostezza.
Tobia D’Onofrio
SUD SOUND SYSTEM
Ultimamente
Universal
Non è certo un caso che ad
aprire Ultimamente, l’ottavo
album in studio dei Sud Sound
System, sia il brano Segnu te
riconoscimentu, e che l’attacco
ricordi un po’ gli esordi e i tempi delle dance hall “rurali” della crew salentina. Sedici tracce,
stilisticamente molto al passo
con i tempi delle nuove tendenze giamaicane, che racchiudono l’essenza dei Sud Sound System, che è poi anche il loro segno di riconoscimento: reggae,
nelle più svariate declinazioni,
dialetto salentino e tanta voglia di dire, e di cantarle. Così,
come sul muro in copertina, le
tre soleggiate “esse” sono chiaramente impresse nelle tracce
del cd che, rispetto al precedenMUSICA 31
te Dammene ancora, ha una
ossatura marcatamente “dance
hall style” ed è caratterizzato
da un uso frequentissimo del
vocoder. E se qualche brano
ammicca al più danzereccio ed
estivo reggaeton non mancano
certo le rime e le raffiche raggamuffin di Don Rico e Terron
Fabio, come la morbida anima soul di Nandu Popu. Una
crociera alla quale partecipa
anche un grande del reggae,
Luciano, altra voce giamaicana
ospite del disco, insieme a quelle di Ms. Triniti, dei Tok e dei
Voicemail
Dario Quarta
GONJASUFI
A Sufi And A Killer
Warp
L’anima carezzevole del soul ridotta a brandelli dal paesaggio
urbano. Il trip hop trascinato tra
i fumi delle baraccopoli. Coretti
da girl-group anni 60 e canti religiosi indiani (Sheep). Obliqui cabaret stradaioli alla Tom Waits
(She Gone) e rocamboleschi
post-punk con cantato soul e inflessioni hip-hop. Un’attitudine
lo-fi che sembra frullare stazioni
radio in uno scontro di frequenze e partorisce un ibrido sonico
post-moderno (Stardust) che non
a caso è piaciuto tanto in casa
Warp. Il trip-hop di Change che
prepara alla successiva Duet,
reminiscente (insieme a Made)
delle psicosi di Tricky. Non mancano gli episodi legati al folk più
“tradizionale”, con filastrocche e
cori, ritmiche ballabili e assoli di
sitar (Klowds). Mai come in questo caso, contemporaneità e tradizione hanno saputo sposarsi
per dar vita a soluzioni musicali
nuove ed emozionanti. DeadnD
è un po’ una summa dell’arte
Gonjasufi. Base urban, recitazione visionaria, campionamenti
vintage e melodie orientali. Imperdibile.
Tobia D’Onofrio
32 MUSICA
61:16
Viviamo in Tempi
Moderni… dopotutto!
.Laab Records
Quest’album registrato tra Antwerp e Molfetta presenta una
curatissima veste grafica con
foto surreali corredate di didascalie. Il battito primordiale è
quello della dance intelligente
vestita di nero, come nell’apertura glitch che si gonfia tra
gli abrasivi campionamenti di
voci. Poi si mischia l’elettronica
con gli strumenti tradizionali
che infondono la fisicità tipica
del rock ricordando una versione strumentale degli ultimi Radiohead (Notizie Top Secret…).
Kapysciola campiona voci esotiche e tablas su una base dance anni ’90. The Old Turtle e Il
Falso Incidente svelano invece
l’anima psych-rock dell’album
con una murder song strumentale e un tappeto di visionario
folk acustico che recita un testo in italiano. Folgorante la
cupezza di The Ordinary Man
bilanciata dalla melodia vocale
sixties in stile Stone Roses. E
nel finale una chiusura galoppante che ricorda le ultime produzioni di Apparat. Davvero
un’ottimo lavoro.
Tobia D’Onofrio
MAGIC ARM
Make Lists Do
Something
Swalf
Il piacevolissimo album di questa one-man-band di base a
Manchester ama il piglio deciso
dell’indie-rock e le accattivanti
melodie pop di Beatles e Pink
Floyd. Si solleticano Beck-iane
memorie e appaiono miracolosamente gli acquerelli della
prima Beta Band, in questo
viaggio fatto di folktronica, psichedelia pop e lo-fi. Irresistibile
l’apertura Widths and Heights,
che mette subito in chiaro la
maestria nell’intrecciare voci,
strumenti ed elettronica. Già
in tour con Camera Obscura,
Beirut e Iron & Wine, questo
nuovo pargolo originario di
Glasgow ha tutte le carte in
regola per diventare la nuova
sensazione dell’artigianato pop
britannico. E se non dovesse
sfondare Oltremanica, dall’altra parte dell’Oceano sono
pronti ad accoglierlo gli stralunati amici Grizzly Bear.
Tobia D’Onofrio
ANDREA CHIMENTI
Tempesta di fiori
Santeria
Dopo la sua esperienza negli
anni ’80 con i Moda, Andrea
Chimenti è da quasi un ventennio uno dei più apprezzati
e prolifici interpreti del nuovo
cantautorato italiano. A cinque anni di distanza da Vietato Morire, durante i quali si è
dato da fare con il teatro, con
il cinema e con una intensa attività live, Chimenti torna con
Tempesta di fiori. La produzione del cd (registrato presso il
Teatro Comunale di Castiglion
Fiorentino) è affidata a Stefano Cerisoli e Guglielmo Ridolfo Gagliano. “Credo che tutti
i grandi cambiamenti, anche
quelli improvvisi, inaspettati
e apparentemente non voluti,
siano, in qualche modo, preparati da tempo e desiderati nel
profondo. È così che arriva inesorabile il giorno della tempesta dove tutto sembra crollare,
ma in realtà tutto è destinato
a cambiare forma”, precisa. Il
disco include dodici brani nei
quali spiccano la voce profonda e la scrittura delicata del
cantautore reggiano sempre in
bilico tra le varie declinazioni
dell’amore che fa soffrire ma
che dona felicità. L’unica cover
del cd è Vorrei incontrarti, un
vecchio pezzo (1972) dell’esordiente Alan Sorrenti (pila).
metafore. In uno stile assolutamente personale, la musica di
Fiori richiama Bruno Lauzi, il
primo Lucio Dalla, Piero Ciampi, Ivan Graziani, con arrangiamenti scarni ed essenziali.
Attento a me stesso ci dona un
immaginario difficile da trovare in giro, mai scontato. “Non
andar via perché c’è un topo su
in soffitta che non mi fa dormire bene”. Chapeau. (pila)
SAMUEL KATARRO
The Halfouck Mistery
Trovarobato
ALESSANDRO FIORI
Attento a me stesso
Urtovox
È una piacevole sorpresa questo esordio solista di Alessandro Fiori, voce degli eclettici
Mariposa. Dopo una lunga
serie di collaborazioni (Marco
Parente, Alessandro Asso Stefana, Enrico Gabrielli, che lo
accompagnano anche in questo
cd) il cantante e autore regala
al suo pubblico undici canzoni
che si muovono tra testi graffianti e intensi, poetici e visionari che raccontano la paura
della morte e della solitudine,
l’abbandono e la resistenza.
Lungomare, Fuori Piove, La
Vasca, Senza le dita, Trenino a
cherosene sono le mie preferite
all’interno di un “trittico pittorico” che ti prende l’orecchio e
la mente. Un cd non semplice
al primo ascolto ma che man
mano entra sottopelle, grazie
ai ricordi, alle immagini, alle
Samuel Katarro è lo pseudonimo dietro il quale si cela Alberto
Mariotti, ventiquattrenne cantante e musicista toscano che
dopo il convincente esordio Beach Party, tutto incentrato sulla
passione per il blues e la chitarra, torna per la “Famosa etichetta Trovarobato” (quella dei
Mariposa) con The halfouck mystery. I testi restano in inglese,
la musica si fa più complessa,
l’arrangiamento più articolato,
la scrittura meno semplice e più
ardita. Dieci brani che svariano
dal folk alla psichedelia, dalle ballad alle reminescenze di
musica classica, dal punk agli
anni ’70, da Syd Barrett a Tim
Buckley passando per Beatles,
Devendra Banhart e gli italiani
Jennifer Gentle, tra fiati, archi,
benjo, chitarre elettriche, campionamenti. Da segnalare Rustling, Pop Skull, The first years
of Bobby Bunny, Three minutes
in California, You’re an animal!
Una miscela difficile da decifrare che ci dona una nuova possibile via al rock italiano. (pila).
MGMT
Congratulations
Columbia
Arrivati all’atteso traguardo
del secondo album, gli MGMT
mettono da parte la spinta electro che caratterizzava
buona parte dell’esordio, per
rispolverare l’artigianato psichedelico che va dai Byrds (It’s
Working) ai Love (Song for Don
Treacy) fino agli Stone Roses.
Psych-pop revival, dunque,
filtrato attraverso la sensibilità contemporanea della band
newyorkese che ha ispirato innumerevoli cloni (vedi Empire
Of The Sun). La riconoscibilità
del gruppo sopravvive al makeover, ma diminuisce sensibilmente l’appeal radiofonico dei
brani (a parte la contagiosa
Flash Delirium). Siberian Breaks è una suite di 12 minuti
con tastiere vintage, filastrocche Barrett-iane e nuvole shoegaze con schegge elettroniche
alla Animal Collective.
Tobia D’Onofrio
TREBLE E
ROOTZ BAND
Treble
Elianto
“Coscienza e melodia”, nel reggae di oggi come in quello di
vent’anni fa. Binomio condito
con un po’ di “serena nostalgia”
nel nuovo esordio di Treble, al
secolo Antonio Petrachi, tra
i fondatori del Sud Sound System, da qualche anno messosi
in proprio ad accudire un suo
studio di registrazione e una
crew di giovani talenti. Nasce
MUSICA 33
34
lì, e con loro, questo Treble.
Un disco solido e sicuro, maturo, registrato in maniera quasi “artigianale” con la Rootz
band, utilizzando suoni esclusivamente analogici che danno
un respiro “live” corale ma al
tempo stesso intimo. Tredici
canzoni, ispirate e curate nei
suoni come nei testi, di qualsiasi natura essi siano: “mistici” e
d’amore, sociali e intimisti, che
confermano la capacità di scrittura, da sempre una delle doti
di Treble. Come l’uso del dialetto salentino che ben si adegua
ai tanti momenti del disco, da
quelli reggae (dove è ormai naturale) a tutti gli altri (daqua).
AA.VV
Indie or die
Disco dada
È indubbiamente un bel biglietto da visita. Nasce una
nuova etichetta discografica e
festeggia con una compilation
che suona come un manifesto
programmatico. Indie or die è
il titolo più che eloquente del
disco in questione che non si
limita a presentare il catalogo
rock della label (Letherdive,
Simona Gretchen, Nevica su
Quartopuntozero) ma può vantare contributi di tutto rispetto
come quello dei The Horrors.
Tra nuove e vecchie glorie
dell’indie nostrano fa capolino
un morriconiano Umberto Palazzo che è sempre piacevole
ritrovare. Un disco molto vario,
un omaggio all’indie fatto bene.
(o.p.)
FOL CHEN
Part II: The New
December
Asthmatic Kitty
A frullare musica ci hanno
provato in tanti. I Fol Chen lo
fanno con un gusto capace di
conciliare una vocazione pop e
l’idea di frammento sonoro e di
patchwork di stili coinvolgen-
FRANCESCO PENNETTA
Pulse
Four
C’è una scena jazz esuberante in Puglia, anche troppo. Poi
ci sono i fuoriclasse, quelli che hanno viaggiato, esplorato
la musica per poi tornare alle origini. Francesco Pennetta
è sicuramente uno di questi ultimi, un batterista sensibile,
qualità rara più del rigore tecnico che non si impara. Sentire, fare di uno strumento cuore “pulsante” di un esecuzione
è difficile. Francesco in questo album fa centro, confrontandosi con una materia musicale difficile. Sceglie un periodo
e una corrente del jazz molto precisa, l’hard bop e con lei si
confronta. Lo fa interpretando con nuovi colori alcuni classici di Cole Porter e Billy Strayhorn, Burton Lane e Fred
Lacey, Duke Ellington, Benny Harris e Toots Thielemans
e un unico inedito di Martin Jacobsen che con il suo sax
tenore illumina tutto il disco. Insieme a Francesco e Martin Pulse vanta la collaborazione di Francesco Palmitessa
alla chitarra e Pietro Ciancaglini al contrabbasso. Il combo
è capace di produrre un sound elegante, vibrante a tratti
frizzante, offre guizzi e trovate ritmiche e melodiche inedite
senza mai tradire l’originale bellezza dei brani. Una grande
prova di stile.
te. Un po’ come per band come
Scritti Politti il gioco è unire un
sound electro a citazioni di musica colta, inserti devianti creando un andamento ondivago e
per questo assolutamente sensuale. Indietronica d’autore,
alienante, tenebrosa e solare.
Un disco pieno di chiaro scuri
ben calibrati da una produzione decisamente d’avanguardia
nel suo prendere il passato
prossimo e regalargli una nuova forma. (o.p)
AA.VV
Mundo Analogico
Microcosmo dischi
Mundo analogico è una coccola,
contro il logorio della vita moderna. Alcuni posti nel mondo
hanno un suono che sembra
nascere per riconciliare lo spirito con la terra. Il senso della fuga può essere in un disco
come questo bellissimo Mundo
Analogico un viaggio verso lidi
e musiche lontani come spirito.
Il contemporaneo visto con gli
occhi della tradizione. Dal tropicalismo alla world music più
in generale questa compilation
privilegia l’anima latina del
pianeta con ospiti d’eccezione
come Cesaria Evora e Maria
Bethania senza dimenticare
l’africa (Marzouk Mejri, Angelique Kidjo). Da segnalare anche un bravo Joe Barbieri che
interviene con Fammi tremare
i polsi e un duetto con Omara
Portuondo. (o.p)
MUSICA 35
36
AVANTI POP
Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub
Chemical Brothers – Escape velocity
Manchester
respira.
Gli Oasis, ambasciatori di aria uggiosa,
di calli alle mani da
grande città industriale, della birra e dell’orgoglio di appartenenza, non ci sono più e
hanno lasciato strascichi dietro di sè degni delle
migliori coppie del jet-set. La città non è più al
centro della produzione musicale inglese. I fratellini chimici, nel frattempo, avevano iniziato
una fase calante che aveva destato più di una
preoccupazione. Ora sono ritornati per una suite
psichedelica da 12 minuti che anticipa un album
“Further” che, a quanto pare, sarà imperdibile.
E sin dal titolo c’è l’ambizione e la speranza di
una città che non vuole perdere un briciolo del
suo ruvido fascino.
Broken Bells – The high road
Un side-project passato in un lampo dalla
sordina alle radio commerciali. Com’è possibile? Perché loro sì
e gli altri no? Per due
semplici motivi. Il primo, banale: la canzone è bella e dal suono
retro-contemporaneo.
In periodo di folk da classifica, di banjo presenti
quasi quanto la drum machine, questa piccola
perla è perfettamente incastonata. La seconda,
ben più oscura, è nella stessa natura del progetto. Infatti il deus ex machina delle “campane rotte” è DangerMouse, dj ai margini della legalità
e all’interno della nicchia dei geni della musica
contemporanea (Gorillaz, Gnarls Barkley, cd con
mash-up di Beatles e Sparklehorse mai pubblicati: è tutto merito suo). Si può ignorare un brano così?
OK Go – This too shall pass
“Il gruppo che fa i video belli”. Condannati al loro
stesso successo, gli Ok Go si fanno ricordare più
per le loro incredibili performance a basso costo
ed altissimo contenuto creativo (i tapis-roulant
di “Here it goes again” vi ricordano qualcosa?)
che per i loro brani. E anche qui è complicato stabilire se la presenza in rubrica sia figlia del loro
nuovo singolo, apripista di un travagliatissimo
secondo album (“of the blue colour of the sky”,
che rischiava di rimanere impiccato a causa del
fallimento dell’asse Emi-Capitol) o dell’ennesimo
video straordinario. Comunque vada, possono
consolarsi lanciandosi nel cinema.
Sia – Clap your hands
L’amore fa miracoli.
Sia Furler, bionda,
australiana, bravissima, semisconosciuta
(anche quando cantava
negli Zero7), ancorata
al ruolo di cantante un
po’ triste e addolorata,
si fidanza con JD Samson, unico uomo del
gruppo feminin-incazzoso Le Tigre, e scopre che ci sono le percussioni, la musica pop, quella electro, Cyndi Lauper
e Madonna, a cui tributa addirittura la cover di
“Oh father”. L’album, trainato da questa “Clap
your hands” si chiama “we are born”. Si è resa
conto di aver perso tempo?
Goldfrapp – Rocket
A proposito di Madonna.
Forse ve l’hanno già raccontata, ma io corro il rischio. Alison Goldfrapp
e Louise Veronica Ciccone condividono la stessa
casa madre discografica.
La bionda inglese cantava con i cattivoni del
trip-hop di Bristol, quella americana faceva sfracelli per i fatti suoi. Poi
Alison ha conosciuto il sole e la musica pop ed è
partita con la sua carriera solista. E la decadente
Madge ha iniziato a scrutarla e studiarla, a tal
punto che le malelingue (mai abbastanza) hanno
coniato il soprannome “Oldfrapp” per Madonna.
Grande furbata pop di una grande musicista, ancora più simpatica dopo la lite con la Ventura a
“Quelli che il calcio”, con il playback che parte e
lei che non canta.
Dino Amenduni
37
38
DAMMI UNA SPINTA
Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse...
Gil Scott Heron – Me and the devil
La notizia è che il video
di questo brano gira,
almeno in piena notte.
Quindi la spinta che
parte da queste pagine
non è un disperato grido di speranza. Sono sicuro che molti lettori di
Coolclub sanno perfettamente di chi stiamo
parlando e sanno altrettanto bene che Gil Scott
Heron è un patrimonio che è stato, è e sarà di
una fortunata nicchia. Poeta, attivista, scrittore,
musicista, è attivo da quasi quarant’anni. E dopo
sedici di silenzio torna per dire “i’m new here”. Si
sente nuovo, lui assieme al diavolo, adattamento
di un brano del 1937. Chi li distribuisce in Italia
(un’agenzia pugliese) racconta di enorme difficoltà per farlo suonare dal vivo. In questo caso un
disperato grido, ma di rabbia, ci sta tutto.
Jonsi – Go do
Il progetto solista del
leader dei Sigùr Ros è
un brutto segno per la
formazione islandese?
Sì, lo è. Quando Jonsi
Birgisson annuncia il
suo primo album da solista (dopo una dimenticabile uscita discografica con il suo fidanzato,
Alex Somers), rincara la dose: i Sigur sono fermi a tempo indeterminato, molti di loro sono
diventati genitori, c’è una carriera da portare
avanti. Ma, tutto sommato, si può sopravvivere
anche con questo succedaneo: si fa molta fatica
a trovare le differenze tra la formazione al completo e il suo progetto solista, almeno per il singolo “Go do”, in cui le sonorità tendono sempre
di più al morbido e all’orecchiabile. Anche senza
la gioia dei figli a carico.
Robyn – Dancing on my own
Robin Miriam Carlsson, la svedese che piace agli
inglesi e che non sfonda mai. Robyn, la voce perfetta per il revival electro anni ’80 che sembra
durare da un decennio. Robyn, la musicista con
gli amici giusti (Royksopp, Diplo, Kleerup). Robyn, l’artista che dà alle stampe tre album in sei
mesi dopo 5 anni di silenzio, e chissà cosa dirà il
mercato discografico di questa insolita bulimia.
Robyn, che ha fatto sparire questo singolo dalla
rete dopo annunci in pompa magna. Volere o volare, nel 2010 si parlerà molto di lei.
The XX – Islands
Nel 2009 si è parlato
molto di loro e l’hype
non sembra arrestarsi.
Fa parlare di sé, infatti, il notturno album
d’esordio della band
inglese, giovanissima
e già alle prese con i
cambi di formazione,
gli esaurimenti nervosi, le liti personali. I singoli pubblicati in Inghilterra nello scorso anno stanno lentamente
facendo il giro dell’Europa (Islands, ad esempio,
è datata settembre 2009). Tra venerazione a limite della mania e paura per il loro futuro, le
doppie croci proseguono la loro silenziosa conquista del mondo.
Blur – Fool’s day
Chissà cosa pensano i
Blur dei nipotini XX.
Loro l’Europa l’avevano
conquistata
davvero,
seppur in coabitazione
con quei cattivoni degli
Oasis. Poi hanno conosciuto la scissione, come
per gli XX a causa delle
bizze del chitarrista; Damon Albarn si è conquistato, nel frattempo, una
credibilità che forse non aveva mai conosciuto
nei suoi anni d’oro e ora i Blur sembrano prendere in giro loro stessi ed il tempo. Sembra che
il loro tour per la reunion non finisca mai e a
conferma di questo rispunta, beffardo, un singolo registrato oltre 7 anni fa.
Dino Amenduni
39
SALTO NELL’INDIE
In foto: Eugene Chadbourne
INTERBANG
Interbang è un’etichetta pugliese, anche se non
sembra. Interbang ama il vinile, produce artisti
stranieri, è proiettata nel mondo ma non dimentica l’Italia, è indipendente, è giovane. Abbiamo
parlato con Davide Rufini.
Cos’era interbang e cos’è interbang?
Interbang era il titolo di una eccezionale quanto
sgangherata serie televisiva low-budget italiana che venne mandata in onda negli anni ‘80 su
Odeon Tv e mai più ritrasmessa in Italia, tanto
che per anni molti dubitarono persino di averla
effettivamente vista. Poi qualcuno ha iniziato a
parlarne su internet e ora si vocifera che la micro
casa di produzione sia intenzionata a distribuirla in dvd. La serie conteneva tutti gli ingredienti
per una grande storia d’avventura, anche se realizzata con mezzi a dir poco scarsi: protagonisti
intraprendenti, viaggi in tutto il mondo, una
genuina ironia (e auto-ironia del genere avventuroso stesso), una produzione casalinga ma efficace…insomma puro ingegno senza volgari patinature hollywoodiane. L’assoluta irreperibilità
della serie stessa poi (in pochi la seguirono allora
e probabilmente nessuno l’ha mai registrata, per
40 MUSICA
cui dimenticatevi di poterla scaricare o vedere
in streaming, tuttavia su youtube è disponibile
l’indimenticabile sigla iniziale) la rendono praticamente un misterioso oggetto di culto. Tutto
questo fa di Interbang la migliore rappresentazione del nostro modo di vivere la musica: avventurosa, misteriosa, pericolosa, genuina, semplice, ironica, ingegnosa, rara, preziosa.
Da dove nasce l’idea di un’etichetta discografica che parte geograficamente da Bari
ma che produce il mondo?
Dopo anni di attività di promozione musicale a
Bari, di organizzazione di tour di artisti stranieri
in Italia e di diversi festival in Puglia, la creazione di un etichetta è stata di fatto un passaggio naturale. Il rapporto costante e prolungato
con numerosi artisti e colleghi ci ha permesso
di creare una rete di contatti con scene e realtà musicali di ogni dove…ma ad essere onesti la
verità è che dopo tanti anni ci siamo accorti di
odiare i musicisti: sono dei gran rompicoglioni,
spesso puzzano di cane morto, e se sono italiani
sono anche spocchiosi come delle prime donne
mestruate; ma ciò nonostante ancora adoriamo
ascoltare la musica, pertanto la produzione discografica ci è sembrato il modo più tranquillo e
asettico per continuare a vivere di musica. Per
quanto riguarda il nostro atteggiamento esterofilo, ci risulta molto difficile trovare artisti italiani che posseggano quelle caratteristiche che consideriamo essenziali per la produzione musicale.
Qui abbiamo bravi strumentisti, ma pochissimi
artisti.
Le vostre uscite sono evidentemente di nicchia, a quale mercato e quale pubblico intendete intercettare?
L’ambito musicale che trattiamo è prevalentemente “indie”, che non è un genere musicale (di
fatto non lo è mai stato) ma semmai un attitudine
dell’etichetta e del musicista: non semplicemente “indipendente dalle major”, che è il significato
originario, ma più idealmente “indipendente da
logiche strettamente commerciali”…insomma,
musica come cultura, musica come ricerca, musica fatta per la musica, musica pura, genuina.
Con questo tuttavia non vogliamo né esprimere
un giudizio qualitativo (ci sono tanti capolavori
prodotti da major, e milioni di porcherie indie),
né tanto meno definirci in un genere musicale
specifico appunto, né infine per “musica per la
musica” vogliamo riferirci a quegli strimpellatori sfigati da circolo ricreativo che vivono la musica come hobby… Il nostro pubblico non sono
altro che quelle persone che condividono questa
nostra attitudine. Il mercato invece è una cosa
differente: se dovessimo affidarci ai soli “cultori
musicali” chiuderemmo dopo un giorno, abbiamo
bisogno di sfruttare anche il pubblico più generico spacciandogli i nostri prodotti come qualcosa
di appetibile anche per loro. In questo ci aiutano
molto i concerti: durante il live l’artista gode del
suo momento di massima visibilità per cui anche
l’utente più disinteressato si lascia in qualche
maniera coinvolgere emotivamente; di conseguenza l’acquisto del disco diventa un modo per
ricordare quel momento piacevole, o stravagante, ad ogni modo eccitante…anche se poi probabilmente non lo si ascolterà mai…
Stampate in vinile, scelta coraggiosa e affascinante, ma usate anche il digitale. Come
approcciate i vari supporti e quale credete
sia il futuro in questo senso?
Ormai il cd ha definitivamente esaurito la sua
funzione: il successo del cd fu principalmente determinato dalla comodità del supporto, più piccolo di formato, e una gestione più facile dei brani.
Oggi queste qualità sono state migliorate dal
file digitale: zero supporto, massimo controllo e
gestione dei brani. D’altro canto l’appassionato
di musica spesso è anche un collezionista, ossia
qualcuno che desidera possedere concretamente
ciò che ama. In questo il vinile è sempre rimasto
di gran lunga più ambito del cd: grande copertina, irriproducibilità del supporto; e ora che il cd
sta sparendo l’importanza del vinile per il mercato collezionistico appare più evidente, e anche
le etichette più “commerciali” se ne sono accorte
e ne stanno cavalcando l’onda. Proporre il vinile
con in allegato il codice per il downloading del
disco appare oggi la soluzione più adeguata, perchè coniuga il desiderio per l’oggetto e la comodità del file digitale.
Ci parli un po’ del vostro catalogo?
Siamo partiti con un progetto che ci aveva intrigato molto: un album di quel matto di Eugene
Chadbourne con una travolgente titletrack dedicata a Berlusconi. Un ritorno al vinile per doc
Chad dopo 10 anni, e per questo abbiamo deciso
di fare le cose per bene: un’edizione lussuosa,
con vinile colorato, copertina gatefold, innersleeve con i testi e una eccezionale cover realizzata dall’amico fumettista croato Miro Zupa. Ad
aprile è uscito il nostro secondo titolo, il nuovo
album del trio inglese The Wave Pictures, una
delle poche band della scena neo-wave che pur
riscuotendo un bel successo internazionale non
ha perso lo stile genuino da slacker di provincia.
Per maggio 2010 è attesa la terza nostra uscita,
Sacri Cuori, un vero supergruppo messo su da
Antonio Gramentieri, musicista di lungo corso
e art director del festival “filo-americano” Strade Blu: nell’ensemble sono presenti personaggi
provenienti da Calexico, Giant Sand, Friend of
Dean Martinez, oltre a Marc Ribot, John Parish
e James Chance!! A seguire per l’estate sono previsti un album di James Chance e uno di Hugo
Race. Per l’autunno-inverno stiamo lavorando su
Arrington De Dionyso e Aidan Smith. Non ci possiamo lamentare insomma…
Che tipo di distribuzione avete? Dove arriva Interbang?
Il disco di Chadbourne è distribuito in Italia da
Goodfellas, ma è disponibile anche in altri paesi
europei e a breve anche Stati Uniti (su insound.
com), ma non abbiamo ancora assunto un sistema ben definito, diciamo che si tratta di un qualcosa che si evolverà uscita per uscita. La distribuzione costa molto, pertanto stiamo cercando
di puntare molto sulla vendita diretta (sul sito
www.interbangrecords.com), soprattutto per le
uscite in edizione più limitata.
Antonietta Rosato
MUSICA 41
LIBRI
DAVIDE
ENIA
L’autore di “Italia-Brasile 3-2”
su calcio, memoria,
uso del dialetto
Davide Enia, palermitano classe 1974, è attore
e autore dei suoi testi. In questi giorni Sellerio
pubblica il testo di uno dei suoi primi spettacoli,
ormai da diversi anni sulla scena: Italia-Brasile
3-2 in cui l’attore palermitano rievoca, con umorismo e serietà la partita di calcio che forse più di
tutte ha segnato un’epoca, quella sfida dei mondiali di Spagna, in cui decisivo fu il gol di Paolo
Rossi per far accedere l’Italia alla finale contro
la Germania (è di qualche anno fa un libro dello
stesso Rossi che si intitola Ho fatto piangere il
Brasile). Ma la partita di calcio per Enia diventa
un pretesto per parlare di un’Italia che forse che
non c’è più, il pretesto per parlare della Resistenza (ricordiamoci di Pertini, il presidente partigiano, e di Antonio Cabrini, che colpito al volto
da una scarpa, sanguina come un partigiano, è
42 LIBRI
bello come un partigiano).
Con Davide Enia abbiamo parlato al telefono di
tutto questo e di altro ancora. Ecco uno stralcio
della nostra conversazione.
Il tuo testo Italia-Brasile 3-2 ruota tutto intorno al gioco del calcio. Per te il calcio è
una vera passione?
Non sono un amante del gioco del calcio. Seguo
solo il Palermo, che è una cosa diversa.
Italia Brasile ruota intorno al calcio inteso come
arte pedatoria. Oggi quando parliamo di calcio
siamo trasportati in un mondo fatto di decreti
spalma debiti, passaporti falsi eccetera. Quello
non è il calcio, è la mortificazione di uno sport.
Quello non mi interessa. Invece mi interessa il
calcio come elegia del tiro di rigore sbagliato, mi
Che cosa è cambiato in Italia nei trent’anni
trascorsi da quella notte?
Non è cambiato nulla: è tornato il fascismo.
Nel tuo testo fai parecchi rimandi alla lotta partigiana, che sembra in qualche modo
permeare di sé la vita quotidiana degli italiani. E oggi, si è persa quella memoria, e
perché secondo te?
Non si è persa la memoria, oggi si è persa la capacità di oggettivare. La memoria deforma la
realtà dei fatti, quello che viene tramandato è
l’oggettivazione della realtà.
Guarda, io credo che la memoria sia un’attività
inutile e forse anche dannosa. Se non esistesse si
potrebbero giustificare come errori primigeni le
porcate che si fanno oggi.
Un esempio su tutti sarebbe la necessità di oggettivare una realtà come i 45 milioni di italiani emigrati nel mondo, i cartelli in Svizzera che
dicevano: Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani. Ecco di questo bisognerebbe ragionare. La
memoria è selettiva e sopravvalutata, bisogna
ritornare a studiare le cose come se non si ricordassero.
Come nascono i tuoi lavori? Lavori prima
sulla storia o questa cresce insieme allo
spettacolo?
Ogni lavoro ha una sua genesi indipendente. Se
avessi uno schema fisso riuscirei a scrivere in
una maniera certamente più prolifica. Succede
che mi imbatto in una storia, intuisco una possibilità narrativa e mi intrudo. Il resto è falegnameria. Lavoro di lima e seghetto. Il lavoro di san
Giuseppe!
interessa raccontare la fatica che si fa per controllare la palla.
Perché proprio quella partita? Che cosa significa nel tuo immaginario e in quello del
pubblico italiano?
Quando noi pensiamo a una muraglia che ha in
cima cocci aguzzi di bottiglia pensiamo a Montale. Quando pensiamo a una partita di calcio pensiamo a Italia Brasile. Ma tutto questo preesisteva, i cocci sui muri esistevano prima di Montale,
e le partite di calcio esistevano prima di Italia
Brasile e soprattutto prima del mio spettacolo.
Quella partita è diventata un simbolo perché
per la gente che l’ha vissuta, che se la ricorda,
quella partita rappresenta l’archetipo della partita di calcio, è assurta a mito.
Tu usi molto il dialetto palermitano, e l’uso
che ne fai in qualche modo ricorda il napoletano di Eduardo o di Scarpetta. È così?
Il palermitano ha, insieme al napoletano una
potenza simbolica enorme. Non per niente dal
napoletano è nata la canzone, è nata la sceneggiata, mentre dal palermitano sono nati i cunti
come forma narrativa autonoma. E poi c’è tutta la componente non verbale che è fortissima.
Quando da bambino facevo qualche cazzata, non
mi spaventavo quando mio padre gridava, ma
quando mi guardava. La cosa più spaventosa era
la taliata. In palermitano si dice “la megghiu parola è quiddha ca nun se rice” (la parola migliore
è quella che non si dice). Spesso le cose non si
tacciono per ignoranza ma per rispetto e profonda comprensione.
Dario Goffredo
LIBRI 43
FRANCESCO DIMITRI
Il buon fantasy italiano è made in Puglia
Siamo spesso portati a pensare (specie nella società gerontofila nella quale viviamo) che il “maestro”, nel senso etimologico del termine, e cioè
“il più grande”, sia un tipetto con la barba bianca e un’esperienza pluridecennale alle spalle.
Eppure, alle volte, capita che un vero e proprio
maestro ci si possa parare davanti con un paio di
occhiali da sole e un tatuaggio di Spiderman, che
sia più giovane di noi, eppure abbia tante e tante cose da poterci insegnare. Quando ho iniziato
a leggere Alice nel Paese della Vaporità la mia
prima impressione, dopo appena dieci pagine è
stata quella di trovarmi di fronte a una prosa
magistrale.
Francesco Dimitri riesce a catturarmi come pochi
autori italiani sanno fare. La sua prosa scorre via
senza difficoltà, senza intoppi. Si ha la sensazione, leggendo i suoi libri, che lui non abbia fatto il
minimo sforzo a scriverli. Ma non è così.
Questo suo ultimo, bellissimo, romanzo, pubblicato niente meno che da Salani (quella della vera
44 LIBRI
regina d’Inghilterra, la J.K. Rowling di Harry
Potter, per intenderci), Francesco ci ha messo
otto anni per scriverlo. E otto anni sono tanti. In
otto anni si cambia, si cresce, e quindi questo romanzo è cambiato e cresciuto con lui, fino a raggiungere la forma di crisalide e spiccare il volo,
in una bellissima manifestazione di arte narrativa. Alice è una favola, tutti la conosciamo, ma
nessuno di noi ha mai pensato che Alice potesse
assumere le sembianze che Francesco Dimitri le
ho donato. Mi sono innamorato di questo libro e
credo che chiunque lo legga non può che subirne
la fascinazione.
Ho intervistato Francesco su skipe, perché vive
a Londra, e riporto la nostra conversazione quasi
così com’era, senza mediazioni.
Peter Pan prima e Alice nel Paese delle Meraviglie poi. Che cosa c’è nelle fiabe dell’Inghilterra vittoriana che ti affascina così
tanto?
l’Inghilterra Vittoriana era un mondo simile
al nostro: una grande civiltà piena di contraddizioni, che già iniziava a declinare. C’erano le
macchine e c’erano gli spiritualisti, c’erano gli
scienziati e c’erano i maghi. Era un mondo senza
certezze, di cambiamenti folli, rapidissimi. L’immaginario vittoriano racconta un mondo così,
nero e surreale - ed è un mondo in cui mi trovo
a mio agio.
Su Alice sono state scritte mille interpretazioni diverse, sono state date mille letture, tra cui la più celebre forse è la lettura
di Alice come viaggio allucinogeno. Quello
che mi piace nella tua riscrittura è invece
il sovvertimento del concetto di allucinazione...
È una cosa in cui credo davvero: il confine tra
“realtà” e “allucinazione” è ideologico, una comoda balla che ci raccontiamo per vivere tranquilli.
Abbiamo delle percezioni, e abbiamo dei preconcetti che dicono quali siano “vere” e quali “no”.
Preconcetti che selezionano in partenza cosa
vediamo (e sentiamo, e gustiamo) e cosa no. Se
vediamo un fantasma, pensiamo di aver visto un
gioco di ombre - ma magari ogni gioco di ombre è
un fantasma che aspetta di essere visto.
Pretendere di essere certi di qualcosa non è
“scientifico” o “razionale” - è... infantile, nel senso peggiore della parola.
La Carne, l’Incanto, il Sogno sono l’elemento più forte di Pan che ritorna in questo tuo
nuovo libro. Ed è una delle cose più affascinanti della tua poetica. È proprio di questo
che stai parlando giusto?
Esattamente. È ovvio che questo, a sua volta, è
un modello tra tanti, non più “reale”. Ma proprio
perché è narrativo, mitologico, a suo modo credo
funzioni.
E proprio come in Pan sono le storie che
creano il mondo. Quindi per ogni possibile
storia che possiamo inventare c’è una possibile realtà che si crea? Questo mi ricorda
la frase di Wittgenstein “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.
Sì, esattamente Wittgenstein (o Robert Anton
Wilson, in un campo radicalmente diverso, o
Crowley e un bel po’ di tradizione magica). Io
credo, sinceramente, che la cosiddetta “realtà”
sia solo una storia di grande successo. Ma ce ne
sono altre, tante altre.
Ed è il motivo per cui la letteratura cosiddetta
“realistica” non mi interessa: trovo che sia una...
scusa. Anche se, ovviamente, questo non signi-
fica che se in un libro non c’è un drago non lo
leggo.
Ma se qualcuno prova a vendermi un libro dicendomi che “parla della nostra realtà”, rispondo
“della tua, semmai: non mi tirare in mezzo!”
Un altro elemento di convergenza con Pan
è la presenza di un antropologo. Che cosa
rappresenta per te l’antropologia?
Un sogno tradito. Una disciplina che ha promesso una profonda comprensione dell’uomo, e che
per un certo periodo l’ha anche data... ma poi ha
rinunciato a tutto in cambio di rispettabilità e
un posto caldo in Accademia.
So che hai lavorato a lungo ad Alice nel paese della Vaporità. Che cosa rappresenta
per te questo libro?
Otto anni di vita e la chiusura di un ciclo. Scrivendo la prima stesura, ho capito una serie di
cose su di me e su come la pensavo sul mondo
- cose che non mi hanno più abbandonato. Non
è un libro a tema, intendiamoci. Ma scrivere è
sempre anche un esercizio su te stesso. E questo
è stato un esercizio... intenso.
Cosa ne pensi di questo ritorno di moda del
misticismo e della magia?
Che non so quanto sia serio. Molto spesso quando si parla di “misticismo”e “magia”, si parla in
realtà di forme di materialismo molto semplicista cui viene messo un abito nuovo e un po’ di
belletto. La magia è prima di tutto una visione
del mondo, radicalmente alternativa a quella
dominante - e un’alternativa radicale richiede
sempre un prezzo. Altrimenti è new age, integralismo religioso (o ateo, che è lo stesso), altro,
insomma.
Insomma: meglio leggere Bergson che leggere...
boh, non so, molte altre cose.
Per me va bene così. Vuoi aggiungere qualcos’altro?
Sei tu il maestro di cerimonie, in questo caso!
Quindi se per te va bene, per me è ok...
Solo un’ultima cosa: questo è il sito del libro:
http://www.alice.salani.it
La cosa bella è che chiunque vorrà potrà pubblicare la “sua” versione della Steamland - con
racconti, foto, disegni, video, quello che gli pare
là sul sito: tutti possono usare l’ambientazione
del libro, finché non lo fanno a scopo di lucro. Mi
sembrava un modo carino per rompere alcune
barriere.
Dario Goffredo
LIBRI 45
RICHARD BRAUTIGAN
Il generale immaginario
Isbn Edizioni
OMAR
DI MONOPOLI
La legge di Fonzi è il terzo, fulminante, romanzo
dello scrittore di Manduria
Lee Mellon è quello che William Burroughs avrebbe definito un hipsterello di periferia. Convinto di discendere
da Augustus Mellon, generale
confederato di Big Sur durante la Guerra di Secessione, su
questa bugia Lee fonda l’amicizia con Jesse, protagonista
de Il generale immaginario e
alter ego di Richard Brautigan.
Jesse raggiunge Mellon a Big
Sur e con lui convive per qualche tempo, vivendo di niente
(«fiori di niente» sono le parole,
spiegherà Brautigan poco prima del suicidio) e belle donne.
La libertà della controcultura
hippy – qui colta sul nascere
– gli spazi sterminati di Big
Sur, dove si dorme a pochi passi dalle balene e dal deserto,
tutto questo è al centro del primo romanzo di Richard Gary
Brautigan che Isbn ripropone
dopo la prima edizione Rizzoli del ‘67 (tradotta da Luciano
Bianciardi); con la nuova interpretazione di quell’Enrico
Monti a cui si deve il ritorno
dell’autore americano in Italia.
Ancora lontano dalla disillusione degli ultimi lavori o dalla
psichedelia di Pesca alla trota
in America, ne Il generale immaginario Brautigan si mette
già alla prova con la parodia
(distorcendo il romanzo storico)
46 LIBRI
Giunto al capitolo finale della
sua trilogia western pugliese
Omar Di Monopoli ci colpisce
nuovamente con la sua prosa
originalissima. Siamo ormai
abituati, ma non per questo
assuefatti, alle sorprese linguistiche, alle ambientazioni
iperrealistiche, ai suoi personaggi strepitosi, alle situazioni paradossali ma che sembrano tanto più vere quanto
più l’autore dice di non voler
parlare della realtà.
La Legge di Fonzi conferma
Di Monopoli nella scuderia
dell’editore Isbn, e lo conferma come una delle voci più
interessanti della narrativa
italiana contemporanea.
Con questo La legge di
e con l’ironia spiazzante in grado di creare ponti tra mondi ed
epoche lontanissimi. Frullando
insieme Guerra di Secessione,
John Steinbeck, la cadillac di
Henry Miller, Walt Whitman
e l’Ecclesiaste. I mille finali in
Fonzi si chiude la tua trilogia western pugliese.
Sei soddisfatto del percorso che hai tracciato?
Certo, moltissimo: è esattamente l’obiettivo che avevo
in mente, mappare porzioni
non molto conosciute della
mia regione attraverso uno
sguardo iperbolico, all’inseguimento di una visione letteraria capace di contenere
Faulkner e Sergio Leone,
l’epico e la denuncia sociale,
lo scarno con il barocco: un
esperimento un po’ pop, insomma...
Di tutti i tuoi romanzi
questo mi sembra l’unico
nel quale tu lasci un barchiusura spiegano la tipica assenza di trama: che in Brautigan è poesia.
Marco Montanaro
lume di speranza. è un’impressione sbagliata la mia?
Sai, in realtà tutti e tre i romanzi, a ben guardare, contengono un filo di speranza.
Magari sono stato molto bravo
a nasconderla, è un talento anche quello, in fondo!
Il finale è pressoché aperto,
lasci insoluti alcuni nodi.
Come mai questa scelta?
Io - e credo che chi segue il
mio lavoro ormai lo abbia perfettamente compreso - attingo
a parecchio cinema e a tanta
letteratura americana, per cui
ho mutuato da questi modelli alcune strategie narrative:
lasciare insoluti alcuni spunti
permette al lettore di lavorare
con l’immaginazione, stabilendo una sorta di interazione
con ciò che leggono e con quello
che l’autore ha creato per loro.
Comunque in realtà molti degli snodi che restano sospesi
sono tali solo apparentemente,
più che altro in quest’ultimo
romanzo subentra la componente soprannaturale, con un
personaggio, il Fonzi del titolo,
che sino alla fine non sappiamo
esattamente cosa sia: un fantasma, un killer, un ravenant...
Trovo Fonzi uno dei più
riusciti personaggi che ho
incontrato ultimamente. Mi
sei sembrato particolarmente ispirato nel disegnarlo.
Da dove nasce Giovanni
Fonzi?
Fonzi, oltre al debito del soprannome derivante evidentemente dal mitico Fonzarelli
PAOLO COGNETTI
New York è una finestra
senza tende
Editori Laterza
Ho seguito la genesi di questo
libro attraverso il blog di Paolo Cognetti, essendo come lui
di Happy Days, è in realtà la
trasposizione ai giorni nostri
di un personaggio lugubre e
decisamente interessante di un
piccolissimo, scalcagnato western all’italiana: Django il Bastardo (Sergio Garrone 1969),
anche là c’era questo pistolero
che sembrava essere tornato
dall’inferno per vendicarsi...
io l’ho solo un po’ reso più affine alla mia poetica intrisa di
cagnacci e sfasciacarrozze, et
voilà: Fonzi era bello e pronto!
Ancora una volta hai fatto
un lavoro ottimo sulla lingua. Da un lato c’è il tuo
linguaggio, ricchissimo e a
tratti inusitato, dall’altro il
linguaggio paradialettale
dei tuoi personaggi che entra anche nella narrazione,
creando un cortocircuito
linguistico. Che tipo di lavoro hai fatto in questa direzione?
Ormai dopo tre libri penso si
possa parlare, senza sembrare
presuntuoso, di una mia, personalissima «voce» letteraria,
che mescola il vernacolo a descrizioni auliche guardando ai
grandi maestri (oltre al Grande
Sudista già citato, Faulkner,
che pure in lingua originale
era inarrivabile nel codificare
gli idiomi e gli slang della sua
terra, penso al lavoro di James
Lee Burke, oppure, arrivando
a casa nostra, al grande Fenoglio, che meticciava l’italiano
con l’inglese e il francese inventandosi verbi e avverbi molto
onomatopeici).
appassionato di letteratura
americana, ero desideroso di
scoprire in che modo avrebbe
confezionato questa originale
guida letteraria.
Partendo da una serie di interviste realizzate con Giorgio
Nel tuo romanzo si muove
un’umanità ai margini, che
sembra non poter sperare
in un riscatto, o addirittura
che sembra non cercare un
riscatto; c’è una terra durissima, dove sembra che solo
chi è più duro di essa possa
andare avanti; c’è una corruzione generalizzata, che
penetra anche in chi non
è direttamente coinvolto.
Che terra e che tempi sono
questi in cui viviamo?
Io non faccio che ripeterlo: un
artista si fa carico dello strappo, della violenza che impregna
la realtà e attraverso la sua
personale rappresentazione la
da in pasto a chi lo ascolta per
mezzo anche dell’esagerazione:
per cui, nel mio caso, la capacità di descrizione spesso viene
accantonata in favore, appunto, dell’iperbole. Ma il vero
dramma è che il mio espressionismo - così fumettistico e
talvolta caricato sino all’intollerabile - sovente viene scambiato da chi legge per realtà
documentaria, quindi, ahinoi,
ciò significa che la cattiveria
che ci circonda è con tutta evidenza ben superiore a qualsiasi
operazione di fantasia.
Ora che la tua trilogia è
giunta al termine, quali sono
i tuoi prossimi progetti?
Ho già firmato con lo stesso editore per il prossimo romanzo:
una storia di bambini ai tempi
della prima, dura battaglia antinucleare nel Salento periferico degli anni ‘80.
Dario Goffredo
Carella, “Scrivere/New York”
e “Il lato sbagliato del ponte”
(quest’ultimo dvd in allegato
con il libro), l’autore ha accumulato materiale, ha scoperto
luoghi e scavato fra i ricordi di
scrittori del calibro di Rick MoLIBRI 47
ody, Jonathan Lethem, Shelley
Jackson e Colson Whitehead,
citato abilmente nell’incipit
del libro. Queste testimonianze
sono servite come una mappa
dai contorni sbiaditi, su cui iniziare a tracciare vie, ricostruire
quartieri e locali che hanno segnato l’immaginario dei grandi
scrittori newyorkesi.
Melville, Withman, Hawthorne
(Il velo nero del pastore citato
come metafora dell’ipocrisia
americana), sono solo alcune
figure leggendarie della narrativa americana utilizzate
per orientarsi nell’eterogenea
Gotham, nome ripreso da molti scrittori ottocenteschi, come
spiegherà lo stesso Cognetti,
e impresso nella memoria collettiva grazie a Bob Kane con
il personaggio di Batman. I
loro scritti hanno guidato l’autore nel distretto di Brooklyn,
sino all’altra sponda del ponte,
quella del Lower East Side,
il quartiere degli emigranti
e culla della cultura ebraica,
rappresentata nelle opere di
Cahan, Roth, Gold, Malamud,
Paley: “non è possibile esplorare Gotham senza fare, prima o
poi, i conti con l’ebraismo”.
Avvicinandosi al cuore di Manhattan, l’autore ha respirato
il fermento creativo del Greenwich Village (trasformato
nell’ennesima attrazione turistica) dove Kerouac, Corso,
Ginsberg, Burroughs, hanno
esordito fra risse, bevute e reading letterari.
Questo libro è il resoconto dei
suoi innumerevoli viaggi nella
Grande Mela, un lungo cammino autobiografico che descrive
i luoghi e le persone incontrate: il capodanno a Manhattan,
orchestrato goffamente dal suo
amico Jimmy, un italo americano affascinato dallo stereotipo del “bravo ragazzo”, aiuta
a spezzare quella che potrebbe essere la monotonia di una
semplice guida di New York. Il
48 LIBRI
pregio del libro sta nel descrivere una città, nel ricostruirne
la sua storia, senza risultare
didascalico, ma sollecitando
l’interesse del lettore attraverso la vita e le opere dei grandi narratori americani che in
quelle strade hanno vissuto e
dalle quali hanno tratto ispirazione per i loro capolavori.
Roberto Conturso
e tra gli organizzatori di Ultra,
festival della letteratura a Firenze, pubblica quindici racconti scritti nel tempo e che nel
tempo – presente – continuano
a crescere.
Marco Montanaro
ANDRE DUBUS
Non abitiamo più qui
Mattioli 1885
ENRICO PISCITELLI
La minima importanza
Las Vegas Edizioni
Quindici racconti per l’esordio
letterario di Enrico Piscitelli,
racchiusi nell’ibrido La minima importanza. Ibrido nel senso che dentro ci sono illustrazioni (di Alice Costantini) e un
fumetto di quattro tavole con
Sara Pavan alle matite. Ibridi
non sono invece i personaggi
della raccolta: gli uomini di Piscitelli vivono racchiusi ognuno
nella propria boccia per i pesci rossi. Da cui non tentano
la fuga: incapaci del contatto,
ambiscono al contagio. C’è chi
trova il coraggio per suicidarsi
in un giorno particolarmente
caldo, chi vorrebbe uccidere la
zia e chi regola il proprio ritmo
sessuale sui suoni che provengono dalla stanza (boccia) accanto. Una lingua pulita per
frammenti – tutt’altro che racconti minimi – che si disinteressano dell’inizio e della fine.
Enrico Piscitelli, pugliese di
Trani, già editor e curatore di
collane per diverse case editrici
Il racconto, secondo alcuni è la
forma perfetta della narrativa.
La pensava così Andre Dubus,
che, leggenda vuole, dopo aver
letto Il duello di Cechov, pare
abbia gettato nel cestino il suo
romanzo e si sia ripromesso da
allora di scrivere solo racconti.
Non abitiamo più qui, pubblicato
da Mattioli 1885, è una raccolta
di tre racconti lunghi che hanno
come protagonisti due coppie di
ragazzi trentenni, Jack, Hank,
Terry e Edith, le cui vicende si
intersecano e si intrecciano in
un vortice di vicende dolorose e
triangoli amorosi in cui i quattro
protagonisti precipitano per cercare di colmare il vuoto delle loro
esistenze borghesi in un America borghese e piccola. Dubus è
un maestro del racconto. Le sue
descrizioni sono illuminanti, il
suo modo di raccontare le reazioni, anche fisiche, dei suoi personaggi è da manuale. Decisamente un libro da leggere per godere
di una scrittura fuori dal tempo
e anche, perché no, per imparare
a scrivere.
Dario Goffredo
FABRIZIO POGGI
Gli angeli perduti del
Mississippi
Meridiano zero
Dietro ogni lettera si nasconde
una storia, a volte una leggenda. È proprio il confine tra ciò
che fantasia e realtà che rende il blues materia musicale
così interessante. Più di ogni
genere musicale il blues ha in
sé una magia ancestrale alimentata da personaggi incredibili. E questo libro, non a caso
scritto da un musicista, ha in
sé tutta la passione e l’anima
che questo genere riesce a trasmettere.
Il pretesto è un dizionario in
cui ogni lettera è lo spunto per
un viaggio, il risultato è un lavoro organico che conquista anche i profani. Non è una storia
del blues, ma un esame su più
fronti, che riesce ad accostare
alle biografie di artisti e band,
riflessioni antropologiche, digressioni su alcune tecniche e
tante curiosità.
Osvaldo Piliego
MAURO EVANGELISTI
Johnny Nuovo
Carta Canta editore
Un uomo solo, un ragazzo cresciuto prigioniero in un stanza,
una donna in fuga da una vita
che le sembra una gabbia dorata, un giornalista che vuole
ricomporre i pezzi di un puzzle ormai irrimediabilmente
disgregato. Tanti personaggi
che ruotano intorno a una sola
storia, quella di Johnny Nuovo.
Tanti aspetti di un unico disagio di vivere che si frammenta,
pirandellianamente, in una serie di vite generate da un unico centro di gravità: un mondo
“vero” che Johnny non credeva
nemmeno esistesse. E che non
è necessariamente migliore di
quella stanza, grande come un
campo di calcio, in cui K, il “padre”, aveva delimitato la sua
esistenza. Mauro Evangelisti,
giornalista de “Il Messaggero”
al suo primo romanzo dopo tre
saggi, racconta una storia intensa di vite che tentano di fuggire dalle proprie monotonie.
Intrecciandosi e interagendo
tra loro. E spesso cambiandosi
vicendevolmente il corso, solo
apparentemente definito, degli
eventi.
Fabio Rossi
EZIO GUAITAMACCHI
Delitti Rock
Arcana
In tanti modi, credo quasi tut-
ti, ci hanno raccontato la storia
della musica: dal principio, al
contrario, attraverso i dischi,
le copertine. Ezio Guaitamacchi lo fa attraverso la morte, o
meglio le morti celebri, e anche
quelle meno conosciute, delle
star del rock. Molto spesso avvolte da un alone di mistero, le
morti consegnano la rock star
al mito, rendendola in qualche
modo immortale. Delitti rock
parte dagli anni trenta e arriva
fino ai nostri giorni, ricostruisce
contesto, circostanze, moventi,
ripercussioni di circa 200 vite
finite o bruscamente interrotte.
Il libro è scritto con la perizia di
un criminologo, una suggestione quasi cinematografica e la
passione di un critico musicale.
I ritratti che emergono sono di
vite consumate, altre troppo veloci, altre ancora semplicemente sfortunate. (o.p.)
COSIMO ARGENTINA
FIORENZO BAINI
Messi a 90
Manni
Il mondiale si avvicina e impazza l’uscita di libri dedicati
al calcio. Cosimo Argentina,
che da poco ha ripubblicato
il suo esordio Cuore di cuoio,
firma insieme a Fiorenzo Baini questo curioso libro ricco di
aneddoti veri e finti. Messi a
’90, che chiaramente richiama
nel titolo il campione argentino del Barcellona, ha un eloquente sottotitolo “Le partite
più raccapriccianti dell’Italia
ai mondiali e altre storie di ordinaria follia calcistica”.
Così ogni capitolo è diviso nel
racconto delle partite viste da
Baini (che sceglie soprattutto
le partite incolore, pallosi zero
a zero, disfatte cocenti, vittorie stiracchiate) e da racconti
brillanti, visionari e poetici di
Argentina. Dalla sconfitta contro la Corea nel 1966 al fallimento del 1974, dalla sorpresa
del 1978 al mito del 1970, dalla cocente delusione di Italia
’90 alla deprimente e “calda”
finale 1994, dalla nuova Corea
del 2002 alla vittoria sotto il
cielo di Berlino del 2006 i due
ci raccontano le storie come
avrebbero potuto fare nella
stessa cabina di commento
Bruno Pizzul e Osvaldo Soriano, Nando Martellini e Nick
Hornby. (pila).
LIBRI 49
AA. VV.
LIBRO SUI LIBRI
9 RACCONTI SULL’ESPERIENZA DELLA LETTURA
50 LIBRI
Libro sui libri è il secondo titolo della collana Coolibrì,
curata da Coolclub e diretta dal nostro Osvaldo Piliego
per Lupo Editore. Ci fa piacere presentare questo titolo,
un’antologia sulla lettura, un po’ vizio, un po’ piacere,
un po’ galera, ma comunque sempre irrinunciabile per i
nove scrittori che hanno accettato l’invito del bravo Rossano Astremo a raccontare il loro rapporto con i libri. Vi
presentiamo in questa pagina la prefazione del curatore
al volume. Un piccolo anticipo di quella che speriamo
sia per tutti voi una lettura piacevole come è stata per
noi di Coolclub. (d.g.)
È un inferno.
Più i giorni passano più lo spazio della mia piccola casa tende a restringersi. Libri su scaffali,
libri su mensole, libri in camera da letto, libri in
cucina, libri in bagno, libri ovunque.
Sono un tossicomane e so che la guarigione è solo
un lontano miraggio.
A quest’accumulo spropositato di volumi si accosta una lettura bulimica di tutto. Sono un lettore
onnivoro, uno di quelli che gli esperti del settore
definiscono lettore forte, uno di quelli che con il
numero di libri che acquista tiene in piedi il rutilante baraccone del sistema editoriale italiano.
Lontani sono i tempi della mia verginità, quando
ai libri preferivo le partite di pallone e i pomeriggi passati davanti alla TV a divorare cartoon
giapponesi.
È l’adolescenza ad aver incrinato la mia beata
innocenza.
L’adolescenza: quel contorto periodo in cui tutto
sembra remare contro di te, quel periodo in cui,
invece di parafrasare canti della Divina Commedia e scervellarsi con strambe formule trigonometriche, preferisci fissare per ore la crepa
asimmetrica che campeggia sul soffitto della tua
camera, il tutto condito dai suoni poco rassicuranti dei Joy Division e Bauhaus.
In uno di quei pomeriggi catatonici, un libro, portato da un mio compagno di liceo, varcò la soglia
della mia camera. Avrò avuto quattordici anni.
Il libro in questione era Sulla strada di Jack Kerouac.
Certo, in precedenza avevo letto altri libri. Non
ero totalmente all’asciutto. Tutto, però, rientrava tra gli obblighi imposti dalla paranoica attività didattica.
Nella storia di Sal Paradise e Dean Moriarty,
invece, trovai molte risposte al mio sentirmi inadeguato e fuori dal coro, perché sono sacrosante
le parole di Cesare Pavese: “Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di
conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che
risuonano in una zona già nostra e facendola
vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti
dentro di noi”.
E quanto vibrai dopo quella lettura!
Fu la mia prima dose. Presto fui sopraffatto da
questa dipendenza. Più gli anni passavano più
necessitavo di roba.
Pagine e pagine per accudirmi, per lenire il mio
disagio e nascondermi per ore e ore in mondi possibili nel tentativo di costruire la corazza migliore con cui affrontate il mondo reale.
Questa è la mia piccola storia.
Necessaria premessa per spiegare la ragione che
mi ha spinto a chiedere ad un gruppo di giovani
narratori la personale versione dei fatti riguardo
l’incontro con la lettura.
Un modo per confrontare la mia esperienza con
la loro e la loro con quella di tutti voi lettori del
presente Libro sui libri.
Giuseppe Braga, Eva Clesis, Gabriele Dadati,
Maura Gancitano, Elisabetta Liguori, Giancarlo
Liviano D’Arcangelo, Teo Lorini, Flavia Piccinni
e Nadia Terranova, ciascuno con il proprio stile
e la propria voce, hanno dato vita a nove testi
inclassificabili, che flirtano con le linee dell’autobiografia, della narrazione e della saggistica
senza rientrare nel pentolone di nessuna di esse.
Molti gli aneddoti raccolti, gli autori citati, i libri
culto, molti i secoli attraversati, tutti tenuti assieme
dal collante comune della loro autentica esperienza.
Da Sciascia a Scerbanenco, da Roth a DeLillo,
passando per Balzac, Pontiggia, Eco, Cervantes,
Sartre, Collodi, Bernhard, Austen, Céline, un
viaggio impazzito nello spazio e nel tempo, nel
quale riluce l’idea di poter trovare nostri contemporanei in ogni epoca e in ogni letteratura.
Nonostante l’invasione possente nella vita di tutti i giorni di TV e Internet, che sottraggono fette
importanti del nostro tempo libero, ancora oggi
la pratica della lettura può essere considerata
un’esperienza decisiva e centrale e il libro un
oggetto rivoluzionario, assolutamente non destinato alla sparizione, convenendo, in conclusione,
con quanto scritto da Umberto Eco qualche anno
fa: “Il libro da leggere appartiene a quei miracoli
di una tecnologia eterna di cui fan parte la ruota,
il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la
bicicletta”.
E se, a lettura terminata, qualcuno di voi si recherà in libreria o in biblioteca o si farà prestare
da amici o parenti uno dei titoli di cui si parla tra
queste pagine, vorrà dire che quel miracolo chiamato libro avrà continuato ad agire e il senso di
questa operazione potrà ritenersi magicamente
compiuto.
Rossano Astremo
LIBRI 51
52
18:30 EDIZIONI
Una piccola casa editrice che produce piccoli libri di grande qualità, collane interessanti con
un tema comune, persone interessanti nella loro
scuderia, come Luca Moretti, Nino D’Attis e tanti altri. Diciottoetrenta ci piace e la presentiamo
qui ai nostri lettori.
Come nasce 18:30 e qual è, brevemente, la
vostra proposta editoriale?
Diciotto e trenta...... beh, dire che nasce da me
e Roberta Lepri sarebbe sbagliato. Nasce piuttosto dalla grande amicizia che lega diverse
persone, tante, almeno una ventina, con cui si
scrive, si organizzano reading, si cazzeggia. Io
e Roberta abbiamo voluto dare a questo legame
una dimensione cartacea che prevedesse visibilità nelle fiere del libro, negli eventi che spesso
organizziamo, dare a tutti la possibilità di essere
presenti in libreria, di poter presentare a Torino.
La vita è breve (tocchiamoci le palle) e noi agli
amici ci teniamo.
I racconti e come li scegliamo. I racconti si scelgono da soli, sono loro stessi che ti trascinano di
pagina in pagina sino alla fine, ti introducono nel
loro mondo e per la loro durata tu sei altro da te.
Beh, quando succede questo, il racconto finisce
su carta.
Qual è il ruolo che una casa editrice senza
una holding alle spalle può ritagliarsi nel
mercato editoriale italiano, un mercato ormai ben più che saturo?
Non lo so, siamo piccoli e facciamo cose piccole,
non ci piace pensare in grande.
Quali sono i vostri ultimi progetti?
Gaytags è la collana che abbiamo lanciato a Torino l’anno scorso, siamo contenti. Adesso abbiamo
per le mani lavori di autori molto interessanti,
alcuni legati al mondo del teatro.
E poi la collana Propaganda, il terzo capitolo
della collaborazione con Luca Moretti che, dopo
Minimal e Subliminal, ci ha proposto otto saggi
di argomento vario scritti da autori interessanti.
Ci parli brevemente delle vostre collane?
Gaytags, racconti di orgoglio gay; Geotags, racconti di viaggio; TAgs, collana generale; Poetags,
poesie; Cuntags, racconti che si rifanno al cunto
siciliano.
Tre titoli da consigliare ai nostri lettori?
Consigliarne tre comporta escludere tutti gli
altri... e poi ogni lettore è diverso dall’altro. Se
proprio devo, consiglio Casa Ariosto, il racconto
numero uno: ha avuto il potere di farci diventare
editori.
Che tipo di politica avete con i manoscritti?
Fondamentalmente ci piace poter intrattenere
uno scambio di mail con tutti al di là dell’esito
della proposta, spesso succede.... purtroppo non
sempre riusciamo a rispondere.
Progetti per il futuro?
Siamo contenti così, non progettiamo, ci godiamo
il presente.
Dario Goffredo
LIBRI 53
CINEMA TEATRO ARTE
FEDERICO
ZAMPAGLIONE
Shadow, un horror inquietante
David è un soldato americano di ritorno dall’Iraq.
Il giovane, alla ricerca di un po’ di serenità, decide
di fare un’escursione in mountain bike in un luogo
sperduto d’Europa. Ben presto questo viaggio solitario si trasformerà in un vero e proprio incubo.
Un horror inquietante e profondamente attuale è
Shadow, il secondo film di Federico Zampaglione,
leader dei Tiromancino, già regista della commedia noir Nero bifamiliare. Dopo aver partecipato
a numerosi festival in Italia e all’estero, il film ha
anche conquistato due nomination ai Nastri d’argento. Prima dell’uscita in Italia il film è approdato anche al Festival del Cinema Europeo di Lecce.
Come è nata la collaborazione con Ferrero,
produttore del film?
All’inizio Shadow avrebbe dovuto essere prodotto da Dario Argento, il quale aveva anche visionato e apprezzato la sceneggiatura. Poi Dario è
stato impegnato sul set di Giallo e io ho incon54 cinema teatro arte
trato in aeroporto Massimo Ferrero, al quale ho
parlato per caso del progetto. A Ferrero era piaciuto molto Nero bifamiliare e ho scoperto che è
un amante dei film horror degli anni ’70. E così,
da un incontro casuale, è nato Shadow.
Un film ricco di citazioni e simboli. Shadow
non è solo un horror, ci sono fondamentali
risvolti politici nella storia, in particolare
il tema della guerra…
Sono un grande estimatore del cinema di genere degli anni ’70, dell’horror puro di Deodato,
Argento, Fulci, Bava. Credo però che qualsiasi
amante del genere horror sia in realtà un cannibale cinematografico, un amante del cinema in
tutte le sue dimensioni. Nello scrivere il film ho
attinto a tutto quello che in trent’anni di vita ho
visto e ho cercato di darne una lettura personale.
Shadow è soprattutto un film horror, pur presentando forti risvolti legati all’attualità. Non
visio, al confine con l’Austria e la Slovenia, un posto bellissimo e inquietante che potrebbe essere il
Canada e invece è nel cuore dell’Europa.
Un horror ansiogeno con una vena malinconica: si potrebbe dire che Shadow è il
viaggio di un’anima negli orrori dell’uomo,
l’incontro con i più tristi e crudeli crimini
umani. Come ti sei documentato?
Mentre scrivevo il film riflettevo molto sugli orrori della guerra e soprattutto su cosa realmente
la gente conosce e vede di questi orrori. Le immagini che riceviamo, soprattutto dalla tv, sono
quelle che vogliono farci vedere, la vera guerra
è quella che non ci mostrano. Ho fatto molte
ricerche, soprattutto in internet, per scovare
le foto proibite, ho individuato diversi siti che
permettono di vedere tutto quello che viene solo
raccontato e di capire realmente cosa c’è dietro
le parole “mutilazione”o “feriti”. Le immagini
del dolore dei sopravvissuti, i feriti e i mutilati
sono ciò che realmente resta dopo una guerra.
Durante questa ricerca ho dovuto anche forzarmi nel vedere immagini che mai avrei pensato
esistessero, sono anche finito in ospedale perché
non sono riuscito a dormire per una settimana
intera. Ho cercato inoltre di documentarmi sui
crimini dell’uomo, da Auschwitz all’11 settembre, dall’Iraq a Guantanamo.
volevo però fare un film di guerra, ho lasciato
che la questione politica entrasse silenziosamente nella storia, senza diventare preponderante,
pur attraversando tutto il film.
Ogni scena di Shadow aggredisce lo spettatore e lo inchioda alla poltrona. L’atmosfera è resa particolarmente inquietante
dai colori agghiaccianti della natura e dalla colonna sonora. Chi si è occupato delle
musiche?
La colonna sonora è stata realizzata dal progetto
The Alvarius di mio fratello Francesco e Andrea
Moscianese, mentre io mi sono occupato solo della supervisione. Abbiamo cercato di creare suoni
sperimentali e psichedelici, soprattutto in alcune
scene. Siamo partiti dalla nostra passione per il
rock, riprendendo le colonne sonore anni ’70 e ’80
del cinema italiano. Per quanto riguarda l’ambientazione, il film è stato girato in Italia, a Tar-
Per quanto riguarda la tua formazione cinematografica, a quali film ti sei ispirato in
particolare?
Vedo film horror da quando ero un bambino, i
primi nomi che mi vengono in mente sono Dario
Argento, Mario e Lamberto Bava, Lucio Fulci,
ma per l’occasione ho rivisto anche tanti altri
film, come il primo Nosferatu.
A proposito di Nosferatu viene da fare subito un paragone e notare come la storia raccontata da Murnau terminasse indicando
una possibile liberazione dal male, con il
sacrificio della donna. Il finale del tuo film
è inaspettato e rischia di sorprendere e deludere lo spettatore più ingenuo: Al contrario di Nosferatu, Shadow termina in modo
disperato...
Credo che la scena finale sia la più crudele di tutto il film, più crudele delle torture precedenti e
più paurosa delle scene di tensione. Non c’è una
speranza perché racconta la realtà e la realtà, soprattutto nel caso della guerra, può essere molto
più spaventosa di qualsiasi immaginazione.
Fulvia Balestrieri
cinema teatro arte 55
EDOARDO
WINSPEARE
Il documentario Sotto il celio azzurro racconta un
fantastico mondo di bambini e insegnanti
È una piacevole sorpresa Sotto il celio azzurro,
documentario firmato dal regista salentino Edoardo Winspeare che dopo il successo dei Galantuomini propone senza troppo clamore iniziale
questa sua nuova creatura. Presentato fuori concorso nella sezione Alice nella città del Festival
di Roma, il documentario non aveva nessuna velleità di girare nelle sale. E invece il passaparola
ha funzionato e il documentario continua ad essere molto richiesto. Il Celio Azzurro è una scuola materna nel cuore di Roma, vicino al Colosseo:
45 piccoli studenti di 32 nazionalità diverse. È il
primo centro multiculturale in Italia per l’accoglienza dei bambini stranieri in età prescolare
(nato nel 1990), gestito da un gruppo di maestri
che insegnano ai bimbi il valore della convivenza
gioiosa e pacifica e l’importanza della fantasia.
Winspeare, telecamera in spalla, si è calato in
questa atmosfera raccontando le storie dei maestri e della maestre, dei genitori italiani e stranieri, dei bambini che finito il ciclo non vorrebbero
abbandonare quell’isola felice. Nel suo lungo giro
di presentazioni Winspeare è approdato anche a
Lecce, presso il Cinema Db D’essai che di recente
è stato inserito nel circuito D’Autore dell’Apulia
Film Commission. Dopo la proiezione il regista
si è intrattenuto con il pubblico rispondendo a
56 cinema teatro arte
qualche domanda. “Questo docufilm – ha esordito Winspeare – mi è molto caro perché mi ha
aiutato a capire come ci si comporta con i bambini. Un’esperienza che mi tornerà utile visto che
sono diventato da poco papà”. Winspeare, nonostante i lungometraggi Pizzicata, Sangue Vivo,
Il Miracolo e Galantuomini, in questi anni non
ha mai smesso di realizzare corti e documentari.
“Ho iniziato col documentario e ne sono un vero
appassionato. Questo, però, lo definirei piuttosto
un docufilm perché non contiene interviste ma
personaggi sviluppati dall’inizio alla fine e risulta emozionante”. L’idea nasce dall’esperienza
del suo storico direttore della fotografia, Paolo
Carnera che al Celio ha mandato i suoi. “È un
posto esemplare: la prova lampante che anche
in Italia le cose si possono fare bene, unendo
serietà e leggerezza. Uno squarcio di luce nella
tempesta italiana degli ultimi tempi. Dopo due
settimane di permanenza tra docenti e bambini
ne ero già innamorato”, ha ricordato il regista.
Ma la convivenza è durata molto di più. Nel documentario infatti Winspeare racconta tutte le
stagioni dall’autunno all’estate, filmando e documentando le difficoltà di una scuola anomala, le
falle nel tetto, gli allagamenti, la mancanza di
risorse, i pranzi multietnici, le mamme addette
DALLA VITA IN POI
Cristiana Capotondi, Filippo Nigro e Nicoletta Romanoff sono i
protagonisti dell’esordio cinematografico di Gianfrancesco Lazotti
Una commedia sui generis, dove toni comici, scanzonati scorrono su situazioni amare e
drammatiche. Dalla vita in poi è film d’esordio
di Gianfrancesco Lazotti, regista che, dopo una
lunga esperienza televisiva, approda sul grande
schermo. Katia (Cristiana Capotondi) è costretta
a vivere su una sedia a rotelle; s’innamora di Danilo (Filippo Nigro), condannato a trent’anni di
prigione per aver commesso un omicidio. Il loro
rapporto comincia prima di incontrarsi, attraverso le lettere che i due si scambiano quotidianamente. È il caso a farli conoscere. Katia, infatti, scrive inizialmente per conto della sua amica
Rosalba (Nicoletta Romanoff). Come in Cyrano
De Bergerac, poi i ruoli si scambiano e Katia fa
di tutto per conoscere il galeotto. Si sposeranno
e architetteranno una fuga d’amore. “È uno di
quei personaggi che ti emozionano subito, e poi
mi è sembrato diverso dai soliti, così ho voluto
fare una specie di prova, avevo voglia di fare una
cosa diversa”, sottolinea Cristiana Capotondi.
“Inoltre conosco Gianfrancesco Lazotti da anni:
so che tipo di delicatezza abbia, e quindi ho scelto convinta la sceneggiatura. Del personaggio, al
di là della condizione di disabilità che la vincola
naturalmente, mi ha interessato e incuriosito
soprattutto il suo temperamento”, prosegue la
protagonista. “Lei è ironica, cinica, per niente
disincantata, però crede ancora fortemente in
qualcosa, l’amore, e lotta per averlo; in questo
modo vuole misurare la sua forza, sapere fino a
che punto può arrivare. In lei c’è anche un po’ di
egoismo perché, quando vuole regalare la libertà
a Danilo, gli può procurare un altro danno con la
giustizia. Questo è anche il suo senso dell’amore, che io non posso condividere, ma che sicuramente non è comune e per questo mi è piaciuta
alle pulizie e i papà impegnati nel giardinaggio.
“Si respira serenità, allegria e allo stesso tempo
serietà. Dieci insegnanti fantastici insegnano ai
bambini a non essere robot ma esseri umani”. La
domanda finale è quella di rito: progetti per il
futuro? “Sto scrivendo un nuovo lungometraggio con Alessandro Valenti, già cosceneggiatore
di Galantuomini. Tornerò a girare nel Salento,
l’idea di poterlo raccontare”. Soddisfatto della
sua interpretazione anche Filippo Nigro, “Il
mio personaggio si poneva all’inizio un problema: la verosimiglianza. Dovevo cercare di farlo
vero, anche perché trae spunto da un uomo che
esiste veramente e che il regista conosce, ma non
sapevo fino a che punto dovessi caricare la sua
figura. In questo ho chiesto aiuto a Gianfrancesco. Da una parte mi attirava l’idea di farlo duro,
cattivo, perché è un omicida, poi ho pensato che
non dovesse imitare nessuno stereotipo”, precisa
l’attore, già interprete, tra gli altri film, di La
finestra di fronte, Le Fate ignoranti, Amore, bugie e calcetto. “Ho lavorato con la fantasia, e così
ho pensato che forse tanto cattivo non era, che
avesse potuto uccidere anche per un incidente.
È un personaggio a cui ti devi affezionare, con
cui devi misurarti e devo dire che interpretarlo
mi è piaciuto molto”. Nel cast del film, che dopo
la presentazione in anteprima al Festival del Cinema Europeo di Lecce arriva nelle sale, anche
Pino Insegno e Carlo Buccirosso.
Silvia Margiotta
tra Lecce e provincia, con attori locali. Sarà una
commedia a metà tra un Baarìa in salsa salentina e Asterix e Obelix”. Intanto Winspeare si gode
il meritato e imprevisto successo di Sotto il celio
azzurro che ricorda a tutti quanti che un’altra
Italia è possibile. E se questa diventa una convinzione dei più piccoli è una cosa incoraggiante.
(pila)
cinema teatro arte 57
58
EVENTI
MUSICA
GIOVEDÌ 10 GIUGNO
– Soul Food di Torre
dell’Orso (Le)
Elvis Acoustic
GIOVEDÌ 17 – Soul Food
di Torre dell’Orso (Le)
Elvis Acoustic Trio
VENERDÌ 18 – Campo
Delta di Copertino (Le)
Beenie Man
VENERDÌ 18 E SABATO
19 – Muro Leccese
Festa della musica
SABATO 19 – Transito di
Lecce
Talking about a revolution
SABATO 19 E DOMENICA
20 – Otranto (Le)
La notte rosa
DOMENICA 20 –
Squinzano (Le)
Salento Talento
DOMENICA 20 – Aradeo
Radio Egnatia
MARTEDÌ 22 – Lecce
Otium et negotium
MERCOLEDÌ 23 – Lecce
Anima Lunae
MERCOLEDÌ 23 – Bari
Apres la classe
GIOVEDÌ 24 – Soul Food
di Torre dell’Orso (Le)
Dj Bellezza
SABATO 26 – Manifatture
Knos di Lecce
Calibro 35
SABATO 26 – Veglie
Carla Casarano – Jazz in
Veglie
SABATO 26 – Torre
Sant’Andrea (Le)
Treble
SABATO 26 – Transito di
Lecce
Almoraima
SABATO 26 – Parco
Gondar a Gallipoli (Le)
Macka B
SABATO 26 –
Buenaventura di San Foca
El sabatone con Tobia
Lamare
DOMENICA 27 – San
Pietro Vernotico (Br)
Zina
GIOVEDÌ 1 LUGLIO – Soul
Food di Torre dell’Orso
(Le)
Lucia Manca
SABATO 3 – Lecce
La notte bianca
SABATO 3 – Buenaventura
di San Foca
El sabatone con Tobia
Lamare
DOMENICA 4 – Officine
Cantelmo di Lecce
Nordgarden, Tobia Lamare &
The Sellers
GIOVEDÌ 8 – Soul Food di
Torre dell’Orso (Le)
Andrea Mi
SABATO 10 – Locorotondo
Paolo Fresu, Omar Sosa,
Trilo Gurtu
SABATO 10 –
Buenaventura di San Foca
El sabatone con Tobia
Lamare
GIOVEDÌ 15 – Officine
Cantelmo di Lecce
Brunori Sas
GIOVEDÌ 15 – Soul Food
di Torre dell’Orso (Le)
Gopher
SABATO 17 – Torre
Lapillo (Le)
Perturbazione
SABATO 17 –
Buenaventura di San Foca
(Le)
El sabatone con Tobia
Lamare
SABATO 17 – Melpignano
(Le)
Passeggiando sulla luna
GIOVEDÌ 22 – Lecce
Apres La Classe
GIOVEDÌ 22 – Soul Food
di Torre dell’Orso (Le)
Grimoon
SABATO 24 –Conversano
(Ba)
Selton
SABATO 24 – Locorotondo
Bobo Rondelli
SABATO 24 –
Buenaventura di San Foca
(Le)
El sabatone con Tobia
Lamare
DOMENICA 25 –
Locorotondo
Esperanza Spalding
DOMENICA 25 – Santa
Maria di Leuca (Le)
Co’Sang
DOMENICA 25 – Carmiano
(Le)
Folkabbestia
DA DOMENICA 25 A
SABATO 31 – Sogliano
Cavour (Le)
Locomotive Jazz Festival
LUNEDÌ 26 – Polignano a
Mare (Ba)
Dente
MARTEDÌ 27 – Teatro
Romano di Lecce
Amor Fou e Lucia Manca
GIOVEDÌ 29 - Molfetta
Gotan Project
GIOVEDÌ 29 – Soul Food
di Torre dell’Orso (Le)
Kosmik
VENERDÌ 30 – Anfiteatro
Romano di Lecce
Malika Ayane
VENERDÌ 30 – Excalibur
di Canosa (Ba)
Il disordine delle cose
VENERDÌ 30 –
Locorotondo
King of convenience
VENERDÌ 30 – Acquaviva
delle fonti
Zu
SABATO 31 – Locorotondo
Malika Ayane
SABATO 31 –
Buenaventura di San Foca
El sabatone con Tobia
Lamare
SABATO 31 – Supersano
Alpha Blondy
EVENTI 59
A COSA SERVE IL
TEATRO?
Dopo la riapertura al pubblico proseguono le attività delle
Manifatture Knos di Lecce e
riprende la rassegna “A cosa
serve il teatro?”, ideata e coordinata da Induma Teatro e
Luoghi Comuni. Molto intenso
il programma di spettacoli e
laboratori previsti per giugno.
Sabato 12 e domenica 13 giugno a conclusione del percorso
iniziato con alcuni testi selezionati per la prima edizione
del Premio di Drammaturgia
Contemporanea “Il Centro Del
Discorso” 2008/2009 saranno
messi in scena “Gli Illuminati”
di Vittoria Tambasco con Roberta Mele, Annalisa Gaudino,
Marco Memmo, Valentino Ligorio. Regia Valentino Ligorio
e “Shoa’” di Valentina Diana
con la regia di Simone Franco.
Intanto sono stati selezionati
i quattro finalisti dell’edizione
2009/2010 del Centro del discorso, sono Mariano Dammacco, Giuseppe Bonfanti, Salvatore Zinna e Maria Conte.
Dal 14 al 19 giugno le Manifatture Knos ospitano il workshop
di danza con la coreografa
giapponese Anan Atoyama.
Mercoledì 16 giugno secondo
appuntamento con la trilogia
60 EVENTI
Cinemateatro a cura di Simone Franco. Questa volta spazio a “Todo modo” con Simone
Franco, Orodè, Gianluca Milanese e Rocco Nigro. Domenica 20 giugno Caterina Inesi
propone K465 part two studio
una performance coreografica
a partire dal quartetto d’archi
delle dissonanze di W. A. Mozart di e con Matteo Angius,
Manuela De Angelis, Caterina
Inesi, Marcella Mancini, Francesca Sibona ideazione e regia
Caterina Inesi musica Wolfgang Amadeus Mozart ulteriori contributi musicali Marco
Della Rocca progetto luci Diego
Labonia. Mercoledì 23 giugno
terzo appuntamento con la trilogia Cinemateatro con “Pull
my daisy: omaggio alla Beat
Generation” con Simone Franco, Orodè, Gianluca Milanese
e Massimo Donno. Venerdì 25
giugno l’attore e regista Simone Franco propone Il mulino
degli sconcerti. Le memorie di
Gino Sandri. Info www.manifattureknos.org
corre un arco di tempo molto
vasto: dal 1904, con l’esposizione della prima incisione mai realizzata dal grande maestro - Il
Pasto frugale -che fa parte della
serie Suite des saltimbanques,
per arrivare alla sua opera incisoria più famosa, la serie della
Tauromachia (1957) e un corpo
unico di 38 ceramiche in cui il
segno di Picasso è più che mai
evidente e riconoscibile. La selezione è completata da 4 opere
miste: un disegno a pastello del
1919 - Olga’s left profile - raffigurante la splendida moglie
Olga (cm 14x7); Deux Femmes,
gouache (tecnica del guazzo cm 26x18) realizzata a Parigi
nel 1920; Tête de femme, un
olio del 1943 (cm 40x50), e ll
pittore e la modella, disegno a
china del 1971 (cm 21x33). Info
www.castelloaragoneseotranto.
it
SALENTO IN
MOVIMENTO LENTO
PICASSO A OTRANTO
Sarà Pablo Ruiz Picasso a inaugurare la stagione artistica
2010 del Castello di Otranto:
83 opere tra ceramiche, oli, pastelli e incisioni per raccontare
l’ecletticità del genio incontrastato del ‘900. La mostra riper-
Riscoprire il proprio territorio,
il Salento, attraverso un viaggio lento, a piedi lungo la costa
ionica, da Veglie a Santa Maria
di Leuca. Alla ricerca di uno
stile di vita più lento raccontando il territorio, la bellezza
della sua natura, i suoi abitanti e le sue economie sostenibili.
Una camminata-evento lunga
11 giorni, organizzata da “Oikos, il periodico per uno stile
di vita sostenibile”, tra terra
e mare mettendo in relazione
realtà economiche dell’agricoltura, del turismo e dell’artigianato che da anni operano sul
territorio in modo sostenibile.
Attività che non consumano
il territorio ma praticano con
gioia nuove forme di economia sostenibili. “Il progetto
“Salento in Movimento Lento”
– dice Katia Manca, direttore
responsabile di Oikos - nasce
con l’ obiettivo di dare un contributo concreto alla crescita
del turismo a bassa velocità e a
basso impatto ambientale. Non
avremo soldi, non avranno cibo
e non avranno tende sotto cui
trascorrere la notte, ma lavoreremo all’interno delle aziende
che incontreremo sul territorio
domandando loro in cambio
ospitalità e cibo”. La partenza è
prevista per martedì 15 giugno,
da Largo Porta Nuova di Veglie, luogo storico di incontri e
di scambi, arrivo il 25 giugno al
Faro di Santa Maria di Leuca,
dopo oltre 150 Km percorsi rigorosamente a piedi o in treno
(Ferrovie Sud-Est). Un viaggio
che in alcuni giorni sarà aperto a tutti tra racconti, musica,
cibo e buon vino per creare uno
sciame d’interesse e di proposte sulle strategie necessarie a
un’economia altra, da costruire
dal basso, con piccoli e rivoluzionari esempi locali.
MUSIKÌ
Sabato 26 giugno torna a Sternatia (Le) Musikì, notte bianca
di cinema del reale, la notte in
cui suoni e visioni cinematografiche si fonderanno fino all’alba.
Il progetto Musikì si propone di
raccontare il territorio pugliese e
salentino attraverso viaggi musicali e visioni cinematografiche
che percorrono tra passato e presente, tra luci e ombre, i diversi
territori della regione. Sconfinando dalla Puglia si affrontano
attraverso la musica temi civili,
religiosi, e sociali che riguardano tutto il Sud Italia e i Paesi
del Mediterraneo, si raccontano storie riguardanti uomini e
donne per riflettere su lavoro,
migrazioni, guerre, realtà poli-
tiche e sociali. Una notte bianca
di eventi tra musica e cinema
con proiezioni, live e incontri;
gli autori dei film sono i grandi
maestri del cinema documentario italiano, affermati filmakers,
esordienti di valore, appassionati cineamatori. Tra gli eventi,
in collaborazione con Archivio
sonoro della Puglia sarà proiettato un omaggio a Matteo Salvatore, grande interprete e autore
pugliese; un altro omaggio sarà
dedicato a Gianfranco Mingozzi,
straordinario cineasta e compagno di viaggio di Cinema del
Reale, scomparso nel 2009. Tra
le proiezioni “1 Giant Leap” di
Duncaman Bridge e Jamie Catto. Uno straordinario viaggio in
tutto il mondo con solo una telecamera digitale, un computer e
un’idea: catturare e montare in
un’unica fusione di suoni, immagini e parole le testimonianze
di musicisti, registi, scienziati
e pensatori. Il risultato finale
è qualcosa di assolutamente
originale, una via di mezzo tra
documentario e videoclip musicale. Saranno presenti alla manifestazione gli autori dei film in
programma e il filmaker e direttore artistico di Cinema del reale
Paolo Pisanelli, ma anche cantori e musicisti appartenenti a
generazioni diverse. L’evento, ch
rientra nel progetto La taranta
nella rete, è organizzato da Big
Sur e Archivio Cinema del Reale, in collaborazione con la Regione Puglia, Provincia di Lecce,
Comune di Sternatìa, Apulia
Film Commission, Archivio Sonoro della Puglia, Associazione
Altrosud, Officina Visioni e con
Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico,
Archivio Nazionale del Film di
Famiglia Home Movies, Cineteca di Bologna, Cineteca Lucana,
Documè, ildocumentario.it, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Info www.bigsur.
it; www.latarantanellarete.it
L’OLIO DELLA POESIA
Quindicesima edizione per il
Premio L’olio della poesia, ospitato come ogni anno in piazza
Lubelli a Serrano (Le). Sabato
24 sarà premiato Milo De Angelis presentato dal professore
Stefano Verdino (Università di
Genova). Come è ormai tradizione, l’editore Manni pubblicherà il quaderno con i testi di
De Angelis in 999 copie numerate e fuori commercio, curato
da Massimo Melillo. Il premio
- che consiste in un quintale
di Olio extravergine di oliva
prodotto dalle locali aziende
agricole e da una settimana
di soggiorno a Otranto - sarà
offerto dall’Oleificio cooperativo San Giorgio di Carpignano
e dal Comune di Otranto. Il
premio Salento D’amare, invece, quest’anno andrà a Giorgio
Forattini mentre il premio Millennium è stato assegnato alla
rivista di poesia L’Incantiere
edita dal Laboratorio di poesia
dell’Università di Lecce, diretta da Arrigo Colombo e Walter
Vergallo. La manifestazione –
coordinata da Peppino Conte
- è organizzata dalla Provincia
di Lecce e dal Comune di Carpignano Salentino, in collaborazione con i Comuni di Otranto,
Taviano, Cursi, L’Università,
L’Aprol, l’Oleificio Montevergine di Otranto, l’Istituto di Culture Mediterranee e l’Oleificio
Cooperativo San Giorgio di
Carpignano Salentino.
EVENTI 61
dal 26 giugno al 12 agosto
SUD EST INDIPENDENTE
Dopo un anno di pausa torna nel
2010 il Sud Est Indipendente
che diventa itinerante. Il Sei,
a cura di Coolclub, ospiterà
infatti sei concerti tra Lecce,
Torre dell’Orso e Melpignano.
E dopo le evoluzioni poliglotte
dei Gogol Bordello, quest’anno
abbiamo deciso di puntare
sull’italiano. Si parte sabato
26 giugno con le colonne sonore
dei Calibro 35 in concerto nel
parcheggio delle Manifatture
Knos di Lecce. La commistione
di funk, jazz e prog rock che
caratterizzava
le
colonne
sonore di “Milano Calibro 9”,
“Il Gatto a Nove Code” e “La
Mala Ordina” rivive grazie ai
musicisti coinvolti. Domenica
4 luglio negli spazi esterni
delle Officine Cantelmo unico
appuntamento
“straniero”
con il cantautore norvegese
(ma italiano da adozione)
Nordgarden che si esibirà
al fianco di Tobia Lamare
& The Sellers. Giovedì 15
luglio sempre alle Cantelmo
appuntamento con il cantautore
calabrese Brunori Sas. Le
sue canzoni sono disadorne
e dirette, ora disilluse ora
romantiche, ironiche e cremose,
filtrate attraverso sonorità
secche e retrò: quel retrò che
è l’immaginario dei ricordi
dei trentenni di oggi, ossia i
primi anni 90. Giovedì 22 al
Soul Food di Torre dell’Orso
spazio ai Grimoon il gruppo
italo francese che sorprende
per lo stile crepuscolare
ma
spensierato,
morbido
ma incisivo. La loro musica
tiene insieme il folk e il rock,
ballate docili e cantautorato
delineando un vero e proprio
sound Grimoon, un mondo
sonoro inconfondibile. Martedì
27 luglio al Teatro Romano di
Lecce gli Amor Fou incontrano
la cantautrice salentina Lucia
Manca. Ultimo appuntamento
a Melpignano, giovedì 12
agosto con Teatro degli Orrori
(che tornano nel Salento dopo il
successo di qualche mese fa) e
Tre allegri ragazzi morti. www.
coolclub.it
DOVE TROVO COOLCLUB.IT?
Coolclub.it si trova in molti locali, librerie, negozi
di dischi, biblioteche, mediateche, internet point.
Se volete diventare un punto di distribuzione di
Coolclub.it (crescete e moltiplicatevi) mandate
una mail a [email protected] o chiamate al
3394313397
Lecce (Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Caffè
Letterario, Magnolia, Svolta, Cagliostro, Coffee and
Cigarettes, Arci Zei, Libreria Palmieri, Liberrima,
Libreria Apuliae, Ergot, Youm, Pick Up, Libreria
Icaro, Fondo Verri, Negra Tomasa, Road 66, Mamma
Perdono Tattoo, Shui bar, Cantieri Teatrali Koreja,
Santa Cruz, Molly Malone, La Movida, Biblioteca
Provinciale N. Bernardini, Museo Provinciale
Sigismondo Castromediano, Edicola Bla bla,
Urp Lecce, Castello Carlo V, Torre di Merlino,
Trumpet, Orient Express, Euro bar, Cts, Ateneo Palazzo Codacci Pisanelli, Sperimentale Tabacchi,
Palazzo Parlangeli, Buon Pastore, Ecotekne, La
Stecca, Bar Rosso e Nero, Pizzeria il Quadrifoglio,
Associazione Tha Piaza Don Chisciotte), Calimera
(Cinema Elio), Cutrofiano (Jack’n Jill), Maglie
(Libreria Europa, Music Empire, Suite 66),
Melpignano
(Mediateca, Kalì), Corigliano
D’Otranto (Kalos Irtate), Otranto (Anima Mundi),
Alessano (Libreria Idrusa), Galatina (Palazzo
della Cultura, Gamestore), Nardò (Libreria i
volatori, Vite, Aioresis Lab), Novoli (Saletta della
Cultura Gregorio Vetrugno), Squinzano (Istanbul
Cafè), Ugento (Sinatra Hole), Gagliano Del
Capo (Enoteca Torromeo, Tabacchino Ricchiuto),
Montesano (Endorfina coffee drink), Presicce
(Jungle pub, Arci Nova), Salve (Chat Noir, Le
Beccherie), Castrignano del Capo (Extrems),
Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni, Birdy
Shop), Ceglie (Royal Oak), Erchie (Bar Fellini),
Torre Colimena (Pokame pub), Oria (Talee),
Bari (Taverna del Maltese, Caffè Nero, Feltrinelli,
Kismet teatro, New Demodè, TimeZones, Teatro
Forma, H25), Giovinazzo (Arci 37), Trani (Spazio
Off), Taranto (Associazione Start, Trax vinyl shop,
Gabba Gabba, Biblioteca Comunale P. Acclavio, Alì
Phone’s Center, Artesia, Radiopopolaresalento),
Manduria (Libreria Caforio), Roma (Circolo Degli
Artisti) e molti altri ancora...