Il nuovo realismo etico Mappa dell`Unità Piccolo popolo

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Il nuovo realismo etico
Mappa dell'Unità
Piccolo popolo - La storia sta diventando sempre più come uno specchio in cui ci vediamo per quello che siamo.
- È davvero impressionante quella pagina di Hobbes. A me personalmente non pare che ci sia poi tutto quel distacco
“da entomologo” che dici tu. A me pare di leggerci una feroce amarezza.
Ermetis - Può darsi che tu veda correttamente. Diciamo che il mio discorso andava un po’ oltre, abbracciando tutta la
filosofia sociale di Hobbes. Complessivamente, il suo coinvolgimento non appare spingersi oltre un certo livello di
interpretazione “dei fatti”. Ma qui torniamo a un discorso già detto.
Piccolo popolo - A proposito di discorsi già fatti. Io ho notato, in quello che ci hai letto e che ci hai detto, un’eco
profonda di realtà antiche e di problematiche che sembravano già superate. L’uomo di Hobbes assomiglia molto al
cittadino ateniese che mise a morte Socrate e che costrinse Platone a rinchiudersi nella torre d’avorio della sua
Accademia. Non trovate?
- Ho qualche problema a capire …
Ermetis - Io sono d’accordo, e capisco però le difficoltà che la tua acuta associazione può creare tra di voi, per il
semplice fatto che di Platone ho detto molto poco, per quanto il solo problema del bene ci abbia impegnati in una lunga
riflessione. Effettivamente, nei due importantissimi dialoghi del Gorgia e della Repubblica emerge una contrapposizione
drammatica tra Socrate e i suoi antagonisti ateniesi, e in particolar modo Callicle nel Gorgia e Trasibulo nella
Repubblica. In entrambi i casi la visione dell’esercizio filosofico come elevazione dell’anima che Socrate propone si
scontra duramente con la cultura edonista del suo tempo, contro quella sorta di fisiologia del piacere che impone di
lasciarsi trasportare dall’inarrestabile flusso dei desideri. Il silenzio che accompagna il monologo di Socrate nel finale del
Gorgia e l’altrettanto monologante utopismo della Repubblica, è segno della rottura ormai avvenuta tra filosofia e realtà.
La differenza tra Platone e Hobbes è che il primo si ritira dal mondo, il secondo ci deve stare dentro, perché non ha un
luogo “più elevato” in cui trovare rifugio. Il discredito della metafisica toglie ai filosofi ogni alternativa nei confronti di ciò
che è e di come è.
Piccolo popolo - Chiaro. Quindi tu intendi affermare che la cultura inglese del Seicento è una cultura edonista e volta al
dominio della volontà come esercizio del proprio utile?
- E non solo quella del Seicento ….
- Chiaro.
Ermetis - Certamente. Siamo, come accennavo, alle origini del liberalismo e del proto capitalismo, e di tutti i fenomeni
connessi sul piano economico e politico. E di nuovo, come nell’Atene imperialista del V secolo, il problema “vero” è
quello del potere. Nel senso che, in una visione della vita tutta centrata sul principio del piacere, l’unico strumento che
può soddisfare tale principio, che può garantire all’essere umano il libero accesso a ogni desiderio, è il potere. Ad Atene
come a Londra, la domanda a cui il filosofo deve dare una risposta è drammaticamente elementare: chi è più felice del
tiranno? Ed è per tiranneggiare gli uni sugli altri che gli uomini esistono, perché il potere dà la sicurezza di poter trarre
dalla vita tutto quello che essa offre senza il rischio che qualcuno sia più svelto di noi. Il potere di togliere potere. È lo
stato di natura che tratteggia Hobbes nella sua antropologia, appunto quell’homo homini lupus che spoglia l’umanità di
ogni maschera ideale che il pensiero ha sempre cercato di conferirle. L’uguaglianza naturale tra gli uomini è solo un
comune stato di continua tensione verso il potere, è l’ambizione corrosiva e spietata della corsa per la vita di cui
abbiamo letto l’efficace descrizione.
Discutetene
Piccolo popolo - Ma così il piacere è una condanna! Voglio dire: se io ho meno ambizione degli altri, sono destinato a
soccombere, non posso “tirarmi fuori”, perché non mi rimane più niente.
- Siamo tra due fuochi, amica mia … minacciati dal prossimo e incalzati dall’ansia di godere.
- Oggi diciamo: di consumare.
- Il bene dunque è il mio bene, e chi se ne frega degli altri. Non credo sia un gran novità.
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- È diverso sì dire: il bene è il mio bene, pensando alla salute dell’anima e alla propria serenità mentale, che possono
anche giovare al prossimo, perché è noto che chi sta bene con se stesso sta bene con gli altri. E invece dire: il bene è il
mio bene pensando alle proprie tasche senza curarsi di nessuno.
Ermetis - Infatti non bisogna confondere l’edonismo pragmatico con l’ideale epicureo di felicità. Sono due atteggiamenti
opposti: l’edonismo è la “scienza delle passioni”, di un “far bene” in cui la virtù consiste nel potere-di godere senza alcun
limite di tutto ciò che si desidera; la felicità epicurea è un ideale di saggezza che ha come scopo il “sentirsi bene”,
ponendo quindi un limite alla forza devastante delle passioni. Al primo corrisponde l’immagine dell’anima come “sacco
senza fondo” attraverso il quale fluiscono le sensazioni vissute alla giornata, non trattenute ma semplicemente provate;
alla seconda l’immagine della cittadella interiore, le cui mura sono erette contro l’assalto della sofferenza creata da tutto
ciò che è esterno ad essa.
Piccolo popolo - C’è di più, secondo me. C’è la novità del cristianesimo.
- Piccolo particolare ….
- Già.
- Ho capito la tua intenzione di stabilire un parallelo di atteggiamenti, e trovo questa cosa comunque utile, ma non
dimentichiamo che la società inglese del Seicento è scossa da uno spirito puritano di riforma morale che cambia molte
carte in tavola rispetto ai valori edonistici tipici delle società opulente.
Ermetis - Giustissimo. Infatti il cristianesimo riformatore è il martello che batte sull’incudine dell’edonismo, e in mezzo
viene a trovarsi la coscienza etica dell’uomo moderno. In altre parole, tutto ciò è il quadro delle contraddizioni che
segnano la nascita della filosofia pratica di scuola anglosassone. La libertà di godere che caratterizzava la cultura
antica, scevra di sensi di colpa, non è più possibile; il libero arbitrio è stato affossato sotto l’assalto dell’immagine biblica
della colpa, che corrompe la natura stessa della volontà, rendendola espressione di puro e semplice egoismo. L’impulso
alla felicità deve venire represso, contenuto, rimosso: quello che conta più della felicità stessa è la buona reputazione
che ciascuno vuole per sé. Se poi i desideri non possono essere negati, allora ecco la sofferenza della contraddizione
tra ciò che si è – esseri naturali soggetti alle passioni – e ciò che si dovrebbe essere – esseri morali padroni di sé.
Piccolo popolo - Un momento! Ma qui siamo a Freud … per quel poco che ne so.
Ermetis - Indubbiamente. Siamo alle origini del problema assai moderno del disagio della civiltà. Da Hobbes in poi,
sotto lo specchio riflettente del discorso morale, scorre una consapevolezza amara e indicibile: se si potesse fare a
meno della civiltà sarebbe meglio, ma questo non è possibile perché, nel calcolo dei piaceri, la costante paura della
morte che sovrasta lo stato di natura è un male peggiore rispetto all’autocontrollo sociale imposto dai rapporti civili.
Piccolo popolo - Sbaglio, o in questo calcolo la “morale” non c’entra un gran ché?
Ermetis - Direi che è semplicemente uno strumento per definire ciò che è utile per la comunità.
Piccolo popolo - Non pestarsi i piedi e non essere di scandalo, così da mantenere quei buoni rapporti con la società che
ti garantiscono lo spazio di manovra per vivere comodamente.
- Direi che qui c’è anche un bel po’ di Nietzsche.
Ermetis - Sono tutte cose che vedremo a suo tempo.
Discutetene
Ma quello di cui parla Hobbes è un uomo al tramonto, figlio di una società aristocratica che la guerra civile sta
eliminando dalla storia. La brutalità di una società allo sbando ha spinto il filosofo in un angolo visuale angusto e miope,
trasformandolo in “filosofo dei lupi”, come i suoi successori lo definirono. Quello che si apre col Settecento è invece un
nuovo mondo, a capo del quale si pone una nazione, l’Inghilterra, che è riuscita a realizzare al proprio interno un
equilibrio pressoché ideale, ed è ormai matura per la nuova avventura imperialista e borghese.
L’antropologia hobbesiana ha una tonalità acida e imbarazzante; il suo realismo è troppo spinto, e rasenta un cinismo
intollerabile per la nuova èlite intellettuale, che si è ormai sbarazzata dei fanatismi ideologici del Seicento. A uscire
sconfitta dalle guerre di religione è stata soprattutto la filosofia in quanto ancilla theolgiae, subalterna alla teologia,
bandita per sempre dall’orizzonte degli interessi culturali del “mondo”. Perché è di questo che si tratta: l’impegno
mercantile e i nuovi orizzonti di scambio che la pace e le colonie hanno creato, ispirano una rinascita culturale, nella
classe media inglese e francese, volta soprattutto agli aspetti pratico-economici della vita sociale, e conseguentemente
alle regole di convivenza indispensabili per uno sviluppo ordinato di una società economicamente avanzata. La classe
media è nemica delle ideologie e delle “guerre sante”: dal Settecento la guerra diviene, infatti, “la continuazione della
politica con altri mezzi”, ovvero uno strumento totalmente sottomesso alla razionalità del potere e non più soggetto alla
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furia cieca delle passioni. Il progresso tecnico e quello economico rendono lo spirito umano più tollerante: se qualcuno
crede in un altro dio ma è onesto e interessato a trattare con me, possiamo essere ottimi amici e vicini di casa, purché
vengano tralasciate le quisquilie sentimentali legate alla fede e a cose di questo genere. Il cittadino rispettato e ben
pasciuto delle grandi città europee ritorna a quel pragmatismo moderato e illuminato che aveva caratterizzato la
stagione umanistica nell’Italia delle Signorie; ma mentre in quel contesto la rilevanza di una ideologia sostanzialmente
agnostica e individualista era stata minima sul piano sociale, nella nuova Europa mercantile e pre-capitalista il suo peso
si fa schiacciante. L’epicureismo e lo stoicismo tornano a farsi filosofie “alla moda”, ma si trasferiscono dai piani alti della
speculazione teoretica a quelli medi della pubblica opinione. È tutta la società colta e ben pensante del Settecento che
si nutre di una nuova antropologia pragmatica e materialista, scevra da ogni istintività trascendente, nel senso che non è
più dominata dall’insicurezza e dalla paura della diversità, e quindi è più libera di guardare con distacco alla realtà delle
cose così come sono, sicura di poterle dominare con la forza della sua intelligenza e del suo denaro.
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Esercizi - Versione stampabile (vedi allegati)
Carl Phillip Gottlieb von Clausewitz, Della Guerra, 1832.
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giornata In che modo, a vostro parere, potere e felicità sono connessi? Si può essere felici senza aver potere? E il
potere garantisce la felicità? Piacere e felicità sono la stessa cosa? E può la felicità essere "calcolata" in base all'utilità?
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In questa unità
Testo: Storia delle idee
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Metaredazione: Erica Pellizzoni
Editore: BBN
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