Capitolo 6
…e la memoria delle immagini
…e la memoria delle immagini
Preziose storie in bianco e nero.
Compare sul tavolo un’altra foto. L’ha portata De Lorenzi, che indica un uomo “in questa foto questo è il partigiano ucciso e i tedeschi si fanno fotografare come quando uno prende il cervo.
Questo è il Berbenni, uno che ha conosciuto bene la guerra. “La storia della Russia… chi è tornato e chi non è tornato…” mormora sospirando Berbenni. Poi riprende il discorso De Lorenzi, sempre con la foto in mano “E qui ci sono i tedeschi che sparavano sulla diga. Prendere in mano la diga
voleva dire fermare gli americani che venivano verso l’Alta Italia, noi siamo arrivati prima degli americani, però i tedeschi si sono fermati sulla statale dello Stelvio, 300 tedeschi alla prima cantoniera
del Passo dello Stelvio. Ci fu però un episodio che ci favorì, infatti gli aerei americani che tornavano dai grandi bombardamenti, al rientro sorvolavano la Valtellina e ad uno di questi probabilmente si erano inceppati i meccanismi di sgancio delle bombe. Per le continue manovre a bordo da
parte dei piloti, per liberarsi del carico, è accaduto che sono state sganciate per caso due o tre
bombe che sono arrivate alla prima cantoniera dello Stelvio occupata dai tedeschi. I tedeschi si
sono trasferiti scappando alla seconda cantoniera. Abbiamo tirato un gran respiro, perché la prima
permetteva di dominare la valle; quando ci hanno visti salire si sono ritirati alla quarta cantoniera.
Noi ci siamo fermati alla terza, mi ricordo che c’era tanta nebbia e si temeva che i tedeschi scendessero. Il giorno dopo hanno chiesto l’armistizio: erano disposti a trattare, però volevano che con
il Comandante Tom (Cesare Marelli) ci fosse anche un ufficiale americano e a metà tra la terza e
la quarta cantoniera c’è stata la resa. Era il 2 maggio 1945, ultima operazione di guerra in Valtellina.”
Esperienze che talvolta sembrano racconti di un film di guerra visto di recente, come quella di
Rinaldi: “siamo nel marzo ’44, c’erano in giro tutti i gruppi di partigiani, di sbandati. Io ero in con-
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tatto con il gruppo comandato da Franco Caspani, c’era tuo fratello - dice continuando a scandire il proprio racconto, che coinvolge anche il fratello di Della Palma - e i miei colleghi di lavoro. Il
mese di agosto sono andato a Cancano per la prima volta, avevo un permesso senza fotografia.
Presento i documenti, non validi, e mi hanno messo in prigione due giorni a Cancano; chiamano
l’ingegnere Roverselli perché io avevo detto ‘Ma io devo andare a lavorare a Digapoli’ ma lui dice
che non mi conosce. Mi hanno messo in cella insieme a uno per farmi cantare, io non ho detto
niente: finalmente ho dato il nome dell’ingegnere Cenerini, l’hanno rintracciato e lui ha garantito
che io ero Rinaldi dell’Aem e mi hanno rilasciato. Intanto avevo incontrato il fratello di Della Palma
che mi aveva confidato che stava per scappare. Lo ha fatto col filocarro. L’autista sapeva che lui
doveva venire giù, si è fermato, ha tolto il coperchio e lui si è infilato nel bidone del cemento. Io
rientro a Digapoli il giorno dopo e mi hanno detto di non allontanarmi più da Grosio perché ero
in pericolo: il documento che avevo era un pezzo di carta scritto a macchina, senza fotografia, ed
ero del ‘23 e quindi richiamato. E non mi sono più mosso, ma ero sempre in contatto con il fratello di Della Palma e avevamo cominciato gli impianti telefonici che risultano in quello schemino
lì. Alla fine di ottobre sono andato con loro - indica sempre Della Palma - in formazione, sopra
Grosio, perché mi avevano detto ‘Guarda che lì tu sei in pericolo’. Sono rimasto in formazione fino
alla Liberazione, prima sul Mendrolo poi abbiamo costituito la ‘13’, un gruppetto che si chiamava
così per il semplice fatto che eravamo in tredici. Questo verso il mese di gennaio del ‘45. Il 3 febbraio abbiamo affrontato un massiccio rastrellamento, a fine febbraio siamo scesi con la ‘13’ e ci
siamo piazzati all’inizio della Valgrosina a San Giacomo, dove appena sopra la chiesa c’era la nostra
baita e sotto c’era la strada. Noi avevamo il compito di tenere sotto controllo la strada d’ingresso della Valgrosina. I comandanti erano quelli che poi sono morti il 18 aprile: Pini Guglielmo e il
secondo Emilio, alla mattina è morto Guglielmo ed Emilio è diventato comandante, al pomeriggio
è morto anche Emilio e il comandante è diventato Berto. Noi siamo stati quelli che hanno fucilato l’ufficiale tedesco Laiser, quello che aveva condotto il rastrellamento in Val d’Ossola. Era venuto in Valgrosina nell’inverno precedente per un sopralluogo, noi l’avevamo lasciato passare perché
sapevamo di tutti i suoi precedenti, poi quando è stato scoperto da quelli di Sondalo e dopo aver
fatto un regolare processo a Fusino, l’abbiamo fucilato nel bosco dei larici e ho anche le fotografie.”
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La Liberazione.
Il 18 aprile 1945 nella zona della centrale di Roasco, oggi sede dello spaccio Craem, quella usata
più volte dai partigiani come base per trasmettere messaggi in cifra, ci furono scontri.
Il 28 ci fu la battaglia di Tirano, che durò l’intera giornata e si concluse con la disfatta dei reparti
francesi del generale Pétain comandati da Darnand che intendevano “bonificare” la zona dai partigiani. Racconta Della Palma: “il 29 siamo andati verso Sondrio perché allo Stelvio c’erano ancora i
tedeschi e mi sono fermato al comando partigiano fino al 15 maggio, dopo di che sono rientrato
in Azienda”.
Non tutti hanno vissuto in egual misura lo stesso evento: fattore discriminante è stato spesso l’età,
come per Cipolla: “la Liberazione per me era un divertimento, il poter finalmente mangiare il prosciutto crudo, il pane buono. La mia famiglia ha viaggiato sempre con la borsa nera, non è mancato quasi nulla, non posso dire come stavano gli altri, ma sentivo che c’era gente che doveva fare i
debiti per comprare la roba da mangiare”.
Intanto, a Milano,“il 25 aprile sono uscita di casa per andare al lavoro; era il mio unico punto di riferimento e ho visto i primi morti, poveretti lì per terra in corso Venezia; in via della Signora sparavano. I colleghi partigiani arrivavano dalle centrali elettriche, non tutti perché molti erano rimasti
per rintuzzare eventuali attacchi dei tedeschi, mentre dai nascondigli uscivano le armi preparate
pronte per quel momento. Per corso Vittorio Emanuele sfilavano i camion dei partigiani che portavano con sé le collaborazioniste con i capelli malamente tagliati a sfregio; dopo di loro venivano
gli americani”, racconta Giuseppina37.
In viale Mugello, dove l’Aem aveva trasferito parte dei suoi uffici nelle scuole elementari, Bozzi e
Berini trascorsero il pomeriggio del 24 aprile a cucire nelle fodere delle giacche degli uomini i bracciali del CNL che avrebbero portato al braccio il giorno dopo. E intanto cominciavano ad arrivare
le armi che, per fortuna, nessuno dovette usare.
Il giorno dopo la Liberazione il futuro presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini parlò in
piazza Duomo a Milano. L’ingegner Cesare Biffi era stato nominato dal CLNAI commissario per
l’Aem, incarico che ricoprì solo il tempo utile alla costituzione della nuova Commissione amministratrice, che si insediò il 10 luglio 1945 e alla cui presidenza fu nominato l’avvocato Brunetto
Griziotti38.
Con la Liberazione, tuttavia, non finì tutto di colpo. “Si girava ancora per non lasciare un riferiCfr. La Milano della memoria - Zona 4, cit., pag. 212
C. BRIZI, L’Azienda Elettrica Municipale di Milano dagli anni ’40 alla nazionalizzazione del settore elettrico, cit.,
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mento fisso - puntualizza De Lorenzi. Sono ritornato dopo la Liberazione nel ’45, abbiamo dovuto resistere qui perché c’erano i tedeschi allo Stelvio: il pericolo era che potevano scendere e
tornare a Bormio, quando c’è stata la battaglia a Tirano, 28 aprile, noi abbiamo dovuto rimanere
su. Si sono arresi il 2 maggio ’45, quindi la guerra per noi non è finita il 25 aprile, ma il 3 maggio”.
“La Valtellina con la guerra ha pagato sodo, è ripartita un po’ con l’agricoltura, col bestiame, ma non
c’era turismo. C’era la miseria da combattere col contrabbando, con la pianta che si rubava per la
legna. Questa era l’immagine della Valtellina del dopoguerra”. Ma si torna a vivere: “si coltivava il
terreno perché c’era bisogno della mucca, del fieno” racconta De Lorenzi stringendo gli occhi, mentre la mente torna indietro a quegli anni e Berbenni conferma “Allora coltivavamo ancora tutto,
appena finita la guerra, caro mio, quasi tutte le case avevano una mucca, oggi una mucca sarebbe
un debito, ma allora serviva il latte, avevamo il maiale, …”
La guerra portò, dunque, radicali cambiamenti: nei rapporti di lavoro, nello spirito stesso del lavoro, nelle famiglie, per le perdite che ognuna aveva avuto: “una vita cambiata da così a così”, sembrano dire all’unisono mentre girano la mano facendone vedere il palmo. “Oltre la Liberazione si
capiva che c’era la vita e allora il coraggio aumentava perché bisognava continuare e creare la solidarietà. Nasceva anche il desiderio di perdono in quei momenti lì - conclude De Lorenzi.
Precedentemente ognuno viveva nel suo guscio e non aveva idea di quanto le disgrazie fossero
grandi; poi si è cominciato ad avere idea del disastro e si diventava più buoni”.“A proposito di solidarietà bisogna ricordare che siamo rimasti per parecchi mesi senza stipendio dopo la Liberazione
per privilegiare la continuazione dei lavori in Alta Valtellina. Ci davano solo degli acconti mensili, così
come a Milano”, aggiunge Rinaldi riprendendo il discorso del lavoro.
Spirito in alta quota.
La fatica del corpo era in parte rinfrancata nello spirito. Negli anni 1940-41 a Lovere giunse alla
vestizione di novizio Alessandro Giuseppe, che sarebbe diventato padre Giuseppe nel 1948, con
l’ordinazione sacerdotale per mano del cardinale Ildefonso Schuster in San Bernardino alle Ossa a
Milano. Pochi anni più tardi venne inviato a sostituire il francescano padre Angelo Negri; quella del
1951 fu solo la prima volta, perché il 12 dicembre 1954 padre Giuseppe entrò in servizio come
cappellano degli operai nei cantieri Aem in Valtellina39. Disponibile e generoso, oltre che attento ai
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bisogni religiosi degli operai, padre Giuseppe visitava settimanalmente i cantieri, i pozzi, gli scavi, le
gallerie dove si svolgevano i lavori, per vedere di persona i disagi e i rischi dei lavoro, segnato da
frequenti vittime; visitava anche gli infortunati sul lavoro nell’Ospedale di Bormio, mentre alla fine
del mese ritirava le buste paga di molti operai e provvedeva a recapitarle alle famiglie. A lui spettava la responsabilità morale di tutto il personale delle varie centrali e dei vari uffici Aem nella valle.
Nonostante gli altri impegni che gli vennero assegnati dalla metà degli anni ‘50, la sua presenza in
valle fu assidua anche nel periodo successivo, trovando sempre il modo di trascorrere i mesi estivi a Cancano, dove “qui - si legge negli Atti dei Frati Minori Cappuccini della Provincia di San Carlo in
Lombardia - il secolare silenzio delle vallate alpine ha ceduto il posto all’ininterrotto scoppio di mine
e alla vita tumultuosa dei cantieri in piena attività”.
La figura di padre Giuseppe è importante e ricordata anche per l’attenzione all’uomo, oltre che al
suo spirito. Nel corso degli anni, ad esempio, si interessò di rendere più lieto il tempo libero dei
lavoratori: trovò una macchina per proiezioni cinematografiche, un biliardino, un giradischi. Usò
uguale premura nei confronti dei familiari:“avviò raccolte di offerte fra gli operai a benemerito delle
famiglie delle vittime sul lavoro nei cantieri, inviando un anno a tutte le famiglie dei caduti un pacco
dono”40 e istituendo la “giornata delle vittime sul lavoro” con una solenne commemorazione. Dal
dicembre 1973 il trasferimento definitivo di padre Giuseppe, a Milano; per il costante e prezioso
impegno, da parte degli operai che lo hanno conosciuto e seguito,“è nata una stima e una rispondenza affettuosa per il loro Cappellano”.
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“Nel 1955 gli operai che nel periodo estivo (aprile-novembre) raggiungono il numero di oltre 1200, sono alle dipendenze dell’impresa costruzioni dell’ingegner Lodigiani di Milano. Per la loro assistenza religiosa è stato nominato cappellano il nostro padre Giuseppe da Rova, che si trova lassù da oltre un anno. L’Aem ha messo a disposizione del Padre
la chiesetta-ricordo dei caduti, già esistente a Cancano; ma essendo troppo distante dal cantiere, non risponde allo scopo.
Per questo la S. Messa viene celebrata in cantiere a 2000 metri, nel refettorio degli operai.”
Atti dei Frati Minori Cappuccini della Provincia di San Carlo in Lombardia, in AA.VV. Una valle… una storia… pagg.
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Id., pagg. 49-53
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1958 - Lavori di costruzione della Centrale di Grosio (SO) - Autore: Chiolini Guglielmo