Capitolo 5
La storia della memoria…
La storia della memoria…
Per non dimenticare, dal 1933 al 1945.
Non bisogna confondere la memoria con il ricordo. Il ricordo è un pezzo del passato isolato dal
suo contesto, messo in una cornice; la memoria invece è il senso, il significato profondo di una
vicenda passata e lo sforzo di ricordarla al presente. La memoria comporta sempre una fatica, spesso dolorosa, il ricordo no. La memoria è uno sforzo e un passaggio essenziale per capire, per mettere a confronto la forza della propria coscienza e dei propri valori di fronte a fatti della storia.
Non si possono sottacere i terribili avvenimenti che nell’indifferenza si sono verificati dal 1933 sino
al 1945. Il deplorevole saccheggio di uomini, donne e bambini da deportare prima nei “campi di
concentramento” poi nei “campi di sterminio” colpì pesantemente anche l’Italia. Già da tempo i
tedeschi avevano cominciato ad attuare il “nuovo ordine” nazista, basato sullo utilizzo delle risorse
naturali delle “razze inferiori” a vantaggio della razza superiore, la tedesca. Questi campi di raccolta erano il primo luogo di ammasso di prigionieri civili, scioperanti, avversari politici, antifascisti, partigiani, sacerdoti, ebrei, zingari, omosessuali, testimoni di Geova: così milioni di stranieri vennero
internati senza alcun processo. Sino all’inverno del 1941-42 questi campi erano strumenti di Hitler
per mantenere il terrore e luogo di sfruttamento in condizioni di schiavitù di forze lavorative, impiegate anche nell’industria bellica tedesca.
Atrocità che i nomi tra alcuni dei campi più noti ci riportano alla memoria: Esterwagen,
Sachsenhausen, Buckenwald, Mauthausen, Auschwitz, Birkenau,Treblinka, Sobibor, Dachau, Kulmhof,
Bergen Belsen, Ravensbruck, eccetera. Nei territori dell’Europa occupati dalle truppe tedesche esistevano 1.226 campi principali, 1.011 campi esterni e 114 campi di sterminio per ebrei, dove non
meno di 11 milioni di esseri umani furono assassinati.
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La deportazione.
Spesso in Italia si parla solo di ebrei deportati e molto meno degli antifascisti, degli scioperanti, dei
partigiani, degli avversari politici, ugualmente deportati, che non furono pochi. Anche in Azienda ci
furono persone deportate; ricordiamo qualche nome, sicuri di dimenticarne molti: Otello Vecchio
e Giulio Sala (a Mauthausen), Antonio Neri (non è più tornato), Domenico Realini e anche una
donna (che venne deportata a Ravensbruck, un campo per sole donne, poco conosciuto ma altrettanto nefasto).
È lei a raccontare in forma anonima la sua storia, di quando “sfollata sul Lago d’Orta, nel 1942, a
diciotto anni, ero stata assunta in Aem, quando c’era l’ingegnere Mayer, un tedesco di nascita.” Dopo
circa due anni di lavoro, un giorno vennero in Azienda uomini della gendarmeria tedesca, in borghese, con una 1100 nera e chiesero in portineria di una signorina che veniva dal Lago d’Orta.
Individuata le ordinarono di scendere in portineria per parlarle. Caricata in macchina fu portata a
Novara, la interrogarono e da lì la trasferirono nella prigione “Le Nuove” di Torino e poi a Bolzano
in attesa della deportazione e infine a Ravensbruck dove rimase circa un anno. Si suppone che la
causa fosse una soffiata: “la signorina nel suo tempo libero faceva la staffetta, era il collegamento
con i partigiani della Repubblica dell’Ossola26”. Racconta con profonda tristezza e non vuole scendere in troppi dettagli questa signora di quasi ottant’anni, ancora emotivamente scossa dalla totale indifferenza con cui è stata accolta dai colleghi una volta rientrata al lavoro.
I campi di lavoro.
“Nel 1943 sono finito in Germania. Dopo l’8 settembre sono stato preso e deportato a Danzica.
Lì prima lavoravamo, poi un giorno hanno chiesto se qualcuno voleva andare in città: io ho alzato
subito la mano e siamo andati in città proprio dove ha sfilato Hitler. Lì lavoravamo a fare sotterranei e rifugi; stavamo bene perché si lavorava poco, si tirava su qualche parete divisoria, andavamo
con l’impresario col carro trainato dal cavallo a prendere la sabbia e altro materiale. Da lì sono finito a Colonia, poi ad Hannover. L’8 o 10 aprile gli alleati sono riusciti a fare la sacca e ci hanno liberati. In Azienda sono tornato il 1° marzo 1946, ho ripreso posto all’Ufficio Cucine, dove però non
c’era più il ragionier Belloni”, racconta con tristezza Berbenni e le parole gli escono con sgomento, misto alla consapevolezza di chi è riuscito a tornare a casa.
Anche Aurelio Pacciarini è stato portato in Germania per il lavoro coatto, nel campo 1637 di
Era il tentativo di creare una repubblica virtuosa, in cui ricominciare pur in piena guerra una vita, riportando alla
giustizia partigiana il rispetto della legge, nel fascino di quel piccolo stato stretto tra la Svizzera e i laghi lombardi.
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Wutterthal vicino a Cresel, col numero di matricola sulla giacca IM (Internati Militari) n° 66893, dove
per due anni ha lavorato come elettricista manutentore prima in un’industria di laminatoi poi in una
ditta di ventilatori industriali; con la liberazione, il ritorno a casa e il rientro al lavoro in azienda.
Così come è toccato ad Arturo Poiano quando, ormai persa la guerra, i tedeschi dal Montenegro,
a Podgorika, lo portarono in Germania come internato militare, prima a Straussfurt, campo 97,
matricola 46132 “manovalanza” a lavorare in uno zuccherificio poi come manovale a Erfurt, capitale della Turingia. Solo dopo qualche mese dalla Liberazione è stato rimpatriato, ma il posto di lavoro lasciato non c’era più e nel 1946 venne assunto in Aem.
E a Milano “correvamo anche noi i nostri piccoli rischi - si legge nella testimonianza di Giuseppina27
- quando non erano le bombe a minacciarci, c’erano sempre da temere le spiate dei colleghi
“repubblichini”. È stato il caso di una nostra collega finita in campo di concentramento per aver
parlato con chi non doveva dell’aiuto che prestava al suo fidanzato partigiano”. Intanto in Aem c’era
chi lavorava in piena clandestinità alla costituzione dei partiti politici di cui sarebbero stati i primi
dirigenti aziendali.
L’austerità.
Gli appelli al patriottico senso del risparmio di un bene prezioso quasi quanto il pane si fecero insistenti. Nel 1944 venne ridotto il lavoro nelle industrie non direttamente interessate nelle produzioni belliche, si soppressero alcune linee tranviarie e si stabilì un tetto ai consumi, mentre la stampa milanese riportava quotidianamente le nuove ordinanze: “Si ricorda che è vietato l’impiego di
apparecchi elettrici da riscaldamento tanto nelle abitazioni private quanto negli uffici civili e militari. È
vietato l’uso degli ascensori negli edifici con sei piani o meno di sei piani e l’illuminazione nei negozi deve
essere limitata ad una lampada da 25 watts al massimo, per ogni 30 metri quadrati di superficie. Niente
ferri da stiro, niente scaldabagni, niente lampadari potenti. La cessazione serale del servizio tranviario
verrà anticipata effettuandosi su ogni linea l’ultima partenza dalla periferia alle ore 20.10 e dal centro
alle ore 20.30”28.
I bombardamenti.
Gli spaventosi bombardamenti del 1943-44 ferirono pesantemente la città di Milano, danneggiando caserme (come la Garibaldi di piazza Sant’Ambrogio), scuole (il Liceo Beccaria, ex convento
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La Milano della memoria - Zona 4, Consiglio di Zona 4, Comune di Milano, 2004 pag. 212
Alle radici dello sviluppo. I primi 50 anni di storia dell’energia dagli archivi Aem, cit., pag. 232
Barnabiti), chiese (il Duomo, San Carlo al Corso, Sant’Eustorgio, la Certosa di Garegnano, per citarne solo alcune) e palazzi storici (Palazzo Clerici, Palazzo del Conservatorio, Palazzo Litta, Palazzo
Serbelloni,Teatro alla Scala,…)29: non solo obiettivi militari, perché l’intento era costringere con ogni
mezzo il nemico alla resa. Anche l’illuminazione in città e la sede dell’Aem, devastata insieme alle
sottostazioni di via Gadio, di viale Elvezia, piazza Po e piazza Trento, vennero duramente colpite. In
previsione di una simile eventualità, fin dal 1941 l’Azienda aveva messo in atto un piano che aveva
lo scopo di salvaguardare dai bombardamenti quanto possibile30.
Particolarmente pesante fu l’incursione aerea del 15 agosto 1943 che fece ricadere il suo carico
di bombe anche sulle officine di via Caracciolo, vicino a piazza Firenze. Qualche mese prima
l’Azienda aveva provveduto a trasferire molti dipendenti, con sede in Via della Signora, in Valtellina.
“Sono stato in tre periodi in Valtellina perché l’Azienda era crollata, ero nei retrosportelli a fare le
ricevute. In Valtellina a Tirano ho conosciuto lei - racconta Tonesi indicando Licia Bozzi -, sono sessantun’anni che la conosco; lassù sono stato quattro mesi in tutto”. Bozzi riferisce anche alcuni particolari del soggiorno forzato: “il 14 febbraio del ‘43 sono partita per la Valtellina, destinazione
Tirano, dove noi ragazze giovani alloggiavamo all’ultimo piano all’Hotel Tirano, nella parte riservata alla servitù dell’albergo, era una specie di collegio; al primo e secondo piano invece c’erano i
tedeschi, erano tutti territoriali anziani e quasi tutti austriaci. La sede dell’Azienda di Milano era crollata e nel salone utenti, che era scoperchiato, c’erano le scrivanie appoggiate sulle macerie, era un
disastro. In Valtellina facevamo tutti pressappoco lo stesso lavoro che facevamo a Milano e lavoravamo in baracche in legno poste nel parco dell’hotel”. “Sfollata a Tirano dal ’43 al ’44 con l’Aem,
ero piena di geloni - ricorda la signora Giuseppina31 - e per riuscire a studiare dovevo mettere i
piedi sulla boule dell’acqua calda… come vestiario in quei due inverni in montagna avevo solo
gonne di cotone, calzini corti e un impermeabilino. Le baracche… non veniva certo la voglia di
avere ricordi e scattare fotografie”.
Decine di persone disposte a spostarsi, più per bisogno e sicurezza, senza poter trattare le proprie
Bombe sulla città. Milano in guerra. 1942-1944, Skira Editore, Milano, 2004, pagg. 308-312
Trasformatori e raddrizzatori di riserva o che potevano essere staccati riducendo la potenza installata vennero trasportati fuori Milano in cascinali o capannoni appositamente affittati a Gorgonzola, Magenta, Cuggiono; cavi, bobine e pezzi
di turbine furono spostati a Rivanazzano; parte degli archivi vennero portati nella villa del conte Resta Pallavicino
(membro della Commissione amministratrice) a Usmate, mentre uffici importanti come la fatturazione furono spostati a Tirano in Valtellina.
C. BRIZI, L’Azienda Elettrica Municipale di Milano dagli anni ’40 alla nazionalizzazione del settore elettrico, cit., pagg.
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Cfr. La Milano della memoria - Zona 4, cit., pagg. 210-211
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posizioni, condizione invece così “indispensabile” oggi. “Beh, i miei avevano fatto fatica ad accettare
il mio trasferimento - confessa Bozzi -, però erano tempi duri, era tempo di guerra, non si sapeva
come sarebbe andata a finire, ci poteva mancare il terreno sotto i piedi da un momento all’altro.
Si trattava di prendere o lasciare”. Cipolla conferma:“I tempi erano diversi, eravamo abituati a dire
‘Signorsì, signornò’”. “E poi forse, probabilmente, era meglio andare in Valtellina che stare qui a
Milano, i miei erano già sfollati perché avevamo perso la casa, io ero in Valtellina ed ero un po’ più
al sicuro, ma abbiamo patito tanta fame, tantissima fame, la roba c’era ma veniva tenuta nelle case
di chi ce l’aveva... - racconta Bozzi. Sono rimasta un anno e mezzo e sono tornata giù con i bombardamenti dell’agosto ‘44, durante i quali la mia famiglia aveva perso definitivamente tutto. Il soggiorno in Valtellina, che aveva la piacevolezza dei vent’anni, permetteva di essere un po’ fuori dalla
tutela casalinga, però si pativa la fame. Si potevano fare camminate di qui, di là, andavamo all’Aprica
per trovare la cioccolata. Il lavoro si svolgeva normalmente, c’era un impiegato che faceva la spola
tra Milano e la Valtellina e portava il lavoro da fare che una volta fatto tornava a Milano; il sabato
pomeriggio era libero, il famoso sabato fascista, lavoravamo solo la mattina e il pomeriggio, se era
possibile, scappavamo a Milano”.
“Sei ore di treno”, ricorda quei lunghi viaggi Tonesi e poi ancora la Bozzi, che rievoca pure difficili situazioni, come “quando andava bene erano cinque o sei ore, ma quando c’erano le brigate nere da questa parte della strada e da quell’altra i partigiani, allora dovevi sdraiarti sotto i
sedili per evitare il fuoco incrociato. A volte ti fermavano il treno a metà strada, io ho provato
a metterci 18 ore, da Vimercate dove eravamo sfollati, a Tirano. Partivamo la domenica mattina
perché il sabato facevamo gli straordinari, partivamo alle 4 della mattina su un vagone bestiame, a stomaco vuoto e, col freddo che faceva, si arrivava alla stazione surgelati. Andavamo al
posto di ristoro dell’esercito che era lì alla Stazione Centrale di Milano a bere il grappino per
rianimarci”.
Mangiare? Qualcosa, se c’era.
Una tavolata di chiome bianche sta aprendo il cuore dei ricordi. Siamo a pranzo. Menù rigorosamente valtellinese con i tipici pizzoccheri di grano saraceno e la gustosa bresaola. Ma cosa si mangiava sessant’anni fa? A colazione c’era il latte delle mucche o del latte condensato e caffé proveniente dalla vicina Svizzera. Il pranzo era poco vario, ricorda Rinaldi:“tante aguglie salate prese diret-
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tamente dai barili, pasta con un tentativo di ragù, polenta e bottaggio di maiale.Verso il ‘50 va un
po’ meglio, perché al secondo si aggiungono i fichi secchi”.
Tasche quasi vuote anche all’inizio della seconda guerra, dice stringendo i denti Pacciarini: “io guadagnavo cinque lire al giorno facendo il garzone e si lavorava sei giorni alla settimana, mentre c’era
il mezzo di trasporto, il tram, che costava 50 centesimi per i lavoratori andata e ritorno, prima delle
9 e dopo le 17, per esempio mia mamma mi dava tre lire al giorno, non c’era la mensa, perchè
l’hanno inventata in tempo di guerra, nel ’44. Si mangiava come certi muratori fanno ancora adesso. Il garzone faceva la spesa per tre o quattro operai andando in salumeria. A volte si portava da
casa la schiscetta, però, mi ricordo che la bistecca fredda da mangiare non sapeva di niente, allora
mia mamma mi dava tre lire più 50 centesimi del tram e con tre lire dovevo prendere il pane e il
companatico. Si prendeva la “bologna” che costava 1,10-1,20 e il mezz’etto di gorgonzola, questo
era in generale il pasto, sei michette (allora si chiamavano ancora michette) e basta; con questo si
tirava sera. Se andavi viceversa in trattoria, anche nelle più modeste, pagavi sulle 3 lire e 50 centesimi. Esistevano anche le mezze porzioni, mi ricordo che la prima volta, nel ’35 in viale Brianza, dove
mio zio stava facendo l’impianto (io avevo sedici anni) andavo dal tabaccaio dove il primo piatto
era una pastasciutta normale, mentre per secondo prendevo la mezza porzione perché altrimenti
non ci stavo dentro con le tre lire”.
Un argomento tira l’altro e non si riescono a contare le parentesi che nel corso dei minuti si aprono, tanto è il desiderio di raccontare manifestato dai presenti. Difficile quindi anche chiuderle, ma
non importa. Quelle pagine di vita personale ritratta dalle fotografie di allora in bianco e nero,
attorno a questa tavola riacquistano il loro colore originario.
I lavori rallentano.
Il blocco del commercio internazionale stava creando notevoli problemi al Paese e anche l’Aem
incontrò difficoltà crescenti ad approvvigionarsi del gasolio e della benzina necessaria al funzionamento dei mezzi aziendali. A Milano per ovviare a ciò si puntò alla modifica dei mezzi aziendali per
farli funzionare a metano o gas di carbone; mentre in Valtellina la filovia Tirano-Bormio fu ampliata
per permetterle di servire economicamente le altre sedi aziendali32.
I lavori subirono un rallentamento. Il rifornimento dei materiali divenne sempre più difficile, i macchinari a disposizione sempre più limitati e gran parte del lavoro veniva eseguito manualmente.
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C. BRIZI, L’Azienda Elettrica Municipale di Milano dagli anni ’40 alla nazionalizzazione del settore elettrico, cit.,
pag. 20
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“Ero un topo grigio33, ho una fotografia dei topi grigi. Nell’inverno 1941-42 si andava in bicicletta
dappertutto, non c’era il traffico di adesso, andavamo alla Nord, alla Sud, a Benedetto Marcello e
tutto era collegato con una rete telefonica”, ricorda Rinaldi.
Mentre Milano subiva attacchi pesanti, che colpirono anche Palazzo Reale, Palazzo Marino, la
Biblioteca Ambrosiana, Santa Maria delle Grazie34, in Valtellina la situazione era diversa: si combatteva con le armi in pugno.
Le baracche operaie usate per la costruzione della diga di San Giacomo, i cui lavori vennero ridotti nel 1943, fecero da rifugio e da base per molte operazioni partigiane. Proprio sulle montagne si
erano costituiti gruppi di partigiani fin dal settembre ’43, all’indomani dell’armistizio firmato il 5 ma
annunciato l’8. I gruppi furono chiamati alla lotta armata da un proclama emesso il 9 settembre dal
Comitato di Liberazione Nazionale composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti: comunista, socialista, d’azione, democratico cristiano, liberale, democratico del lavoro.
Per i “ribelli” la resistenza sarebbe stata lunga e piena di sacrifici; significava cominciare una nuova
guerra, la “guerra di liberazione” che durò venti mesi.
La lotta partigiana.
In Valtellina subito dopo l’8 settembre si vennero organizzando due gruppi di resistenti operanti in
aree distinte: nella bassa valle fino a Sondrio e valli laterali operò la 1^ Divisione Garibaldi
Lombardia, di orientamento socialcomunista, Movimento Rosselli, e composta anche da molti gappisti milanesi che erano fuggiti dalla città perché scoperti. Nell’alta valle si erano costituiti vari nuclei
con al loro interno vari militari che all’indomani dell’8 settembre erano fuggiti, valligiani, contadini
ma soprattutto dipendenti di Aem e di imprese che stavano lavorando alla costruzione del bacino
idroelettrico di San Giacomo35.
“Topi grigi” erano chiamati i dipendenti Aem aderenti al Comitato di Liberazione, la cui sede era la cantina. Avevano
lo scopo di mantenere la difesa degli impianti e le comunicazioni tra Milano e la Valtellina, a salvaguardia dell’Azienda
e dei servizi nella città. A Milano il gruppo era comandato da Fausto Sarini, viceresponsabile del gruppo delle telecomunicazioni Aem. Dopo alcune coraggiose azioni (nel deposito dell’aeronautica di via Boito rubò un notevole quantitativo di armi che vennero nascoste e murate nella sede di via della Signora; venne anche sventato il piano tedesco di
accumulare esplosivi nella ricevitrice Nord per farla esplodere) il gruppo fu scoperto e Sarini incarcerato, ma grazie a
un espediente riuscì a fuggire. Le sue conoscenze nel campo delle telecomunicazioni furono utilissime per consentire
l’uso della rete Aem come canale di comunicazione tra i vari operanti in Valtellina e il CLNAI di Milano. Id., pag. 25
34
Bombe sulla città. Milano in guerra. 1942-1944, cit., pagg. 309-312
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Tali nuclei furono agganciati prima al V.A.I. - Volontari Armati Italiani fino allo scioglimento nell’aprile 1944, costituendosi poi nella 1^ Divisione Alpina Valtellina “Giustizia e Libertà” legata al Partito d’Azione.
C. BRIZI, L’Azienda Elettrica Municipale di Milano dagli anni ’40 alla nazionalizzazione del settore elettrico, cit., pagg. 25-26
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“Anche mio papà e mio fratello lavoravano in Azienda, il papà era nelle guardie; nel ’44 quando
hanno cominciato ad esserci le bande partigiane, formate da sbandati dopo l’8 settembre, mio fratello è andato sui monti ma è stato preso e per cercare di salvarci ha fatto la domanda per entrare nella Guardia Nazionale Repubblicana. È stato mandato a Cancano dove c’era una squadra di
fascisti. Io facevo un po’ da informatore e ho saputo che il giorno dopo dovevamo partire per fare
un rastrellamento e gli dico ‘Questa notte scappa, fai come puoi ma scappa’ - racconta con concitazione Della Palma cercando di non trascurare particolari importanti -. Quella notte della cosa si
accorse un paesano, un certo Giordani del ’23 che stava coi fascisti, il cui papà era capocantiere a
Grosio ma era anche tenente delle Brigate Nere; mio fratello dormiva nella stessa camera e quando l’ha visto che stava per fuggire gli domanda ‘Dove vai Giorgio?’ ‘Vado a casa vi aspetto domani,
quando passate chiamatemi’ e mio fratello è venuto giù ed è salito in montagna verso il Mortirolo;
allora io ho cominciato a fare la staffetta, l’informatore. Nel febbraio del ‘45 mi hanno scoperto, mi
hanno preso e mi hanno portato in caserma a Grosio. Quando sono venuti e mi hanno arrestato
ho detto a due o tre amici ‘Andate in centrale e avvertite il comando tedesco’; in cantiere c’era un
presidio tedesco formato da quattro o cinque militari di cui mi ero fatto un po’ amico e quindi ho
detto ‘avvertite il comando tedesco che non mi posso presentare al lavoro. Chiedete se possono
fare qualche cosa’. La Milizia mi ha tenuto tre ore in caserma, erano in due, uno ho capito che era
dalla mia parte, cercava di deviare il discorso riepilogando i fatti: mi avevano mandato una lettera
da consegnare ad una guardia repubblicana che voleva scappare, sulla lettera c’era ora e luogo e
diceva anche di portare qualche arma. Ma hanno fatto la spia e me l’hanno trovata. Quel tenente
l’ha presa e l’ha stracciata. Quando mi hanno chiamato in caserma per dirmi ‘Ma lei il giorno... non
ha consegnato...’‘No, assolutamente no’. Quando gli ho visto aprire il cassetto mi sono detto, ahi,
qui c’è la lettera, allora ho detto ‘Aspettate un momento, sì che ricordo meglio, mentre tornavo dal
lavoro, è venuto uno che non conosco e mi ha detto se per favore potevo consegnare questa lettera, io penso di aver fatto il mio dovere’. Ma pensando a quello che c’era sulla lettera... quando ho
visto che era tutta stracciata... Erano due tenenti, uno seduto e l’altro con una catena ogni tanto
mi dava un colpo; mi hanno tenuto tre ore, poi sono arrivati i tedeschi del presidio della Centrale
a chiedere ‘C’è qui il signor Della Palma? Deve rientrare immediatamente sul lavoro’. Quindi è
andata bene, mi hanno rilasciato e sono andato a casa, ho preparato il mio zaino, l’ho messo in un
gerlo coperto da un po’ di fogliame, e sono andato sui monti coi partigiani in Val Grosina, era metà
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febbraio ed eravamo nella palazzina dell’Aem, dove c’era il comando, l’attuale rifugio CRAem di
Fusino”.
Ideologie forti e opposte, in paese come all’interno della casa. Si trattava di scegliere da che parte
stare, con un profondo esame di coscienza, pensando anche al proprio futuro e al proprio lavoro.
Una lotta quindi tra compaesani, divisi tra la fedeltà al regime e gli ideali di libertà. “C’era una contrapposizione morale o di facciata tra tedeschi e italiani. I tedeschi il pomeriggio giravano con i
camion a cantare le loro canzoni, il mattino invece arrivavamo noi italiani con la banda. La prima
persona che mi ha fatto pensare è stato mio padre col quale ero in contrasto, perché io andavo a
scuola, la mia maestra era fascista e mi ha lasciato una bellissima dedica dietro una fotografia...” racconta Rinaldi. Siamo nell’estate 1943 e “un’altra botta è stata quando siamo rientrati a Merano e
abbiamo incontrato i reduci dalla Russia: lì ho trovato tutti gli amici, gli Alpini di Grosio che avevano fatto la campagna di Russia e me ne hanno raccontate di cotte e di crude, direi che lì è stata la
cosa determinante che mi ha fatto cambiare completamente gli ideali politici”.
Nel ‘43 al Ponte del Diavolo vi fu una grossa battaglia. “È una strettoia a difesa della valle. Hanno
fatto saltare non il ponte ma quel passaggio che c’era dopo il ponte, una specie di galleria sopra le
prese, l’hanno fatta saltare e hanno ostruito la strada proprio per intralciare l’arrivo dei tedeschi”.
“Dopo il 25 luglio, quando è successa la faccenda di Mussolini36, i tedeschi hanno invaso l’Italia, continuavano a passare le tradotte, passavano dal Brennero e da Bolzano e noi andavamo fuori di
notte a fare servizio di ordine pubblico, anche da soli. La mia permanenza in tutti i gradi, da Balilla
ad Avanguardista a Capo centuria, mi hanno portato ad andare volontario in guerra. Dopo quaranta giorni ero ancora vestito in borghese, pensate un po’ in che condizioni eravamo, con scarpette leggere a fare istruzione con un bastone perché non avevano fucili da darci - racconta Rinaldi.
Ero nei bersaglieri elettromagnetisti, perché pensavo ad un corso che potesse andare bene anche
per il lavoro. Dopo quaranta giorni passati così, ero ridotto da fare pietà, senza cambiare neanche
la camicia e le calze. Poi un sottotenente mi ha fatto chiamare dal capitano medico e mi hanno
mandato a casa come servizio sedentario. Ho conservato la domanda di quando sono andato militare, ho conservato anche i documenti di quando mi hanno mandato a casa con tutti i timbri. Negli
Alpini ho vinto un premio perché riuscivo a smontare e rimontare un fucile mitragliatore a occhi
bendati, cosa che avevo imparato coi fascisti. Perché io ho fatto i campi Dux, anche se non me ne
Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo approvava a larga maggioranza un ordine del giorno di sfiducia a
Mussolini, cercando di scaricare su di lui tutte le responsabilità del disastro. Vittorio Emanuele III destituì Mussolini
dalla carica di capo del Governo, lo fece arrestare e lo sostituì con il maresciallo Badoglio.
Indro MONTANELLI, Mario CERVI, L’Italia del Novecento, BUR Saggi, Milano, 2001, pagg. 228-235
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vanto. Finito il corso ci dovevano assegnare al Corpo; noi sapevamo che i nostri commilitoni erano
in Val Pusteria e dato che eravamo tutti valtellinesi, eccetto un bergamasco, loro hanno architettato di farci mandare al deposito di Tirano per essere vicini a casa e fare una licenza abusiva”.
Una vita difficile, quella dei partigiani, che costringeva a fughe e nascondigli:“Siamo scappati, un po’
sulle montagne qua e là - conferma De Lorenzi - . Dopo il 10 settembre sono stato nascosto per
circa tre mesi in una stalla e poi c’è stato un primo tentativo di tornare in Aem, diciamolo subito,
fallito. L’ingegnere Cenerini voleva farmi rientrare in reparto perché gli interessavo per il lavoro. C’è
stata una specie di richiesta verbale per cui mi presento da Storti che faceva da capoufficio. Lui mi
guarda un momento poi apre un cassetto e prende un giornale dove c’era la chiamata alle armi
della classe ’23 da parte della Repubblica Sociale. E così sono tornato in clandestinità fino al marzo
’44. Dopo un ulteriore tentativo sono riuscito a entrare e quindi sono stato riassunto, con un documento semifalso, un permesso tedesco e poi con un documento del Distretto Militare di Sondrio
del maresciallo Pruneri, che non era nei partigiani, ma era loro amico. Sono sempre stato ai telefoni, sempre con l’ingegnere Cenerini che, benché fosse Sciarpa Littorio e fascista della prima ora,
non disse mai una parola contro nessuno, fingendo di ignorare quanto accadeva”.
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1932 - Illuminazione speciale del Duomo di Milano - Autore: Argo