Giovanni F. Bignami
Nuovi Sistemi
solari
Fino agli anni Novanta del XX sec., il paradigma
di un sistema planetario era il seguente: i pianeti
rocciosi di tipo terrestre orbitano vicino alla stella e
i giganti gassosi o ghiacciati nelle parti esterne;
successivamente, gli astronomi hanno iniziato a
scoprire i pianeti extrasolari e ad avere dubbi sulla
fondatezza delle teorie riguardanti la formazione di
sistemi planetari. La difficoltà di osservare pianeti
attorno a stelle è rimasta tale fino al 1992, quando
due radioastronomi rivelarono il primo sistema
planetario intorno a una stella di neutroni
rapidamente ruotante, una pulsar. Ovviamente, i
radioastronomi non osservarono direttamente i
pianeti, bensì le perturbazioni da essi indotte nei
regolarissimi impulsi prodotti dalla stella di
neutroni. In un sistema planetario, tutti i
componenti ruotano intorno al baricentro del
sistema, che è vicino a quello della stella, ma non
coincide con esso. L’esatta posizione del baricentro
di un sistema varia al variare delle posizioni dei
pianeti. Gli spostamenti della stella sono minimi,
ma il loro andamento periodico li rende più facili
da rivelare. I radioastronomi li misurano
utilizzando, per una pulsar, l’estrema regolarità
degli impulsi radio.
La vera rivoluzione ebbe inizio tre anni dopo,
quando due astronomi svizzeri, Michel Mayor e
Didier Queloz, con osservazioni di spettroscopia
nell’ottico, scoprirono un pianeta intorno alla
stella di tipo solare 51 Peg. Anche in questo caso
non fu una rivelazione diretta, impossibile data la
bassa luminosità del pianeta, miliardi di volte più
debole di quella della stella madre. Come per lo
studio di sistemi binari di stelle, si erano utilizzate
le perturbazioni indotte dal moto orbitale del
pianeta nelle righe presenti nello spettro. Poiché lo
spostamento del baricentro del sistema causa un
piccolo moto orbitale della stella, possiamo
individuare la presenza di sistemi planetari
registrando accuratamente per mesi e anni la
posizione delle righe negli spettri di stelle vicine (e
brillanti), selezionate per essere simili al Sole. Una
volta accumulati abbastanza dati, si studia se la
frequenza delle righe mostri piccole variazioni
periodiche, riconducibili alla presenza di uno o più
pianeti in orbita intorno alla stella (fig. 1).
Poiché l’influenza dei pianeti sul baricentro del
sistema, è direttamente proporzionale alle loro
masse, il metodo delle velocità radiali evidenzia più
facilmente pianeti del calibro di Giove, piuttosto
che del calibro della Terra. Non sorprende quindi
che il pianeta in orbita intorno a 51 Peg sia un
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gigante di massa paragonabile a Giove; ciò che
sorprende è il suo periodo orbitale di appena
quattro giorni, segno di una notevole vicinanza alla
stella. È un gigante gassoso molto più vicino al suo
sole del nostro minuscolo Mercurio. In dieci anni
il numero dei pianeti extrasolari è più che
centuplicato: le tecniche spettroscopiche sono state
raffinate, abbassando sempre più il limite della
massa dei pianeti rilevabili; oggi la spettroscopia di
alta risoluzione può rivelare pianeti di massa
minore di quella di Nettuno, circa 10 masse
terrestri. Ovviamente restano più difficili da
rivelare pianeti su orbite lunghe, poiché per essere
sicuri della realtà delle perturbazioni, occorre
osservare diversi cicli, e ciò implica poter contare
su anni di osservazioni.
Sommario
1. Altre tecniche di osservazione
2. La situazione attuale
3. Il futuro
1. Altre tecniche di osservazione
Sono state sviluppate altre tecniche osservative derivate
da effetti indiretti procurati dalla presenza dei pianeti. Il
metodo dei transiti si basa sulla fotometria e consiste
nell’osservare la piccola diminuzione della luminosità di
una stella quando il disco, piccolo ma opaco, di un
pianeta transita davanti al disco brillante della stella
(più o meno quello che vediamo quando Venere
transita sul disco del Sole). Ovviamente, questo richiede
una fotometria estremamente accurata (e stabile) delle
stelle in esame: il pianeta proietta un’ombra molto
piccola sulla superficie della stella, quindi le differenze
di luminosità da misurare sono minime. Il primo
esempio di transito è stato osservato nel 1999 per la
stella HD209458, attorno alla quale la tecnica della
velocità radiale aveva già evidenziato la presenza di un
pianeta. Mentre il metodo delle velocità radiali fornisce
informazioni sulla massa del pianeta e sulla sua orbita, il
metodo del transito ne misura il raggio. La
combinazione dei due metodi consente una
caratterizzazione molto più completa dei pianeti (fig. 2
e 3). Il transito osservato per la stella HD209458 ha
permesso di raffinare notevolmente la conoscenza del
pianeta, del quale si sono misurati inclinazione
dell’orbita, massa, raggio e separazione dalla stella.
Conoscere massa e raggio del pianeta ha permesso di
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determinarne la densità, che è risultata di 0,31 gⲐcm ,
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3
da paragonare all’1,3 gⲐcm di Giove o ai 5,5 gⲐcm
della Terra. Il pianeta di HD 209458 è senza dubbio
un gigante gassoso.
Perché il metodo dei transiti sia efficace, è necessario
tenere sotto osservazione per lunghi periodi un gran
numero di stelle, continuando a misurare con grande
precisione il flusso luminoso di ciascuna. Risultati
promettenti sono stati ottenuti utilizzando i dati
raccolti per la ricerca di lenti gravitazionali. Così
facendo sono stati scoperti, e poi confermati con il
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metodo delle velocità radiali, cinque pianeti. Grandi
quantità di dati sulla variazione di brillanza di
numerose stelle diventeranno disponibili grazie a un
altro obiettivo astronomico importante: lo studio
dell’astrosismologia e dei modi di vibrazione delle stelle,
essenziali per capirne la struttura interna. Benché siano
ancora pochi i pianeti scoperti con questo metodo,
prossimamente due missioni spaziali saranno dedicate
alla ricerca di pianeti extrasolari con il metodo dei
transiti. La prima, COROT, sarà una piccola missione
scientifica francese, in orbita alla fine del 2006, seguita
da KEPLER della NASA, prevista per la fine del 2008.
Un altro metodo indiretto di ricerca di pianeti
sfrutta la grande mole di dati accumulati per la ricerca
di effetti di lente gravitazionale, dovuti a casuali
allineamenti stellari. Tenendo sotto controllo, per
esempio, il centro della nostra Galassia con i suoi
miliardi di stelle in continuo moto relativo, è possibile
osservare improvvisi aumenti di luminosità dovuti alla
concentrazione della luce di una stella da parte della
massa di un altro oggetto, che, per caso, viene a trovarsi
perfettamente allineato lungo la linea di vista con la
Terra. Il progetto PLANET consiste di una rete di
telescopi per misurare proprio questo fenomeno, già
osservato per allineamenti di masse stellari e
sicuramente presente anche per masse planetarie. La
tecnica, che è potenzialmente sensibile anche a pianeti
di massa terrestre, ha già permesso di scoprire quattro
pianeti extrasolari. Tra questi ricordiamo OGLE-2005BLG-390Lb, il più piccolo dei pianeti fino a ora
osservati, con le sue 5,5 masse terrestri a 2,6 unità
astronomiche dalla sua stella, una nana di tipo M. Il
pianeta ha causato una piccola, ma significativa,
deviazione nella curva di aumento di luminosità
registrata su una stella di fondo, a causa
dell’allineamento casuale con la stella nana M (fig. 4).
I pianeti scoperti con l’effetto di lente gravitazionale
hanno una caratteristica che li differenzia da tutti gli
altri: si tratta di pianeti intorno a stelle lontane. Mentre
il metodo delle velocità radiali e quello dei transiti si
concentrano su stelle molto brillanti, e quindi molto
vicine, gli eventi di lente gravitazionale ci permettono
di vedere stelle distanti diverse migliaia di anni luce da
noi. I pianeti extrasolari potrebbero essere rivelati
anche misurando direttamente gli spostamenti della
stella dovuti alla loro presenza perturbatrice. Poiché si
tratta di spostamenti molto piccoli, è necessario
disporre di strumenti di grande risoluzione angolare,
come la missione GAIA che l’ESA sta costruendo e che
verrà lanciata nel dicembre 2011. La rivelazione diretta
dei pianeti extrasolari richiede altissima risoluzione
angolare, unita ad accorgimenti per eliminare (se
possibile) la luce della stella. Ci sono già alcuni esempi
di rivelazione diretta di pianeti utilizzando il VLT
(Very large telescope) dell’ESO (European southern
observatory) e lo strumento NACO, capace di ottenere
risoluzioni spaziali elevatissime, grazie all’uso di ottica
adattiva. Si tratta di pianeti piuttosto massicci e
decisamente lontani dalle loro stelle, tanto da essere
considerati oggetti al confine tra i pianeti e le nane
brune (fig. 5).
La maggiore risoluzione angolare raggiungibile con
le tecniche interferometriche, potenzialmente capaci
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anche di annullare la luce della stella, promette di farci
vedere, in un futuro speriamo non troppo lontano,
direttamente i pianeti extrasolari.
2. La situazione attuale
Nel maggio 2006 la famiglia dei pianeti extrasolari
contava 188 membri. Di essi, 176 sono stati scoperti (o
confermati) con il metodo delle velocità radiali (18
sono in sistemi multipli, per un totale di 152 sistemi
planetari). Di questi pianeti, nove sono stati studiati
anche con il metodo dei transiti (in effetti alcuni sono
stati scoperti con questo metodo), permettendo di avere
informazioni anche sul loro raggio, e quindi sulla loro
densità. Dei rimanenti pianeti extrasolari, quattro sono
stati scoperti con il microlensing, quattro con immagini
dirette e quattro sono stati rivelati in due sistemi
planetari intorno a pulsar radio.
Consideriamo i risultati ottenuti fino a ora e, pur
tenendo conto di tutte le limitazioni osservative,
esaminiamo le caratteristiche dei pianeti extrasolari e
delle loro stelle. L’analisi della distribuzione della massa
dei pianeti con periodi orbitali inferiori a 3000 giorni
mostra che la frequenza della scoperta dei pianeti è
maggiore per gli oggetti di massa minore (fig. 6).
Ciononostante, la massa dei pianeti osservati oscilla tra
qualche decina di masse terrestri e qualche decina di
masse gioviane, mentre la distanza dalla stella è, nella
grande maggioranza dei casi, solo una frazione di unità
astronomica (fig. 7). Si tratta quindi di pianeti simili ai
giganti gassosi del nostro Sistema solare, che orbitano
intorno alla loro stella alla distanza di Mercurio. È un
risultato importante e non previsto: per stelle simili al
Sole ci si aspettava di trovare pianeti simili a Giove alla
distanza di 4 o 5 unità astronomiche, non ad appena
0,05 unità astronomiche dalla loro stella. Per di più,
molti dei pianeti si muovono su orbite con elevata
eccentricità, cosa che non si riscontra nel nostro
Sistema solare ed è difficile da conciliare con l’idea che i
pianeti si formino all’interno di dischi interplanetari, la
viscosità dei quali dovrebbe circolarizzare le orbite.
Pochi dei sistemi planetari trovati contengono più di un
pianeta, ma questo può essere un limite del metodo di
ricerca, basato sugli spostamenti di velocità radiali,
spostamenti più apprezzabili per pianeti grandi.
L’esame dei risultati ottenuti mostra con
sorprendente chiarezza che il paradigma che avevamo
desunto dal nostro Sistema solare è, se non sbagliato,
sicuramente incompleto. Il gradiente termico presente
nel disco protoplanetario ha un ruolo molto
importante, poiché concentra nei corpi più prossimi
alla stella i materiali con densità più elevata, mentre
relega in quelli più lontani i materiali volatili. Secondo
queste teorie, quindi, pianeti giganti non avrebbero
potuto esistere così vicino alla stella. L’unico pianeta
extrasolare che non contraddica le teorie sviluppate per
spiegare la formazione del Sistema solare è OGLE2005-BLG-390Lb, il più piccolo dei pianeti scoperti.
Oggi si suppone che la formazione dei pianeti avvenga
secondo due direttrici principali: la frammentazione del
disco
protoplanetario,
o
l’accrescimento
di
protoplanetesimi su un nucleo centrale. Entrambe le
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ipotesi incontrano grande difficoltà a rendere conto
dell’esistenza dei cosiddetti ‘giovi caldi’, principalmente
a causa della temperatura relativamente elevata delle
regioni dove il pianeta si deve formare.
Una delle soluzioni proposte si chiama migrazione,
secondo la quale i pianeti si formano nelle regioni più
esterne e poi migrano verso quelle più interne.
L’esistenza dei giovi caldi ci ha costretto ad accettare
l’idea che la posizione attuale di un pianeta possa non
avere nulla a che fare con la sua posizione alla nascita.
La migrazione può avere diverse cause, legate, per
esempio, a interazioni gravitazionali tra pianeti giganti,
in seguito alle quali uno dei pianeti può essere espulso
dal sistema, mentre gli altri si avvicinano alla stella.
Oppure la causa è l’interazione tra il disco gassoso (che
rimane alla base della formazione di ogni sistema
planetario) e il pianeta, la cui massa è un parametro
importante, perché determina la sua capacità di aprirsi
un varco nel disco oppure no. I modelli di migrazione
richiedono che i pianeti si formino molto rapidamente,
altrimenti il vento delle stella potrebbe dissipare il disco
prima che questo interagisca col pianeta. Fare iniziare la
migrazione è solo una parte del problema: è anche
importante identificare uno o più meccanismi per
arrestarla, per evitare che il pianeta cada sulla sua stella.
L’abbondanza di pianeti con periodo orbitale di tre
giorni e la rarità di pianeti con periodo orbitale
inferiore fanno pensare che debba esistere un
meccanismo frenante, anche se ancora non si conosce
quale sia. Ovviamente è possibile che i pianeti che si
avvicinano troppo alla loro stella vengano fatti
evaporare rapidamente, e quindi diventino troppo
piccoli per poter essere rivelati. Anche l’eccentricità
misurata per una buona frazione delle orbite dei pianeti
extrasolari pone significativi problemi, visto che le
teorie alle quali abbiamo accennato non la prevedono.
Poiché i pianeti del Sistema solare hanno orbite quasi
circolari, è possibile che questo sia un altro indizio che
il modello standard per la formazione dei pianeti
giganti sia ancora incompleto. Un altro risultato
interessante, che emerge dall’analisi statistica del
campione di pianeti extrasolari, è l’importanza della
composizione della stella: più la stella è ricca di
elementi pesanti (la cosiddetta metallicità), maggiore è
la sua probabilità di avere pianeti. Mentre solo il 5 %
delle stelle con metallicità simile al Sole ha un pianeta,
la percentuale sale al 20 % per le stelle con metallicità
doppia di quella solare. Un disco ricco di elementi
pesanti avrebbe un maggiore contenuto di grani di
polvere e quindi favorirebbe la formazione di pianeti,
poiché la composizione della stella deve riflettere quella
del disco intorno a essa.
3. Il futuro
Nel giro di qualche anno il numero dei pianeti
extrasolari conosciuti, dovrebbe diventare di parecchie
migliaia. Dalla maggiore statistica disponibile e da
successivi studi approfonditi, per esempio con
strumenti ad altissima risoluzione mediante
interferometria spaziale di seconda generazione,
dovrebbe essere possibile ricavare gli esempi più
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interessanti per somiglianza con la Terra (massa,
periodo orbitale, distanza dalla stella centrale di tipo
possibilmente solare, ecc.). Con l’aumentare del
numero dei pianeti conosciuti al di fuori del Sistema
solare, crescerà anche l’interesse di cercare, su di essi,
tracce di vita. Per semplicità consideriamo quei pianeti
che possano ospitare forme di vita simile a quella che
conosciamo sulla Terra. Si richiedono allora pianeti
sufficientemente pesanti da trattenere un’atmosfera
(differenza tra Terra e Marte), ma non così pesanti da
trattenere l’idrogeno, letale per ogni forma di vita
(differenza tra Terra e Giove). Si richiede, inoltre, la
presenza di acqua liquida sulla superficie, ovvero, alle
condizioni di pressione di una ‘normale’ atmosfera, una
temperatura superficiale di circa 300 K (differenza tra
Terra e Venere). A seconda del tipo di stella intorno alla
quale i pianeti orbitano, si può così definire una ‘zona
abitabile’, ossia una distanza dalla stella favorevole alla
vita, che deve necessariamente essere compresa tra 0,1 e
2 volte la distanza tra la Terra e il Sole (ca. 150 milioni
di chilometri). Una distanza maggiore richiederebbe
una stella molto più calda del Sole, ma quel tipo di
stelle evolve troppo rapidamente per dare il tempo
necessario all’evoluzione della vita, che sulla Terra si
misura in miliardi di anni. Una distanza minore
genererebbe, invece, temperature troppo elevate.
Applicando i criteri di abitabilità alle stelle con
sistemi planetari note fino a ora, si osserva che circa
nella metà dei casi ci potrebbe essere una zona abitabile,
con condizioni favorevoli alla vita. Questo significa che,
benché non sia stato ancora scoperto, in quei sistemi
planetari, ci potrebbe essere un pianeta roccioso simile
al nostro, che ha verosimilmente ospitato lo sviluppo
della vita. La situazione diventa meno favorevole nel
caso la zona abitabile sia stata attraversata da un gigante
gassoso in migrazione. Questa ingombrante presenza
può distruggere il pianeta roccioso e la probabilità di
trovare un pianeta simile alla Terra nella zona abitabile
scende a meno del 10 %.
Visto il numero di potenziali soli nella galassia, non
mancano certo i candidati da esplorare, alla ricerca di
eventuali segni di vita. Quale segno cercare in questo
caso? Idealmente, l’analisi spettroscopica della luce
riflessa dal pianeta è il metodo di indagine più potente.
Nello spettro di un pianeta nella zona abitabile si
dovranno cercare, innanzitutto, le righe dell’ossigeno,
visto che tutto l’ossigeno molecolare e l’ozono sulla
Terra sono di origine biogenica. Si tratta di un metodo
diagnostico potente, che ha il solo limite dovuto alla
fotodissociazione
dell’acqua,
soprattutto
nelle
particolari condizioni di una continua accrezione di
acqua dall’esterno del pianeta, come nel caso della
caduta di comete. Purtroppo questo tipo di ricerca
richiede l’utilizzo di un interferometro spaziale con
separazione di almeno 20 m, cioè uno strumento
disponibile solo tra un paio di decadi.
Un metodo diagnostico ancora più generale sarebbe
la ricerca di caratteristiche spettrali legate a un
convertitore molecolare, capace di trasformare l’energia
che proviene dalla radiazione della stella in energia
chimica: sulla Terra, per esempio, la clorofilla, che
genera caratteristiche bande di assorbimento spettrale.
Certo, l’esplorazione di pianeti lontani potrebbe fornire
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righe ben diverse, legate a una biochimica a noi
sconosciuta; in questo caso, una variazione stagionale di
intensità potrebbe indicare un ciclo biologico. Per
concludere, accenniamo all’esplorazione ‘indiretta’ per
la ricerca di vita intelligente, su pianeti anche
lontanissimi. Nell’ipotesi che civiltà evolute abbiano la
capacità (e la voglia) di inviare segnali verso di noi,
cerchiamo di essere pronti a riceverli e a capirli. È lo
scopo del progetto SETI (Search for extraterrestrial
intelligence), in corso da molti anni con l’utilizzo,
finora vano, di piccole percentuali del tempo dei
maggiori radiotelescopi del mondo.
Bibliografia
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