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Il pensiero della bellezza 7
Il pensiero medievale è impressionato dalla inconcepibilità di Dio, la “superessenzialità”
di cui parla Dionigi l’Areopagita:“la natura divina (he theótes) non esiste per nulla
secondo il modo delle cose che esistono, ed è causa (aítion) dell’essere per tutte, esso
stesso non esistendo (mè ón), ma essendo oltre (epékeina) ogni essenza (ousía)” (“I
nomi di Dio” , IV). Le cose che esistono sono realizzazioni delle loro possibilità di essere:
Per le cose comuni vale il principio che l’essenza viene prima della loro esistenza e
perciò possono essere o non essere. Per esempio: questa matita che ho tra le mie mani
poteva anche non esistere senza che perciò fosse annientata l’essenza della matita: ci
sono intatti tante altre matite al mondo. Tutto ciò che ha essenza si attua in una pluralità
di esistenze. L’essenza di solito è una e le esistenze sono più di una. Ciò distingue
l’essenza dalle esistenze. Ma se ciò che esiste è uno, la sua esistenza non può distinguersi
dall’essenza: entrambi coincidono nell’unità. Poiché non si può pensare a una pluralità
di dei – perché in tal caso la loro esistenza, in quanto plurima, sarebbe diversa
dall’essenza, sarebbe solo esistenza di fatto – ma solo a un Dio uno, alla sua esistenza
deve inerire all’essenza (cioè esso esiste non di fatto, ma necessariamente). Ma questa
coincidenza tra essenza ed esistenza pone il suo essere sopra le essenze delle cose
(superessenzialità) che si possono concepire e dire1. Dunque accedere a Dio è accedere
all’inconcepibile e all’ineffabile: al contrario di quanto si fa con le cose, che si conoscono
meglio quanto più si hanno nozioni di esse (per es. conosco questo tavolo perché, oltre a
sapere che cos’è un tavolo in generale – a concepire la sua essenza - so quanto è lungo,
largo, alto, quanto pesa, di che legno è fatto, ecc.): conosco più Dio quanto meno so di lui.
Accedere all’inconcepibile è spogliarsi di ogni nozione che lo riguardi. Ogni conoscenza
positiva di Dio ne oscura il volto: solo è l’assoluta ignoranza (quella che Nicolò Cusano2
chiamerà “docta ignorantia”) è piena conoscenza di Dio. La conoscenza di Dio consiste
nello spogliarsi dalle immagini del mondo. Allontanandoci dal clamore di esso, per gradi
successivi, ascendiamo la scala di Giacobbe3 : infatti “attraverso la grandezza e la
bellezza delle creature potrà essere conosciuto il loro creatore”. Attraverso il molteplice,
si risale all’Uno.
“E’ opportuno quindi entrare nella nostra mente, che è immagine imperitura, spirituale e a
noi interiore (intra nos) di Dio, il che significa entrare nella verità di Dio. E’ opportuno
trascendere noi stessi, e ciò significa giungere all’eterno, spiritualissimo, e sopra di noi
(supra nos), rivolgendo lo sguardo al primo principio, ciò significa gioire nella conoscenza
di Dio (in Dei notitia) e nella venerazione della sua maestà (et reverentia majestais)”
Bonaventura da Bagnoregio4 “Itinerario della mente in Dio” I, 2. )
“E’ cieco chi non è illuminato da tanti splendori delle cose create (rerum creatarum). (….)
Quanto sono magnifiche le tue opere, o Signore, hai fatto tutto con saggezza la terra è
piena dei tuoi doni” (Bonaventura, cit. I, 15).
“Quanto più noi ci eleviamo verso l’alto, tanto più le parole si contraggono alla vista delle cose
spirituali (tõn noetõn)” Dionigi l’Areopagita, “La contemplazione” III.
2 Nicolò da Cusa, 1401- 1464.
3 “Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la
notte, perché il sole era tramontato; prese là una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in
quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo;
ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.”(Genesi 28, 10-12). La scala di
Giacobbe è il simbolo del nesso intercorrente tra creatura e creatore, tra mondo e Dio.
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Bonaventura da Bagnoregio 1217/1221 -1274.
Alberto Madricardo – Il pensiero della bellezza 2016-2017
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L’uomo è microcosmo, attraverso i suoi sensi, come attraverso porte, entra nella sua
anima tutto ciò che è nel mondo sensibile (Bonaventura, cit. II 3). Tutto ciò che è in
movimento. Ma attraverso il movimento dei corpi siamo condotti ai loro motori
spirituali (alla sua causa). Le cose del mondo e i loro movimenti sono le tracce (vestigia)
nelle quali possiamo vedere Dio come in uno specchio (in quibis speculari possumus
Deum nostrum). Nelle cose sensibili possiamo cogliere come su specchi (“tamquam in
speculis”) l’eterna generazione del Verbo (aeterna generatio Verbi) (Bonaventura, cit. II
7). In questo modo l’immagine (species) producendo piacere in quanto bella (speciosa),
soave e salubre, mostra che la bellezza (speciositas) , la soavità e la salubrità originarie si
trovano in quell’immagine prima (del Verbo). In cui è assoluta proporzione ed
eguaglianza con colui che genera (Bonaventura, cit. II 8).
“Solamente l’immagine di Dio (solius Dei similitudo) è fondamento supremo della bellezza,
soavità e salubrità (…) Risulta che unicamente in Dio risiede il piacere originario e vero, e
che qualsiasi altro piacere conduce alla ricerca di quello” (Bonaventura, ibidem).
Bonaventura spiega come si giunge dall’osservazione della varietà del reale alla
contemplazione di Dio:
“Per conoscere gli aspetti invisibili di Dio (invisibilia Dei), relativi all’unità dell’essenza,
occorre in primo luogo volgere o sguardo verso l’essere stesso e osservare che l’essere
stesso è certissimo (certissimum), al punto che non può essere pensato come non esistente
(…) Poiché d’altra parre il non essere è provazione di essere, non può venire concepito che
per mezzo dell’essere, l’essere invece non è concepito per mezzo di altro, poiché tutto è
concepito o come non ente, o come ente in potenza, o come ente in atto, allora l’essere è
ciò che per primo viene concepito dall’intelletto e tale essere è atto puro (purus actus). (…)
Straordinaria è la cecità dell’intelletto che non considera ciò che vede per primo e senza il
quale non può conoscere nulla ” (Bonaventura, cit. V 3).
La bellezza è attributo divino e attiene alla perfezione con cui l’essenza e l’esistenza in
Dio coincidono. Rispetto alla concezione della bellezza classica come manifestazione
dell’ordine eterno, quella cristiana sottolinea la bellezza della perfezione dell’atto
autocreativo (identità di essenza e esistenza nell’unità) di Dio. Per il Cristianesimo e
l’Islam, che discendono dall’Ebraismo, il mondo prima di essere ordine mirabile in sé, è
mirabile in quanto creato. La bellezza nel suo pieno splendore è metafisica:
“Sappi che il principio di questa scienza, ossia la metafisica, è molto pericoloso (…) colui
che si rivela di mente perfetta e pronto a questo elevato grado di conoscenza, che èil
grado della speculazione dimostrativa e delle argomentazioni intellettuali veritiere, si deve
elevare a poco a poco fino a raggiungere la perfezione, sia che qualcuno lo indirizzi, sia
che ci arrivi da sé” (Maimonide5, “La guida dei perplessi” parte prima cap. XXXIII).
Perché il principio di questa scienza è pericoloso? Perché la conoscenza metafisica è
possibile realizzarla solo attraverso la distruzione delle credenze precedenti
(Maimonide, ibidem) che sono formate dalle impressioni, fatte di luci e di ombre, del
mondo, impastato di nulla sull’anima, di cui essa deve mondarsi per accedere alla
vera conoscenza. Il bello si apprende attraverso l’intuizione intellettuale di Dio,
sommo bene:
“Egli non produce altro che esistenza, e ogni esistenza è un bene, mentre tutti i mali sono
privazioni alle quali non è collegata alcuna azione” (se non per il fatto che “egli ha fatto
esistere la materia che – come è noto – è sempre collegata alla privazione”) Maimonide cit.
parte terza, cap. XI).
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Mosè Maimonide. 1135 - 1204.
Alberto Madricardo – Il pensiero della bellezza 2016-2017
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