L`energia nucleare - Franco Castronovo

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L’uranio
L’uranio è un metallo molto pesante, di colore argenteo. Non si trova allo stato libero, ma è presente in vari
minerali; di questi, il più diffuso è la pechblenda.
Il minerale presente nei giacimenti (fig. 42) non è utilizzabile direttamente come combustibile nucleare: esso,
infatti, contiene meno dell’1% di composti di uranio.
Perciò è sottoposto a una serie di operazioni dal momento della sua estrazione a quello in cui esso è utilizzato
come combustibile nucleare.
Tra queste operazioni vi sono: la raffinazione del minerale, che permette di ottenere una sostanza che
contiene un’elevata percentuale di uranio naturale, e l’arricchimento del prodotto della raffinazione in
uranio 235, uno degli isotopi dell’uranio che subisce la fissione. Al termine del processo di lavorazione,
l’uranio sotto forma di pastiglie alimenta le centrali termonucleari. L’energia ricavata dall’uranio può
risultare competitiva rispetto a quella ricavata dal carbone e dal petrolio, tuttavia, per i gravi rischi che
comporta il suo uso, nel 1987 la popolazione nel nostro Paese si è espressa con un referendum contro l’uso
delle centrali nucleari, che perciò da allora è stato interdetto in Italia.
L’energia nucleare
Gli atomi che costituiscono la materia sono formati da protoni e neutroni, che formano il nucleo, e dagli
elettroni, che circondano il nucleo. Le forze che tengono legate le particelle del nucleo di ogni atomo
sono molto intense e sono dovute all’energia nucleare.
Gli elementi con il nucleo molto grande sono instabili ed emettono particelle o radiazioni: subiscono
un decadimento radioattivo che, in un certo periodo di tempo, tipico di ogni elemento radioattivo,
trasforma gli atomi stessi.
Due sono i modi per liberare energia nucleare: la fissione e la fusione. In entrambi i processi si verifica
una reazione nel nucleo dell’atomo e la materia che resta dopo la reazione possiede una massa
leggermente inferiore rispetto a quella iniziale. Questa massa “scomparsa” si è trasformata in energia,
parte della quale si manifesta come calore che può essere usato per generare elettricità.
Se un neutrone colpisce un nucleo instabile, si ha la fissione: il nucleo si divide in due nuclei più piccoli
e più stabili che, per mantenersi tali, hanno bisogno di meno neutroni e perciò ne liberano 2 o 3; questi
neutroni possono poi a loro volta rompere altri nuclei avviando così una reazione a catena (fig. 1).
L’energia necessaria per trattenere tutte le particelle nei nuovi nuclei è inferiore a quella richiesta in
origine, ed è proprio questa differenza di energia che viene liberata.
Ad altissime temperature piccoli nuclei atomici possono fondersi insieme per crearne altri più grandi
(fusione nucleare): questo è quanto accade nelle stelle come il Sole.
La reazione di fusione più comune è quella che dà origine a un nucleo di elio a partire da nuclei di due
isotopi dell’idrogeno, il deuterio e il trizio (fig. 2).
La fusione nucleare, che è attualmente in fase di sperimentazione in reattori speciali, potrebbe
diventare la fonte energetica del futuro: una fonte pulita, sicura e priva di scorie
radioattive.
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LA PERICOLOSITÀ DELLE RADIAZIONI
Tutte le sostanze radioattive sono pericolose per gli organismi viventi, perché possono provocare
tumori, mutazioni genetiche e anche la morte.
Le radiazioni nucleari sono di tre tipi diversi, con diversi livelli di pericolosità:
• le radiazioni alfa, le più pesanti, non sono molto penetranti neppure a livello dei tessuti organici e le
sostanze che le emettono diventano pericolose se respirate o ingerite;
• le radiazioni beta sono più penetranti e possono causare gravi danni;
• le radiazioni gamma sono le più pericolose per l’altissima energia che trasportano; sono
estremamente penetranti e causano gravissimi danni, anche a notevole distanza dalla fonte radioattiva
che le emette; si possono fermare solo con schermi di piombo o di cemento molto spesso.
Non sono pericolose tanto le radiazioni emesse direttamente nell’atmosfera dalle centrali nucleari (si
disperdono rapidamente), quanto le tracce di elementi radioattivi che sono costantemente introdotti e si
diffondono nelle bevande e nei cibi. I pesci, per esempio, che si nutrono di plancton, accumulano
elementi radioattivi presenti nell’acqua contaminata, altrettanto accade al bestiame che beve acqua
anche leggermente radioattiva o che si nutre della vegetazione cresciuta su terreno contaminato. A sua
volta l’uomo, all’apice della catena alimentare, nutrendosi di pesce, di bestiame o di vegetali
contaminati è contaminato a sua volta.
Inoltre alcune sostanze tendono ad accumularsi in particolari organi: lo iodio radioattivo, per esempio, si
accumula nella tiroide, il rutenio nei reni, lo zolfo nella pelle, il cobalto nel fegato; negli organi genitali
si accumulano un gran numero di sostanze radioattive che possono influenzare anche le generazioni
future.
Esiste poi il rischio di incidenti che possono provocare la fuoriuscita dalle centrali nucleari delle
pericolosissime emissioni radioattive.
Il 7 ottobre 1957 negli Stati Uniti, durante la manutenzione di un reattore militare, si scatenò un incendio
e una perdita di materiale radioattivo all’esterno. I controlli eseguiti sugli abitanti del luogo rilevò una
contaminazione pari al 25% della dose limite annua prevista per il personale dell’impianto, cioè un
quarto della dose massima assorbita in un sol colpo!
A Three Mile Island, sempre negli Stati Uniti, il 28 marzo 1979, a causa di una lunga serie di errori
umani, il nocciolo di un reattore di una centrale termonucleare fuse parzialmente, con conseguente
contaminazione all’interno del dispositivo di contenimento, ma fortunatamente non si registrarono
danni alle persone.
L’incidente più grave si verificò il 26 aprile 1986 a Cernobyl (Ukraina) (fig. 1): un reattore mal
progettato, usato per un esperimento, sfuggì al controllo e il nocciolo si fuse, ne seguì un colossale
incendio che divampò per dieci giorni; il 10% del materiale radioattivo si riversò all’esterno.
Ufficialmente si dichiarano 32 morti e 200 contaminati gravi; oltre 135 000 persone furono evacuate in
un raggio di 30 km. Le ceneri radioattive trasportate dal vento caddero su tutta l’Europa.
Le scorie che si producono in seguito alle reazioni nucleari sono pericolosissime perché fortemente
radioattive e continuano a emettere radiazioni per un periodo di tempo molto lungo. Poiché sono
praticamente indistruttibili, devono essere trattate allo scopo di permettere il decadimento della
radioattività in condizioni di sicurezza; questo trattamento avviene in serbatoi speciali con doppie pareti
per scongiurare il rischio di eventuali perdite delle sostanze nocive.
Dopo 5 anni le scorie, in fase liquida, saranno trasformate in solidi e dopo altri 5 anni verranno
trasportate in luoghi di confinamento: affondati in mare, seppelliti in trincee superficiali del terreno,
seppelliti in fosse di calcestruzzo o immesse in formazioni geologiche profonde, a seconda della natura
delle scorie stesse.
Ma è impossibile garantire che, in futuro, non si verifichino delle perdite da tali luoghi di confinamento,
per esempio a causa di terremoti o per la corrosione dei contenitori al contatto prolungato con l’acqua
di mare.
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La turbina idraulica
La turbina idraulica è una macchina motrice rotante che converte l’energia cinetica dell’acqua in
movimento in energia meccanica. L’elemento essenziale della turbina è la girante, o rotore, che può essere
costituita da un’elica oppure da una ruota con alette o pale. L’energia meccanica acquisita dalla girante è
trasmessa a un albero motore che aziona una macchina, un compressore, un generatore elettrico o un’elica.
I principali tipi di turbina sono:
• la turbina Pelton (dal nome del suo inventore, l’ingegnere statunitense Lester A. Pelton), adatta a grandi
salti e piccole portate d’acqua, quindi si utilizza per i bacini idroelettrici alpini. La girante è costituita da una
grossa ruota ad asse generalmente orizzontale, al cui bordo sono fissate delle pale a forma di doppio
cucchiaio con uno spigolo centrale affilato (fig. 19); questo divide il getto d’acqua, che arriva tangente alla
ruota, in due parti che vanno a colpire i due cucchiai laterali, facendo girare la girante con la loro spinta;
• la turbina Francis (dal nome dell’ingegnere britannico James Francis); essa permette di sfruttare salti
d’acqua molto differenti, fino a più di 700 m. La girante è circondata da pale orientabili (fig. 20), che
permettono di migliorare sensibilmente le possibilità di regolazione della turbina e quindi anche il suo
rendimento nel caso in cui il flusso d’acqua sia ridotto;
• la turbina Kaplan (dal nome dell’ingegnere austriaco Viktor Kaplan); essa funziona più o meno come
l’elica di una nave: la girante, generalmente ad asse verticale, ha tre o sei ampie pale rotanti (fig. 21), messe
in moto dall’acqua ad alta pressione liberata attraverso una chiusa; è adatta a cadute d’acqua molto basse
(anche al disotto dei 10 m) con una grande portata; ha grande potenza e un rendimento superiore a quello
delle altre turbine.
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La turbina a vapore
In questa macchina il vapore ad alta pressione, prodotto scaldando l’acqua della caldaia, mette in rotazione la
parte mobile, il rotore, composto da più giranti montate sullo stesso asse per sfruttare meglio l’energia del
vapore (fig. 25).
La turbina a vapore è impiegata per mettere in movimento un generatore elettrico (alternatore) nelle centrali
termoelettriche (vedi il capitolo 4 di questa unità). La turbina più grande è in grado di generare energia
sufficiente a soddisfare la richiesta di una città di un milione di abitanti.
Le turbine a vapore sono impiegate anche come motori navali.
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Le grandezze elettriche
I fenomeni elettrici sono legati alla presenza di cariche elettriche sia statiche, cioè ferme, sia in movimento.
Due cariche statiche si comportano secondo una legge molto semplice:
• cariche dello stesso segno si respingono;
• cariche di segno opposto si attraggono.
Puoi verificare questo comportamento delle cariche statiche gonfiando due palloncini legali alle due
estremità di un filo; strofina entrambi con un panno di lana, solleva il filo al centro e lascia pendere i
palloncini: vedrai che questi si allontanano (fig. 3 a). Se invece metti un foglio di carta tra i due palloncini,
questi si avvicinano (fig. 3 b), poiché la carta, che non è elettricamente carica, ha lo stesso numero di cariche
negative e positive: queste ultime attirano i palloncini che hanno cariche negative.
La corrente elettrica è invece un fenomeno elettrodinamico (cariche in movimento). Essa può essere
paragonata alla corrente di un fiume: questa è formata dallo scorrere di un gran numero di gocce d’acqua,
mentre la corrente elettrica è costituita da un flusso ordinato di elettroni all’interno di un materiale in cui gli
elettroni possono scorrere.
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L’intensità di corrente
La rapidità con cui fluisce la carica elettrica in un filo conduttore definisce l’intensità di corrente elettrica I,
che nel SI si misura in ampere (simbolo A), dal nome del fisico francese André-Marie Ampère (1775-1836)
e si misura con l’amperometro (fig. 4).
La tensione
L’acqua scorre in un fiume o in un tubo perché esiste una differente altezza da un punto A a un punto B che
provoca il passaggio di acqua dal serbatoio con il livello più alto a quello con il livello più basso (fig. 5 a).
Negli impianti elettrici al posto del tubo abbiamo il cavo elettrico e al posto dell’acqua abbiamo la corrente
elettrica; la differenza non è più l’altezza, ma il potenziale elettrico. Questa differenza di potenziale (d.d.p.)
prende il nome di tensione elettrica.
Se aumentiamo la differenza di altezza, l’acqua scorre con più velocità, allo stesso modo se aumentiamo la
tensione aumenta l’intensità di corrente. La differenza di potenziale, o tensione, V si misura in volt (V), dal
cognome dello scienziato italiano Alessandro Volta (1745-1827) che inventò la pila. Lo strumento per la
misura della tensione è il voltmetro (fig. 5 b).
Tra due corpi elettricamente carichi esiste quindi una differenza di potenziale elettrico che genera una
corrente elettrica quando i due corpi vengono collegati; in conseguenza di questo passaggio, le cariche
presenti sui due corpi si equilibrano e la corrente termina: la corrente generata ha perciò una durata
brevissima. Ci sono però dispositivi atti a realizzare una tensione elettrica che dura nel tempo: sono i
generatori di corrente, che conoscerai più avanti.
La tensione può essere continua o alternata (fig. 6): quella continua ha un andamento costante ed è prodotta
dalla batteria dell’auto o nelle pile; la tensione alternata, come quella delle nostre case, inverte
continuamente la direzione del flusso.
La resistenza elettrica
La corrente elettrica che percorre un conduttore incontra sempre una resistenza, che dipende dal materiale
con cui il conduttore è fatto, dalla sua lunghezza e dalla sua sezione. La resistenza dissipa energia sotto
forma di calore. Se osservi una lampadina a incandescenza, noterai che il filamento, al passaggio della
corrente, si surriscalda fino a diventare incandescente: la resistenza nel filamento è elevatissima e molta
energia elettrica viene trasformata in energia termica per produrre luce.
La resistenza si indica con R e si misura in ohm (simbolo W), dal nome del fisico tedesco George Ohm
(1787-1854).
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La legge di Ohm
Le tre grandezze intensità, tensione e resistenza, sono in relazionetra loro.
Se in un circuito elementare (fig. 7 a) si aggiunge un’altra pila uguale alla prima (fig. 7 b), potrai osservare
che la luminosità delle lampadine aumenta: questo indica che maggiore è la tensione, maggiore è
l’intensità della corrente elettrica (per comprendere meglio il concetto pensa all’acqua che scorre:
aumentando il dislivello l’acqua scorre più velocemente; analogamente, se si aumenta la tensione tra due
punti di un conduttore, l’intensità della corrente elettrica nel circuito sarà maggiore).
La tensione V e l’intensità I sono direttamente proporzionali; il fattore di proporzionalità esprime la
resistenza R che il filo oppone al passaggio della corrente:
tensione = intensità resistenza
Questa formula esprime a legge di Ohm, che può essere scritta con i simboli delle rispettive grandezze:
V = I R
da cui si ricavano le due formule inverse:
I = V/R R = V/I
La resistenza elettrica di un conduttore dipende:
• dalla lunghezza e dalla sezione del filo conduttore; la resistenza è direttamente proporzionale alla
lunghezza del filo: un filo più lungo oppone maggiore resistenza al passaggio della corrente di uno più corto
(fig. 8 a); la resistenza è inversamente proporzionale alla sezione del filo: un filo di diametro più piccolo
oppone maggiore resistenza al passaggio della corrente di uno con diametro maggiore;
• dal materiale; infatti ogni materiale oppone una diversa resistenza al passaggio della corrente (fig. 8 b).
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I GENERATORI ELETTRICI
I generatori di corrente elettrica possono essere chimici, come le pile, o meccanici, come le dinamo e gli
alternatori.
Generatori chimici
Le pile sfruttano una reazione chimica per produrre corrente elettrica. Se prendi mezzo limone e vi
immergi due lamine, una di zinco e l’altra di rame, e le colleghi a una lampadina, questa si accende. Tra
l’acido del limone (elettrolita) e le lamine metalliche si sviluppa una reazione chimica che provoca una
piccola differenza di potenziale elettrico tra lo zinco e il rame. Questo è il principio su cui si fonda la pila di
Volta, il primo generatore elettrico della storia. La corrente fornita dalle pile è continua: gli elettroni si
muovono sempre nello stesso verso.
Le pile “a secco” (fig. 17) sono realizzate con una tecnologia più complessa della pila di Volta e possono
fornire differenze di potenziale che vanno da 1,5 V a 9 V; hanno una durata prolungata, oltre che facilità di
impiego. Esse sono costituite da una sottile lamina di zinco, che funge da contenitore e da polo negativo, da
un bastoncino di carbone come polo positivo, da un elettrolita formato da una soluzione di sale di ammonio
(al posto dell’acido solforico) e un depolarizzante che impedisce la polarizzazione (fenomeno che nella pila
di Volta creava uno strato di bollicine sulla lamina di rame, provocando resistenza al passaggio della
corrente). L’elettrolita è reso semisolido da un impasto di sostanze gelatinose, in modo che non esca e la pila
si possa facilmente trasportare (fig. 18).
Esistono anche altri tipi di pile. Quelle alcaline sono costituite da materiali più costosi e inquinanti, ma hanno
una maggiore durata di quelle tradizionali; le pile a bottone contengono mercurio, un metallo molto velenoso
e inquinante; tuttavia, per le loro ridottissime dimensioni, sono usate per gli orologi, le calcolatrici, gli
esposimetri delle macchine fotografiche e negli apparecchi acustici.
L’accumulatore (fig. 19 a), invece, non è un vero e proprio generatore di corrente, poiché esso preleva
energia elettrica da un generatore e la immagazzina per restituirla quando e dove è necessario. A differenza
delle comuni pile esso può essere ricaricato; viene impiegato negli automezzi per la messa in moto del
motore (fig. 19 b).
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Generatori meccanici di corrente
I generatori meccanici trasformano l’energia meccanica in energia elettrica (fig. 21 a); il principio di
funzionamento della dinamo e degli alternatori è basato sul fenomeno dell’induzione elettromagnetica. Prova
a osservare come è fatto il generatore di corrente della bicicletta (fig. 21 b), impropriamente chiamato
dinamo.
Al suo interno c’è un magnete (calamita) libero di ruotare dentro un avvolgimento di rame: la rotazione del
magnete produce un campo magnetico variabile che a sua volta genera un campo elettrico. Tale campo mette
in moto gli elettroni del rame generando una corrente elettrica che fa accendere la lampadina collegata al
generatore. Sullo stesso principio si fonda l’alternatore che produce corrente alternata (fig. 22).
Il trasformatore serve a variare i valori di tensione e di intensità della corrente elettrica: è costituito da un
nucleo di materiale ferroso su cui sono avvolti due circuiti elettrici indipendenti (fig. 23). Se il primo circuito
è percorso da una corrente alternata, nel nucleo si produce un flusso magnetico che induce nel secondo
circuito una corrente alternata. Il primo circuito ha un numero limitate di spire, mentre nel secondo vi è un
numero maggiore, di conseguenza una corrente a bassa tensione nel primo produce nel secondo una corrente
a più alta tensione. Viceversa se si manda corrente ad alto potenziale nel circuito con un numero maggiore di
spire, si otterrà nel primo circuito una corrente a basso potenziale: nel primo caso il trasformatore eleva il
potenziale (elevatore), nel secondo lo abbassa (riduttore).
L’uso della corrente alternata e del trasformatore permette la trasmissione di energia elettrica a grandi
distanze senza eccessive perdite: è sufficiente elevare la tensione all’uscita dalle centrali, portandola a 100
000 o 200 000 V, far viaggiare la corrente fino a destinazione, poi abbassare la tensione sino a 220 V e
utilizzarla nelle case (vedi il capitolo 4 di questa unità).
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LE CENTRALI ELETTRICHE
Premiamo l’interruttore e la stanza si illumina, inseriamo la spina nella presa della corrente e mettiamo in
funzione il computer e tutti gli elettrodomestici che rendono confortevole la vita quotidiana. Dobbiamo tutto
ciò all’energia elettrica, la forma di energia più comoda e pregiata, di cui oggi non si può fare a meno. Se
viene a mancare l’energia elettrica, infatti, si arrestano quasi tutte le attività umane, ce ne rendiamo conto
quando subiamo un improvviso black out.
La corrente elettrica che utilizziamo nelle nostre case, in gran parte è prodotta in appositi impianti, le
centrali elettriche, che possono essere di vari tipi (fig. 1).
Il diagramma a blocchi di fig. 2 schematizza i principali elementi comuni che consentono il funzionamento
di base della maggior parte delle centrali (quelle idroelettriche, termoelettriche ed eoliche) e le
trasformazioni di energia che in esse si svolgono.