Il gioco della ricchezza e della povertà:
Aristofane in Senegal
di Martina Treu
“Il coniglio può assaggiare la ciliegia solo se l’uccello l’ha portata
giù dall’albero”: citando questo detto senegalese, il 25 luglio 2008,
l’attore e regista Mandiaye N’Diaye ha ricordato il debito di
riconoscenza verso i suoi “maestri”, Marco Martinelli e Ermanna
Montanari, di Ravenna Teatro.
In questo caso la ciliegia è Aristofane e il viaggio si compie tra la
Romagna e l’Africa, nell’arco di vent’anni. Nel 1988 il senegalese
Mandiaye N’Diaye lascia il villaggio natio, Diol Kadd, per ‘cercare
fortuna’, come si diceva una volta, o almeno trovare lavoro in
Italia: l’incontro con il Teatro delle Albe segna il suo destino.
Oggi Marco e Ermanna applaudono, seduti tra il pubblico, lo
spettacolo da lui diretto: Leebu Nawet ak noor (Il gioco della ricchezza e
della povertà ), in scena dal 25 al 28 luglio 2008 nel corso della
rassegna “Da vicino nessuno è normale”, all’ex Paolo Pini di
Milano.
Il sottotitolo dello spettacolo è Un giorno a Diol Kadd, un piccolo
villaggio nel cuore della savana senegalese: e la localizzazione non è un
modo di dire, ma è da prendere alla lettera. Gli spettatori lo
scoprono appena varcato l’ingresso del parco: camminano tra gli
alberi, seguendo il suono dei tamburi in lontananza. Per una sorta
di magia – o di teletrasporto – ci si ritrova d’un tratto nel cuore
del Senegal, o almeno questa è l’impressione. Può rendere l’idea il
prologo dell’Edipo Re di Pasolini (1967) dove i suoni di percus-
sioni e flauti, anticipando le immagini, segnano un analogo salto
spazio-temporale e ci trasportano da una casa di campagna italiana all’arido deserto africano.
In questo caso il pubblico, attirato dal suono, si addentra nel
parco con passo incerto, tra i padiglioni dismessi dello storico
ospedale psichiatrico. Si sbuca all’improvviso in una radura verde
nascosta, dall’apparenza incontaminata: un pezzo d’Africa a
Milano. Qui un gruppo di attori senegalesi – alcuni residenti in
Italia, altri provenienti proprio da Diol Kadd – accoglie gli
spettatori in un semplice anfiteatro di panche, sotto festoni di luci
colorate, come in una festa di villaggio. Gli attori sono vestiti in
modo eterogeneo, con costumi tradizionali misti ad abiti moderni: uomini e donne siedono separati, a turno si alzano e danzano
al ritmo incalzante delle percussioni.
Attorno il nulla. Solo una cappa di umidità densa, che Milano non
invidia all’Africa e in questo caso entra a far parte dell’ambientazione, e dell’atmosfera. Anche la commedia che ispira lo
spettacolo ha molti tratti in comune con l’Africa, come vedremo;
ma non è di origine africana, bensì greca: è l’ultima commedia
conservata di Aristofane, il Pluto (388 a.C.). Nei secoli passati ha
goduto di larga fortuna per il suo argomento: due ateniesi ridanno
la vista al dio cieco della ricchezza – Pluto – e dunque in teoria
favoriscono la redistribuzione dei suoi doni tra gli uomini, anche
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se il progetto è destinato al fallimento. Oggi le rare
rappresentazioni di questa commedia spiccano tra le rivisitazioni
di Aristofane e si legano perlopiù a iniziative circoscritte di
carattere erudito o di ambito economico: tempo fa, ad esempio,
una sua versione parziale è stata proposta a Milano allo Spazio
No’hma, con la lettura di alcuni brani all’interno di un incontrodibattito sulla ricchezza con diversi banchieri e industrali. La
prima milanese del luglio 2008 ci appare dunque, sotto molti
aspetti, un evento fuori dal comune: una commedia di Aristofane
viene rappresentata a Milano da una compagnia senegalese che ha
forti legami con la Romagna. Per quanto possa sembrare
bizzarro, tutto questo ha un senso: ma per capirlo occorre fare un
passo indietro e raccontare gli antefatti. Come si è arrivati fin qui?
1.
Vent’anni fa il teatro delle Albe inaugura a Ravenna il
progetto Ruh. Romagna più Africa uguale. Commedia nera (il testo è
pubblicato in Martinelli, 2006). L’ispirazione viene dalla teoria
scientifica del geologo Franco Ricci Lucchi, che considera la
Romagna un pezzo d’Africa approdato nell’Adriatico con la
deriva dei continenti (si veda Montanino, a cura di, 2006: 9ss., e il
sito Teatrodellealbe.com alla voce ‘Romagna africana’): l’arrivo degli
africani in Italia, nell’interpretazione poetica del gruppo delle
Albe, si configura come un ritorno, un ricongiungimento. Si
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cercano collaboratori tra gli artisti africani emigrati in Italia, che
lavorano sulle spiagge della Romagna: tra loro Mandiaye N’Diaye
e Mor Awa Niang si rivelano ideali come griots (figure tradizionali
senegalesi di narratori- danzatori- attori - musicisti che trovano
analogie nei cantastorie di molti popoli mediterranei) e inaugurano una collaborazione che darà origine negli anni seguenti a
diversi spettacoli.
Uno spettacolo, in particolare, è antecedente diretto di quello che
vediamo oggi: risale al 1996 e si intitola All’Inferno! Affresco da
Aristofane. Tra i protagonisti di allora ci sono i senegalesi Mandiaye e Mor Awa Niang (che ritroviamo in scena oggi a Milano), El
Hadij Niang, ma anche attori italiani di diversa provenienza (lo
spettacolo è coprodotto da Ravenna Teatro, KismetOpera di
Bari, Tam Teatro Musica di Padova e altri): questo conferisce
all’insieme un efficace multilinguismo – che riprende l’eterogeneo
impasto linguistico già aristofaneo – e una varietà di stili espressivi, frutto delle diverse esperienze confluite nel gruppo.
La contaminazione, rielaborazione e rivitalizzazione di stili e linguaggi è del resto una delle caratteristiche della drammaturgia di
Marco Martinelli che più l’avvicina ad Aristofane, e che lo porta a
frequentare periodicamente l’autore greco: dai primi esperimenti
con gli Uccelli, preludio di All’inferno!, fino all’ultimo Pace! che
inaugura il progetto Arrevuoto con gli adolescenti di Scampia e
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Napoli (si vedano gli scritti dello stesso Martinelli e di M. Giovannelli in Stratagemmi 6/2008). Il testo di Aristofane serve proprio
come chiave per scardinare la realtà e per realizzare una ‘messa in
vita’, operazione inversa e speculare alla messinscena nella
definizione del regista medesimo (Montanino, 2006: 16ss.): attraverso il filtro poetico si mettono in scena le proprie esperienze, si
trasfigurano su un piano superiore. In questi spettacoli il testo
emerge da un lavoro di gruppo che mescola liberamente realtà e
finzione scenica: gli interpreti moderni, come quelli antichi,
indossano sì le vesti dei vari personaggi, ma è come se fossero
trasparenti; si intravede sempre, sotto, il loro vero abito, quello di
attori e coro. La loro reale natura affiora costantemente sotto la
finzione scenica, non solo nella parabasi, ma ogni volta che un
interprete parla da personaggio e da attore, o coreuta, contemporaneamente.
Tutti danno il proprio contributo alla creazione del testo, e dello
spettacolo, e man mano i pezzi prendono forma a partire dall’iniziale anarchia creativa, festosa e vitale. Nel caso di All’inferno! la
struttura originale della commedia attica antica, che già in sé è
composita e riunisce sezioni in origine diverse, viene ulteriormente dilatata e arricchita per dar vita a un mosaico policromo di
scene, luci e colori (‘l’affresco’ del sottotitolo). Il filo conduttore è
la trama del Pluto, opportunamente modernizzata, su cui si
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innestano scene di diverse opere dello stesso Aristofane, dalle
Nuvole ai Cavalieri: da quest’ultima commedia ad esempio trae
ispirazione lo strepitoso duello all’ultimo insulto, in pugliese
stretto, reinventato come schermaglia che si combatte sui
seggiolini di una giostra (si veda Treu, 2005: 93-100).
Se già nel 1996 la lingua viene diversificata a seconda della funzione, e della provenienza degli attori, questa stessa tecnica viene
ripresa e sviluppata oggi nello spettacolo senegalese che è ancor
più decisamente multingue: i dialoghi tra gli abitanti del villaggio
sono quasi tutti in wolof (la lingua indigena di Diol Kadd) o in
francese (la lingua lasciata in eredità dai colonizzatori); solo alcuni
personaggi ‘esterni’ alla comunità sono caratterizzati linguisticamente in modo autonomo: qualcosa del genere accade del
resto nei testi greci originali, dove gli scarti dalla lingua comune –
l’attico – caratterizzano ad esempio il megarese o il tebano negli
Acarnesi o il laconico nella Lisistrata (si veda, sull’attualizzazione
del gioco linguistico in Aristofane, il contributo di Negri - Treu,
2008). In questo caso si fanno notare due personaggi che parlano
rispettivamente il francese e l’italiano: il primo è un inviato
speciale della TV5 francese, a simboleggiare la presenza della
Francia che si fa ancora sentire sotto il profilo culturale; il
secondo rimanda all’Italia, terra di adozione del regista e di alcuni
attori e musicisti, ed è una sorta di narratore in abito casual. I suoi
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interventi tempestivi e puntuali traducono in italiano, anche
gergale, le battute appena pronun-ciate in wolof, permettendone al
pubblico la comprensione: una sorta di ‘filtro’ che fa da tramite
tra italiani e senegalesi, dal punto di vista culturale. Il personaggio
tuttavia non si limita a questi divertenti ‘sottotitoli umani’, ma
possiede una propria personalità e interviene con commenti
propri, perlopiù di derisione e scetticismo, che segnano una presa
di distanza e rappresentano un’altra faccia del confronto tra le
culture.
Quanto alla trama, ridotta all’osso, il Pluto di Aristofane è liberamente reinventato in entrambi gli spettacoli – anche se in modo
adatto di volta in volta al contesto spazio-temporale di ciascuno,
l’Italia del 1996 e l’Africa di oggi. Il dato comune è la situazione
iniziale del Pluto, una crisi economica diffusa e una povertà
endemica che affligge i protagonisti di allora e di oggi – padrone e
servo – cui si somma un’intuizione creativa che avvicina Pluto,
dio della ricchezza dei Greci, a Nawet, il dio senegalese della
pioggia e dunque della ricchezza.
All’inferno! è chiaramente ambientato nel Nord Italia degli anni
Novanta: i due protagonisti interpretano Moussa e Dara, due
poveracci in cerca di fortuna che finiscono in uno strano autogrill
chiamato ‘InferNord’, dove vengono assunti e sottoposti a ogni
sorta di angherie e vessazioni. Il luogo ha i tratti inquietanti
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dell’oltretomba, ma anche quelli dell’inferno quotidiano che i
nostri immigrati devono sopportare ogni giorno. Il procedimento
di trasposizione dovrebbe suonare familiare ai conoscitori della
commedia antica. Aristofane ricorre a un analogo ‘dislocamento’
in altre commedie, tra cui le Rane (405 a.C.); qui Dioniso e il suo
servo sono protagonisti di un viaggio nell’Aldilà che non è affatto
una fuga verso un non-luogo (o ‘utopia’), bensì un’allegoria di
quella stessa realtà che il drammaturgo raffigura in tutte le
commedie e nella quale il pubblico si rispecchia: ieri la polis, oggi
la realtà contemporanea (questa lettura è accolta da molti registi,
da ultimo Ronconi nell’allestimento siracusano delle Rane, del
2002, su cui si veda Treu, 2005: 89ss).
Se nelle Rane l’Aldilà ha tutte le caratteristiche di Atene, vista
naturalmente attraverso uno specchio, All’inferno! è ambientato in
un luogo simbolico, surreale e immaginario, una sorta di mondo
alla rovescia o di realtà parallela, dall’apparenza sizzarra, ma a ben
guardare non più assurda della nostra. Alla prima rappresentazione nel ’96, Martinelli e gli altri attori – in abiti da hostess e
steward – accoglievano gli spettatori in sala offrendo loro una
focaccina: un richiamo simbolico a quel cibo che secondo un’antica credenza accompagnava le anime nel loro ultimo viaggio verso l’Aldilà. A significare evidentemente che quel che attende gli
spettatori è una vera e propria discesa agli Inferi.
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Anche sotto questo aspetto ci sembra che la sensibilità di Martinelli colga nel segno: l’umorismo di Aristofane è a nostro parere
attraversato da una vena profonda di pessimismo e inquietudine,
malinconia e perfino disperazione. L’evasione, se c’è, è solo
apparente, e la fuga è di breve durata: la commedia nel suo
insieme costringe lo spettatore a guardare in faccia la realtà, e
anche a guardarsi dentro. Ma al tempo stesso regista e attori si
prodigano nel rendere sulla scena la tipica vitalità prorompente
degli eroi aristofaneschi, la risata di scherno grottesca e
liberatoria, dissacrante eppure vitale, che avvicina Aristofane ad
Artaud e Jarry, numi tutelari della compagnia ravennate, e più
recentemente a Werner Schwab (Sterminio, lo spettacolo del 2006,
che ha trionfato agli ultimi Premi Ubu). In tutti questi anni la
predilezione per tali autori ha segnato il percorso collettivo di
Martinelli e del suo gruppo, frutto di un’intensa e coerente attività
registica, drammaturgica e didattica (con la Non-scuola e altre
iniziative come quella di Scampia) – con un occhio sempre attento all’Italia contemporanea e ai temi di maggior gravità e attualità,
oggi come allora.
Sotto questo aspetto, in particolare, lo spettacolo del 1996, a
distanza di dodici anni, appare tanto più profetico vista la
situazione attuale del nostro Paese, dove i problemi dell’immigrazione, della convivenza e integrazione si sono intensificati in
9
modo proporzionale ai flussi migratori, e i conflitti di culture e di
religione riempiono la cronaca italiana contemporanea. In questo
contesto, a maggior ragione, lo spettacolo senegalese del 2008 –
che dell’esperienza col gruppo ravennate è figlio, o se si vuole
fratello – assume un peso ulteriore e acquista un valore aggiunto
di
particolare
rilevanza,
come
passo
importante
verso
l’integrazione e la pacifica convivenza nel nome del teatro.
2.
Tra le evidenti peculiarità di questo caso, nel panorama
internazionale, c’è innanzitutto quella di porsi come ‘ponte’ tra
l’Italia e l’Africa, di trarre ispirazione da un’esperienza nata in
Romagna e trapiantata in terra africana, per iniziativa di un
senegalese che lavora in Italia e mantiene stretti contatti con la
comunità d’origine. La presenza di Aristofane in Senegal in sé
non stupisce, se consideriamo con attenzione il panorama
mondiale del Novecento e in particolare degli ultimi decenni. La
drammaturgia classica è sempre più frequentemente rivisitata al di
fuori dell’Europa da autori e registi, spesso indipendenti e
dissidenti, in esilio o in carcere, come testimoniano diversi studi
recenti che ci aiutano a rovesciare la prospettiva eurocentrica e
cambiare radicalmente punto di vista (si vedano ad esempio i
contributi in Hall - Wrigley, edited by, 2007: 117-134 e 232-246
rispettivamente per l’India e il Sudafrica). Specialmente in Africa,
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il commediografo antico riscuote successo per le sue tematiche
ricorrenti – come la pace e i conflitti sociali e sessuali –
reinterpretate alla luce dei problemi del post-colonialismo e degli
scontri etnici, come metafora delle aspirazioni di singoli, gruppi o
di un intero continente, spesso in chiave liberatoria, anarchica e
vitalistica (per la ricezione dei classici e il colonialismo si veda
Hardwick, 2004, e la bibliografia completa della stessa autrice
all’indirizzo
web:
http://www.open.ac.uk/Arts/classtud/lh-
publications.htm ).
Quando vengono proposti in Europa, come in questo caso, o
comunque ai nostri occhi occidentali, simili spettacoli possono
produrre un iniziale effetto di spaesamento, per l’apparente
lontananza tra la cultura greca – che sentiamo in qualche modo
‘nostra’ – e la terra in cui viene ‘trapiantata’. Superata la difficoltà
iniziale, però, anche un’operazione di spostamento, purché
motivata, può rivelarsi giustificata e pefino auspicabile, e
presentare diversi punti di forza. Aristofane, come molti altri
autori classici, dai Greci a Shakespeare, viene rivisto con gli occhi
degli africani, assimilato e ricreato secondo le categorie
interpretative del popolo o dell’etnia che lo ospita: di volta in
volta si sfruttano le affinità e analogie con la storia o i racconti
tradizionali, con i narratori-griot senegalesi, con i riti tribali, con
figure divine come le divinità della ricchezza e della povertà, con
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credenze della religione tradizionale animista (che spesso convive
con l’Islam, come accade a Diol Kadd) o ancora trovando nuovi
agganci con la realtà, nelle mutazioni sociali e politiche o nei vari
regimi che si avvicendano nell’Africa contemporanea
Anche lo spettacolo del 2008, come già All’Inferno!, rientra
dunque a pieno titolo nel filone di riscritture e allestimenti dei
testi antichi – e in particolare di Aristofane – che sono comunemente chiamate, con termine ambiguo, ‘attualizzazioni’ (si vedano
le osservazioni di M. Giovannelli in “La sfida del comico”,
Stratagemmi 2/2007). La definizione si presta a molte operazioni,
non sempre riuscite, ma in ultima analisi il comune denominatore
è la rinuncia al discutibile proposito di riprodurre pari pari
un’ipotetica ‘rappresentazione originaria’ irrimediabilmente perduta, causa le mutate condizioni del contesto; ci si propone
piuttosto di parlare al pubblico d’oggi e trattare temi contemporanei, scegliendo i testi classici per la loro facoltà di superare
l’hic et nunc, di attraversare indenni le epoche, senza confondersi
col ‘rumore di fondo’, per utilizzare parole e concetti di Italo
Calvino (1995: Perché leggere i classici).
In quest’ottica ‘attualizzare’ con intelligenza non significa riverniciare a nuovo vecchie idee, quanto piuttosto far rivivere i testi
originali con rispetto, certo, ma anche con la libertà necessaria a
una creazione artistica autonoma. Se l’obiettivo è parlare del
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presente, attraverso il testo antico, si possono anche cambiare i
nomi o i panni ai personaggi antichi, o cercare nella realtà
contemporanea elementi analoghi, affini o in qualche modo vicini
a quelli antichi, che possano funzionare per analogia come
‘equivalenti’ – per così dire – dei fatti o personaggi originali. In
sintesi annullare la distanza tra noi e i Greci è impossibile (e non
sarebbe neppure corretto farlo), ma è lecito e auspicabile ridurla.
Nel caso della tragedia si possono sfruttare le affinità tra le
tematiche contemporanee e le istanze che nell’originale sono
filtrate e ‘mediate’ da vicende mitiche senza tempo. A maggior
ragione la commedia attica antica, che si basa notoriamente
sull’attualità ateniese, richiede una certa dose di aggiustamenti e
adattamenti se si vuole far funzionare lo spettacolo e possibilmente anche far ridere il pubblico, come dovrebbe essere negli
intenti di uno spettacolo comico. Nel nome del comico, dunque,
le trasposizioni di Aristofane in Romagna o in Africa, come
quelle qui considerate, sono tanto più giustificabili e apprezzabili
quanto più dimostrano libertà creativa nel ricreare con equivalenti
moderni i giochi linguistici dell’originale, oppure gli spunti forniti
dalla realtà per liberare l’aggressività personale (onomasti komoidein),
i lazzi e i doppi sensi su cui si basa la comicità elementare –
eppure raffinatissima – di Aristofane (si veda Treu, 1999).
13
3.
Gli spettacoli di Marco Martinelli e di Mandiaye N’Diaye
sono accomunati da un altro aspetto che richiama da vicino il
dramma antico: la dimensione corale. Il coro greco, tragico e
comico – soprattutto se ha un ruolo attivo nella vicenda –
rappresenta un vero e proprio osso duro per autori e registi
moderni: per qualcuno di loro è uno scoglio tanto arduo e
insormontabile da essere sacrificato nel testo e nella messinscena,
ridotto a un solo elemento, sottoposto a pesanti tagli, o persino
eliminato dalla scena, come testimoniano diverse rappresentazioni
tragiche e comiche (per una trattazione del problema con esempi
si vedano Del Corno, 1989, e Treu, 2007).
All’origine di questa situazione ci sono molti fattori che non
possiamo ripercorrere diffusamente qui: semplificando la
questione il coro – in origine componente essenziale di vari
generi drammatici e non – trae la sua ragione d’essere
dall’esperienza collettiva della polis ateniese, e come tale dunque è
destinato a scomparire ben presto dalla scena per non farvi più
ritorno (salvo tentativi di riesumazione postuma, episodici e
spesso più validi come elaborazione teorica che all’atto pratico,
come La sposa di Messina di Schiller o le tragedie di Manzoni).
Nonostante questo, ancora oggi, c’è chi non rinuncia a mettere in
scena un coro, talvolta con esiti anche decorosi, o chi affronta un
dramma antico proprio a partire da quella componente; ma
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difficilmente si riesce a raggiungere sulla scena moderna
quell’unità tra pubblico e attori che contraddistingueva l’esperienza collettiva e che non si ottiene semplicemente con la
simultaneità tra interpreti dal punto di vista formale o tecnico –
come l’unisono di suoni e gesti – quanto con una sorta di intima
fusione, un legame tra persone. Il coro, infatti, rappresenta ormai
un corpo estraneo non solo nella prassi teatrale, ma prima ancora
nell’esperienza comune e quotidiana di gran parte degli spettatori,
perlomeno occidentali. Qualcosa di simile al coro antico si può
ricreare in rare esperienze collettive di massa, come cerimonie
religiose, un concerto rock o un evento sportivo (da ultima spicca
in tal senso la grandiosa cerimonia di inaugurazione delle
Olimpiadi di Pechino, nel luglio 2008, che amplifica in modo
davvero impressionante le potenzialità del coro con l’impiego di
migliaia di percussionisti, danzatori e mimi).
Tutti gli eventi di massa presentano aspetti singoli riconducibili al
coro antico: ciascuno a suo modo, ma mai tutti insieme. Per altri
versi, su una scala ridotta, la dimensione collettiva del coro si può
sperimentare in un gruppo di persone unite da una passione,
come i membri di un club, di una confraternita o di una parrocchia. O ancora in una compagnia come il Teatro delle Albe, che
vive e lavora insieme da decenni. E naturalmente nella comunità
ristretta di un villaggio, come Diol Kadd, dove i pochi abitanti
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condividono ogni giorno un’esperienza di vita quotidiana e un
progetto comune, non solo di teatro. Anche qui, come avviene
per altri aspetti a Ravenna, la comunità si fa coro: lo spettacolo
man mano coinvolge non solo gli attori e il pubblico, ma tutti gli
abitanti del villaggio (si vedano gli emozionati ed emozionanti
racconti sull’esperienza senegalese di Ermanna Montanari e
Mandiaye N’Diaye in Martinelli - Montanari, a cura di, 2008: 6993).
A questo punto è difficile non vedere i profondi punti di contatto
tra l’antica Atene di Aristofane e le due realtà contemporanee,
solo in apparenza così lontane – Diol Kadd e l’Italia, – che il
progetto in questione unisce come un ‘ponte’. La dimensione
rituale e collettiva del coro – che a noi occidentali pare oggi
sempre più irrecuperabile – può sopravvivere ancora a certe condizioni, a patto di essere tutelata e conservata con cura, in
un’enclave fortunata, come Ravenna, o nella tradizione di certe
culture, come quella africana. In quest’ultimo caso la dimensione
corale e rituale rappresenta il contesto di nascita dell’intero
spettacolo, ma anche, in un certo senso, la sua ragione d’esistere e
il suo fine ultimo.
La comunità di Diol Kadd si riunisce per rappresentare se stessa,
attaverso Aristofane. E poiché in wolof la parola ‘teatro’ non
esiste, come spiega Mandiaye, lo fa sotto forma di doppio coro,
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maschile e femminile, recuperando un rito antichissimo che
caratterizza con diverse varianti molte zone dell’Africa, come
testimoniano gli studi antropologici della scuola di Remotti. “Il
cerchio del sabàr – recita il volantino dello spettacolo milanese – è
il luogo dove le donne possono dire tutto quello che vogliono e
tacere quello che non vogliono rendere noto […] Era una
cerimonia in cui le donne esponevano le loro rimostranze, ma
dove poi era il ballo a definire i rapporti tra i sessi: i tamburi
hanno il potere di penetrare nelle donne e spingerle a provocare i
mariti, a un tempo con una sfida sessuale e verbale”. A intervalli
regolari, nel corso dello spettacolo, le donne si alzano e danzano,
mimando atti sessuali e sfidando gli uomini con gesti provocatori,
e questi ultimi rispondono nello stesso modo. Quando la frenesia
della danza prende il sopravvento, la danzatrice cade in una sorta
di trance e i movimenti della testa e degli arti si fanno frenetici e
convulsi, solo in apparenza scomposti, ma perfettamente
all’unisono con le percussioni.
Si tratta dunque di un rito comunitario dalla forte presenza femminile, dall’importante componente sessuale, incentrato sull’aggressività verbale, l’oscenità e i lazzi salaci. Viene naturale ricordare alcuni riti ben vivi al tempo di Aristofane, come le numerose
feste di Demetra dell’antica Attica, dalle Antesterie alle Stenie,
dalle Aloe alle femminili Tesmoforie ritratte nelle Tesmoforiazuse ;
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o, sempre nello stesso ambito, i famosi ‘scherzi dal ponte’ o
gephurismòi della processione eleusina rievocati nelle Rane dal coro
di iniziati (si veda a riguardo Treu, 1999: 193 ss.).
Passando dalla Grecia all’antico Egitto si può ricordare la
navigazione verso Bubastis descritta da Erodoto (Storie, II, 60),
dove le donne officianti poste sulle barche rivolgono insulti e
mostrano i genitali a quelle che stanno sulla riva del fiume. Altri
riti analoghi, come gli scontri verbali studiati da Victor Turner
presso i Ndembu o la cerimonia per propiziare la pioggia dei
Baronga nell’Africa sud-orientale (si veda Treu, 1999: 141ss),
comprendono tra l’altro l’esibizione dei genitali e la mimesi di atti
sessuali, i lazzi osceni e gli insulti apotropaici.
Nel caso attuale l’eco di simili riti si somma alla memoria delle
commedie di Aristofane, che li rievocano e li riproducono,
influendo in modo determinante sul fascino complessivo dello
spettacolo. Di nuovo, in modo imprevedibile, la rielaborazione
dell’originale si fonde con il recupero di elementi della tradizione
senegalese. Il sabàr costituisce la cornice essenziale che racchiude
la vicenda, dal punto di vista temporale e spaziale: tutti i
personaggi della commedia si muovono all’interno di uno spazio
delimitato sul fondo dai musicisti, con i loro tamburi, di fronte
dal pubblico; il confine è tracciato su ciascuno dei due lati da una
fila di panche su cui siedono rispettivamente un coro di uomini e
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uno di donne: le due componenti, maschile e femminile,
dell’intero villaggio. Questi si contrappongono fisicamente e
verbalmente sui due fronti, intervallando le scene della commedia
con gesti e insulti, per iniziativa di singoli o anche in gruppo. La
memoria corre inevitabilmente a un’altra commedia di Aristofane,
la Lisistrata, dove un semicoro di vecchi e uno di donne si
affrontano sulla scena a più riprese costruendo una sorta di
vicenda parallela e complementare a quelle ‘private’ dei personaggi interpretati dai singoli attori (si veda Treu, 1999: 31). Un
altro elemento, che pure ha radici arcaiche, ci riporta all’antica
Atene: la stretta combinazione di mezzi espressivi diversi –
parole, gesti, musica e danza – che allora costituiva la base
comune del rito e del teatro, e oggi raramente si osserva nel
cosiddetto ‘teatro di parola’. In questo caso la parola non è mai
sola, ma è sempre accompagnata da gesti, musica e danza.
Oltre agli ‘intermezzi’ di danza e musica, che scandiscono gli
episodi, la commedia riserva al coro il ruolo di portavoce della
comunità, con licenza di intervenire nell’azione vera e propria. La
vicenda tratta dal Pluto, infatti, non riguarda solo i due protagonisti, modellati su quelli aristofanei, ma coinvolge a più riprese
l’intero villaggio. È un’importante differenza rispetto allo
spettacolo del 1996, ambientato in un Inferno che ricorda l’Italia:
lì Moussa e Dara sono soli in un mondo ostile, e incontrano una
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serie di personaggi anche più sfortunati di loro, finché Pluto offre
loro un mezzo di riscatto sociale, per quanto illusorio. Nel Gioco
della ricchezza e della povertà, invece, i due protagonisti si
confrontano continuamente con il resto della comunità: dapprima
espongono le loro intenzioni e per questo vengono derisi, poi
sono accolti con incredulità quando ritornano con il dio NawetPluto (un omone grande e grosso, cieco ma molto determinato,
che è inizialmente alquanto refrattario a farsi accudire, perché
teme abbiano un doppio fine e vogliano approfittare di lui, com’è
già successo in passato).
Alla fine i due riescono a farsi aiutare dal dio, come accade in
Aristofane, ma poiché non mirano a un arricchimento personale,
bensì a una più equa redistribuzione della ricchezza, coinvolgono
nell’intento gli altri abitanti del villaggio. L’unica che tenta di
opporsi è la Povertà – Penìa nell’originale greco – che in All’inferno! si incarnava nell’asina Farì, interpretata da Ermanna Montanari, mentre qui l’equivalente senegalese, Noor, ha le sembianze
di un uomo con finte orecchie asinine e tunica bianca, che avverte
gli abitanti del villaggio dei pericoli cui vanno incontro: il duello
tra ricchezza e povertà dell’originale aristofanesco viene liberamente tradotto in un elogio del benessere conquistato
onestamente e duramente, con il lavoro.
Viceversa il miraggio di un arricchimento facile ed effimero,
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nell’era della globalizzazione, prende le sembianze di una pioggia
di banconote, un fiume di coca cola e una montagna di sigarette.
Il finale sembra dar ragione a Noor: tutti gli abitanti del villaggio
assillano Pluto chiedendogli denaro (“ l’argent ”), e gli portano via
perfino i vestiti, finché il dio scappa lasciandoli soli al loro
destino. In questa chiusa, così come nell’intero spettacolo, si
nasconde un evidente sottotesto cui allude anche il volantino
distribuito e letto prima dello spettacolo: le chimere di ricchezza
che attirano i paesi africani finiscono perlopiù per arricchire le
banche mondiali e le multinazionali, senza garantire alla popolazione uno sviluppo reale e duraturo, e anzi talvolta producendo
un impoverimento.
A questa dinamica perversa vuole porre fine – non tanto sulla
scena, quanto nella realtà – il progetto concepito da Mandiaye nel
2002 e chiamato Takkuligey (“darsi da fare insieme”). Come molti
altri piccoli centri, il villaggio senegalese di Diol Kadd è isolato
dalle vie di comunicazione, nel cuore della savana. In più si è
progressivamente spopolato per effetto della crisi economica:
l’agricoltura è in declino e gli uomini, disoccupati, emigrano in
cerca di lavoro. A Diol Kadd rimangono anziani, donne e
bambini, lasciati soli a se stessi e senza speranza. Mandiaye decide
di dar loro un’alternativa all’emigrazione e dà vita ad un progetto
ambizioso, in cui coinvolge nel 2003 anche Gianni Celati. Lo
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scrittore e traduttore, nato a Sondrio e cresciuto a Ferrara, è
rimasto legato alla sua terra e a Bologna, dove è stato professore
al Dams (ha avuto tra i suoi allievi Pier Vittorio Tondelli, Freak
Antoni e Andrea Pazienza).
Celati resta profondamente segnato da un viaggio compiuto nel
1997 con Jean Talon in Mali, Senegal e Mauritania (narrato nei
taccuini poi confluiti nel volume Avventure in Africa : Celati, 1998).
Prima di lui molti intellettuali occidentali hanno compiuto viaggi
in Africa o nel cosiddetto Terzo Mondo in cerca di evasione,
rifugio o ispirazione o avventure ‘romantiche’: il caso più noto è
forse quello di Pasolini, che si riconosce sempre meno in un’Italia
a suo dire stravolta e snaturata dal progresso e dalla
globalizzazione, e rimpiange affettivamente il Friuli contadino
della sua infanzia, cattolico, arretrato e povero, che non c’è più.
Gli sembra di ritrovare simili caratteristiche nei Paesi ancora
giovani e pieni di promesse, e ne subisce il fascino con un
atteggiamento in fin dei conti conservatore, o quantomeno
rivolto al passato, tra il nostalgico e il romantico – “Africa! Unica
mia alternativa…” – come testimoniano i suoi appunti di viaggio,
i sopralluoghi e i film, inclusi quelli che avrebbe voluto girare nel
Terzo Mondo e dei quali resta Appunti per un’Orestiade africana
(1969-1973).
A questo esempio se ne contrappongono molti altri di intellettuali
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e artisti, italiani e africani, che collaborano fianco a fianco in
progetti di forte impatto artistico, sociale e ideologico (il maggior
successo recente è ad esempio lo spettacolo Pinocchio Nero, di
Marco Baliani, che ha recuperato attraverso il teatro i bambini
‘perduti’ di Nairobi: Baliani, 2005). Celati e Mandiaye N’Diaye
realizzano tra l’altro un documentario, che viene proiettato il 23
luglio 2008 all’ex Paolo Pini: Diol Kadd Recita in un villaggio del
Senegal (un film di Gianni Celati in collaborazione con Mandiaye
N’Diaye, Moussa Ka, e la partecipazione del villaggio di Diol
Kadd).
A fine spettacolo, poi, Mandiaye ricorda il lavoro condotto nel
villaggio e la collaborazione con scuole, enti e associazioni di
varie parti d’Italia (Ravenna, Bologna Lecce) e rimanda per
informazioni al sito in italiano ( Diolkadd.org ). Qui si trovano
interviste, fotografie e informazioni sul progetto 3T. Terra teatro
turismo, che finora ha permesso il recupero di terre coltivabili, la
costruzione di una struttura ricettiva destinata a ospitare stranieri
e favorire un turismo responsabile e collaborativo, la creazione di
una scuola di teatro e l’organizzazione di spettacoli. Tra questi,
oltre al lavoro sul Pluto, c’è Ubu Buur – una versione senegalese di
Ubu, testo chiave del Teatro delle Albe, reduce da una fortunata
tourneé all’estero e in Italia (si vedano le testimonianze raccolte in
Martinelli e Montanari 2008 e il video accluso al volume).
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Grazie al lavoro condotto con gli abitanti del villaggio e al
coinvolgimento di un numero crescente di associazioni ed enti, in
Italia e in Senegal, il progetto si espande: gli obiettivi del nuovo
programma Bideew (“stelle”), da raggiungere entro il 2010, comprendono tra l’altro un festival teatrale, il potenziamento dell’attività agricola, ma anche ospedali, scuole e dormitori e un finanziamento per microcredito che favorisca la ripresa economica a
Diol Kadd e permetta ai suoi abitanti di emanciparsi dai finanziamenti esterni e dagli aiuti internazionali. Nei fatti, dunque,
Mandiaye e gli altri abitanti del villaggio scelgono una direzione
ben diversa rispetto a quella dei protagonisti del loro spettacolo.
La messinscena del Pluto, in questa prospettiva, va ben oltre
l’esperienza artistica, come testimonianza di una collaborazione
prima di tutto africana e italiana, e in più tra varie parti d’Italia:
per citare le parole di Mandiaye, si sta costruendo un ponte non
solo tra l’Italia e l’Africa, ma anche tra il Nord e il Sud Italia.
Quella che può sembrare una battuta, e difatti fa ridere il
pubblico, in realtà è un invito a riflettere. L’epigrafe del sito di
Diol Kadd recita: “Lo straniero ci permette di essere noi stessi
facendo di noi uno straniero” (E. Jabes). Guardare noi stessi con
gli occhi degli africani può essere un utile esercizio per tutti:
specie di questi tempi, in Italia, dove i problemi legati
all’immigrazione sembrano dividere anziché unire le varie
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Regioni. Le zone costiere del Sud, su cui già pesano gravi
problemi economici e occupazionali, sono per ovvi motivi
geografici al centro dei flussi migratori che percorrono il Mediterraneo, e costrette a fronteggiare l’eterna ‘emergenza’ dell’immigrazione: gli sbarchi sulle nostre coste aumentano a ritmo vertiginoso e i centri di accoglienza scoppiano, ma anche le città del
Nord devono affrontare, di riflesso, problemi di sicurezza e
convivenza. Sono facce diverse della stessa medaglia.
Ora, l’idea che la comunicazione e la cooperazione tra Sud e
Nord Italia passino attraverso l’Africa, può sembrare assurda e
irrealizzabile, come pure l’intero progetto di Diol Kadd, tanto da
far quasi sfigurare le folli e strampalate trovate di Aristofane,
come la pace in un’epoca di guerra, la ricchezza per tutti e i beni
redistribuiti. Qualcuno le chiama ‘utopie’, cioè non-luoghi,
qualcuno ha provato a realizzarle, con esiti diversi; ma almeno in
questo caso trovano terreno fertile in alcune realtà ed aiutano a
costruire un futuro migliore. Può essere una goccia nel mare, ma
un progetto di cooperazione internazionale che funzioni, come
questo, è quantomeno un inizio, un buon esempio – modello
virtuoso o ‘best practice’, come dicono gli esperti – che
idealmente ne ispiri altri e aiuti nei fatti a superare vecchie ruggini
e divisioni. Anche solo provarci, oggi, è un’impresa non da poco,
folle e don chisciottesca, anzi ‘aristofanesca’. Anche per questo
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dobbiamo essere riconoscenti a Mandiaye e ai suoi amici italiani e
senegalesi, degni eredi di Cremilo e degli altri protagonisti di
Aristofane: speriamo che ce la facciano, e sosteniamoli, perché la
loro ‘utopia’ metta radici e cresca sempre più. A Diol Kadd e
altrove.
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