Far filosofia oggi Intervista a Massimo Barale a cura di Bachisio Deledda Domanda Fin dai suoi albori, la ricerca filosofica si è caratterizzata quale tentativo di istituire le condizioni di un sapere universale. L’istanza di universalità di cui si è fatta interprete e da cui si è lasciata guidare anche quando ha finito per contraddirla è un suo tratto distintivo di cui è lecito chiedersi se e a quali condizioni possa ritenersi ancora attuale. È ancora pensabile un modo di far filosofia segnato dal tentativo di procedere oltre ogni visione parziale delle cose, in direzione di strutture e principi, dell’essere e dell’agire, suscettibili di valere per tutti e in qualunque circostanza? Risposta: L’ipotesi di un sapere suscettibile di valere per tutti e in qualunque circostanza si presta a formulazioni diverse e non v’è dubbio che alcune di esse debbano ritenersi non più attuali. In breve: inattuale e da respingere considero ogni proposito di sapere universale il cui sottinteso siano una concezione monistica della ve- rità: l’idea di una verità a cui ogni altra dovrebbe poter essere ricondotta, l’assunto che le molte verità parziali suscettibili di concorrervi debbano risultare infine componibili in una verità unica, in grado di prenderne il posto e alla quale dovremmo pertanto, fin dall’inizio e in ogni momento, mirare. In questa tesi che verità diverse possano essere ammesse, tollerate, solo quando è possibile pensarle quali tappe di un cammino unico e, dunque, solo nella prospettiva di un loro superamento, dobbiamo oggi riconoscere un rigurgito del passato, un fantasma tra i più pericolosi perché incompatibile con quanto gli autonomi sviluppi di saperi diversi ci hanno nel frattempo insegnato circa il nostro modo di pervenire a una conoscenza quale che sia: un modo in nessun caso incondizionato, in ogni caso e a ogni livello mediato da una cornice teorica non altrimenti interpretabile se non come un linguaggio nei limiti del quale stiamo procedendo. Avendo imparato questo abbiamo imparato anche che nessuno dei linguaggi, naturali o artificiali, alle cui capacità di mediazione possiamo essere tentati di affidarci, può essere ritenuto funzionale alla generalità delle esperienze per noi possibili: ognuno può risultare funzionale, tutt’al più, a una tipologia di esperienze che altre ne sta escludendo. Nell’una o nell’altra di prospettive l’una all’altra irriducibili il nostro modo inevitabilmente mediato di pervenire a una conoscenza quale che sia ci obbliga a muoverci, con la consapevolezza che a questa pluralità di accessi disponibili non potremmo rinunciare senza che la realtà di cui facciamo esperienza non ne risulti impoverita, imprigionata in schemi che le impedirebbero di rispondere alla maggior parte delle attese e degli interrogativi che suscita. Quando mi si chiede se le proprietà del tavolo che ho di fronte siano quelle che gli sta attribuendo la mia attuale, ordinaria percezione di esso (le proprietà di una cosa, da ogni altra separabile al modo di un ente in sé consistente e per sé sussistente) o non siano piuttosto quelle che, nel suo laboratorio e alla luce delle sue analisi, gli attribuisce il microfisico quando altra realtà non è disposto a riconoscergli se non quella di un campo di forze che con altri costantemente interferisce, devo essere in grado di rispondere, non per quieto vivere, ma a ragion veduta, che entrambe queste rappresentazioni del tavolo hanno pieno diritto di cittadinanza, perché entrambe capaci di fungere da veicolo e tramite di verità ad esso riconducibili. E questa risposta non sarebbe sufficiente se non fossi in grado di aggiungere che un medesimo diritto, una analoga capacità di farsi tramite di verità ad esso riferibili, è doveroso riconoscere anche ad altre sue rappresentazioni possibili: ad esempio, alla rappresentazione che potrebbe darcene un pittore cubista, nelle forme di un linguaggio certamente diverso da quello che disciplina le nostre percezioni ordinarie non meno che da quello alle cui capacità esplicative si affida il microfisico. Ma risposte come questa non arrivano da sé e, soprattutto, vanno date con una consapevolezza che eviti di fraintenderle, di attribuire loro un significato diverso da quello che dovrebbero poter assumere. Domanda Può essere più esplicito? Risposta Voglio esserlo. La tesi che propongo di porre al centro del nostro odierno modo di far filosofia, la tesi di una pari dignità di accessi diversi a una realtà che non cesseremo per questo di considerare per tutti la medesima, non è un semplice corollario della tesi che ne riconosce l’irriducibile pluralità. Questo riconoscimento, infatti, è un accertamento con cui ci si limita a rispondere alla questione di fatto circa la possibilità o impossibilità di una loro reductio ad unum, mentre affermare che accessi diversi e di fatto irriducibili godono di pari dignità teorica significa rispondere a una questione di diritto o, se si preferisce, di valore, circa la legittimità delle loro pretese. Una questione come questa può essere proposta solo assumendo che si diano punti di vista in grado di garantirne una valutazione equanime, quale potrebbe darsi solo ammettendo che identici per tutti siano i titoli che a ciascuno richiedono. Ma questo significa che, lungi dal poter essere considerata un semplice corollario della loro riconosciuta pluralità e irriducibilità, la tesi della pari dignità teorica di accessi irriducibilmente diversi, può essere coerentemente sostenuta solo su presupposti incompatibili con qualsivoglia tentazione di utilizzare il dato della loro irriducibilità come un’arma per escludere in partenza ogni prospettiva suscettibile di promuovere una considerazione trasversale di ogni altra possibile: solo ammettendo che dia un modo di considerarle rispettoso della loro autonomia, ma nello stesso tempo in grado di far valere parametri comuni a cui nessuna potrebbe pretendersi indifferente. Domanda Sarebbe una prospettiva certamente bene accolta da quanti sentono il bisogno di ridefinire i compiti della ricerca filosofica salvaguardandone al tempo stesso l’autonomia. Ma si può dubitare che possa effettivamente darsi ed è lecito chiedersi quali strategie potrebbero istituirla e quali condotte teoriche potrebbero consentirci di mantenerla e svilupparla. Quali sono le sue risposte a questi interrogativi? Risposta Le mie risposte tengono conto di quanto ho imparato da tre indirizzi del pensiero contemporaneo che su un’idea della filosofia come sapere eminentemente trasversale sostanzialmente convergono: l’indirizzo che variamente si richiama ai principi di un’ontologia definita “ermeneutica”, l’indirizzo che ha scelto di chiamarsi “analitico” e l’indirizzo che si riconosce nell’originario progetto husserliano di una fenomenologia trascendentale. Al primo di questi tre indirizzi (primo, s’intende, nella ripresa che sto qui facendone) riconosco un merito che non è tanto quello di aver sostenuto il primato ontologico del linguaggio, cioè una tesi che, nelle sue formulazioni più radicali (là dove sconfina nell’affermazione che tutto, in noi e per noi, è linguaggio e che non unicamente nei limiti di un linguaggio, ma da eventi che di natura linguistica già sempre sarebbero ogni nostra esperienza procede), mi sembra oggi difficilmente accettabile , quanto quello di aver favorito un modo di considerarlo che in ogni linguaggio ha insegnato a cogliere le sue essenziali valenze ontologiche, ben al di là di quanto di convenzionale e arbitrario va riconosciuto nei simboli di cui si avvale. In questa direzione, le filosofie di indirizzo ermeneutico si sono incontrate con quelle di indirizzo analitico, alle cui indagini di tipo morfologico-intenzionale hanno non poco contribuito. Su questo punto vorrei un istante fermarmi, perché quel tipo di indagine che sto definendo morfologico-intenzionale rappresenta un primo e imprescindibile livello di ogni considerazione di saperi diversi che “filosofica” voglia risultare. Nella prospettiva che sto disegnando, coincide col primo livello di formazione di quel punto di vista compiutamente trasversale che miriamo a istituire. Domanda Può dirci allora quando e come una riflessione filosofica su saperi diversi può pretendere di aver soddisfatto le condizioni di una ricostruzione morfologico-intenzionale della loro genesi? Risposta Le ha soddisfatte quando sia arrivata a privilegiarne la dimensione linguistica e a farci riconoscere in essa uno dei tanti linguaggi attraverso i quali i possibili oggetti delle nostre esperienze risultano identificabili. Mi sembra questa l’unica via che una riflessione filosofica consapevole dei propri debiti storici e dei limiti istituzionali che le impongono può oggi scegliere come specificamente propria. È la via di un’indagine che ha il merito di spostare l’attenzione da quel mero dato di fatto che un sapere quale che sia non cesserebbe altrimenti di essere verso condizioni in grado di illuminarci circa la sua possibilità. Alla morfologica ricostruzione di un sapere quale linguaggio tra altri possibili non si perviene, infatti, se non riconoscendo nelle sue strutture formali una ratio a cui stanno rispondendo, un’intenzione da cui dipendono e che può essere legittimamente assunta quale unità di misura di una loro adeguatezza se non altro strumentale. A misurarla sono criteri che nello spazio di una comprensione morfologico-intenzionale si rendono per la prima volta disponibili: compatibilità, congruenza, funzionalità. Ad essi siamo debitori di un primo esempio di considerazione trasversale, poiché non vi è linguaggio che a una valutazione condotta in loro nome possa legittimamente sottrarsi. Sono inoltre i più idonei a rendere visibili e apprezzabili forme di razionalità di tipo strumentale variamente operanti nelle diverse manifestazioni della nostra vita. È quanto basta a giustificare l’interesse del filosofo del nostro tempo verso quel tipo di indagine morfologico-intenzionale che ne consente un’assunzione metodica e coerente. Ma la trasversalità dei criteri che fa valere non è ancora quella di un’esperienza in grado di assumere i diversi linguaggi a cui si applicano quali proprie interne articolazioni. Se a questa si mira, un passo ulteriore s’impone. Domanda Mi sembra di capire che proprio a un’esperienza siffatta lei stia pensando come a una pratica filosofica ancora possibile. Quali potrebbero esserne le condizioni? Risposta Ho già accennato a un mio debito verso il progetto husserliano di una fenomenologia trascendentale. Da esso ho tratto stimoli decisivi per recuperare su basi nuove, profondamente diverse da quelle che aveva saputo offrirle la tradizione ontoteologica della filosofia medioevale e moderna, l’ipotesi di un orizzonte delle nostre esperienze definibile come trascendentale e di un’esperienza che di esso in qualche modo sia. Da sempre, cioè fin dalle sue prime apparizioni tardo-medioevali, la nozione di “trascendentale” si è trovata associata all’idea di un punto di vista sovraordinato rispetto a tutti quelli che vengono a coincidere con l’una o con l’altra prospettiva categoriale . Oggi diremmo: rispetto a tutti quelli che dobbiamo considerare conseguenti all’adozione di un determinato linguaggio. Ma, nella prospettiva ontoteologica di quelle filosofie tardomedioevali e protomoderne che lo teorizzavano, era inevitabile pensare che un punto di vista a ogni altro sovraordinato potesse essere assicurato solo da nozioni o predicati dotati della massima generalità: tanto generali da poter valere in ogni momento e per ogni ente in quanto tale. Questa più antica identificazione del trascendentale con un ordine di nozioni tanto generali da non poter essere eluse, da dover essere ammesse come una forma di intelligenza implicita in ogni altra, è oggi non meno improponibile dei tanti pregiudizi su cui si reggeva. Nessuno si sognerebbe di riproporla, di ritenere attuali forme di trascendentalismo che non potrebbero essere recuperate se non riproponendo il modello di quelle ontologie che abbiamo imparato a definire classiche e, con esso, una concezione del pensare come classificare, del conoscere come restituzione alla realtà di immagini di sé che essa stessa spontaneamente produrrebbe, della realtà stessa quale universo di enti dotati ciascuno di una propria irriducibile individualità e destinati a occupare in esso, nell’universo finito di cui segnerebbero i confini, un luogo e un tempo univocamente determinabili. Pensieri come questi sono, per la nostra ricerca di un orizzonte comune a cui ancorare le molteplici esperienze da cui possiamo essere tentati, una zavorra che può solo scoraggiarla: fantasmi, nondimeno in grado ancora di condizionarla e da cui non potrà interamente liberarsi finché non cesserà di percorrere rotte che furono le loro. Fuor di metafora: finché suo tema continuerà ad essere un ipotetico fondamento meta categoriale delle nostre categoriali assunzioni che in null’altro se non in nozioni più generali di quelle oltre le quali lo stiamo cercando potrebbe consistere. È necessaria una svolta. E la svolta decisiva verso una nuova concezione del trascendentale esige che non più al modo di un metacategoriale fondamento, ma al modo di un precategoriale orizzonte venga cercato. L’ho imparato da Husserl ma, paradossalmente, la lezione di Husserl mi è servita soprattutto per rileggere Kant. E proprio nelle pagine di un Kant riletto alla luce delle avvertenze husserliane ho trovato la risposta che cercavo: una teoria di quella dimensione delle nostre esperienze che trascendentale merita di essere detta finalmente all’altezza delle mie aspettative, perché capace di farla coincidere con una vera e propria esperienza di ogni modo di condurre esperienze quali che siano a cui ognuna deve la propria possibilità e ai cui parametri non può pertanto, senza contraddizione, sottrarsi. Domanda Mi sembra inevitabile chiederle di quale esperienza si tratti e quali pagine di Kant gliel’abbiano suggerita. Risposta Husserl mi ha insegnato a riconoscere, nella kantiana Critica della ragion pura, sepolte sotto le macerie di una metafisica delle forme che rischia continuamente di soffocarla, le linee fondamentali di una fenomenologia del senso il cui approdo finale è la scoperta di una precategoriale essenza della umana ragione: di quella capacità di orientamento e di organizzazione a cui ogni possibile assetto formale delle nostre esperienze costantemente rimanda. Metafisica delle forme ho imparato a chiamare quei momenti della teoria kantiana dell’esperienza che si prestano a fungere da vero e proprio ricettacolo dei più tradizionali pregiudizi circa una conformazione naturale della nostra mente e una conseguente impossibilità per le nostre esperienze di cogliere una verità quale che sia quando dovessero uscire dai confini di una logica e di un linguaggio ritenuti gli unici in grado di assecondarle. Fenomenologia del senso ho per contro imparato a chiamare quei suoi momenti alternativi nei quali prevale l’istanza di esperienze disposte a interrogarsi sulle proprie condizioni di senso e, pertanto, in linea di principio disponibili ad assumere forme diverse. Su questi momenti alternativi ho concentrato la mia attenzione, cogliendone il nesso con una teoria della ragione non vincolata all’assunto di una sua indeclinabilità, di un suo vincolo strutturale con un’unica sua possibile articolazione formale. Anche questo c’è in Kant. Di questa mia rilettura del suo progetto di una critica della ragione ho dato conto in molti lavori e, più recentemente, in un saggio che la rivista “Studi kantiani” proporrà nel suo fascicolo di quest’anno. Ho mostrato come luoghi canonici di una metafisica delle forme debbano ritenersi le cosiddette “esposizione metafisiche” delle forme pure della sensibilità e dell’intelletto e quei tentativi di esposizione o deduzione trascendentale delle medesime forme che sui risultati delle loro esposizioni metafisiche non possono evitare di basarsi. Ho contestualmente mostrato come, in alternativa, luoghi canonici di una inedita fenomenologia del senso debbano invece considerarsi quei capitoli della Dialettica trascendentale della prima Critica e quelle pagine della terza Critica in cui il tema diventa un’essenza dell’umana ragione non riducibile al alcuno di quegli assetti formali delle nostre esperienze in cui può trovare espressione e identificabile piuttosto come quel modo di promuoverli e svilupparli che, pur nel rispetto della loro specificità, li rende partecipi di un’impresa comune: complici di un progetto che con la sua stessa essenza si identifica. Ragionare, infatti, quali che siano le forme in cui ragioniamo, significa sempre far valere un principio di compossibilità e scommettere sulla possibilità di una finale coesistenza di tutti i possibili che accettino di obbedirvi. A Kant dobbiamo la scoperta di questa essenza progettuale del nostro ragionare, di una sua dimensione teleologica che lo caratterizza nella sua stessa scelta dei propri codici formali e quali che siano i codici formali di cui sta tentando di avvalersi. Ragionare, condurre le nostre esperienze in un modo che ragionevoli consenta loro di risultare, significa offrire alle loro possibili articolazioni formali una prospettiva che non cessa di essere la loro, l’unica condizione di senso a cui non possono rinunciare, neppure quan- do i parametri che ci offre risultino violati dall’interpreazione che stanno dandone, da condotte che irragionevoli, non per nulla, siamo allora autorizzati a definire. In quel progetto che la nostra ragione in ultima istanza, in e per se stessa, si rivela quando ai sottintesi ontologici di quel potere di orientamento e di organizzazione in cui la vediamo manifestarsi si sappia risalire, è possibile riconoscere un orizzonte da cui le nostre esperienze scoprono di non poter uscire quando sulla propria possibilità riflettano e della propria possibilità vogliano prendersi cura. Definire “trascendentale” l’esperienza che ci è concesso farne ha un duplice significato: è un modo di sottolineare i vincoli che mette in luce, gli obblighi a cui una tale riflessiva esperienza di ciò che ragionare significa per noi costantemente ci rimanda, ma è anche un modo per ricordare il suo ineludibile carattere trasversale. Più esattamente: il fatto che la sola esperienza possibile di quel progetto che la nostra stessa ragione è, resta quella che compiamo ragionandone e scegliendo di compiere le nostre esperienze in una forma e, dunque, entro limiti che ragionevoli consentano loro di risultare. La prospettiva che ho tentato di delineare corrisponde a un modo di far filosofia la cui complessità non potevo certo esaurire in questa sede. Per chi lo vorrà, ci sarà presto occasione di riparlarne. Ci sarà offerta dal grande Congresso internazionale che vedrà riunirsi a Pisa, tra il 22 e i 26 maggio del 2010, i rappresentanti di tutte le Società di studi kantiani sparse per il mondo. Il tema scelto quale suo filo conduttore (la prospettiva cosmopolitica implicita nella filosofia kantiana) ha molto a che vedere con il modo di far filosofia che ho cercato di evocare. di uno stato in qualche modo sociale, e dunque non riconoscere che la tecnica è un effetto di società, altrettanto impossibile sarebbe immaginare una società che non fosse effetto di tecnica.