TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27 16-03-2009 14:03 Pagina 1 ANNO VIII | NUMERO 27 | MARZO | GIUGNO 2009 2 3|4 5 L’anima buona del Sezuan L’anima buona del Sezuan A corpo morto Intervista a Bruni e De Capitani Intervista a Franceschi Eugenio Buonaccorsi Le messe in scena di “Sezuan” Chi è Werner Strub Stefano Levi Della Torre 6 7 8 A corpo morto Daniele Del Giudice Incontri nel Foyer Grandi Parole Fare gli italiani Ricordo di Valeria Manari Rassegna Teatro contemporaneo Programma Mariangela Melato e Vittorio Franceschi protagonisti dei due nuovi spettacoli dello Stabile in scena alla Corte e al Duse LA VITA FEROCE E IL SUO DOPPIO In un momento di grande difficoltà per la società, in un momento in cui tutto sembra entrare in crisi, in un momento in cui anche il mondo della cultura si pone domande importanti sulla sua funzione per meglio comprendere e per rafforzare le difese della civiltà contro la barbarie comunque si presenti travestita, noi dello Stabile di Genova nel nostro piccolo, invece di lanciare editti o anatemi disinformati, e perciò dannosi, come qualcuno ha recentemente fatto, preferiamo intervenire con i fatti, con azioni le più professionali e motivate possibile. Per noi i fatti sono le scelte di testi “necessari”, testi che affrontino la contemporaneità, i suoi temi, i suoi problemi; sono la proposta di spettacoli che contengano tutta la forza artistica del lavoro che qui si compie e al tempo stesso testimonino l’utilizzo migliore del denaro pubblico che ci viene consegnato in dote. Con questo obiettivo di fondo vi proponiamo, in questa ultima parte della stagione, due spettacoli di nostra nuova produzione, cinque “mises en espace” di drammaturgia contemporanea, e una serie di cinque incontri su un tema centrale oggi qual è “Fare gli italiani”. Il primo spettacolo è L’anima buona del Sezuan di Brecht, che propone molti motivi di interesse: il ritorno per noi felicissimo al Teatro Stabile di Mariangela Melato, dopo due anni di tournée con il suo Sola me ne vo; la conferma dell’importanza della nostra Compagnia Stabile formata con attenzione in questi anni e oggi vera ricchezza del nostro Teatro; la collaborazione con Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, due artisti con i quali ci sentiamo in grande sintonia e in ultimo, ma non per ultimo, il nuovo incontro del Teatro Carlo Repetti (continua a pag.8) ALLA CORTE, MARIANGELA MELATO IN “L’ANIMA BUONA DEL SEZUAN” M a r i a n g e l a M e l a t o n e l r u o l o d e l l ’” a n i m a b u o n a ” d i B e r t o l t B r e c h t ( f o to M a rce l l o N o r b e r t h ) L’anima buona del Sezuan, in scena alla Corte dal 17 marzo al 9 aprile con la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, è il dodicesimo spettacolo dello Stabile con Mariangela Melato come protagonista. «Dal 1992 a oggi sono ormai diciotto anni che lavoriamo insieme e sono stati fra gli anni artisticamente più fortunati della nostra vita» annota Carlo Repetti, aggiungendo: «Anche continuare il lavoro di riproposta dell’opera di Brecht è oggi importante per il nostro Teatro, qui al suo settimo incontro con il grande drammaturgo tedesco (due Madre Courage con Volonghi prima e Melato poi, due Cerchio di gesso del Caucaso con Squarzina e più recentemente Besson, un Arturo Ui con Pagni e Sciaccaluga, uno Schweyk con Ferrini), un lavoro lungo ormai quarant’anni di letture sempre aggiornate, un percorso in Italia secondo soltanto a quello del Piccolo di Milano». Scritta da Brecht negli anni Trenta, L’anima buona del Sezuan racconta con i toni della favola una vicenda che affronta il tema universale del rapporto tra Etica e Società, tra il Bene e il Male: nella concretezza della Storia. E lo fa ambientandola in una lontana Cina di fantasia, che assomiglia però molto da vicino al mondo attuale sconvolto da una crisi economica che ben si rispecchia in quella che Brecht immagina si stia svolgendo nella capitale del Sezuan. Con Mariangela Melato, è in scena la compagnia stabile del Teatro di Genova: Roberto Alinghieri, Alice Arcuri, Marco Avogadro, Fabrizio Careddu, Rachele Ghersi, Alberto Giusta, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Fiorenza Pieri, Vito Saccinto e Federico Vanni, con Margherita Di Rauso, Ernesto M. Rossi e il giovane Giacomo Costella. Scena e costumi di Andrea Taddei, musiche di Paul Dessau, suono di Renato Rinaldi, luci di Sandro Sussi. “GRANDI PAROLE” ALLA CORTE Rassegna di Teatro “A CORPO MORTO” AL DUSE Lunedì 23 marzo (ore 20.30) prende il via al Teatro della Corte il XIV ciclo delle Grandi Parole dell’Umanità, ideato nel 1996 da Carlo Repetti. Cinque appuntamenti raccolti nell’arco di quindici giorni (tre lunedì sera e due sabato pomeriggio) e dedicati al tema Fare gli italiani. Una riflessione sulla storia antropologica di un popolo sempre alla ricerca di se stesso. Un modo originale per anticipare i festeggiamenti per la ricorrenza del 1861. Una nuova occasione per ribadire che far risuonare in un teatro le parole alte della cultura e della storia può rappresentare un fruttuoso contributo al dialogo tra gli individui e alla reciproca comprensione tra diverse esperienze esistenziali. I primi a entrare in scena sono il professore Giovanni De Luna e gli attori Eros Pagni ed Elisabetta Pozzi per mettere a confronto i vari Progetti d’identità che si sono succeduti dallo Stato liberale alla Repubblica costituzionale: lettura di testi di D’Azeglio, Lussu, Mussolini, Pavese, Carlo Levi, Bianciardi, Pasolini, De Cataldo e Bobbio. Il sabato seguente (28 marzo, ore 16.30) Tullio De Mauro parlerà del ruolo svolto da Scuola, lingua, cultura, affidando alle voci di Laura Marinoni e di Tullio Solenghi la lettura di brani di Buttitta, Pavese, Calamandrei, Vittorini, Calvino ed Eco. Negli incontri seguenti sarà, poi, affrontato il ruolo che hanno avuto nella formazione di un’identità del popolo italiano avvenimenti quali (30 marzo, ore 20.30) Emigranti ed emigrazione con Gian Antonio Stella, Ferdinando Bruni e Manuela Mandracchia: lettura di documenti, lettere, testimonianze e canzoni, oltre che di testi firmati da De Amicis, Pascoli e Vilardo; (4 aprile, ore 16.30) Guerra, leva militare, prigionie con il professore Antonio Gibelli affiancato da Omero Antonutti e Massimo Venturiello, che leggeranno testi di Verga, De Amicis, Calamandrei, ma anche lettere e memorie di soldati e prigionieri. La prima parte del ciclo si conclude il 6 aprile (ore 20.30) con il tema Vie di comunicazione e vacanze sviluppato da Ernesto Franco, con lettura da parte di Ugo Pagliai e Paola Pitagora di brani di vari autori tra cui Praga, Tomasi di Lampedusa, Natalia Ginzburg, Villaggio, Tondelli e Vassalli. Contemporaneo Dal 12 maggio al 13 giugno si svolge sul palcoscenico del Teatro della Corte, appositamente attrezzato con una struttura ad anfiteatro, la nuova Rassegna di drammaturgia internazionale “Sguardi contemporanei”, prodotta dallo Stabile di Genova, nell’ambito del progetto “Un palcoscenico tra terra e mare” promosso dalla Regione Liguria. La Rassegna, con la quale si sono già sperimentati quarantadue nuovi testi, numerosi dei quali sono poi diventati dei veri e propri spettacoli di produzione, è realizzata con la collaborazione degli istituti di cultura stranieri operanti in Liguria. Con cinque repliche ciascuno, da martedì a sabato (ingresso libero) vengono proposti cinque spettacoli su testi mai rappresentati in Italia e provenienti da Francia (Controtempo), Germania (La guerra di Klamm), Italia (Officina mia), Spagna (Il ragazzo dell’ultimo banco) e Stati Uniti (Coronado). Nella seconda metà di giugno, l’intera Rassegna sarà replicata a La Spezia e a Sanremo. Vi t t o r i o Fr a n c e s c h i co n l e m a s c h e re d i We r n e r S t r u b ( f o to M a rc Ch ate l a i n ) Con la messa in scena di A corpo morto di Vittorio Franceschi (al Duse dal 15 aprile al 3 maggio), il Teatro Stabile di Genova conferma il suo interesse a esplorare e a stimolare la nuova drammaturgia italiana, di cui Franceschi (attore, drammaturgo e regista) è uno dei più significativi rappresentanti. Strutturato in un prologo, cinque monologhi e un epilogo, A corpo morto trova nell’impostazione della regia di Marco Sciaccaluga, che – con la complicità delle maschere di Werner Strub – fa “indossare” a un unico attore (lo stesso Franceschi) tutti i personaggi, la via per diventare contemporaneamente una riflessione sul tema della morte e un inno alla vita. Un solo attore, pertanto, che si trasforma di volta in volta nei vari personaggi che piangono la morte di una persona cara (un ragazzo la compagna amata in silenzio, una moglie il marito con cui ha vissuto tutta la vita, un padre il figlio tossicomane e suicida, una figlia la madre e un barbone un compagno d’avventura), e diventa così una sorta di collezionista di vite altrui, protagonista di un estremo esorcismo di quello che Vittorio Franceschi definisce “l’eterno muro invalicabile chiamato mistero, insensatezza, paura, sberleffo, oblio... o se si preferisce il tutto e il nulla”. Scene di Matteo Soltanto, musiche di Andrea Nicolini e luci di Sandro Sussi. TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27 16-03-2009 14:03 Pagina 2 2 l L’anima buona del Sezuan Come posson gli dèi Oh figlio. Oh aviatore. Che mondo è Mister Shin tiene sette elefanti. Cari i miei spettatori, sù, non siate arrabbiati. restare in un paese quello che ti aspetta? Nella spazzatura, Un bel dì ecco lì l’ottavo! Un finale più bello vi sareste aspettati? dove i piatti son vuoti? anche tu, sarai lasciato lì, a razzolare? Sette selvaggi, l’ottavo domato Lo so, doveva essere una cineseria.. CANZONE DELL’IMPOTENZA DEGLI DÈI CANZONE PER IL FIGLIO CANZONE DELL’OTTAVO ELEFANTE EPILOGO Shen-Te verso un mondo nuovo La parabola di Bertolt Brecht racconta una Cina nostra contemporanea Il bene e il male: svolte e sdoppiamenti Gli dèi scendono sulla terra alla ricerca di un’anima buona nel Sezuan, in Cina. È come dire: c’era una volta, nel Paese dell’Altrove. Lo “straniamento cinese” di Brecht è affine a quello della fiaba, quanto meno ne ha la stessa funzione. La distanza di luogo (la Cina) e la distanza di tempo (il tempo degli dèi) fanno sì che la scena che si svolge davanti a noi sia tanto distante da farci abbassare le difese che solleviamo quando ci sentiamo implicati troppo direttamente in situazioni problematiche. Si parla d’altri e ci si sente coinvolti e commossi. (...) Il racconto è incalzante, pieno di svolte e perciò di aspettative; e ad ogni svolta ci domandiamo “che cosa succederà adesso?”, e siamo sospinti in avanti con emozione e curiosità. (...) Il premio in denaro che Shen-Te riceve dagli dèi segna una svolta nella sua vita. Shen-Te lascia la prostituzione e compra una tabaccheria. Segue una nuova svolta: il vantaggio si rovescia in tormento. Prima che di clienti, il suo negozio si riempie di parassiti che pretendono vitto e alloggio. La bontà premiata svolta in privilegio relativo, ricattato dal bisogno altrui. Risolve qualcosa una persona buona? Qualcosa sì, ma la sua azione subito cambia di dimensione, da individuale diventa sociale: “Troppa miseria perché una persona possa porvi rimedio”, dice Shui-Ta, il “cugino” di Shen-Te, venuto da fuori per rimediare con spirito imprenditoriale alla rovina in cui Shen-Te sta precipitando a causa della sua bontà. L’improvvisa apparizione di ShuiG l i d è i ( A l b e r t o G i u s t a , R o b e r t o A l i n g h i e r i , V i t o S a c c i n t o ) i n u n a s c e n a d ’i n s i e m e d e l l o s p e t t a c o l o F e d e r i c o Va n n i e i l g i o v a n e G i a c o m o C o s t e l l a c o n M a r i a n g e l a M e l a t o Ta è un’ulteriore svolta, è il travestimento maschile della stessa Shen-Te, un suo sdoppiamento, la sua altra faccia economica, che trasforma la tabaccheria in rovina in impresa capitalistica, ramo tabacchi. (...) In genere, le fiabe che narrano le traversie di un personaggio che ha dovuto travestirsi per sopravvivere si chiudono con un disvelamento che è un trionfo. Nel Sezuan le cose non vanno proprio così. Sì, la Corte degli dèi proclama Shen-Te “anima buona”, e sentenzia che le durezze da lei compiute nei panni di Shui-Ta non sono sostanza ma accidente dovuto alle circostanze. Ma il successo gli dèi lo attribuiscono a sé: la loro missione è riuscita, hanno trovato quel che cercavano. Quanto all’anima buona, essa rimane nella solitudine del suo dramma e delle sue contraddizioni irrisolte. (...) Che fare, allora? A ciascuno di noi la risposta, secondo le circostanze. Con una certezza, però: che l’intreccio di bene e di male è essenziale alla vita, e che tutte le pulsioni, i totalitarismi e i fondamentalismi religiosi o ideologici che hanno voluto e vorranno eliminare il male dal mondo per instaurare il sommo bene sono stati e saranno le più feconde sorgenti del male. Stefano Levi Della Torre (estratto dal volume edito da “Il Melangolo”) marzo | giugno 2009 L’anima buona del Sezuan ha avuto gestazione lunga e laboriosa. Già a Berlino, all’inizio degli anni Trenta, prima dell’avvento al potere del nazismo, Bertolt Brecht vi stava lavorando, avendo preso spunto da un articolo di giornale. La vicenda si svolgeva in un ambiente occidentale e contemporaneo, il titolo era La merce amore. Vi si trattava di una prostituta che apre una tabaccheria in cui, in abiti maschili, recita la parte di venditore di sigari, mentre continuava ad esercitare la sua vecchia professione. La stesura definitiva accompagna l’autore in Danimarca, Svezia, Finlandia e Stati Uniti, dove si rifugia, dopo Praga, Vienna, Zurigo, per sfuggire ogni volta alle armate hitleriane, in un esilio che lo costringe a «cambiare più paesi che scarpe». Il 15 marzo 1939 annota nel suo Diario: «Qualche giorno fa ho ritirato fuori il vecchio abbozzo di L’anima buona del Sezuan». Il testo ha assunto la forma di una parabola ambientata in Cina. I protagonisti si chiamano Li Gung e Lao Go. Brecht lamenta di doversi lambiccare il cervello di fronte ai numerosi problemi che la nuova opera pone. Si sente sci- volare in inutili arzigogolature e vuole evitare “i pericoli delle cineserie”. Più volte si arena. Tiene fermo però il proposito di rimanere fedele alla tecnica del dramma epico. Finalmente il 20 giugno 1940 appunta: «Nell’insieme finito L’anima buona del Sezuan». In realtà questa non è ancora la redazione ultima. Vi ritorna sopra e la rivede con puntiglio. Il 29 giugno 1940 confessa: «Mi è costato più fatica di qualsiasi altro dramma in precedenza. Mi riesce molto difficile distaccarmi da questo lavoro. È un dramma che dovrebbe essere perfettamente finito e finito non lo è». E il giorno dopo ammette: «È impossibile condurre a termine un dramma senza un teatro. The proof of the pudding… Come posso verificare, per esempio, se la VI scena dell’Anima buona può reggere oppure no anche il riconoscimento da parte di Li Gung del fondamento (sociale) della malvagità del suo amico? Soltanto il teatro può dire l’ultima parola sulle possibili varianti». (…) Una nuova vera conclusione sembra profilarsi in una pagina del Diario del 25 gennaio 1941, anche se poi si insinua il sospetto che costituisca un esito pur sem- pre provvisorio, perché Brecht si ripromette, «dato che il dramma è troppo lungo», di «dotarlo anche di qualche parte in poesia, versi e canzoni». Infine il 20 aprile di quell’anno, lo “scrittore di drammi” informa di aver spedito, già da mesi, diverse copie del testo ad amici in Svizzera, in America e in Svezia. L’anima buona del Sezuan, dunque, composto durante la seconda guerra mondiale, è un frutto maturo delle “fatiche delle montagne”, ben prima delle “fatiche delle pianure”, cioè del periodo posteriore al ritorno in patria, e ricevette il battesimo della scena il 4 febbraio 1943, allo Schauspielhaus di Zurigo, regia di Leonard Steckel, scene di Teo Otto, con Maria Becker nel ruolo principale e con la grande Therese Giehse – la prima interprete di Madre Courage - nella “parte” della signora Yang. (…) La costruzione di L’anima buona del Sezuan adotta la struttura dimostrativa propria del teatro epico. Le scene del dramma, infatti, si susseguono canonicamente come momenti a sé stanti. Il dialogo è inframmezzato da canzoni (del fumo, dell’acquaiolo, degli dèi inermi, del giorno di San Giammai, dell’ottavo elefante) che interrompono il fluire dell’azione e un eventuale coinvolgimento nel pathos, che pure è già tenuto a bada a livello di registro linguistico dalla particolare scrittura brechtiana, che realizza una virtuosistica coincidenza fra intensità emotiva e sentenziosità oggettiva. L’acquaiolo Wang, inoltre, assolve al compito di una sorta di “io epico” come commentatore degli accadimenti, nei vari intermezzi che si alternano e scandiscono la trama. Anche l’ambientazione in un tribunale del riconoscimento di Shui-Ta come mascheratura di ShenTe corrisponde alla stessa necessità di favorire un atteggiamento critico. (…) Un invito esplicito allo spettatore a intervenire è formulato nel finale dell’Anima buona del Sezuan, che si configura decisamente come una struttura aperta. Gli dèi sono impotenti a cambiare le cose, confessano di non sapersi immischiare in faccende economiche. Risultano inermi, nello scontro con la realtà vengono sconfitti. (…) Non resta quindi che appellarsi al pubblico, cioè agli individui in carne ed ossa. Brecht qui mette sotto accusa l’astrattezza della filosofia idealistica. L’umanitarismo e la benevolenza separati da una concreta e incisiva prassi alla prova dei fatti diventano inservibili. I moduli del teatro epico tornano allora utili per incitare a trasformare il mondo e a non accettarlo per quello che è. (…) In L’anima buona del Sezuan, Brecht non rinuncia a diffondere le sue idee sul mondo ma nello stesso tempo propone una parabola la cui fascinazione fantastica per molti tratti è irresistibile. E realizza un mirabile equilibrio fra teatro di insegnamento e teatro di divertimento, un obiettivo a lungo inseguito nella sua straordinaria carriera artistica ma non sempre raggiunto così pienamente. Eugenio Buonaccorsi (estratto dal saggio pubblicato nel volume edito da “Il Melangolo” in occasione dello spettacolo) TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27 16-03-2009 14:04 Pagina 3 L’anima buona del Sezuan l 3 Conversazione con Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani ‘‘Come faccio a fare il bene se i prezzi sono alle stelle?’’ M a r i a n g e l a M e l a t o (Shen-Te) e G i a n l u c a G o b b i è neppure un abito per tutte le stagioni. Brecht è portatore di una competenza teatrale sempre molto concreta, che è anche concreta socialmente. Il suo teatro ha una struttura doppia, sperimentale ma fondamentalmente legata anche alla lezione della grande tradizione, al centro della quale c’è sovente (come in questo caso) un grande personaggio e poi, intorno, tanti altri che in modo autonomo declinano lo stesso tema. Per cui da Shen-Te / Shui-Ta sino alla nipote, che come Shen-Te arriva dalla campagna e come lei diventa prostituta, tutti i personaggi sono tasselli dello stesso discorso e vanno tutti lavorati come protagonisti, perché altrimenti la costruzione e l’architettura del testo non stanno più in piedi. Parliamo un poco di questi personaggi... BRUNI Al centro c’è un M a r i a n g e l a M e l a t o ( S h u i -Ta ) Stufo dei vecchi sistemi? personaggio speculare, la “buona” Shen-Te che si sdoppia nel “cattivo” Shui-Ta, ma in questa favola fatta di piccole cose e non di grandi eventi storici, si capisce subito che c’è tanto Shui-Ta in Shen-Te come tanta Shen-Te in Shui-Ta. Il Bene e il Male non sono concetti astratti. Creato Shui-Ta, Shen-Te rimane prigioniera del suo doppio, come il dottor Jekyll in mister Hyde. Ovviamente, noi stiamo al gioco teatrale dei due personaggi, ma non dimentichiamo mai che ShuiTa è Shen-Te. E, come per noi, anche per il pubblico, dopo un momento iniziale di dubbio o di sorpresa, dovrebbe essere sempre evidente che Shui-Ta è una parte di Shen-Te. Una componente del suo essere che, quando emerge in primo piano, le costa fatica e dolore. Il tragico discorso sull’impossibilità di amare, sul fatto che bisogna vedere sempre l’altro come nemico, fulmina Shen-Te nella scena dei “trecento bigliettoni”. La ricordo brevemente: Shen-Te è travestita da ShuiTa quando l’amato Sun dice: “È deciso: io la sposo. E lei mi porta i trecento dollari. Oppure me li porti tu. O lei. O te!”; e nella ragazza è come se si schiantasse qualcosa, ma non può rivelarsi per non essere scoperta dalla vedova Shin. Insieme al finale, è questo il momento più drammatico del testo: il riconoscersi doppio, ma anche acquistare consapevolezza che dividendosi in due ci si fa sempre male. Qualcosa di simile si verifica nel finale di La tempesta, quando Prospero riconosce in Calibano una parte di sé. Una cosa particolarmente forte è che in questo testo – in cui tutti lottano per la sopravvivenza, ma nessuno muore (L’anima buona non è Madre Courage) – il senso del tragico nasce dal fatto che l’eroe non può più scegliere tra il Bene e il Male, ma può solo constatare la presenza del male come tragico quotidiano. DE CAPITANI Ed è questa condanna a convivere con il piccolo male quotidiano che fa di Sezuan una favola che va verso un pessimismo esistenzialista. La favola si conclude fondamentalmente con un fallimento, ma anche con una indicazione: “Un finale migliore ci vuole, è necessario”. Quale potrebbe essere questo finale? La costruzione di un mondo nuovo? DE CAPITANI Sarebbe una interpretazione ideologica che ben poco ha a che fare con il testo di Brecht, che pone domande, non ostenta certezze rivoluzionarie. Ma come ben sottolinea nell’Epilogo, una sintesi possibile non può appartenere ai personaggi, non esiste un lieto fine della favola, come vogliono farci credere gli dèi, la sintesi è affidata solo agli spettatori, intesi come frammento emblematico della società. BRUNI E l’arte può essere un momento importante di questo cambiamento dell’uomo, purché si abbia la consapevolezza – come già diceva Euripide nell’Ippolito – che sovente “il meglio è nemico del bene”. L’arte non può avere mai una funzione consolatoria. a cura di Aldo Viganò (estratto dalla conversazione pubblicata nel volume edito in occasione dello spettacolo) Lo Stabile in tournée Subito dopo Pasqua, L’anima buona del Sezuan inizia la sua prima tournée che porterà lo spettacolo con Mariangela Melato a Napoli (Teatro Diana) dal 17 aprile al 3 maggio e a Roma (Teatro Argentina) dal 5 al 17 maggio. In questo ultimo scorcio di stagione, altre due produzioni dello Stabile di Genova proseguiranno le loro repliche in tournée: la prima è India di e con Mara Baronti, che conclude a Bolzano (24 marzo) e a Trieste (dal 25 al 29 marzo) il suo lungo tour iniziato nel settembre scorso; l’altra è La famiglia dell’antiquario che, con Eros Pagni protagonista, è dapprima a Torino (Teatro Le Limonaie, dal 17 al 22 marzo) e poi precede al Teatro Argentina di Roma (dal 24 marzo al 5 aprile) L’anima buona del Sezuan, per essere infine a Catania (Teatro Verga) dal 21 aprile al 10 maggio. ...e allora cambia! www.amorchio.it Perché mettere in scena oggi L’anima buona del Sezuan? DE CAPITANI Quando abbiamo iniziato a parlarne con Mariangela Melato e Carlo Repetti erano i giorni del terremoto che proprio nel Sezuan aveva fatto il maggior numero di vittime e quella terribile coincidenza ci colpì molto. BRUNI Ma era anche il tempo in cui la Cina aveva riconquistato centralità mondiale grazie al suo sviluppo economico che sembrava inarrestabile. DE CAPITANI Poi un altro cataclisma economico e finanziario ha travolto e sta ancora travolgendo tutto il mondo, rendendo ancor più stringente l’attualità di un testo che Brecht ha iniziato a scrivere nei primi anni Trenta, avendo ben presente il clima della Grande Depressione. Che rapporto c’è tra favola e realtà nel vostro spettacolo? BRUNI Si tratta di una relazione strettissima, perché la precisa descrizione di una classe di bottegai e piccoli commercianti decaduti diventa un punto di vista perfetto per raccontare il contrasto e la ricerca di un difficile equilibrio tra il Bene e il Male, che investe l’esistenza di tutti gli esseri umani. DE CAPITANI Il tema centrale della favola è già tutto nel primo incontro di Shen-Te con gli dèi: questi le danno la consegna di essere buona e lei risponde: “Come faccio a fare il bene, se i prezzi sono alle stelle?”. Battuta stupenda che si può allargare all’infinito. Il problema sociale non si risolve con la carità: chi è buono e aiuta gli altri corre il rischio di essere divorato. È questo che ci dice Brecht parlando di una crisi che assomiglia terribilmente a quella che stiamo vivendo. La consapevolezza del presente ha condizionato il vostro modo di leggere L’anima buona del Sezuan? BRUNI L’anima buona del Sezuan non è un incunabolo che va decodificato, ma non Il nuovo modo di fare informazione Quotidiano ON-LINE di cultura e tempo libero in Liguria marzo | giugno 2009 TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27 16-03-2009 14:04 Pagina 4 4 l L’anima buona del Sezuan Grandi interpreti per celebri spettacoli Shen-Te e Shui-Ta, doppio personaggio sui palcoscenici di Zurigo, Berlino, Milano, Roma e Parigi La prima rappresentazione di L’anima buona del Sezuan (Der gute Mensch von Sezuan) è avvenuta il 4 febbraio 1943 allo Shauspielhaus di Zurich con la regia di Leonard Steckel e con Maria Becker nel ruolo della protagonista. Finita la guerra e tornato in Germania, Bertolt Brecht non mise mai in scena L’anima buona del Sezuan al Berliner Ensemble. La pièce fu rappresentata per la prima volta in Germania solo nel 1956, dopo la sua morte, dapprima a Rostock e l’anno seguente al Berliner. In entrambi i casi la protagonista fu Käthe Reichel e la regia era firmata da Benno Besson, il quale curò la messa in scena di L’anima buona anche alla Volksbühne nel 1970 (con Ursula Karusseit) e al Teatro di Roma nel 1973, con Valeria Moriconi. Celebri, non solo in Italia, le due versioni di Giorgio Strehler: la prima nel 1958 con Valentina Fortunato e la seconda nel 1982 con Andrea Jonasson. In Inghilterra, è rimasta nel ricordo collettivo la performance nel doppio ruolo di Shen-Te e Shui-Ta, dapprima di Peggy Ashcroft (Royal Court Theatre, 1956) e poi di Fiona Shaw (National Theatre, 1989); mentre in Francia ha avuto un buon successo la messa in scena televisiva del 1991, interpretata da Sandrine Bonnaire. 1 2 3 4 5 6 1 La statua di Bertolt Brecht davanti al Berliner Ensemble 2 Ursula Karusseit nello spettacolo di Besson al Volksbüne di Berlino (1970) 3 Valentina Fortunato diretta da Strehler nel 1958 4 Käthe Reichel diretta da Besson nel 1956 5 Peggy Ashcroft diretta da George Devine al Royal Court (1956) 6 Brecht e Paul Dessau 7 Brecht scherza con Helene Weigel (1945) 8 Valeria Moriconi nello spettacolo di Besson a Roma (1973) 9 Andrea Jonasson diretta da Strehler nel 1982 8 7 9 Datasiel al servizio del Sistema Liguria Soluzioni informatiche innovative per il cittadino. collegati al territorio [Datasiel e Regione Liguria] collegati al futuro www.datasiel.net marzo | giugno 2009 TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27 16-03-2009 14:04 Pagina 5 A corpo morto l 5 N ov i t à i t a l i a n a d i Vi t to r i o Fr a n c e s c h i i n s c e n a a l D u s e d a l 1 5 a p r i l e a l 3 m a g g i o c o n l a r e g i a d i M a r c o S c i a c c a l u g a IL CANTASTORIE DELL’ULTIMO MISTERO V i t t o r i o F r a n c e s c h i uno spettacolo su un tema così “forte”? Si è posto questo problema? Il pubblico non vede l’ora di essere coinvolto in riflessioni che nel quotidiano non ci vengono in mente e non ci vengono proposte. Lo spettatore si aspetta che il teatro parli dei grandi temi, li desidera, e poi se c’è un morto sulla scena è contento perché pensa: «Non sono io». Le emozioni e le riflessioni qui, però, sono suscitate soprattutto dalle parole. Quello che ho messo in questo spettacolo un po’ mi riguarda, perché fa parte del mio vissuto oppure di esperienze di altri che ho visto o condiviso, o che mi sono state raccontate. Io credo che non ci siano persone che non abbiano avuto in passato o non stiano vivendo adesso esperienze analoghe a quelle dei personaggi dello spettacolo. Ma il punto non è quello di cui si parla: le tematiche vanno tutte bene, il problema è come vengono trattate, “come” si dice il “cosa”. Il teatro ha bisogno di parole alte, si deve ridare qualità di pensiero e di parole al teatro di prosa, io credo che ne abbia necessità e che solo questo lo giustifichi ancora. Ogni volta che il sipario si apre, la speranza dello spettatore è che si accenda la fiammella, che accada qualcosa di meraviglioso e di unico. E io penso di avere il dovere etico e civile di operare perché questo succeda, dando il meglio di me. E poi, oggi gli eroi non sono più sul palco, ma in sala: sono gli spettatori. Perché andare a teatro è faticoso e impegnativo (costi e spostamenti) e succede talvolta di assistere a spettacoli di scarsa qualità. Perché? Quante occasioni perdute! Bisogna cambiare. Gli eroi vanno premiati, non puniti. Voi V oi pensa pensate ate alla ll poltrona poltr l ona lt o e al caffè. caffè. Al giornale giornaale pensiamo noi. noi ( f o to G i a n n i S c h i cc h i ) Prima di occuparsi delle persone nella loro dimensione individuale, lei si è occupato di tematiche sociali e politiche, ha fatto teatro “impegnato”. Sì, ed era molto più semplice: o bianco o nero. Credo che oggi sia giusto occuparsi dell’uomo, delle persone. Se si lasciano da parte le ideologie, quello che resta sono gli essere umani. Da tutte le parti ci sono persone meravigliose e carogne. Io cerco di rivolgermi a quelle che vogliono pensare e capire. Questo è molto più complicato, perché non ci sono alibi. Prima sognavamo di poter cambiare il mondo, ma adesso che questa speranza non c’è più rimangono gli individui, l’uomo e la donna. Io non spero più tanto nella possibilità di un cambiamento, il bicchiere lo vedo più vuoto che mezzo vuoto ma, nonostante questo, ho affidato al personaggio più disperato di A corpo morto, la figlia, alcune battute che esprimono quello che penso, e cioè che, comunque, non bisogna «mai mollare». Alla fine, dal mio pessimismo totale, cerco di “accendere” un’indicazione di luce: non abbandonare mai la lotta per la ricerca del bene. È il “compito” che affida al teatro? A volte penso a quei monaci benedettini che, chiusi nei monasteri, copiavano i testi classici. Senza di loro noi oggi non potremmo leggere quelle opere. Io credo che ci voglia anche adesso qualcuno che trasmetta un’idea di senso e di continuità del pensiero e del sapere, ed è un po’ quello che cerco di fare, in una fase storica in cui si è rappresentato tutto e la nuova drammaturgia è spesso drammaturgia di urla e di decibel. Se c’è una coerenza in tutto quello che ho fatto è che non ho mai pensato di fare teatro di evasione, ho sempre pensato a un teatro d’arte e alla ricerca di un senso. Lei è attore, drammaturgo, regista teatrale: in quale di questi ruoli si riconosce di più? Io sono in primo luogo un attore, se non altro perché questo è il mestiere che mi dà da vivere: un attore che scrive. La regia non è mai stato il mio obiettivo, anche se ne ho fatte parecchie; mentre l’attività di attore e quella di autore sono andate di pari passo, compenetrandosi e arricchendosi a vicenda. Lei insegna anche recitazione alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna: com’è questa esperienza? Insegno ai ragazzi quello che ho imparato e imparo da loro molte cose. Stare con i giovani è bellissimo, però osservo un processo ormai costante negli ultimi dieci-quindici anni: i ragazzi mi sembrano sempre più carenti di quelli che si chiamano i “fondamentali”. Sono certamente più emancipati di come eravamo noi, ad esempio dal punto di vista sessuale. Ma nello stesso tempo sono molto più smarriti, più insicuri, hanno bisogno di sentirsi dire tutto. Sono formidabili sulla tecnologia ma sono a digiuno di teatro, e se hanno visto qualche spettacolo il più delle volte è con i comici della televisione. È vero che quando ero giovane io c’era l’opportunità di assistere a molti spettacoli teatrali di alto livello, che davano davvero tanto, mentre adesso è più raro che questo avvenga, ma questi ragazzi mi sembrano anche poco “educati” alla curiosità e, quindi, a saper cogliere le occasioni che pure ci sono, ed è un peccato: bisogna inculcargli anche questo “dovere”. Ricordo che nel ’57 venne in tournée in Italia la Compagnia JeanLouis Barrault - Madeleine Renaud con Il misantropo di Molière. Purtroppo non toccavano Bologna. Allora io e un gruppo di amici ci organizzammo e andammo a vederli a Firenze, al Teatro della Pergola. A distanza di oltre 50 anni ho ancora vivissimo il ricordo di quell’emozione straordinaria, che non avrei mai provato se non avessi preso un treno. a cura di Annamaria Coluccia CHI È WERNER STRUB Werner Strub racconta di aver scoperto il mondo delle maschere per il teatro attraverso l’opera di Amleto Sartori, scultore e poeta, artefice della riscoperta della grande tradizione della Commedia dell’Arte nel XX secolo, dall’Arlecchino servitore di due padroni di Giorgio Strehler, con Marcello Moretti, a Jean-Louis Barrault, da Eduardo a Lecocq. Nato a Basilea e trasferitosi a Ginevra all’età di vent’anni, Strub, dopo il diploma di traduttore e brevi studi di lettere, comincia a lavorare nei teatri ginevrini come scenografo costruttore. Nella seconda metà degli anni Sessanta, inizia la sua lunga collaborazione con Benno Besson e lo scenografo Horst Sagert, con i quali lavora a Berlino per Il drago di Schwartz e per Edipo tiranno di Sofocle. Nel 1972, su invito di Sagert, è per la prima volta responsabile della ideazione e costruzione delle maschere per uno spettacolo del Deutsches Theater su testo di Lope de Vega (Re Bamba). Negli anni Settanta e Ottanta, Strub lavora anche con Roger Planchon, Maurice Béjart, Matthias Langhoff, Giorgio Strehler, ma soprattutto ritrova Benno Besson, per il quale realizza le maschere di numerosi spettacoli, tra cui Edipo tiranno (in Italia), Santa Giovanna dei macelli (in Svezia), L’augellin belverde di Gozzi, Hamlet di Shakespeare, Medico suo malgrado di Molière, Un uomo è un uomo di Brecht (alla Comédie de Genève). Riconosciuto come uno dei più importanti autori e costruttori di maschere del teatro occidentale, Strub collabora negli anni Novanta con numerosi teatri d’opera e di prosa, stabilendo soprattutto un nuovo, fruttuoso sodalizio con l’attore e regista Jean Liermier, con il quale aveva iniziato a collaborare nella seconda metà degli anni Novanta, realizzando le maschere di Arlecchino dirozzato dall’amore di Marivaux e di Pentesilea di Kleist. GRAFSECXIX-O GR AFSECXIX-O Vittorio Franceschi sarà unico protagonista di A corpo morto, un testo di cui è anche autore e che sarà portato in scena dallo Stabile di Genova con la regia di Marco Sciaccaluga. Attore, autore e regista teatrale, Franceschi ha alle spalle una lunga e intensa carriera, iniziata negli anni ’60 con il teatro cabaret, passata attraverso l’esperienza del teatro “alternativo” con l’Associazione Nuova Scena, di cui nel 1968 fu uno dei fondatori con Dario Fo e Franca Rame, e proseguita poi attraverso molteplici esperienze. Ha già lavorato in più occasioni con il Teatro Stabile di Genova: l’ultima volta nel 2007 come attore in Svet. La luce risplende nelle tenebre, di Lev Tolstoj, ancora con la regia di Marco Sciaccaluga. In A corpo morto lei interpreta cinque personaggi diversi, ciascuno dei quali si rivolge ad una persona cara appena scomparsa per parlare, in realtà, di sé e della vita... Che cosa l’ha spinta a scrivere questo testo? Non lo so nemmeno io, non si sa mai bene. In questi ultimi anni ho rivolto l’attenzione a temi non solo sociali e civili, ho cercato di guardare anche un po’ più in là. Con Il sorriso di Daphne avevo affrontato il tema del fine vita e dell’eutanasia, qui, invece, mi sono interessato di come i diversi personaggi reagiscono di fronte alla morte, in questo caso la morte di una persona con cui avevano un legame. Nei cinque monologhi ciascun personaggio parlando della propria vita ci tira dentro un po’ della mia e Sciaccaluga ha avuto l’idea pazza di far interpretare a me tutti i personaggi, indossando per ciascuno una maschera diversa. Fra un monologo e l’altro, quindi, cambierò maschera e sarò sempre io a interpretare anche il coro al quale nel testo ho affidato la stessa funzione che aveva nella tragedia greca, quella di dare voce al pensiero dell’autore. Trovo che il coro sia una foma espressiva straordinaria. Me ne sono innamorato facendo l’Edipo di Sofocle con Benno Besson nel 1980, e non è un caso che le maschere che indosserò siano opera dello stesso scultore, Werner Strub, che creò allora quelle dell’Edipo. Quali pensa che possano essere le reazioni del pubblico di fronte ad Porta P orta a porta porta Il nostr nostro o comodissimo com modissimo ser servizio vizio di cconsegna onsegna a domicili domicilio o GENOVA GEN OVA VA - Piazza Piccapiet Piccapietra, tra, 23 - tel. 010 5702982/985 - se [email protected] [email protected] Aperti dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 18.00 e al saba sabato ato dalle 9.00 alle 12.00 marzo | giugno 2009 TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27 16-03-2009 14:04 Pagina 6 6 l A corpo morto Una redenzione quotidiana «FRANCHEZZA PRECISA E MITE, MAI GRIDATA, DI UN TESTO INSIEME CLASSICO E INQUIETANTE» Il punto, nel teatro di Vittorio Franceschi, è una franchezza precisa e mite, mai gridata e invadente eppure implacabile nel narrare storie e ossessioni che superano le diversità e i contrasti e guidano progressivamente alla medietà e alla compostezza, cioè il finale autentico. Pressapoco così LeviStrauss definiva la tragedia, e c’è davvero del tragico in questo A corpo morto, il tragico più antico quello di Tespi l’iniziatore dei concorsi - nella coralità che genera la voce singola che poi nuovamente rientra e si ricompone nel plurale, negli stasimi del coro. C’è la necessaria unità di azione, tempo e luogo. E c’è l’assoluta, luminosa predominanza della parola. Vittorio Franceschi sa bene come calibrare le parole e come flettere il tono, ora smorzato timido e dimesso ora alto e denso nel continuo aderire delle voci al ritmo discontinuo dell’immaginazione, tono spesso energicamente lirico. Il suo rimando alla tragedia è forte e non solo sul piano formale, anche se dell’antica tragedia è volutamente metamorfizzata, non disertata, la dimensione mitica; qui tutto è materia senza illusione, senza speranza di riscatto da parte degli dèi. Il ragazzo, la signora di una certa età, il signore elegante sulla cinquantina, la giovane donna, e un barbone col suo sacchetto di plastica, attori e anche parte del coro, non fanno nulla sotto le luci di scena appena accese, seduti in uno spazio neutro, grigio. Nessuna di- Vittorio Franceschi sperazione, l’urlo di dolore non c’è, tutti hanno l’espressione incauta e un po’ perplessa di quando nessuno ci guarda. Le loro storie, pensi subito e non sbagli, saranno delle storie comuni perché quei personaggi sono normali all’apparenza e anche il barbone alla fine dei conti è cosa di tutti i giorni. Storie normali oltre le differenze scontate, in accordo con l’età e i vestiti che portano i protagonisti, secondo copione, secondo l’ordito della vita e gli inganni e i tranelli che ha teso fino a qui, i crolli o le demolizioni. Già adesso che sono seduti è diversa la loro posizione sulla sedia, chi ha le gambe accavallate e chi no, le braccia conserte oppure abbandonate, e sai che ognuno avrà il suo modo di tirarsi indietro nella piccola rincorsa per alzarsi in piedi, e il modo di tenere le spalle sarà differente quando verrà il momento di fare qualche passo. Però vedi un morto solo, uguale e identico a sé, un solo lenzuolo bianco a coprirlo, un unico lettino in quella stanza di obitorio, è sempre lo stesso il corpo morto. In questo copione le storie si sfiorano con una loro casualità come accade spesso nel teatro di Vittorio Franceschi, e tutte insieme ci afferrano con forza, chiunque siamo. Ci sono cinque paradigmi e cinque epoche diverse della vita, esperienze di sé ancorate al nostro tempo e aderenti all’attualità. Prima l’adolescenza, incompiutezza della persona, senso di inconsistenza che genera un linguaggio iperrealista e un immaginario splatter: “avevi le gambe più belle del mondo - dice il ragazzo a Steffy, l’amica morta in motorino e adesso guarda qua. Sull’asfalto c’è ancora la tua pelle, tutta la strisciata, siamo andati a vedere con la pila. Non hanno mica pulito”. La seconda tappa è la maturità, non vecchiaia e tuttavia età di privazioni e detrimento. Nella maturità capita la perdita dei testimoni della nostra inesperienza, i compagni di strada, e la morte di uno di loro è l’occasione del riepilogo sommario che precede la sconfitta dei ricordi e una certa spudorata libertà. La maturità è anche l’età del rifiuto e del cinismo, a me non me la raccontano; un padre ha valicato gli idealismi dell’adolescenza e li ha respinti e negati perfino nel figlio suicida, che si è impiccato alle belle travi a vista. Quel figlio impiccato si specchia nel dolore di un’altra vittima, una figlia che piange accanto alla madre morta la sua personale via crucis e il disgusto per il padre che ha abusato di lei quando aveva quattordici anni. Invoca la nostalgia della madre, strangolata dal marito, e delle bambole di quand’era bambina, la vita breve e già in macerie, e il suo lamento estremo è quello che afferma la cocciuta volontà di farcela, tanto più eroica quanto più destinata al sicuro fallimento. Tutti i monologhi sono dialoghi con il corpo morto, che secondo Vittorio Franceschi è quello di chi non sa o non può metabolizzare l’orrore dell’umanità, mentre sopravvive chi si adegua alla vergogna o all’indecenza dell’esistere. La morte è il concretizzarsi della redenzione, inesauribile e quotidiana dissipatio humani generis che permette di dileguarsi in punta di piedi e tornare alla forma semplice e senza malizia privilegio della natura non umana. Le varie forme dei legami umani che Vittorio Franceschi ha raccontato nelle prime quattro storie trovano rimedio nella figura del clochard, che per definizione i rapporti li ha perduti tutti tranne quello col sacchetto pieno di cose e con la paura costante che glielo portino via. La figura del barbone è forse la più bella in questo A corpo morto. Di sicuro è la più inquietante. Daniele Del Giudice “Hellzapoppin” nel Foyer della Corte Nei mesi di aprile e maggio proseguono nel foyer del Teatro della Corte gli appuntamenti di “Hellzapoppin” che anche questa stagione (la nona consecutiva) hanno fatto registrare un’ottima partecipazione del pubblico per tutte le numerose manifestazioni e incontri organizzati direttamente dal Teatro Stabile o in collaborazione con istituzioni e associazioni, quali la Provincia di Genova, l’Università di Genova, l’Associazione per il Teatro Stabile di Genova, la Fondazione Novaro e l’Associazione culturale “Incantevole aprile”. C A L E N DA R I O D E G L I U LT I M I A P P U N TA M E N T I Giovedì 16 aprile – ore 17 Incontro con Glauco Mauri e Roberto Sturno in collaborazione con la COOP Liguria Venerdì 17 aprile – ore 17 “Creuse e ladeiras” Jorge Amado e i cantastorie della Liguria a cura dell’Associazione Culturale “L’incantevole aprile” Mercoledì 29 aprile – ore 17 “Cappotto a Giove. Carosello per Plauto in Re Minore” Presentazione del libro di Ludovica Radif, edizioni Tilgher con l’Autrice, interviene Roberto Trovato Giovedì 7 maggio – ore 17 “Riflessione sull’arte di Ingmar Bergman: il senso della vita” Presentazione del libro di Alberto Corsani, edizioni Claudiana interviene l’Autore I N G R E S S O L I B E R O palcoscenico e foyer numero 27 • marzo - giugno 2009 Edizioni Teatro Stabile di Genova piazza Borgo Pila, 42 • 16129 Genova www. teatrostabilegenova.it Presidente Prof. Eugenio Pallestrini Direttore Carlo Repetti, condirettore Marco Sciaccaluga Direttore responsabile Aldo Viganò Collaborazione Annamaria Coluccia Segretaria di redazione Monica Speziotto Autorizzazione del Tribunale di Genova n° 34 del 17/11/2000 Ministero Beni e Attività Culturali soci fondatori COMUNE DI GENOVA PROVINCIA DI GENOVA REGIONE LIGURIA sostenitore con il contributo di Estratto dalla prefazione al volume pubblicato da “Il Melangolo” Progetto grafico: art: Bruna Arena, Genova (01209) Stampa: Scuola Tipografica Sorriso Francescano, Genova spettacoli ospiti Cinéma! tori di varie provenienze etniche. Sul filo del romanzo di Swift, l’incontro con l’Altro come forma di arricchimento. FUORI ABBONAMENTO di Beppe Navello Duse, 18 – 22 marzo regia di Beppe Navello Il mondo delle cose senza nome tutta l’esistenza umana: gioventù e vecchiaia, bene e male, ragione e sentimento. Con Glauco Mauri e Roberto Sturno. Ispirato a sequenze di Jean Renoir e di film d’epoca italiani: un’amorevole rivisitazione delle modalità narrative del cinema muto. Protagonisti cinque giovani attori italiani e francesi. di Daniela Rossi Duse, 6 – 8 maggio regia di Nello Cioffi Angels in America Musica, prosa e danza per raccontare la vera storia di un bambino nato sordo e la lunga lotta di coloro che l’amano per consentirgli comunque di conquistare l’uso del linguaggio. di Davide Enia Duse, 24 – 29 marzo regia di Davide Enia FUORI ABBONAMENTO Acoustic Night 9 Saga provocatoria e commovente dell’America oggi. La prima parte di un’opera che affronta di petto il problema delle identità sessuali, razziali, religiose e culturali. Uno spettacolo dell’Elfo. Due spettacoli separati (Antonuccio si masturba e Piccoli gesti inutili che salvano la vita) per raccontare la vita di tre adolescenti a Palermo. Due monologhi con musica “dal vivo”. Rendez-vous di Beppe Gambetta Corte, 7 – 9 maggio con Beppe Gambetta di Marco Aime e Carla Peirolero Corte, 28 – 30 aprile regia di Enrico Campanati e Carla Peirolero Al termine del progetto i risultati ottenuti dalle famiglie saranno comunicati anche agli altri soci Coop che potranno seguire il loro esempio sulla strada del RISPARMIO ENERGETICO. Per conoscere i dettagli del progetto e SCOPRIRE I CONSIGLI DELLE 1.500 FAMIGLIE visita il sito Campagna promossa da Coop con il patrocinio di: MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE di Johann Wolfgang Goethe Corte, 14 – 19 aprile regia di Glauco Mauri marzo | giugno 2009 Nel corso di un anno le famiglie, scelte tra i soci Coop, potranno informarsi e dialogare sui temi dell’energia e del Protocollo di Kyoto con l’obiettivo di cambiare i propri stili di vita e mettere in atto BUONE PRATICHE dal punto di vista ambientale. www.risparmialeenergie.e-coop.it Sulla rotta di Gulliver Faust Un’opera poderosa, vera pietra miliare della cultura occidentale, nella quale è sintetizzata 10 novembre 2008 - 31 ottobre 2009 Attraverso il progetto “Risparmia le energie” Coop rilancia il proprio impegno nella LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO e coinvolge 1.500 famiglie in un percorso di formazione e monitoraggio sui temi del risparmio energetico. di Tony Kushner Corte, 21 – 26 aprile regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani I capitoli dell’infanzia Campagna per le buone pratiche sul risparmio energetico. MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO con il supporto tecnico di: Intreccio di culture: attori, musicisti e danza- La nona edizione consecutiva dello spettacolo musicale di Beppe Gambetta è anche l’occasione per rincontrarlo in sperimentazioni sempre nuove, circondato da artisti e amici internazionali. TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27 16-03-2009 14:04 Pagina 7 l 7 «FARE GLI ITALIANI» GRANDI PAROLE ALLA RICERCA DI UN’IDENTITÀ NAZIONALE, ALLA CORTE DAL 23 MARZO AL 6 APRILE Il Teatro Stabile di Genova organizza tra il 23 marzo e il 6 aprile un ciclo di cinque incontri con letture dedicato al tema “Fare gli italiani” – Grandi Parole alla ricerca di un’identità nazionale. La scelta di dedicare l’ormai tradizionale ciclo delle Grandi Parole a una prima tappa di un viaggio nella storia antropologica degli italiani non nasce solo nella prospettiva della prossima ricorrenza dei centocinquanta anni di unità nazionale, ma tende soprattutto a proporsi come una riflessione contemporanea sul principio d’identità di un popolo da sempre alla ricerca di se stesso. Il titolo del ciclo è tratto da una sentenza attribuita a Massimo D’Azeglio e diventata ormai proverbiale (“L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani”), tanto da aver accompagnato – sovente con implicite valutazioni negative – la storia di un secolo e mezzo, nel corso del quale molte cose sono accadute e moltissime realtà sono cambiate. In modo problematico e informativo, lontano da ogni atteggiamento pregiudiziale, il ciclo di questa nuova edizione delle Grandi Parole – “Fare gli italiani” – si propone appunto d’indagare le vie lungo le quali l’identità nazionale ha trovato un riflesso nella letteratura o nella vita quotidiana e si è andata a definire nel corso della storia dal 1861 a oggi. E lo fa ancora una volta sulla base di uno scelto apparato antologico di testi (romanzi, racconti, poesie, memoriali, lettere, ecc.), privilegiando ovviamente la specificità del teatro, nella convinzione che far risuonare da un palcoscenico le parole della letteratura e della storia, affidate ogni sera alla voce di due attori diversi e all’introduzione qualificata e qualificante di un conduttore, possa rappresentare uno specifico e fruttuoso contributo al dialogo e alla conoscenza. Nascono così questi primi cinque incontri (tre di lunedì sera e due di sabato pomeriggio: altri ne seguiranno poi nei prossimi due anni, sino al 2011), nel corso dei quali sarà via via posto l’accento su un tema specifico della storia d’Italia, affrontato ciascuno in rapporto al suo peculiare concorso alla definizione di un’identità nazionale, con un qualificato esponente della cultura a fare da conduttore e due attori di primo piano del teatro italiano a dar voce a un’antologia di testi appositamente scelti. Al Teatro della Corte l’ingresso è libero sino a esaurimento dei posti. A richiesta, saranno rilasciati attestati di frequenza e di partecipazione agli insegnanti e agli studenti. si ringrazia: LUNEDÌ 23 MARZO ORE 20.30 SABATO 28 MARZO ORE 16.30 LUNEDÌ 30 MARZO ORE 20.30 Progetti d’identità Scuola, Lingua, Cultura Emigranti ed Emigrazione letture di Eros Pagni Elisabetta Pozzi introduce Giovanni De Luna letture di Laura Marinoni Tullio Solenghi introduce Tullio De Mauro letture di Ferdinando Bruni Manuela Mandracchia introduce Gian Antonio Stella Introdotto da un brano di I miei ricordi di Massimo D’Azeglio, il primo incontro con il tema “Fare gli italiani” è organizzato come un viaggio attraverso i vari Progetti d’identità che si sono succeduti nel corso della storia dell’unità d’Italia dallo Stato monarchico-liberale alla Repubblica costituzionale. Letture da Lussu, Mussolini, Pavese, Carlo Levi, Bianciardi, Pasolini, De Cataldo e Bobbio. Introduce Giovanni De Luna, professore di storia contemporanea presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Torino, autore di alcune fortunate trasmissioni radiofoniche e televisive, scrive su «La Stampa» e «Tuttolibri», è nella direzione di «Passato e Presente». Ha pubblicato tra l’altro Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana (1995), La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo (2004), Storia del Partito d’Azione (2006), L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, 3 volumi (2005-2006). Con il conseguimento dell’unità d’Italia, si è posto immediatamente anche il problema della unificazione linguistica di un popolo da secoli diviso dai dialetti e dall’analfabetismo. In questa opera per “fare gli italiani” hanno avuto un ruolo molto importante la scuola e la cultura, anche se, a volte, con il rischio di forzate omologazioni. Di questo viaggio, dalla separazione linguistica alla omologazione televisiva, parla Tullio De Mauro, insigne linguista di risonanza internazionale, già docente universitario e Ministro della pubblica istruzione nel secondo governo Amato. Il professore Tullio De Mauro è autore di molti libri – basti citare Storia linguistica dell’Unità d’Italia (1993), La cultura degli italiani (2004), oltre che i suoi dizionari e i numerosi scritti sull’organizzazione della scuola – e di molte trasmissioni radiofoniche e televisive. Nel corso dell’incontro saranno letti testi di Buttitta, Pavese, Calamandrei, Vittorini, Calvino e Eco. La storia dell’emigrazione italiana ha accompagnato quasi interamente quella dell’unificazione nazionale: dall’attraversamento dell’oceano Atlantico nella terza classe di piroscafi con destinazione le Americhe ai viaggi della speranza verso il nord dell’Italia e dell’Europa. Di come tutto questo abbia concorso a creare un’identità nazionale, in cui sovente l’amor di patria si mescola con la nostalgia, ne parla Gian Antonio Stella, secondo un percorso molto personale che mescola documenti storici con lettere e canzoni, ma accoglie al proprio interno anche la citazione di film (Il gaucho di Dino Risi) e brani di opere letterarie di Edmondo De Amicis (Sull’oceano), Giovanni Pascoli (Italy) e Stefano Vilardo (Tutti dicono Germania Germania). Inviato ed editorialista del Corriere della Sera, Stella è autore di best-seller quali La casta e La deriva (scritti con Sergio Rizzo), ma anche di opere specifiche sull’emigrazione, quali L’orda (2003) e Odissee (2004). Valeria, l’architetto dei sogni Il 20 novembre scorso Valeria Manari ci ha lasciato orfani della sua amicizia, cultura, intelligenza e competenza professionale. Aveva solo 48 anni. Era moglie di Marco Sciaccaluga e madre di Carlo, Giovanni e Caterina. Valeria ha incominciato con grandi maestri quali Lele Luzzati, Hayden Griffin e Gianni Polidori, che l’ha voluta appena ventiduenne a insegnare al Byron; ha insegnato poi anche all’Accademia Ligustica, dove l’hanno chiamata Emilia Marasco e Raimondo Sirotti. A partire dal 1985, il suo lavoro si è svolto al Teatro Stabile: ricordo bene, il suo primo spettacolo da noi. Eravamo in tre: Marco, io, scene e costumi di Valeria, per il Borges. Da allora ha costruito la sua carriera allo Stabile di Genova, diventando uno dei più importanti e apprezzati scenografi italiani, riuscendo a fare quello che si vede fare dai grandi artisti: inventava gli spazi nei quali dare vita alle parole degli autori, ai sogni dei registi e alla quotidiana pratica degli attori; ma sapeva unire questo suo lavoro creativo che faceva nel suo studio, in casa sua, spesso insieme a Marco, alla sua grande capacità artigianale: amava tagliare e cucire gli abiti con le sarte, dipingere le scene con i pittori, lavorare con gli attrezzisti, i macchinisti, sapendo che il suo lavoro avrebbe così servito al meglio la difficile arte degli attori per condividere con il pubblico le emozioni dello spettacolo. Per questo, Valeria è stata così amata da tutto il mondo del palcoscenico del nostro Teatro, dalla nostra compagnia, dal teatro italiano tutto. Lo Stabile le ha dato fiducia e lei lo ha ripagato con grandi risultati: basti ricordare, negli ultimi anni, L’illusione comica e Un nemico del popolo, la splendida scena di Morte di un commesso viaggiatore con quelle porte aperte sul mondo e anche sull’aldilà oppure L’agente segreto e Re Lear. Valeria Manari è stata davvero l’architetto delle case per i nostri sogni. Per questo le siamo davvero riconoscenti. Carlo Repetti Eventi oltremodo irripetibili SABATO 4 APRILE ORE 16.30 LUNEDÌ 6 APRILE ORE 20.30 Guerre, Leva militare, Prigionie Vie di comunicazione e Vacanze letture di Omero Antonutti Massimo Venturiello introduce Antonio Gibelli letture di Ugo Pagliai Paola Pitagora introduce Ernesto Franco C’è stato un tempo in cui la leva militare obbligatoria durava cinque anni e si proponeva anche l’integrazione di un popolo; poi sono venute le guerre del Novecento, da quelle coloniali alle due mondiali, con la loro eredità d’orrore e di sofferenze, a volte accompagnate da lunghi periodi di prigionia. In che modo tutto questo ha concorso a definire un’identità nazionale e, quindi, a “fare gli italiani”? Con l’ausilio di brani tratti da Giovanni Verga e Carlo Emilio Gadda, da Edmondo De Amicis e Piero Calamandrei, ma facendo anche ampio ricorso a memoriali (Valori, Capacci, Mazzantini, Levi Caviglione, Artom), lettere, testimonianze di soldati, prigionieri e gente comune, parla del tema Antonio Gibelli, professore di storia contemporanea all’Università di Genova e autore di una vasta bibliografia comprendente, tra l’altro, titoli quali, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale (1991), Il popolo bambino (2005), La grande guerra degli italiani 1915-1918 (2007). In che modo e in che misura la trasformazione delle vie di comunicazione (dalla ferrovia alle nuove strade e autostrade) hanno concorso in questo ultimo secolo e mezzo a “fare gli italiani”? E le vacanze, dalla villeggiatura estiva alle ferie d’agosto in cui sparisce ogni distinzione di classe? Citando l’arrivo a Milano di Totò e Peppino e partendo dall’utopia fantascientifica di Salgàri, ne parla Ernesto Franco, direttore editoriale della casa editrice Einaudi, appoggiando il suo dire su una ricca antologia letteraria che comprende brani di Emilio Praga, Corrado Govoni, Paolo Villaggio, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Natalia Ginzburg, Pier Vittorio Tondelli e Sebastiano Vassalli. Ernesto Franco collabora a diversi giornali e riviste ed è autore di saggi sulla cultura ispano-americana, in particolare su Julio Cortazar, Juan Rulfo, Octavio Paz, Jorge Luis Borges, Alvaro Mutis, Mario Vargas Llosa. È autore di numerosi libri, tra i quali Isolario (1994), Vita senza fine (1999), Nostro mostro Moby Dick (2003), Usodomare (2007). Oltremodo non è solo pranzo, cena e aperitivo, ma fa di ogni vostro evento un’occasione di successo. Area Porto Antico Nave Blu Via al Mare Fabrizio De Andrè - 16128 Genova Tel. +39 010 25.34.032 - Fax +39 010 25.16.415 Sito: www.oltremodoristorante.it E-mail: [email protected] marzo | giugno 2009 TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27 16-03-2009 14:04 Pagina 8 8l Rassegna di teatro contemporaneo In scena alla Piccola Corte dal 12 maggio al 13 giugno cinque novità provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti Storie dal mondo per conoscere il presente «Sguardi contemporanei», manifestazione promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, realizzata con il contributo della Regione Liguria e la collaborazione di Alliance Française e del Goethe Institut Genua, ribadisce il tradizionale interesse dello Stabile per la nuova drammaturgia e rafforza l’esperienza delle tredici stagioni della rassegna di “mises en espace”, ideata da Carlo Repetti, con la quale si sono già sperimentati quarantadue nuovi testi, numerosi dei quali sono poi diventati dei veri e propri spettacoli di produzione. Gli spettacoli, in scena alla Piccola Corte di Genova (ore 20.30) tra maggio e giugno, saranno poi replicati anche a La Spezia e a Sanremo. PICCOLA CORTE da martedì 12 > a sabato 16 MAGGIO PICCOLA CORTE da martedì 19 > a sabato 23 MAGGIO PICCOLA CORTE da martedì 26 > a sabato 30 MAGGIO La guerra di Klamm Klamms Krieg I Germania di Kai Hensel Coronado Coronado I Stati Uniti di Dennis Lehane Officina mia Italia di Marco Taddei versione italiana Umberto Gandini regia Filippo Dini interprete Antonio Zavatteri versione italiana Luca Viganò regia Marco Ghelardi interpreti Davide Iacopini, Davide Lorino, Roberto Serpi, Mariella Speranza, Giuseppe Amato, Gabriele Gallinari, Elena Gigliotti, Federica Sandrini, Viviana Strambelli regia Massimo Mesciulam interpreti Massimo Cagnina, Pier Luigi Pasino, Marco Taddei, Andreapietro Anselmi, Davide Mancini Un attore, una cattedra, una sedia. L’insegnante Klamm, troppo vecchio per ricominciare da capo, troppo giovane per la pensione anticipata, si trova di fronte a una classe (il pubblico) che gli ha dichiarato una guerra di mutismo. L’accusa è di aver provocato il suicidio di uno studente con un voto negativo che ha portato alla bocciatura del ragazzo. Ma Klamm non accetta di essere messo sotto processo. Si difende con un astio che mal cela la sua crisi esistenziale, destinata a evidenziarsi nel corso di un monologo sempre più carico di tensione drammatica. La guerra di Klamm è un testo sulla scuola, sugli adulti mal equipaggiati nel rapporto con gli adolescenti, ma anche soprattutto un raffinato studio sui rapporti di forza, sulla violenza del silenzio contro quella della parola. Un dramma, attraversato da momenti di forte comicità, firmato da Kai Hensel, scrittore nato ad Amburgo nel 1965. Dopo lunghi viaggi in Europa, Asia e Africa, Hensel è stato regista al teatro di Lubecca, prima di dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Autore di pièces teatrali, drammi radiofonici, sceneggiature, sceneggiati, Hensel ha scritto tra l’altro il monologo Quale droga fa per me. La guerra di Klamm (Klamms Krieg) è attualmente fra i quattro testi di drammaturgia contemporanea più spesso messi in scena in Germania. Tre situazioni con svolgimento cronologico sfalsato. Nella prima, due giovani amanti decidono di uccidere il marito di lei, che scopre però di essere incinta, e non sa di chi. Nella seconda, uno psichiatra dalla professionalità incerta s’intrattiene con la sua paziente, la quale si rivela essere la protagonista della situazione precedente, alcuni anni dopo. Nella terza, ci sono un padre e un figlio che ha perso la memoria alle prese con la scomparsa di una ragazza e con la sparizione di un diamante rubato, e ben presto si capisce che anche questi personaggi sono legati indissolubilmente alle altre vicende raccontate. Sesso e omicidio; però anche amore, denaro, speranza e redenzione. Prima opera composta espressamente per il teatro dallo scrittore, regista e sceneggiatore Lehane (da un suo romanzo Clint Eastwood ha tratto Mystic River e lo scorso anno è uscito Gone Baby Gone, da lui scritto e diretto da Ben Affleck), Coronado nasce da un racconto (Until Gwen) e porta sulla scena una vicenda dalla struttura misteriosa e labirintica, in cui il comico si mescola di continuo con il tragico. Di origine irlandese, Lehane è nato a Dorchester il 4 agosto 1966, insegna scrittura creativa avanzata all’Università di Harvard e anche in Italia sta per uscire il suo nuovo romanzo The Given Day. Il mondo giovanile e la precarietà del lavoro, sullo sfondo di un “pulp” in cui la violenza si mescola con la solitudine. È in questo scenario degradato che l’alcool e le pistole diventano insieme via di fuga e di riscatto dalla prigione della quotidianità. L’azione si svolge in un’officina ai margini desolati di una metropoli, dove tre giovani meccanici e il loro datore di lavoro stanno celebrando in forma di festa la definitiva chiusura del luogo in cui sino allora si era pur precariamente realizzata la loro esistenza, quando da un mondo lontano capita per caso tra di loro uno strano cliente. La sua macchina si è guastata, ma il nuovo arrivato ha fretta di consegnare una misteriosa valigetta che porta sempre con sé. Tra iperrealismo e esasperazione al limite della follia, il clima si fa ben presto incandescente. Sino al punto di lasciar trasparire il fantasma di una possibile lotta di classe, sotto la trama subito dichiarata dello scontro generazionale. Un testo insieme duro e divertente, scritto con uno sguardo a Quentin Tarantino e uno al mondo giovanile cui appartiene Marco Taddei, attore diplomato alla Scuola di Recitazione dello Stabile di Genova e già autore della commedia Luz, da lui stesso messo in scena per la compagnia Nim composta da diplomati della scuola dello Stabile. PICCOLA CORTE da martedì 2 > a sabato 6 GIUGNO PICCOLA CORTE da martedì 9 > a sabato 13 GIUGNO Il ragazzo dell’ultimo banco El chico de la última fila I Spagna di Juan Mayorga Controtempo Théorbe I Francia di Christian Simeon versione italiana Antonella Caron regia Alberto Giusta interpreti Roberto Alinghieri, Alice Arcuri, Nicola Pannelli, Fiorenza Pieri, Vito Saccinto, Cristiano Dessì versione italiana Emiliano Schmidt Fiori regia Marco Sciaccaluga interpreti Fabrizio Careddu, Barbara Moselli, Orietta Notari, Giuseppe Amato, Gabriele Gallinari, Sarah Nicolucci Due sono le coordinate lungo le quali Juan Mayorga – nato a Madrid nel 1963 e considerato il drammaturgo spagnolo più rappresentativo della sua generazione – sviluppa un racconto teatrale capace di parlare della realtà senza soggiacere ai canoni del realismo. Da una parte, c’è la dialettica autore-lettore che si stabilisce tra Claudio, liceale particolarmente dotato nella scrittura, e Germán, suo professore di letteratura; dall’altra, c’è quella tra autore e personaggio che nasce dal rapporto tra il giovane scrittore e il suo compagno di classe Rafael, nella cui vita privata Claudio trova spunto e incentivo per la propria immaginazione. Sotto lo sguardo attento e sempre più sconcertato del professore, emerge così la realtà di una famiglia piccolo borghese nella Spagna della nuova crescita economica; ma dentro a questa trama Mayorga lascia emergere anche altri temi, quali quelli del voyeurismo culturale, dell’incerto limite tra estetica ed etica o del rapporto tra produttore intellettuale e consumatore. Nasce così un teatro insieme aperto nella definizione dei personaggi e capace di indagare la società contemporanea. Un teatro – come auspica Juan Mayorga nella quarta di copertina del volume che raccoglie per i tipi di Ubulibri quattro suoi testi (ci sono anche Himmelweg, Animali notturni e Hamelin) – che sia capace di accadere «nell’immaginazione, nella memoria, nell’esperienza dello spettatore». Christian Simeon – drammaturgo e scultore, nato nel 1959 – racconta così la trama di questa sua “commedia claustrofobica”: «Martedì 11 settembre 2001. Jeanne, una musicista francese che abita a New York, ha in mattinata un appuntamento fondamentale per la sua carriera: un’audizione con un celebre direttore d’orchestra. Alle 7 e 38 si accorge che Greg, il fidanzato che lavora al World Trade Center, l’ha bloccata nell’appartamento portandosi via, inavvertitamente, le sue chiavi di casa. In questa situazione comicamente claustrofobica, complice il telefono, Jeanne cerca tutte le soluzioni possibili per uscire in tempo, non ultima quella di convincere Greg a ritornare a casa per aprire la porta. La posta in gioco di questa corsa contro l’orologio non riguarda solo la sua carriera musicale: forse Jeanne, malgrado il panico crescente per la sua occasione, può percepire la tragedia che incombe. Riuscirà ad uscire da casa?». Attraverso le telefonate della protagonista a Greg, alla madre, al fratello gay, al fabbro e ad altri ancora, Controtempo racconta la “grande” e la “piccola” storia, nella quale lo spettatore (anche attraverso quello che già sa dell’11 settembre 2001) percepisce una realtà completamente differente da quella che sembra svolgersi sulla scena. Controtempo viene proposto nella Rassegna grazie alla collaborazione del Progetto “Face à face”. marzo | giugno 2009 (segue da pag.1) Stabile di Genova con Bertolt Brecht, un autore non soltanto da noi molto frequentato ma che grazie al lavoro di Squarzina, di Besson, di Sciaccaluga e di Ferrini abbiamo negli anni contribuito a rileggere forse in un modo più “aperto” e nuovo; e un testo infine, L’anima buona del Sezuan, che testimonia la capacità di Brecht di parlare in maniera incredibilmente attuale del mondo, a partire dalla battuta di un personaggio che dice: «Ma poi questa storia di fare affari è proprio necessaria?». Seguirà la prima assoluta di una novità di Vittorio Franceschi, sicuramente fra gli autori italiani di maggiore qualità, qui impegnato con il suo A corpo morto a raccontarci, attraverso la visitazione della morte, soprattutto la vita, le sue speranze, i suoi drammi, i suoi limiti, le sue ironie. Lo spettacolo di retto dal nostro Marco Sciacca luga vede nello stesso Franceschi un interprete unico attraverso il “travestimento” in diversi personaggi, aiutato in questo dalle maschere di un maestro artigiano qual è Strub. Infine il percorso nella drammaturgia contemporanea della nostra rassegna di “mises en espace” che il pubblico, soprattutto quello giovane, ha dimostrato in questi anni di seguire con un interesse davvero particolare. Questi dunque sono i fatti che vi proponiamo, le parole per la scena con le quali il Teatro Stabile di Genova cerca di affermare da parte sua l’importanza del lavoro culturale in una società in cui valga ancora la pena di sperare per noi e soprattutto per i nostri figli. Carlo Repetti