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ANNO VIII | NUMERO 27 | MARZO | GIUGNO 2009
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L’anima buona del Sezuan L’anima buona del Sezuan A corpo morto
Intervista a Bruni e De Capitani Intervista a Franceschi
Eugenio Buonaccorsi
Le messe in scena di “Sezuan” Chi è Werner Strub
Stefano Levi Della Torre
6
7
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A corpo morto
Daniele Del Giudice
Incontri nel Foyer
Grandi Parole
Fare gli italiani
Ricordo di Valeria Manari
Rassegna Teatro
contemporaneo
Programma
Mariangela Melato e Vittorio Franceschi protagonisti dei due nuovi spettacoli dello Stabile in scena alla Corte e al Duse
LA VITA FEROCE E IL SUO DOPPIO
In un momento di grande
difficoltà per la società, in
un momento in cui tutto
sembra entrare in crisi, in
un momento in cui anche
il mondo della cultura si
pone domande importanti
sulla sua funzione per
meglio comprendere e per
rafforzare le difese della
civiltà contro la barbarie
comunque si presenti travestita, noi dello Stabile di
Genova nel nostro piccolo,
invece di lanciare editti o
anatemi disinformati, e
perciò dannosi, come qualcuno ha recentemente fatto, preferiamo intervenire
con i fatti, con azioni le
più professionali e motivate possibile.
Per noi i fatti sono le scelte di testi “necessari”, testi
che affrontino la contemporaneità, i suoi temi, i suoi
problemi; sono la proposta
di spettacoli che contengano tutta la forza artistica
del lavoro che qui si compie e al tempo stesso testimonino l’utilizzo migliore
del denaro pubblico che ci
viene consegnato in dote.
Con questo obiettivo di
fondo vi proponiamo, in
questa ultima parte della
stagione, due spettacoli di
nostra nuova produzione,
cinque “mises en espace”
di drammaturgia contemporanea, e una serie di cinque incontri su un tema
centrale oggi qual è “Fare
gli italiani”.
Il primo spettacolo è L’anima buona del Sezuan di
Brecht, che propone molti
motivi di interesse: il ritorno per noi felicissimo
al Teatro Stabile di Mariangela Melato, dopo due
anni di tournée con il suo
Sola me ne vo; la conferma
dell’importanza della nostra Compagnia Stabile
formata con attenzione in
questi anni e oggi vera
ricchezza del nostro Teatro; la collaborazione con
Ferdinando Bruni ed Elio
De Capitani, due artisti
con i quali ci sentiamo in
grande sintonia e in ultimo, ma non per ultimo, il
nuovo incontro del Teatro
Carlo Repetti
(continua a pag.8)
ALLA CORTE, MARIANGELA MELATO IN “L’ANIMA BUONA DEL SEZUAN”
M a r i a n g e l a M e l a t o n e l r u o l o d e l l ’” a n i m a b u o n a ” d i B e r t o l t B r e c h t ( f o to M a rce l l o N o r b e r t h )
L’anima buona del Sezuan, in
scena alla Corte dal 17 marzo al
9 aprile con la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, è il dodicesimo spettacolo dello Stabile con Mariangela
Melato come protagonista. «Dal
1992 a oggi sono ormai diciotto
anni che lavoriamo insieme e
sono stati fra gli anni artisticamente più fortunati della nostra
vita» annota Carlo Repetti,
aggiungendo: «Anche continuare il lavoro di riproposta dell’opera di Brecht è oggi importante per il nostro Teatro, qui al suo
settimo incontro con il grande
drammaturgo tedesco (due Madre Courage con Volonghi prima e Melato poi, due Cerchio di
gesso del Caucaso con Squarzina e più recentemente Besson,
un Arturo Ui con Pagni e Sciaccaluga, uno Schweyk con Ferrini), un lavoro lungo ormai quarant’anni di letture sempre
aggiornate, un percorso in Italia
secondo soltanto a quello del
Piccolo di Milano». Scritta da
Brecht negli anni Trenta, L’anima buona del Sezuan racconta
con i toni della favola una vicenda che affronta il tema universale del rapporto tra Etica e Società, tra il Bene e il Male: nella
concretezza della Storia. E lo fa
ambientandola in una lontana
Cina di fantasia, che assomiglia
però molto da vicino al mondo
attuale sconvolto da una crisi
economica che ben si rispecchia
in quella che Brecht immagina si
stia svolgendo nella capitale del
Sezuan. Con Mariangela Melato,
è in scena la compagnia stabile
del Teatro di Genova: Roberto
Alinghieri, Alice Arcuri, Marco
Avogadro, Fabrizio Careddu,
Rachele Ghersi, Alberto Giusta,
Gianluca Gobbi, Orietta Notari,
Nicola Pannelli, Fiorenza Pieri,
Vito Saccinto e Federico Vanni,
con Margherita Di Rauso, Ernesto M. Rossi e il giovane Giacomo Costella. Scena e costumi
di Andrea Taddei, musiche di
Paul Dessau, suono di Renato
Rinaldi, luci di Sandro Sussi.
“GRANDI PAROLE” ALLA CORTE Rassegna di Teatro “A CORPO MORTO” AL DUSE
Lunedì 23 marzo (ore 20.30) prende il via al
Teatro della Corte il XIV ciclo delle Grandi
Parole dell’Umanità, ideato nel 1996 da
Carlo Repetti. Cinque appuntamenti raccolti
nell’arco di quindici giorni (tre lunedì sera e
due sabato pomeriggio) e dedicati al tema
Fare gli italiani. Una riflessione sulla storia
antropologica di un popolo sempre alla ricerca di se stesso. Un modo originale per anticipare i festeggiamenti per la ricorrenza del
1861. Una nuova occasione per ribadire
che far risuonare in un
teatro le parole alte
della cultura e della
storia può rappresentare un fruttuoso contributo al dialogo tra
gli individui e alla reciproca comprensione
tra diverse esperienze
esistenziali. I primi a
entrare in scena sono
il professore Giovanni
De Luna e gli attori
Eros Pagni ed Elisabetta Pozzi per mettere
a confronto i vari Progetti d’identità che si
sono succeduti dallo Stato liberale alla
Repubblica costituzionale: lettura di testi di
D’Azeglio, Lussu, Mussolini, Pavese, Carlo
Levi, Bianciardi, Pasolini, De Cataldo e
Bobbio. Il sabato seguente (28 marzo, ore
16.30) Tullio De Mauro parlerà del ruolo
svolto da Scuola, lingua, cultura, affidando
alle voci di Laura Marinoni e di Tullio
Solenghi la lettura di brani di Buttitta, Pavese, Calamandrei, Vittorini, Calvino ed Eco.
Negli incontri seguenti sarà, poi, affrontato il
ruolo che hanno avuto nella formazione di
un’identità del popolo italiano avvenimenti
quali (30 marzo, ore 20.30) Emigranti ed
emigrazione con Gian Antonio Stella,
Ferdinando Bruni e Manuela Mandracchia: lettura di documenti, lettere, testimonianze e canzoni,
oltre che di testi firmati da De Amicis,
Pascoli e Vilardo; (4
aprile, ore 16.30) Guerra, leva militare, prigionie con il professore Antonio Gibelli affiancato da Omero
Antonutti e Massimo
Venturiello, che leggeranno testi di Verga,
De Amicis, Calamandrei, ma anche lettere e memorie di soldati e
prigionieri. La prima parte del ciclo si conclude il 6 aprile (ore 20.30) con il tema Vie di
comunicazione e vacanze sviluppato da
Ernesto Franco, con lettura da parte di Ugo
Pagliai e Paola Pitagora di brani di vari
autori tra cui Praga, Tomasi di Lampedusa,
Natalia Ginzburg, Villaggio, Tondelli e Vassalli.
Contemporaneo
Dal 12 maggio al 13 giugno si
svolge sul palcoscenico del Teatro della Corte, appositamente
attrezzato con una struttura ad
anfiteatro, la nuova Rassegna di
drammaturgia internazionale
“Sguardi contemporanei”, prodotta dallo Stabile di Genova,
nell’ambito del progetto “Un
palcoscenico tra terra e mare”
promosso dalla Regione Liguria.
La Rassegna, con la quale si
sono già sperimentati quarantadue nuovi testi, numerosi dei
quali sono poi diventati dei veri
e propri spettacoli di produzione, è realizzata con la collaborazione degli istituti di cultura
stranieri operanti in Liguria.
Con cinque repliche ciascuno,
da martedì a sabato (ingresso
libero) vengono proposti cinque
spettacoli su testi mai rappresentati in Italia e provenienti da
Francia (Controtempo), Germania (La guerra di Klamm),
Italia (Officina mia), Spagna (Il
ragazzo dell’ultimo banco) e
Stati Uniti (Coronado). Nella
seconda metà di giugno, l’intera
Rassegna sarà replicata a La
Spezia e a Sanremo.
Vi t t o r i o Fr a n c e s c h i co n l e m a s c h e re d i We r n e r S t r u b ( f o to M a rc Ch ate l a i n )
Con la messa in scena di A corpo morto di Vittorio Franceschi (al
Duse dal 15 aprile al 3 maggio), il Teatro Stabile di Genova conferma il suo interesse a esplorare e a stimolare la nuova drammaturgia
italiana, di cui Franceschi (attore, drammaturgo e regista) è uno dei
più significativi rappresentanti. Strutturato in un prologo, cinque
monologhi e un epilogo, A corpo morto trova nell’impostazione
della regia di Marco Sciaccaluga, che – con la complicità delle
maschere di Werner Strub – fa “indossare” a un unico attore (lo
stesso Franceschi) tutti i personaggi, la via per diventare contemporaneamente una riflessione sul tema della morte e un inno alla
vita. Un solo attore, pertanto, che si trasforma di volta in volta nei
vari personaggi che piangono la morte di una persona cara (un
ragazzo la compagna amata in silenzio, una moglie il marito con cui
ha vissuto tutta la vita, un padre il figlio tossicomane e suicida, una
figlia la madre e un barbone un compagno d’avventura), e diventa
così una sorta di collezionista di vite altrui, protagonista di un estremo esorcismo di quello che Vittorio Franceschi definisce “l’eterno muro invalicabile chiamato mistero, insensatezza, paura, sberleffo, oblio... o se si preferisce il tutto e il nulla”. Scene di Matteo
Soltanto, musiche di Andrea Nicolini e luci di Sandro Sussi.
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2 l L’anima buona del Sezuan
Come posson gli dèi
Oh figlio. Oh aviatore. Che mondo è
Mister Shin tiene sette elefanti.
Cari i miei spettatori, sù, non siate arrabbiati.
restare in un paese
quello che ti aspetta? Nella spazzatura,
Un bel dì ecco lì l’ottavo!
Un finale più bello vi sareste aspettati?
dove i piatti son vuoti?
anche tu, sarai lasciato lì, a razzolare?
Sette selvaggi, l’ottavo domato
Lo so, doveva essere una cineseria..
CANZONE DELL’IMPOTENZA DEGLI DÈI
CANZONE PER IL FIGLIO
CANZONE DELL’OTTAVO ELEFANTE
EPILOGO
Shen-Te verso un mondo nuovo
La parabola di Bertolt Brecht racconta una Cina nostra contemporanea
Il bene e il male:
svolte e sdoppiamenti
Gli dèi scendono sulla terra alla ricerca di un’anima buona nel Sezuan, in
Cina. È come dire: c’era una volta, nel Paese dell’Altrove. Lo “straniamento
cinese” di Brecht è affine a quello della fiaba, quanto meno ne ha la stessa
funzione. La distanza di luogo (la Cina) e la distanza di tempo (il tempo
degli dèi) fanno sì che la scena che si svolge davanti a noi sia tanto distante da farci abbassare le difese che solleviamo quando ci sentiamo implicati troppo direttamente in situazioni problematiche. Si parla d’altri e ci si
sente coinvolti e commossi. (...) Il racconto è incalzante, pieno di svolte e
perciò di aspettative; e ad ogni svolta ci domandiamo “che cosa succederà
adesso?”, e siamo sospinti in avanti con emozione e curiosità. (...) Il premio
in denaro che Shen-Te riceve dagli dèi segna una svolta nella sua vita.
Shen-Te lascia la prostituzione e compra una tabaccheria. Segue una nuova
svolta: il vantaggio si rovescia in tormento. Prima che di clienti, il suo
negozio si riempie di parassiti che pretendono vitto e alloggio. La bontà
premiata svolta in privilegio relativo, ricattato dal bisogno altrui. Risolve
qualcosa una persona buona? Qualcosa sì, ma la sua azione subito cambia
di dimensione, da individuale diventa sociale: “Troppa miseria perché una
persona possa porvi rimedio”, dice Shui-Ta, il “cugino” di Shen-Te, venuto
da fuori per rimediare con spirito imprenditoriale alla rovina in cui Shen-Te
sta precipitando a causa della sua bontà. L’improvvisa apparizione di ShuiG l i d è i ( A l b e r t o G i u s t a , R o b e r t o A l i n g h i e r i , V i t o S a c c i n t o ) i n u n a s c e n a d ’i n s i e m e d e l l o s p e t t a c o l o
F e d e r i c o Va n n i e i l g i o v a n e G i a c o m o C o s t e l l a c o n M a r i a n g e l a M e l a t o
Ta è un’ulteriore svolta, è il travestimento maschile della stessa Shen-Te,
un suo sdoppiamento, la sua altra faccia economica, che trasforma la
tabaccheria in rovina in impresa capitalistica, ramo tabacchi. (...) In genere, le fiabe che narrano le traversie di un personaggio che ha dovuto travestirsi per sopravvivere si chiudono con un disvelamento che è un trionfo.
Nel Sezuan le cose non vanno proprio così. Sì, la Corte degli dèi proclama
Shen-Te “anima buona”, e sentenzia che le durezze da lei compiute nei
panni di Shui-Ta non sono sostanza ma accidente dovuto alle circostanze.
Ma il successo gli dèi lo attribuiscono a sé: la loro missione è riuscita,
hanno trovato quel che cercavano. Quanto all’anima buona, essa rimane
nella solitudine del suo dramma e delle sue contraddizioni irrisolte. (...)
Che fare, allora? A ciascuno di noi la risposta, secondo le circostanze. Con
una certezza, però: che l’intreccio di bene e di male è essenziale alla vita, e
che tutte le pulsioni, i totalitarismi e i fondamentalismi religiosi o ideologici che hanno voluto e vorranno eliminare il male dal mondo per instaurare il sommo bene sono stati e saranno le più feconde sorgenti del male.
Stefano Levi Della Torre
(estratto dal volume edito da “Il Melangolo”)
marzo | giugno 2009
L’anima buona del Sezuan
ha avuto gestazione lunga e
laboriosa. Già a Berlino, all’inizio degli anni Trenta, prima
dell’avvento al potere del nazismo, Bertolt Brecht vi stava
lavorando, avendo preso spunto da un articolo di giornale. La
vicenda si svolgeva in un ambiente occidentale e contemporaneo, il titolo era La merce
amore. Vi si trattava di una
prostituta che apre una tabaccheria in cui, in abiti maschili,
recita la parte di venditore di
sigari, mentre continuava ad
esercitare la sua vecchia professione. La stesura definitiva
accompagna l’autore in Danimarca, Svezia, Finlandia e Stati Uniti, dove si rifugia, dopo
Praga, Vienna, Zurigo, per
sfuggire ogni volta alle armate
hitleriane, in un esilio che lo
costringe a «cambiare più paesi che scarpe».
Il 15 marzo 1939 annota nel
suo Diario: «Qualche giorno fa
ho ritirato fuori il vecchio
abbozzo di L’anima buona
del Sezuan». Il testo ha assunto la forma di una parabola
ambientata in Cina. I protagonisti si chiamano Li Gung e Lao
Go. Brecht lamenta di doversi
lambiccare il cervello di fronte
ai numerosi problemi che la
nuova opera pone. Si sente sci-
volare in inutili arzigogolature
e vuole evitare “i pericoli delle
cineserie”. Più volte si arena.
Tiene fermo però il proposito
di rimanere fedele alla tecnica
del dramma epico.
Finalmente il 20 giugno 1940
appunta: «Nell’insieme finito
L’anima buona del Sezuan».
In realtà questa non è ancora
la redazione ultima. Vi ritorna
sopra e la rivede con puntiglio.
Il 29 giugno 1940 confessa: «Mi
è costato più fatica di qualsiasi
altro dramma in precedenza.
Mi riesce molto difficile distaccarmi da questo lavoro. È un
dramma che dovrebbe essere
perfettamente finito e finito
non lo è». E il giorno dopo
ammette: «È impossibile condurre a termine un dramma
senza un teatro. The proof of
the pudding… Come posso
verificare, per esempio, se la
VI scena dell’Anima buona
può reggere oppure no anche
il riconoscimento da parte di Li
Gung del fondamento (sociale) della malvagità del suo
amico? Soltanto il teatro può
dire l’ultima parola sulle possibili varianti». (…) Una nuova
vera conclusione sembra profilarsi in una pagina del Diario
del 25 gennaio 1941, anche se
poi si insinua il sospetto che
costituisca un esito pur sem-
pre provvisorio, perché Brecht
si ripromette, «dato che il
dramma è troppo lungo», di
«dotarlo anche di qualche
parte in poesia, versi e canzoni». Infine il 20 aprile di quell’anno, lo “scrittore di drammi”
informa di aver spedito, già da
mesi, diverse copie del testo
ad amici in Svizzera, in America e in Svezia. L’anima
buona del Sezuan, dunque,
composto durante la seconda
guerra mondiale, è un frutto
maturo delle “fatiche delle
montagne”, ben prima delle
“fatiche delle pianure”, cioè
del periodo posteriore al ritorno in patria, e ricevette il battesimo della scena il 4 febbraio
1943, allo Schauspielhaus di
Zurigo, regia di Leonard
Steckel, scene di Teo Otto, con
Maria Becker nel ruolo principale e con la grande Therese
Giehse – la prima interprete di
Madre Courage - nella “parte”
della signora Yang. (…)
La costruzione di L’anima
buona del Sezuan adotta la
struttura dimostrativa propria
del teatro epico. Le scene del
dramma, infatti, si susseguono
canonicamente come momenti
a sé stanti. Il dialogo è inframmezzato da canzoni (del fumo,
dell’acquaiolo, degli dèi inermi,
del giorno di San Giammai,
dell’ottavo elefante) che interrompono il fluire dell’azione e
un eventuale coinvolgimento
nel pathos, che pure è già
tenuto a bada a livello di registro linguistico dalla particolare scrittura brechtiana, che
realizza una virtuosistica coincidenza fra intensità emotiva e
sentenziosità oggettiva.
L’acquaiolo Wang, inoltre,
assolve al compito di una sorta
di “io epico” come commentatore degli accadimenti, nei vari
intermezzi che si alternano e
scandiscono la trama. Anche
l’ambientazione in un tribunale
del riconoscimento di Shui-Ta
come mascheratura di ShenTe corrisponde alla stessa
necessità di favorire un atteggiamento critico. (…) Un invito esplicito allo spettatore a
intervenire è formulato nel
finale dell’Anima buona del
Sezuan, che si configura decisamente come una struttura
aperta. Gli dèi sono impotenti
a cambiare le cose, confessano
di non sapersi immischiare in
faccende economiche.
Risultano inermi, nello scontro
con la realtà vengono sconfitti.
(…) Non resta quindi che
appellarsi al pubblico, cioè agli
individui in carne ed ossa.
Brecht qui mette sotto accusa
l’astrattezza della filosofia
idealistica. L’umanitarismo e la
benevolenza separati da una
concreta e incisiva prassi alla
prova dei fatti diventano inservibili. I moduli del teatro epico
tornano allora utili per incitare
a trasformare il mondo e a non
accettarlo per quello che è.
(…) In L’anima buona del
Sezuan, Brecht non rinuncia a
diffondere le sue idee sul
mondo ma nello stesso tempo
propone una parabola la cui
fascinazione fantastica per
molti tratti è irresistibile. E
realizza un mirabile equilibrio
fra teatro di insegnamento e
teatro di divertimento, un
obiettivo a lungo inseguito
nella sua straordinaria carriera
artistica ma non sempre raggiunto così pienamente.
Eugenio Buonaccorsi
(estratto dal saggio pubblicato nel
volume edito da “Il Melangolo”
in occasione dello spettacolo)
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Conversazione con Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
‘‘Come faccio a fare il bene
se i prezzi sono alle stelle?’’
M a r i a n g e l a M e l a t o (Shen-Te) e G i a n l u c a G o b b i
è neppure un abito per tutte
le stagioni. Brecht è portatore
di una competenza teatrale
sempre molto concreta, che
è anche concreta socialmente.
Il suo teatro ha una struttura
doppia, sperimentale ma
fondamentalmente legata
anche alla lezione della grande
tradizione, al centro della
quale c’è sovente (come in
questo caso) un grande
personaggio e poi, intorno,
tanti altri che in modo
autonomo declinano lo stesso
tema. Per cui da Shen-Te /
Shui-Ta sino alla nipote, che
come Shen-Te arriva dalla
campagna e come lei diventa
prostituta, tutti i personaggi
sono tasselli dello stesso
discorso e vanno tutti lavorati
come protagonisti, perché
altrimenti la costruzione e
l’architettura del testo non
stanno più in piedi.
Parliamo un poco di questi
personaggi...
BRUNI Al centro c’è un
M a r i a n g e l a M e l a t o ( S h u i -Ta )
Stufo dei vecchi sistemi?
personaggio speculare, la
“buona” Shen-Te che si
sdoppia nel “cattivo” Shui-Ta,
ma in questa favola fatta di
piccole cose e non di grandi
eventi storici, si capisce subito
che c’è tanto Shui-Ta in
Shen-Te come tanta Shen-Te
in Shui-Ta. Il Bene e il Male
non sono concetti astratti.
Creato Shui-Ta, Shen-Te
rimane prigioniera del suo
doppio, come il dottor Jekyll
in mister Hyde. Ovviamente,
noi stiamo al gioco teatrale
dei due personaggi, ma non
dimentichiamo mai che ShuiTa è Shen-Te. E, come per
noi, anche per il pubblico,
dopo un momento iniziale di
dubbio o di sorpresa, dovrebbe
essere sempre evidente che
Shui-Ta è una parte di Shen-Te.
Una componente del suo
essere che, quando emerge
in primo piano, le costa fatica
e dolore. Il tragico discorso
sull’impossibilità di amare,
sul fatto che bisogna vedere
sempre l’altro come nemico,
fulmina Shen-Te nella scena
dei “trecento bigliettoni”.
La ricordo brevemente:
Shen-Te è travestita da ShuiTa quando l’amato Sun dice:
“È deciso: io la sposo. E lei
mi porta i trecento dollari.
Oppure me li porti tu. O lei.
O te!”; e nella ragazza è come
se si schiantasse qualcosa,
ma non può rivelarsi per non
essere scoperta dalla vedova
Shin. Insieme al finale, è
questo il momento più
drammatico del testo: il
riconoscersi doppio, ma
anche acquistare
consapevolezza che
dividendosi in due ci si fa
sempre male. Qualcosa di
simile si verifica nel finale
di La tempesta, quando
Prospero riconosce in
Calibano una parte di sé.
Una cosa particolarmente
forte è che in questo testo –
in cui tutti lottano per la
sopravvivenza, ma nessuno
muore (L’anima buona non è
Madre Courage) – il senso
del tragico nasce dal fatto
che l’eroe non può più
scegliere tra il Bene e il Male,
ma può solo constatare
la presenza del male come
tragico quotidiano.
DE CAPITANI Ed è questa
condanna a convivere con
il piccolo male quotidiano
che fa di Sezuan una favola
che va verso un pessimismo
esistenzialista.
La favola si conclude
fondamentalmente con un
fallimento, ma anche con
una indicazione: “Un finale
migliore ci vuole, è necessario”. Quale potrebbe essere
questo finale? La costruzione
di un mondo nuovo?
DE CAPITANI Sarebbe una
interpretazione ideologica
che ben poco ha a che fare
con il testo di Brecht, che
pone domande, non ostenta
certezze rivoluzionarie.
Ma come ben sottolinea
nell’Epilogo, una sintesi
possibile non può appartenere
ai personaggi, non esiste un
lieto fine della favola, come
vogliono farci credere gli dèi,
la sintesi è affidata solo agli
spettatori, intesi come
frammento emblematico
della società.
BRUNI E l’arte può essere un
momento importante di questo
cambiamento dell’uomo,
purché si abbia la consapevolezza – come già diceva
Euripide nell’Ippolito – che
sovente “il meglio è nemico
del bene”. L’arte non può
avere mai una funzione
consolatoria.
a cura di Aldo Viganò
(estratto dalla conversazione
pubblicata nel volume edito
in occasione dello spettacolo)
Lo Stabile in tournée
Subito dopo Pasqua, L’anima buona del
Sezuan inizia la sua prima tournée che
porterà lo spettacolo con Mariangela
Melato a Napoli (Teatro Diana) dal 17
aprile al 3 maggio e a Roma (Teatro
Argentina) dal 5 al 17 maggio. In questo
ultimo scorcio di stagione, altre due produzioni dello Stabile di Genova proseguiranno le loro repliche in tournée: la prima
è India di e con Mara Baronti, che conclude a Bolzano (24 marzo) e a Trieste (dal 25
al 29 marzo) il suo lungo tour iniziato nel
settembre scorso; l’altra è La famiglia
dell’antiquario che, con Eros Pagni protagonista, è dapprima a Torino (Teatro
Le Limonaie, dal 17 al 22 marzo) e poi
precede al Teatro Argentina di Roma (dal
24 marzo al 5 aprile) L’anima buona del
Sezuan, per essere infine a Catania
(Teatro Verga) dal 21 aprile al 10 maggio.
...e allora cambia!
www.amorchio.it
Perché mettere in scena
oggi L’anima buona del
Sezuan?
DE CAPITANI Quando abbiamo
iniziato a parlarne con
Mariangela Melato e Carlo
Repetti erano i giorni del
terremoto che proprio nel
Sezuan aveva fatto il maggior
numero di vittime e quella
terribile coincidenza
ci colpì molto.
BRUNI Ma era anche
il tempo in cui la Cina aveva
riconquistato centralità
mondiale grazie al suo
sviluppo economico
che sembrava inarrestabile.
DE CAPITANI Poi un altro
cataclisma economico e
finanziario ha travolto e sta
ancora travolgendo tutto
il mondo, rendendo ancor più
stringente l’attualità
di un testo che Brecht
ha iniziato a scrivere nei
primi anni Trenta, avendo
ben presente il clima della
Grande Depressione.
Che rapporto c’è tra favola e
realtà nel vostro spettacolo?
BRUNI Si tratta di una
relazione strettissima, perché
la precisa descrizione di una
classe di bottegai e piccoli
commercianti decaduti
diventa un punto di vista
perfetto per raccontare il
contrasto e la ricerca di un
difficile equilibrio tra il Bene e
il Male, che investe l’esistenza
di tutti gli esseri umani.
DE CAPITANI Il tema centrale
della favola è già tutto nel
primo incontro di Shen-Te
con gli dèi: questi le danno
la consegna di essere buona
e lei risponde: “Come faccio
a fare il bene, se i prezzi sono
alle stelle?”. Battuta stupenda che si può allargare all’infinito. Il problema sociale non
si risolve con la carità: chi è
buono e aiuta gli altri corre
il rischio di essere divorato.
È questo che ci dice Brecht
parlando di una crisi che
assomiglia terribilmente a
quella che stiamo vivendo.
La consapevolezza
del presente ha condizionato
il vostro modo di leggere
L’anima buona del Sezuan?
BRUNI L’anima buona del
Sezuan non è un incunabolo
che va decodificato, ma non
Il nuovo modo
di fare informazione
Quotidiano
ON-LINE
di cultura
e tempo libero
in Liguria
marzo | giugno 2009
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4 l L’anima buona del Sezuan
Grandi interpreti per celebri spettacoli
Shen-Te e Shui-Ta, doppio personaggio sui palcoscenici di Zurigo, Berlino, Milano, Roma e Parigi
La prima rappresentazione di
L’anima buona del Sezuan
(Der gute Mensch von Sezuan)
è avvenuta il 4 febbraio 1943
allo Shauspielhaus di Zurich
con la regia di Leonard Steckel
e con Maria Becker nel ruolo
della protagonista. Finita la
guerra e tornato in Germania,
Bertolt Brecht non mise mai in
scena L’anima buona del Sezuan al Berliner Ensemble. La
pièce fu rappresentata per la
prima volta in Germania solo
nel 1956, dopo la sua morte,
dapprima a Rostock e l’anno
seguente al Berliner. In entrambi i casi la protagonista fu
Käthe Reichel e la regia era firmata da Benno Besson, il quale
curò la messa in scena di
L’anima buona anche alla Volksbühne nel 1970 (con Ursula
Karusseit) e al Teatro di Roma
nel 1973, con Valeria Moriconi.
Celebri, non solo in Italia, le
due versioni di Giorgio Strehler: la prima nel 1958 con
Valentina Fortunato e la seconda nel 1982 con Andrea Jonasson. In Inghilterra, è rimasta
nel ricordo collettivo la performance nel doppio ruolo di
Shen-Te e Shui-Ta, dapprima di
Peggy Ashcroft (Royal Court
Theatre, 1956) e poi di Fiona
Shaw (National Theatre, 1989);
mentre in Francia ha avuto un
buon successo la messa in scena televisiva del 1991, interpretata da Sandrine Bonnaire.
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1 La statua di Bertolt Brecht davanti al
Berliner Ensemble
2 Ursula Karusseit nello spettacolo di Besson
al Volksbüne di Berlino (1970)
3 Valentina Fortunato diretta da Strehler
nel 1958
4 Käthe Reichel diretta da Besson nel 1956
5 Peggy Ashcroft diretta da George Devine
al Royal Court (1956)
6 Brecht e Paul Dessau
7 Brecht scherza con Helene Weigel (1945)
8 Valeria Moriconi nello spettacolo di Besson
a Roma (1973)
9 Andrea Jonasson diretta da Strehler nel 1982
8
7
9
Datasiel al servizio del
Sistema Liguria
Soluzioni informatiche
innovative per il cittadino.
collegati al territorio
[Datasiel e Regione Liguria]
collegati al futuro
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marzo | giugno 2009
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A corpo morto l 5
N ov i t à i t a l i a n a d i Vi t to r i o Fr a n c e s c h i i n s c e n a a l D u s e d a l 1 5 a p r i l e a l 3 m a g g i o c o n l a r e g i a d i M a r c o S c i a c c a l u g a
IL CANTASTORIE DELL’ULTIMO MISTERO
V i t t o r i o
F r a n c e s c h i
uno spettacolo su un tema così
“forte”? Si è posto questo problema?
Il pubblico non vede l’ora di
essere coinvolto in riflessioni
che nel quotidiano non ci vengono in mente e non ci vengono
proposte. Lo spettatore si aspetta che il teatro parli dei grandi
temi, li desidera, e poi se c’è un
morto sulla scena è contento
perché pensa: «Non sono io».
Le emozioni e le riflessioni qui,
però, sono suscitate soprattutto
dalle parole.
Quello che ho messo in questo
spettacolo un po’ mi riguarda,
perché fa parte del mio vissuto
oppure di esperienze di altri
che ho visto o condiviso, o che
mi sono state raccontate. Io
credo che non ci siano persone
che non abbiano avuto in passato o non stiano vivendo adesso esperienze analoghe a quelle dei personaggi dello spettacolo. Ma il punto non è quello
di cui si parla: le tematiche
vanno tutte bene, il problema è
come vengono trattate, “come”
si dice il “cosa”. Il teatro ha
bisogno di parole alte, si deve
ridare qualità di pensiero e di
parole al teatro di prosa, io
credo che ne abbia necessità e
che solo questo lo giustifichi
ancora. Ogni volta che il sipario
si apre, la speranza dello spettatore è che si accenda la fiammella, che accada qualcosa di
meraviglioso e di unico. E io
penso di avere il dovere etico e
civile di operare perché questo
succeda, dando il meglio di me.
E poi, oggi gli eroi non sono più
sul palco, ma in sala: sono gli
spettatori. Perché andare a
teatro è faticoso e impegnativo
(costi e spostamenti) e succede talvolta di assistere a spettacoli di scarsa qualità. Perché?
Quante occasioni perdute! Bisogna cambiare. Gli eroi vanno
premiati, non puniti.
Voi
V
oi pensa
pensate
ate
alla
ll poltrona
poltr
l ona
lt
o
e al caffè.
caffè.
Al giornale
giornaale
pensiamo noi.
noi
( f o to G i a n n i S c h i cc h i )
Prima di occuparsi delle persone
nella loro dimensione individuale, lei si è occupato di tematiche
sociali e politiche, ha fatto teatro
“impegnato”.
Sì, ed era molto più semplice: o
bianco o nero. Credo che oggi
sia giusto occuparsi dell’uomo,
delle persone. Se si lasciano da
parte le ideologie, quello che
resta sono gli essere umani. Da
tutte le parti ci sono persone
meravigliose e carogne. Io
cerco di rivolgermi a quelle che
vogliono pensare e capire.
Questo è molto più complicato,
perché non ci sono alibi. Prima
sognavamo di poter cambiare il
mondo, ma adesso che questa
speranza non c’è più rimangono gli individui, l’uomo e la
donna. Io non spero più tanto
nella possibilità di un cambiamento, il bicchiere lo vedo più
vuoto che mezzo vuoto ma,
nonostante questo, ho affidato
al personaggio più disperato di
A corpo morto, la figlia, alcune
battute che esprimono quello
che penso, e cioè che, comunque, non bisogna «mai mollare». Alla fine, dal mio pessimismo totale, cerco di “accendere” un’indicazione di luce: non
abbandonare mai la lotta per la
ricerca del bene.
È il “compito” che affida al teatro?
A volte penso a quei monaci
benedettini che, chiusi nei monasteri, copiavano i testi classici. Senza di loro noi oggi non
potremmo leggere quelle opere. Io credo che ci voglia anche
adesso qualcuno che trasmetta
un’idea di senso e di continuità
del pensiero e del sapere, ed è
un po’ quello che cerco di fare,
in una fase storica in cui si è
rappresentato tutto e la nuova
drammaturgia è spesso drammaturgia di urla e di decibel. Se
c’è una coerenza in tutto quello che ho fatto è che non ho
mai pensato di fare teatro di
evasione, ho sempre pensato a
un teatro d’arte e alla ricerca di
un senso.
Lei è attore, drammaturgo, regista
teatrale: in quale di questi ruoli si
riconosce di più?
Io sono in primo luogo un attore, se non altro perché questo
è il mestiere che mi dà da vivere: un attore che scrive. La regia non è mai stato il mio obiettivo, anche se ne ho fatte parecchie; mentre l’attività di
attore e quella di autore sono
andate di pari passo, compenetrandosi e arricchendosi a
vicenda.
Lei insegna anche recitazione alla
Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna: com’è
questa esperienza?
Insegno ai ragazzi quello che
ho imparato e imparo da loro
molte cose. Stare con i giovani
è bellissimo, però osservo un
processo ormai costante negli
ultimi dieci-quindici anni: i
ragazzi mi sembrano sempre
più carenti di quelli che si chiamano i “fondamentali”. Sono
certamente più emancipati di
come eravamo noi, ad esempio
dal punto di vista sessuale. Ma
nello stesso tempo sono molto
più smarriti, più insicuri, hanno
bisogno di sentirsi dire tutto.
Sono formidabili sulla tecnologia ma sono a digiuno di teatro,
e se hanno visto qualche spettacolo il più delle volte è con i
comici della televisione. È vero
che quando ero giovane io c’era
l’opportunità di assistere a
molti spettacoli teatrali di alto
livello, che davano davvero
tanto, mentre adesso è più raro
che questo avvenga, ma questi
ragazzi mi sembrano anche
poco “educati” alla curiosità e,
quindi, a saper cogliere le occasioni che pure ci sono, ed è un
peccato: bisogna inculcargli
anche questo “dovere”. Ricordo che nel ’57 venne in tournée
in Italia la Compagnia JeanLouis Barrault - Madeleine Renaud con Il misantropo di Molière. Purtroppo non toccavano
Bologna. Allora io e un gruppo
di amici ci organizzammo e
andammo a vederli a Firenze,
al Teatro della Pergola. A distanza di oltre 50 anni ho ancora vivissimo il ricordo di quell’emozione straordinaria, che
non avrei mai provato se non
avessi preso un treno.
a cura di Annamaria Coluccia
CHI È WERNER STRUB
Werner Strub racconta di aver scoperto il
mondo delle maschere per il teatro attraverso l’opera di Amleto Sartori, scultore e
poeta, artefice della riscoperta della grande
tradizione della Commedia dell’Arte nel XX
secolo, dall’Arlecchino servitore di due
padroni di Giorgio Strehler, con Marcello
Moretti, a Jean-Louis Barrault, da Eduardo a
Lecocq. Nato a Basilea e trasferitosi a
Ginevra all’età di vent’anni, Strub, dopo il
diploma di traduttore e brevi studi di lettere, comincia a lavorare nei teatri ginevrini
come scenografo costruttore. Nella seconda
metà degli anni Sessanta, inizia la sua
lunga collaborazione con Benno Besson e
lo scenografo Horst Sagert, con i quali lavora a Berlino per Il drago di Schwartz e per
Edipo tiranno di Sofocle. Nel 1972, su invito di Sagert, è per la prima volta responsabile della ideazione e costruzione delle
maschere per uno spettacolo del Deutsches
Theater su testo di Lope de Vega (Re
Bamba). Negli anni Settanta e Ottanta,
Strub lavora anche con Roger Planchon,
Maurice Béjart, Matthias Langhoff, Giorgio
Strehler, ma soprattutto ritrova Benno
Besson, per il quale realizza le maschere
di numerosi spettacoli, tra cui Edipo tiranno (in Italia), Santa Giovanna dei macelli
(in Svezia), L’augellin belverde di Gozzi,
Hamlet di Shakespeare, Medico suo malgrado di Molière, Un uomo è un uomo di
Brecht (alla Comédie de Genève). Riconosciuto come uno dei più importanti
autori e costruttori di maschere del teatro occidentale, Strub collabora negli
anni Novanta con numerosi teatri d’opera e di prosa, stabilendo soprattutto un
nuovo, fruttuoso sodalizio con l’attore e
regista Jean Liermier, con il quale aveva
iniziato a collaborare nella seconda metà
degli anni Novanta, realizzando le
maschere di Arlecchino dirozzato dall’amore di Marivaux e di Pentesilea di Kleist.
GRAFSECXIX-O
GR
AFSECXIX-O
Vittorio Franceschi sarà unico
protagonista di A corpo morto,
un testo di cui è anche autore e
che sarà portato in scena dallo
Stabile di Genova con la regia di
Marco Sciaccaluga. Attore, autore e regista teatrale, Franceschi ha alle spalle una lunga e
intensa carriera, iniziata negli
anni ’60 con il teatro cabaret,
passata attraverso l’esperienza
del teatro “alternativo” con l’Associazione Nuova Scena, di cui
nel 1968 fu uno dei fondatori
con Dario Fo e Franca Rame, e
proseguita poi attraverso molteplici esperienze. Ha già lavorato
in più occasioni con il Teatro
Stabile di Genova: l’ultima volta
nel 2007 come attore in Svet. La
luce risplende nelle tenebre, di Lev
Tolstoj, ancora con la regia di
Marco Sciaccaluga.
In A corpo morto lei interpreta
cinque personaggi diversi, ciascuno dei quali si rivolge ad una persona cara appena scomparsa per
parlare, in realtà, di sé e della
vita... Che cosa l’ha spinta a scrivere questo testo?
Non lo so nemmeno io, non si sa
mai bene. In questi ultimi anni
ho rivolto l’attenzione a temi
non solo sociali e civili, ho cercato di guardare anche un po’
più in là. Con Il sorriso di
Daphne avevo affrontato il
tema del fine vita e dell’eutanasia, qui, invece, mi sono interessato di come i diversi personaggi reagiscono di fronte alla
morte, in questo caso la morte
di una persona con cui avevano
un legame. Nei cinque monologhi ciascun personaggio parlando della propria vita ci tira dentro un po’ della mia e Sciaccaluga ha avuto l’idea pazza di
far interpretare a me tutti i personaggi, indossando per ciascuno una maschera diversa. Fra
un monologo e l’altro, quindi,
cambierò maschera e sarò sempre io a interpretare anche il
coro al quale nel testo ho affidato la stessa funzione che aveva
nella tragedia greca, quella di
dare voce al pensiero dell’autore. Trovo che il coro sia una foma espressiva straordinaria. Me
ne sono innamorato facendo
l’Edipo di Sofocle con Benno
Besson nel 1980, e non è un
caso che le maschere che indosserò siano opera dello stesso
scultore, Werner Strub, che
creò allora quelle dell’Edipo.
Quali pensa che possano essere le
reazioni del pubblico di fronte ad
Porta
P
orta a porta
porta
Il nostr
nostro
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6 l A corpo morto
Una redenzione quotidiana
«FRANCHEZZA PRECISA E MITE, MAI GRIDATA, DI UN TESTO INSIEME CLASSICO E INQUIETANTE»
Il punto, nel teatro di Vittorio
Franceschi, è una franchezza precisa e mite, mai gridata e invadente eppure implacabile nel narrare
storie e ossessioni che superano le
diversità e i contrasti e guidano
progressivamente alla medietà e
alla compostezza, cioè il finale
autentico. Pressapoco così LeviStrauss definiva la tragedia, e c’è
davvero del tragico in questo A
corpo morto, il tragico più antico quello di Tespi l’iniziatore dei concorsi - nella coralità che genera la
voce singola che poi nuovamente
rientra e si ricompone nel plurale,
negli stasimi del coro. C’è la necessaria unità di azione, tempo e
luogo. E c’è l’assoluta, luminosa
predominanza della parola. Vittorio Franceschi sa bene come calibrare le parole e come flettere il
tono, ora smorzato timido e dimesso ora alto e denso nel continuo
aderire delle voci al ritmo discontinuo dell’immaginazione, tono spesso energicamente lirico. Il suo rimando alla tragedia è forte e non
solo sul piano formale, anche se
dell’antica tragedia è volutamente
metamorfizzata, non disertata, la
dimensione mitica; qui tutto è
materia senza illusione, senza speranza di riscatto da parte degli dèi.
Il ragazzo, la signora di una certa
età, il signore elegante sulla cinquantina, la giovane donna, e un
barbone col suo sacchetto di plastica, attori e anche parte del coro,
non fanno nulla sotto le luci di
scena appena accese, seduti in uno
spazio neutro, grigio. Nessuna di-
Vittorio Franceschi
sperazione, l’urlo di dolore non c’è,
tutti hanno l’espressione incauta e
un po’ perplessa di quando nessuno
ci guarda. Le loro storie, pensi
subito e non sbagli, saranno delle
storie comuni perché quei personaggi sono normali all’apparenza e
anche il barbone alla fine dei conti
è cosa di tutti i giorni. Storie normali oltre le differenze scontate, in
accordo con l’età e i vestiti che portano i protagonisti, secondo copione, secondo l’ordito della vita e gli
inganni e i tranelli che ha teso fino
a qui, i crolli o le demolizioni. Già
adesso che sono seduti è diversa la
loro posizione sulla sedia, chi ha le
gambe accavallate e chi no, le
braccia conserte oppure abbandonate, e sai che ognuno avrà il suo
modo di tirarsi indietro nella piccola rincorsa per alzarsi in piedi, e il
modo di tenere le spalle sarà differente quando verrà il momento di
fare qualche passo. Però vedi un
morto solo, uguale e identico a sé,
un solo lenzuolo bianco a coprirlo,
un unico lettino in quella stanza di
obitorio, è sempre lo stesso il corpo
morto. In questo copione le storie
si sfiorano con una loro casualità
come accade spesso nel teatro di
Vittorio Franceschi, e tutte insieme ci afferrano con forza, chiunque siamo. Ci sono cinque paradigmi e cinque epoche diverse della
vita, esperienze di sé ancorate al
nostro tempo e aderenti all’attualità. Prima l’adolescenza, incompiutezza della persona, senso di
inconsistenza che genera un linguaggio iperrealista e un immaginario splatter: “avevi le gambe più
belle del mondo - dice il ragazzo a
Steffy, l’amica morta in motorino e adesso guarda qua. Sull’asfalto
c’è ancora la tua pelle, tutta la strisciata, siamo andati a vedere con la
pila. Non hanno mica pulito”. La
seconda tappa è la maturità, non
vecchiaia e tuttavia età di privazioni e detrimento. Nella maturità
capita la perdita dei testimoni
della nostra inesperienza, i compagni di strada, e la morte di uno di
loro è l’occasione del riepilogo
sommario che precede la sconfitta
dei ricordi e una certa spudorata
libertà. La maturità è anche l’età
del rifiuto e del cinismo, a me non
me la raccontano; un padre ha
valicato gli idealismi dell’adolescenza e li ha respinti e negati perfino nel figlio suicida, che si è
impiccato alle belle travi a vista.
Quel figlio impiccato si specchia
nel dolore di un’altra vittima, una
figlia che piange accanto alla
madre morta la sua personale via
crucis e il disgusto per il padre
che ha abusato di lei quando
aveva quattordici anni. Invoca la
nostalgia della madre, strangolata
dal marito, e delle bambole di
quand’era bambina, la vita breve e
già in macerie, e il suo lamento
estremo è quello che afferma la
cocciuta volontà di farcela, tanto
più eroica quanto più destinata al
sicuro fallimento.
Tutti i monologhi sono dialoghi con
il corpo morto, che secondo
Vittorio Franceschi è quello di chi
non sa o non può metabolizzare
l’orrore dell’umanità, mentre
sopravvive chi si adegua alla vergogna o all’indecenza dell’esistere. La
morte è il concretizzarsi della
redenzione, inesauribile e quotidiana dissipatio humani generis
che permette di dileguarsi in
punta di piedi e tornare alla forma
semplice e senza malizia privilegio
della natura non umana.
Le varie forme dei legami umani
che Vittorio Franceschi ha raccontato nelle prime quattro storie trovano rimedio nella figura del clochard, che per definizione i rapporti li ha perduti tutti tranne quello
col sacchetto pieno di cose e con la
paura costante che glielo portino
via. La figura del barbone è forse la
più bella in questo A corpo morto.
Di sicuro è la più inquietante.
Daniele Del Giudice
“Hellzapoppin” nel Foyer della Corte
Nei mesi di aprile e maggio proseguono nel foyer del Teatro della Corte gli appuntamenti
di “Hellzapoppin” che anche questa stagione (la nona consecutiva) hanno fatto registrare un’ottima partecipazione del pubblico per tutte le numerose manifestazioni e incontri organizzati direttamente dal Teatro Stabile o in collaborazione con istituzioni e associazioni, quali la Provincia di Genova, l’Università di Genova, l’Associazione per il Teatro
Stabile di Genova, la Fondazione Novaro e l’Associazione culturale “Incantevole aprile”.
C A L E N DA R I O D E G L I U LT I M I A P P U N TA M E N T I
Giovedì 16 aprile – ore 17
Incontro con Glauco Mauri e Roberto Sturno
in collaborazione con la COOP Liguria
Venerdì 17 aprile – ore 17
“Creuse e ladeiras”
Jorge Amado e i cantastorie della Liguria
a cura dell’Associazione Culturale “L’incantevole aprile”
Mercoledì 29 aprile – ore 17
“Cappotto a Giove. Carosello per Plauto in Re Minore”
Presentazione del libro di Ludovica Radif, edizioni Tilgher
con l’Autrice, interviene Roberto Trovato
Giovedì 7 maggio – ore 17
“Riflessione sull’arte di Ingmar Bergman: il senso della vita”
Presentazione del libro di Alberto Corsani, edizioni Claudiana
interviene l’Autore
I N G R E S S O
L I B E R O
palcoscenico
e foyer
numero 27 • marzo - giugno 2009
Edizioni Teatro Stabile di Genova
piazza Borgo Pila, 42 • 16129 Genova
www. teatrostabilegenova.it
Presidente Prof. Eugenio Pallestrini
Direttore Carlo Repetti, condirettore Marco Sciaccaluga
Direttore responsabile Aldo Viganò
Collaborazione Annamaria Coluccia
Segretaria di redazione Monica Speziotto
Autorizzazione del Tribunale di Genova
n° 34 del 17/11/2000
Ministero Beni e Attività Culturali
soci fondatori
COMUNE DI GENOVA
PROVINCIA DI GENOVA
REGIONE LIGURIA
sostenitore
con il contributo di
Estratto dalla prefazione al volume
pubblicato da “Il Melangolo”
Progetto grafico:
art: Bruna Arena, Genova (01209)
Stampa: Scuola Tipografica Sorriso Francescano, Genova
spettacoli ospiti
Cinéma!
tori di varie provenienze etniche. Sul filo del
romanzo di Swift, l’incontro con l’Altro come
forma di arricchimento. FUORI ABBONAMENTO
di Beppe Navello
Duse, 18 – 22 marzo
regia di Beppe Navello
Il mondo delle cose
senza nome
tutta l’esistenza umana: gioventù e vecchiaia, bene e male, ragione e sentimento.
Con Glauco Mauri e Roberto Sturno.
Ispirato a sequenze di Jean Renoir e di film d’epoca italiani: un’amorevole rivisitazione delle
modalità narrative del cinema muto. Protagonisti cinque giovani attori italiani e francesi.
di Daniela Rossi
Duse, 6 – 8 maggio
regia di Nello Cioffi
Angels in America
Musica, prosa e danza per raccontare la vera
storia di un bambino nato sordo e la lunga
lotta di coloro che l’amano per consentirgli
comunque di conquistare l’uso del linguaggio.
di Davide Enia
Duse, 24 – 29 marzo
regia di Davide Enia
FUORI ABBONAMENTO
Acoustic Night 9
Saga provocatoria e commovente dell’America oggi. La prima parte di un’opera che
affronta di petto il problema delle identità
sessuali, razziali, religiose e culturali. Uno
spettacolo dell’Elfo.
Due spettacoli separati (Antonuccio si masturba e Piccoli gesti inutili che salvano la vita)
per raccontare la vita di tre adolescenti a Palermo. Due monologhi con musica “dal vivo”.
Rendez-vous
di Beppe Gambetta
Corte, 7 – 9 maggio
con Beppe Gambetta
di Marco Aime e Carla Peirolero
Corte, 28 – 30 aprile
regia di Enrico Campanati e Carla Peirolero
Al termine del progetto i risultati ottenuti dalle famiglie saranno comunicati anche agli altri soci Coop che
potranno seguire il loro esempio sulla strada del
RISPARMIO ENERGETICO.
Per conoscere i dettagli del progetto e SCOPRIRE I CONSIGLI
DELLE 1.500 FAMIGLIE visita il sito
Campagna promossa da Coop
con il patrocinio di:
MINISTERO DELL’AMBIENTE E
DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE
di Johann Wolfgang Goethe
Corte, 14 – 19 aprile
regia di Glauco Mauri
marzo | giugno 2009
Nel corso di un anno le famiglie, scelte tra i soci
Coop, potranno informarsi e dialogare sui temi
dell’energia e del Protocollo di Kyoto con
l’obiettivo di cambiare i propri stili di vita e mettere in atto BUONE PRATICHE dal punto di vista
ambientale.
www.risparmialeenergie.e-coop.it
Sulla rotta di Gulliver
Faust
Un’opera poderosa, vera pietra miliare della
cultura occidentale, nella quale è sintetizzata
10 novembre 2008 - 31 ottobre 2009
Attraverso il progetto “Risparmia le energie”
Coop rilancia il proprio impegno nella LOTTA AL
CAMBIAMENTO CLIMATICO e coinvolge 1.500
famiglie in un percorso di formazione e monitoraggio sui temi del risparmio energetico.
di Tony Kushner
Corte, 21 – 26 aprile
regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani
I capitoli dell’infanzia
Campagna
per le buone pratiche
sul risparmio energetico.
MINISTERO DELLO
SVILUPPO ECONOMICO
con il supporto tecnico di:
Intreccio di culture: attori, musicisti e danza-
La nona edizione consecutiva dello spettacolo musicale di Beppe Gambetta è anche l’occasione per rincontrarlo in sperimentazioni
sempre nuove, circondato da artisti e amici
internazionali.
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l 7
«FARE GLI ITALIANI»
GRANDI PAROLE ALLA RICERCA DI UN’IDENTITÀ NAZIONALE, ALLA CORTE DAL 23 MARZO AL 6 APRILE
Il Teatro Stabile di Genova
organizza tra il 23 marzo e il 6
aprile un ciclo di cinque incontri con letture dedicato al tema
“Fare gli italiani” – Grandi
Parole alla ricerca di un’identità nazionale.
La scelta di dedicare l’ormai
tradizionale ciclo delle Grandi
Parole a una prima tappa di un
viaggio nella storia antropologica degli italiani non nasce
solo nella prospettiva della
prossima ricorrenza dei centocinquanta anni di unità nazionale, ma tende soprattutto a
proporsi come una riflessione
contemporanea sul principio
d’identità di un popolo da sempre alla ricerca di se stesso.
Il titolo del ciclo è tratto da una
sentenza attribuita a Massimo
D’Azeglio e diventata ormai proverbiale (“L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani”), tanto da
aver accompagnato – sovente
con implicite valutazioni negative – la storia di un secolo e
mezzo, nel corso del quale molte cose sono accadute e moltissime realtà sono cambiate.
In modo problematico e informativo, lontano da ogni atteggiamento pregiudiziale, il ciclo
di questa nuova edizione delle
Grandi Parole – “Fare gli
italiani” – si propone appunto
d’indagare le vie lungo le quali
l’identità nazionale ha trovato
un riflesso nella letteratura o
nella vita quotidiana e si è
andata a definire nel corso
della storia dal 1861 a oggi. E
lo fa ancora una volta sulla
base di uno scelto apparato
antologico di testi (romanzi,
racconti, poesie, memoriali,
lettere, ecc.), privilegiando ovviamente la specificità del teatro, nella convinzione che far
risuonare da un palcoscenico
le parole della letteratura e
della storia, affidate ogni sera
alla voce di due attori diversi e
all’introduzione qualificata e
qualificante di un conduttore,
possa rappresentare uno specifico e fruttuoso contributo al
dialogo e alla conoscenza.
Nascono così questi primi cinque incontri (tre di lunedì sera
e due di sabato pomeriggio:
altri ne seguiranno poi nei
prossimi due anni, sino al
2011), nel corso dei quali sarà
via via posto l’accento su un
tema specifico della storia
d’Italia, affrontato ciascuno in
rapporto al suo peculiare concorso alla definizione di un’identità nazionale, con un qualificato esponente della cultura
a fare da conduttore e due attori di primo piano del teatro
italiano a dar voce a un’antologia di testi appositamente scelti.
Al Teatro della Corte l’ingresso
è libero sino a esaurimento dei
posti. A richiesta, saranno rilasciati attestati di frequenza e
di partecipazione agli insegnanti e agli studenti.
si ringrazia:
LUNEDÌ 23 MARZO ORE 20.30
SABATO 28 MARZO ORE 16.30
LUNEDÌ 30 MARZO ORE 20.30
Progetti d’identità
Scuola, Lingua, Cultura Emigranti
ed Emigrazione
letture di Eros Pagni
Elisabetta Pozzi
introduce Giovanni De Luna
letture di Laura Marinoni
Tullio Solenghi
introduce Tullio De Mauro
letture di Ferdinando Bruni
Manuela Mandracchia
introduce Gian Antonio Stella
Introdotto da un brano di I miei ricordi di
Massimo D’Azeglio, il primo incontro con il
tema “Fare gli italiani” è organizzato come
un viaggio attraverso i vari Progetti d’identità che si sono succeduti nel corso
della storia dell’unità d’Italia dallo Stato
monarchico-liberale alla Repubblica costituzionale. Letture da Lussu, Mussolini,
Pavese, Carlo Levi, Bianciardi, Pasolini, De
Cataldo e Bobbio. Introduce Giovanni De
Luna, professore di storia contemporanea
presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Torino, autore di alcune fortunate trasmissioni radiofoniche e
televisive, scrive su «La Stampa» e
«Tuttolibri», è nella direzione di «Passato e
Presente». Ha pubblicato tra l’altro Donne
in oggetto. L’antifascismo nella società italiana (1995), La passione e la ragione. Il
mestiere dello storico contemporaneo
(2004), Storia del Partito d’Azione (2006),
L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, 3 volumi (2005-2006).
Con il conseguimento dell’unità d’Italia, si
è posto immediatamente anche il problema della unificazione linguistica di un
popolo da secoli diviso dai dialetti e dall’analfabetismo. In questa opera per “fare gli
italiani” hanno avuto un ruolo molto importante la scuola e la cultura, anche se, a
volte, con il rischio di forzate omologazioni. Di questo viaggio, dalla separazione
linguistica alla omologazione televisiva,
parla Tullio De Mauro, insigne linguista di
risonanza internazionale, già docente universitario e Ministro della pubblica istruzione nel secondo governo Amato. Il professore Tullio De Mauro è autore di molti
libri – basti citare Storia linguistica dell’Unità d’Italia (1993), La cultura degli italiani (2004), oltre che i suoi dizionari e i
numerosi scritti sull’organizzazione della
scuola – e di molte trasmissioni radiofoniche e televisive. Nel corso dell’incontro
saranno letti testi di Buttitta, Pavese,
Calamandrei, Vittorini, Calvino e Eco.
La storia dell’emigrazione italiana ha
accompagnato quasi interamente quella
dell’unificazione nazionale: dall’attraversamento dell’oceano Atlantico nella terza
classe di piroscafi con destinazione le
Americhe ai viaggi della speranza verso il
nord dell’Italia e dell’Europa. Di come tutto
questo abbia concorso a creare un’identità
nazionale, in cui sovente l’amor di patria si
mescola con la nostalgia, ne parla Gian
Antonio Stella, secondo un percorso
molto personale che mescola documenti
storici con lettere e canzoni, ma accoglie al
proprio interno anche la citazione di film
(Il gaucho di Dino Risi) e brani di opere letterarie di Edmondo De Amicis (Sull’oceano), Giovanni Pascoli (Italy) e Stefano
Vilardo (Tutti dicono Germania Germania).
Inviato ed editorialista del Corriere della
Sera, Stella è autore di best-seller quali La
casta e La deriva (scritti con Sergio Rizzo),
ma anche di opere specifiche sull’emigrazione, quali L’orda (2003) e Odissee (2004).
Valeria, l’architetto dei sogni
Il 20 novembre scorso Valeria Manari ci ha lasciato orfani della
sua amicizia, cultura, intelligenza e competenza professionale.
Aveva solo 48 anni. Era moglie di Marco Sciaccaluga e madre di
Carlo, Giovanni e Caterina. Valeria ha incominciato con grandi
maestri quali Lele Luzzati, Hayden Griffin e Gianni Polidori, che
l’ha voluta appena ventiduenne a insegnare al Byron; ha insegnato poi anche all’Accademia Ligustica, dove l’hanno chiamata
Emilia Marasco e Raimondo Sirotti. A partire dal 1985, il suo
lavoro si è svolto al Teatro Stabile: ricordo bene, il suo primo
spettacolo da noi. Eravamo in tre: Marco, io, scene e costumi di
Valeria, per il Borges. Da allora ha costruito la sua carriera allo
Stabile di Genova, diventando uno dei più importanti e apprezzati scenografi italiani, riuscendo a fare quello che si vede fare dai
grandi artisti: inventava gli spazi nei quali dare vita alle parole
degli autori, ai sogni dei registi e alla quotidiana pratica degli
attori; ma sapeva unire questo suo lavoro creativo che faceva nel
suo studio, in casa sua, spesso insieme a Marco, alla sua grande
capacità artigianale: amava tagliare e cucire gli abiti con le sarte,
dipingere le scene con i pittori, lavorare con gli attrezzisti, i macchinisti, sapendo che il suo lavoro avrebbe così servito al meglio
la difficile arte degli attori per condividere con il pubblico le emozioni dello spettacolo. Per questo, Valeria è stata così amata da
tutto il mondo del palcoscenico del nostro Teatro, dalla nostra
compagnia, dal teatro italiano tutto. Lo Stabile le ha dato fiducia
e lei lo ha ripagato con grandi risultati: basti ricordare, negli ultimi anni, L’illusione comica e Un nemico del popolo, la splendida scena di Morte di un commesso viaggiatore con quelle porte
aperte sul mondo e anche sull’aldilà oppure L’agente segreto e Re
Lear. Valeria Manari è stata davvero l’architetto delle case per i
nostri sogni. Per questo le siamo davvero riconoscenti.
Carlo Repetti
Eventi oltremodo
irripetibili
SABATO 4 APRILE ORE 16.30
LUNEDÌ 6 APRILE ORE 20.30
Guerre, Leva
militare, Prigionie
Vie di comunicazione
e Vacanze
letture di Omero Antonutti
Massimo Venturiello
introduce Antonio Gibelli
letture di Ugo Pagliai
Paola Pitagora
introduce Ernesto Franco
C’è stato un tempo in cui la leva militare
obbligatoria durava cinque anni e si proponeva anche l’integrazione di un popolo;
poi sono venute le guerre del Novecento,
da quelle coloniali alle due mondiali, con
la loro eredità d’orrore e di sofferenze, a
volte accompagnate da lunghi periodi di
prigionia. In che modo tutto questo ha
concorso a definire un’identità nazionale e,
quindi, a “fare gli italiani”? Con l’ausilio di
brani tratti da Giovanni Verga e Carlo
Emilio Gadda, da Edmondo De Amicis e
Piero Calamandrei, ma facendo anche
ampio ricorso a memoriali (Valori, Capacci,
Mazzantini, Levi Caviglione, Artom), lettere, testimonianze di soldati, prigionieri e
gente comune, parla del tema Antonio
Gibelli, professore di storia contemporanea all’Università di Genova e autore di
una vasta bibliografia comprendente, tra
l’altro, titoli quali, L’officina della guerra. La
Grande Guerra e le trasformazioni del
mondo mentale (1991), Il popolo bambino
(2005), La grande guerra degli italiani
1915-1918 (2007).
In che modo e in che misura la trasformazione delle vie di comunicazione (dalla
ferrovia alle nuove strade e autostrade)
hanno concorso in questo ultimo secolo e
mezzo a “fare gli italiani”? E le vacanze,
dalla villeggiatura estiva alle ferie d’agosto
in cui sparisce ogni distinzione di classe?
Citando l’arrivo a Milano di Totò e Peppino
e partendo dall’utopia fantascientifica di
Salgàri, ne parla Ernesto Franco, direttore
editoriale della casa editrice Einaudi,
appoggiando il suo dire su una ricca antologia letteraria che comprende brani di
Emilio Praga, Corrado Govoni, Paolo Villaggio, Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
Natalia Ginzburg, Pier Vittorio Tondelli e
Sebastiano Vassalli. Ernesto Franco collabora a diversi giornali e riviste ed è autore
di saggi sulla cultura ispano-americana, in
particolare su Julio Cortazar, Juan Rulfo,
Octavio Paz, Jorge Luis Borges, Alvaro
Mutis, Mario Vargas Llosa. È autore di
numerosi libri, tra i quali Isolario (1994),
Vita senza fine (1999), Nostro mostro Moby
Dick (2003), Usodomare (2007).
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marzo | giugno 2009
TGE01209_Giornale27.qxp:TGE01209_Giornale27
16-03-2009
14:04
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Rassegna di teatro contemporaneo In scena alla Piccola Corte dal 12 maggio al 13 giugno cinque novità provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti
Storie dal mondo per conoscere il presente
«Sguardi contemporanei», manifestazione promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, realizzata con il contributo della Regione Liguria e la collaborazione di Alliance Française e del Goethe Institut Genua, ribadisce
il tradizionale interesse dello Stabile per la nuova drammaturgia e rafforza l’esperienza delle tredici stagioni della rassegna di “mises en espace”, ideata da Carlo Repetti, con la quale si sono già sperimentati quarantadue nuovi
testi, numerosi dei quali sono poi diventati dei veri e propri spettacoli di produzione. Gli spettacoli, in scena alla Piccola Corte di Genova (ore 20.30) tra maggio e giugno, saranno poi replicati anche a La Spezia e a Sanremo.
PICCOLA CORTE
da martedì 12 > a sabato 16 MAGGIO
PICCOLA CORTE
da martedì 19 > a sabato 23 MAGGIO
PICCOLA CORTE
da martedì 26 > a sabato 30 MAGGIO
La guerra di Klamm
Klamms Krieg I Germania
di Kai Hensel
Coronado
Coronado I Stati Uniti
di Dennis Lehane
Officina mia
Italia
di Marco Taddei
versione italiana Umberto Gandini
regia Filippo Dini
interprete Antonio Zavatteri
versione italiana Luca Viganò
regia Marco Ghelardi
interpreti Davide Iacopini, Davide Lorino, Roberto Serpi, Mariella Speranza, Giuseppe
Amato, Gabriele Gallinari, Elena Gigliotti, Federica Sandrini, Viviana Strambelli
regia Massimo Mesciulam
interpreti Massimo Cagnina, Pier Luigi Pasino, Marco Taddei,
Andreapietro Anselmi, Davide Mancini
Un attore, una cattedra, una sedia.
L’insegnante Klamm, troppo vecchio per ricominciare da capo, troppo giovane per la pensione anticipata, si trova di fronte a una classe (il pubblico) che gli ha dichiarato una
guerra di mutismo. L’accusa è di aver provocato il suicidio di uno studente con un voto
negativo che ha portato alla bocciatura del ragazzo. Ma Klamm non accetta di essere messo
sotto processo. Si difende con un astio che mal cela la sua crisi esistenziale, destinata a evidenziarsi nel corso di un monologo sempre più carico di tensione drammatica. La guerra di
Klamm è un testo sulla scuola, sugli adulti mal equipaggiati nel rapporto con gli adolescenti,
ma anche soprattutto un raffinato studio sui rapporti di forza, sulla violenza del silenzio contro quella della parola. Un dramma, attraversato da momenti di forte comicità, firmato da Kai
Hensel, scrittore nato ad Amburgo nel 1965. Dopo lunghi viaggi in Europa, Asia e Africa,
Hensel è stato regista al teatro di Lubecca, prima di dedicarsi esclusivamente alla scrittura.
Autore di pièces teatrali, drammi radiofonici, sceneggiature, sceneggiati, Hensel ha scritto tra
l’altro il monologo Quale droga fa per me. La guerra di Klamm (Klamms Krieg) è attualmente
fra i quattro testi di drammaturgia contemporanea più spesso messi in scena in Germania.
Tre situazioni con svolgimento cronologico sfalsato. Nella prima, due giovani amanti decidono
di uccidere il marito di lei, che scopre però di essere incinta, e non sa di chi. Nella seconda, uno
psichiatra dalla professionalità incerta s’intrattiene con la sua paziente, la quale si rivela essere la protagonista della situazione precedente, alcuni anni dopo. Nella terza, ci sono un padre
e un figlio che ha perso la memoria alle prese con la scomparsa di una ragazza e con la sparizione di un diamante rubato, e ben presto si capisce che anche questi personaggi sono legati
indissolubilmente alle altre vicende raccontate. Sesso e omicidio; però anche amore, denaro,
speranza e redenzione. Prima opera composta espressamente per il teatro dallo scrittore, regista e sceneggiatore Lehane (da un suo romanzo Clint Eastwood ha tratto Mystic River e lo scorso anno è uscito Gone Baby Gone, da lui scritto e diretto da Ben Affleck), Coronado nasce da un
racconto (Until Gwen) e porta sulla scena
una vicenda dalla struttura misteriosa e
labirintica, in cui il comico si mescola di
continuo con il tragico. Di origine irlandese,
Lehane è nato a Dorchester il 4 agosto 1966,
insegna scrittura creativa avanzata all’Università di Harvard e anche in Italia sta per
uscire il suo nuovo romanzo The Given Day.
Il mondo giovanile e la precarietà del lavoro,
sullo sfondo di un “pulp” in cui la violenza si
mescola con la solitudine. È in questo scenario degradato che l’alcool e le pistole diventano insieme via di fuga e di riscatto dalla prigione della quotidianità. L’azione si svolge in
un’officina ai margini desolati di una metropoli, dove tre giovani meccanici e il loro datore di lavoro stanno celebrando in forma di festa la definitiva chiusura del luogo in cui sino allora si era pur precariamente realizzata la loro esistenza, quando da un mondo lontano capita
per caso tra di loro uno strano cliente. La sua macchina si è guastata, ma il nuovo arrivato ha
fretta di consegnare una misteriosa valigetta che porta sempre con sé. Tra iperrealismo e esasperazione al limite della follia, il clima si fa ben presto incandescente. Sino al punto di lasciar
trasparire il fantasma di una possibile lotta di classe, sotto la trama subito dichiarata dello
scontro generazionale. Un testo insieme duro e divertente, scritto con uno sguardo a Quentin
Tarantino e uno al mondo giovanile cui appartiene Marco Taddei, attore diplomato alla Scuola
di Recitazione dello Stabile di Genova e già autore della commedia Luz, da lui stesso messo
in scena per la compagnia Nim composta da diplomati della scuola dello Stabile.
PICCOLA CORTE
da martedì 2 > a sabato 6 GIUGNO
PICCOLA CORTE
da martedì 9 > a sabato 13 GIUGNO
Il ragazzo dell’ultimo banco
El chico de la última fila I Spagna
di Juan Mayorga
Controtempo
Théorbe I Francia
di Christian Simeon
versione italiana Antonella Caron
regia Alberto Giusta
interpreti Roberto Alinghieri, Alice Arcuri, Nicola Pannelli, Fiorenza Pieri,
Vito Saccinto, Cristiano Dessì
versione italiana Emiliano Schmidt Fiori
regia Marco Sciaccaluga
interpreti Fabrizio Careddu, Barbara Moselli, Orietta Notari, Giuseppe Amato,
Gabriele Gallinari, Sarah Nicolucci
Due sono le coordinate lungo le quali Juan Mayorga – nato
a Madrid nel 1963 e considerato il drammaturgo spagnolo
più rappresentativo della sua generazione – sviluppa un
racconto teatrale capace di parlare della realtà senza soggiacere ai canoni del realismo. Da una parte, c’è la dialettica
autore-lettore che si stabilisce tra Claudio, liceale particolarmente dotato nella scrittura, e Germán, suo professore di
letteratura; dall’altra, c’è quella tra autore e personaggio che
nasce dal rapporto tra il giovane scrittore e il suo compagno
di classe Rafael, nella cui vita privata Claudio trova spunto e
incentivo per la propria immaginazione. Sotto lo sguardo
attento e sempre più sconcertato del professore, emerge così la realtà di una famiglia piccolo borghese nella Spagna della nuova crescita economica; ma dentro a questa trama Mayorga lascia
emergere anche altri temi, quali quelli del voyeurismo culturale, dell’incerto limite tra estetica ed
etica o del rapporto tra produttore intellettuale e consumatore. Nasce così un teatro insieme aperto nella definizione dei personaggi e capace di indagare la società contemporanea. Un teatro –
come auspica Juan Mayorga nella quarta di copertina del volume che raccoglie per i tipi di
Ubulibri quattro suoi testi (ci sono anche Himmelweg, Animali notturni e Hamelin) – che sia capace di accadere «nell’immaginazione, nella memoria, nell’esperienza dello spettatore».
Christian Simeon – drammaturgo e scultore, nato nel 1959 – racconta così la trama di questa
sua “commedia claustrofobica”: «Martedì 11 settembre 2001. Jeanne, una musicista francese che
abita a New York, ha in mattinata un appuntamento fondamentale per la sua carriera: un’audizione con un celebre direttore d’orchestra. Alle 7 e 38 si accorge che Greg, il fidanzato che lavora
al World Trade Center, l’ha bloccata nell’appartamento portandosi via, inavvertitamente, le sue
chiavi di casa. In questa situazione comicamente claustrofobica, complice il telefono, Jeanne
cerca tutte le soluzioni possibili per uscire in tempo, non ultima quella di convincere Greg a ritornare a casa per aprire la porta. La posta in gioco di questa
corsa contro l’orologio non riguarda solo la sua carriera
musicale: forse Jeanne, malgrado il panico crescente per la
sua occasione, può percepire la tragedia che incombe.
Riuscirà ad uscire da casa?». Attraverso le telefonate della
protagonista a Greg, alla madre, al fratello gay, al fabbro e
ad altri ancora, Controtempo racconta la “grande” e la “piccola” storia, nella quale lo spettatore (anche attraverso
quello che già sa dell’11 settembre 2001) percepisce una
realtà completamente differente da quella che sembra svolgersi sulla scena. Controtempo viene proposto nella Rassegna grazie alla collaborazione del Progetto “Face à face”.
marzo | giugno 2009
(segue da pag.1)
Stabile di Genova con
Bertolt Brecht, un autore
non soltanto da noi molto
frequentato ma che grazie
al lavoro di Squarzina, di
Besson, di Sciaccaluga e
di Ferrini abbiamo negli
anni contribuito a rileggere forse in un modo più
“aperto” e nuovo; e un testo infine, L’anima buona
del Sezuan, che testimonia
la capacità di Brecht di
parlare in maniera incredibilmente attuale del
mondo, a partire dalla
battuta di un personaggio
che dice: «Ma poi questa
storia di fare affari è proprio necessaria?».
Seguirà la prima assoluta
di una novità di Vittorio
Franceschi, sicuramente
fra gli autori italiani di
maggiore qualità, qui impegnato con il suo A corpo
morto a raccontarci, attraverso la visitazione della
morte, soprattutto la vita,
le sue speranze, i suoi
drammi, i suoi limiti, le
sue ironie. Lo spettacolo
di retto dal nostro Marco
Sciacca luga vede nello
stesso Franceschi un interprete unico attraverso
il “travestimento” in diversi personaggi, aiutato
in questo dalle maschere
di un maestro artigiano
qual è Strub.
Infine il percorso nella
drammaturgia contemporanea della nostra rassegna di “mises en espace”
che il pubblico, soprattutto
quello giovane, ha dimostrato in questi anni di
seguire con un interesse
davvero particolare.
Questi dunque sono i fatti
che vi proponiamo, le
parole per la scena con le
quali il Teatro Stabile di
Genova cerca di affermare
da parte sua l’importanza
del lavoro culturale in
una società in cui valga
ancora la pena di sperare
per noi e soprattutto per i
nostri figli.
Carlo Repetti