1 Trentacinque anni di Meta-Teatro Quando eravamo ‘barbari’, ‘ignoranti’ e iper-creativi Uno dei protagonisti della scena d’avanguardia italiana rievoca l’irripetibile combustione artistica, politica e antropologica degli anni ’60-’70 e racconta il suo personale, multiforme, onnivoro percorso espressivo, che tuttora prosegue nel solco di una tensione laboratoriale dove ‘non ci si ferma e non ci si forma mai’ ****** di Pippo Di Marca Dividerò il mio intervento in due parti: una premessa per inquadrare il contesto generale e una parte dedicata in particolare alla mia ‘storia romana’, sebbene le due vicende siano complementari, e forse persino esemplarmente simbiotiche. E visto che parliamo di Storie romane, per prima cosa mi viene in mente la definizione ‘scuola romana’ usata più o meno legittimamente per una parte del teatro di ricerca e di sperimentazione, o d’avanguardia, degli anni ’60 e ’70. Ma già sento arricciare molti nasi… Dei molti che non sopportano per principio le definizioni, e dissentirono e tuttora dissentono soprattutto da questa. Ma non solo. Ancora di più ci si interrogò sulla questione, allora centrale, se fosse più corretto parlare di ricerca, di sperimentazione o d’avanguardia; o addirittura, non del tutto arbitrariamente, di nessuna delle tre accezioni , come Carmelo, per esempio, che aborriva questi termini e in particolare avanguardia. Mentre un altro grande, Leo, ha sostenuto a più riprese che “il teatro, il vero teatro è ricerca, o altrimenti non è”. Si parlò anche di ‘teatro immagine’; più genericamente di ‘teatro delle cantine’ o ‘teatro off’, e successivamente, oltre la metà degli anni ’70, di post-avanguardia ecc… ecc… Ma, polemiche a parte, è indubbio che queste formule sono in qualche modo riconducibili alle grandi categorie critiche per eccellenza, alla triade attorno a cui ha ruotato la storia dell’arte nel secolo appena trascorso: ossia la Tradizione, il Moderno e il Contemporaneo. Su queste, infatti, mi soffermerò più diffusamente tra poco. Per il momento preferisco togliermi da secche terminologico-teoriche magari fuorvianti e limitarmi ad evidenziare alcuni punti su cui si può tranquillamente concordare: a) si trattò certamente di un fenomeno, o movimento, ‘romano’ (ancorché, altrettanto certamente, non di una ‘scuola’); b) che si pose complessivamente in termini di più o meno aperto antagonismo rispetto alla tradizione; c) e che con ogni evidenza emerse nell’ambito delle cosiddette neo-avanguardie che in quegli anni avevano preso d’assalto ‘tutti’ i settori della cultura e dell’arte italiane. Sicchè tra la “romanità” e l’“avanguardia” − intese in senso molto lato − avvenne una sorta di riconoscimento, di unione di fatto. Anche se non fu proprio matrimonio… Roma fu pur sempre la Sposa, “la Mariée mise a nu” − per parafrasare il Grande Vetro di Duchamp – “par ses celibataires”: come dire dai suoi figli o amanti celibi… Una città allora straordinaria − che il cinema, con Pasolini, Fellini, Flaiano, aveva già per primo visto e intuito − l’unica in Italia a suo modo ‘cosmopolita’ e insieme ‘iperprovinciale’, capace di attirare, far convivere e prosperare tutto, divenuta nel dopoguerra il collettore delle più travagliate e avanzate esperienze urbane-umane, della più feroce e massiccia immigrazione: il luogo ‘aperto’ in cui qualunque tipo di opera altrettanto 2 ‘aperta’ poteva allignare, radicarsi, il luogo dove in fondo l’alchimia e la contaminazione delle forme, dei generi, delle energie più degradate ed eterodosse, ossia di tutto ciò che costituisce l’oggetto del desiderio, della ‘fame’, di ogni ondata nuova di rinnovamento artistico, o avanguardia che si voglia, erano lì a portata di mano, come in una materna, ruffiana, oscenamente contraddittoria, disorganica Porta Portese (e non è un caso che “La Fede” sia nata proprio lì, quasi tra i banchi del mercato) della cultura, della sottocultura e dell’anticultura. E aggiungerei dell’antipolitica: non dimentichiamo che furono gli anni che precedettero e seguirono il ’68. Su questa tavola imbandita di ‘rifiuti’, ma anche di raffinati piatti dal sapore antico, su questa ‘eternità’ insieme cinica, cialtrona e ricca di storia, planò e si specchiò, ritrovandosi e rinnovandosi, un vero e proprio ‘esercito’ di ‘barbari’. Barbari e ‘ignoranti’, per la maggior parte provenienti dalle periferie sud dell’ ‘impero’: napoletani, pugliesi, siciliani ecc… Io, che venivo da Catania, fui uno di loro, probabilmente meno barbaro e ignorante di altri, ma forse proprio per questo a tutt’oggi tra i più accaniti, convinti e consapevoli nella ‘rivendicazione di appartenenza’ a quel periodo storico. Va da sé che da questo coacervo non potevano nascere esperienze uniformi, bensì esasperatamente ‘soggettive’: cioè letture personali − arbitrarie, esistenziali, ideologiche, venate di anarchia − di tutto il patrimonio culturale in qualche modo ‘oggettivo’ elaborato e tramandato non solo dal teatro, ma anche da tutte le altre arti e non ultimo dalla strada e dalla piazza, sentite sia in senso ‘politico’ che ‘antropologico’. Insisto un minimo sui concetti di ‘barbarie’ e di ‘ignoranza’ perché a mio parere fotografano e illustrano meglio di tante parole ‘alte’, di tante teorie, la pratica concreta, prevalentemente autodidatta e autoreferenziale, di un fare artistico che, scartando i modelli o diffidando delle regole e dell’ortodossia, si affidava per forza di cose all’estro e alle intuizioni del singolo più e prima che alla sua ‘cultura’, ed era tutto giocato su un’inventiva sfrenata e selvaggia di cui appunto la ‘barbarie’ e soprattutto l’‘ignoranza’ costituivano la grande forza e il maggior propellente. E quanto alla ‘soggettività’, credo si possa dire dei ‘soggetti’ che agirono in quel periodo ciò che più volte ho detto e scritto di me stesso: “Potrei definire il mio teatro come una specie di autobiografia ‘trasfigurata’, come la manifestazione, per epifanie esterne, dei flussi e delle esaltazioni interiori, degli interessi più nascosti, o al contrario dichiarati, di tutto quello che ha attraversato e mosso segretamente o apertamente la mia vita”. E non si può sottacere, a questo punto, che questo ribollire di gesti, idee, provocazioni, diciamo pure questa ‘battaglia’, sarebbero impensabili senza la infinita ‘guerra’ che lungo tutto il Novecento ha visto contrapporsi tradizione e avanguardia, una singolar tenzone degna de I duellanti, continuamente agita e rimandata e rinnovata, e che in qualche modo tutt’ora continua. Con le avanguardie (storiche) di volta in volta schierate per far saltare il linguaggio (il surrealismo), o la concezione dello spazio (il costruttivismo ), o la scrittura drammaturgica (l’espressionismo), o l’azione, il movimento (il futurismo), o la gabbia della razionalità (il dadaismo), o i fondamenti stessi dell’interpretazione attoriale (Artaud, secondo cui “il teatro deve andare oltre la sua soggezione al testo per ritrovare un linguaggio unico a metà strada tra gesto e pensiero”). Mentre la tradizione resisteva, conscia di appartenere già alla Storia, talvolta un po’ adeguandosi, aprendosi, più spesso invece chiudendosi in una difesa a oltranza. Ma, riconosciuto un filo rosso che legava questi ‘ultimi fuochi’ alla grande stagione del Novecento, allora, in quegli anni, quando il secolo volgeva alla fine, ormai in pieno post-moderno, che valore potevamo ancora attribuire a questo perdurante conflitto ‘storico’ e alla terminologia che lo accompagnava? Potevamo quanto era lecito misconsiderare il portato della storia delle idee e dei movimenti, quasi fosse ormai un corpus sterile e indifferente, in via di consunzione? Sono grossi interrogativi, che non è qui il caso di approfondire, ma che occorre almeno tenere presenti. Anche perché, alla fine, dopo aver accettato che tutte le definizioni sono improprie e inadeguate, rimane il fatto, non possiamo non constatarlo, che proprio il loro ‘insieme’ contraddittorio può far emergere, per quanto atomizzata, una qualche verità. In questa ottica, allora, non ci resta che tornare un po’ indietro e soffermarci sulla madre di tutte le categorie, quella ‘triade’ cui già si è accennato composta da Tradizione, Moderno, Contemporaneo; 3 e chiederci se, invece, la dialettica interna a questa trinità sia ancora viva e praticabile, cioè se possa ancora parlarci. Secondo me (secondo molti di noi, allora) sì, purché fosse chiara una cosa – che era già chiara peraltro a quelli del Bauhaus e ad Oskar Schlemmer in particolare – e cioè che il centro del discorso doveva essere il presente, tutto doveva essere riportato all’oggi, al qui ed ora: perché, come aveva sostenuto profeticamente proprio Schlemmer, “la Contemporaneità è il Moderno di Domani”. Come dire che il moderno non ci può più dare risposte valide, rischia anzi di diventare un esercizio sterile, se non letale, viste le continue ferite che i ‘duellanti’ continuano a infliggersi. Come dire che lo spirito più ‘vitale’ che ha attraversato gli ultimi decenni del secolo scorso sta tutto dentro la ‘contemporaneità’. Si può capire meglio quello che dico con un esempio. Il moderno si è ‘macerato’ in tutti i sensi sull’idea e sulla pratica dell’ ‘impossibilità della tragedia’: ebbene per il contemporaneo questo problema semplicemente non esiste, viene programmaticamente cancellato. Ecco: il moderno vive nella lotta edipica, nell’eterno conflitto padri-figli, è profondo, ma nello stesso tempo è irrimediabilmente ‘vecchio’; il contemporaneo invece nasce orfano, o quasi, è ‘naturalmente’ felice e ignorante, meno profondo, ma più ‘aperto’, dissipatorio, disposto all’errore, sostanzialmente utopistico, radicalmente attaccato al presente. Rimossa la tradizione, rifiutato il rinnovamento del moderno, quello che conta e rimane è la bellezza bruciante, e disperata, del qui e adesso, la felicità incosciente e piena dell’esserci, le sole cose che possono generare l’utopia dell’ ‘immaginazione al potere’, le sole che possono far realizzare il sogno in nome del quale Majakovskij forse ‘fu suicidato’: “Il nostro pianeta è poco attrezzato per la bellezza. Bisogna strappare la gioia ai giorni futuri!”. Faccio ammenda per questa premessa tirata un po’ troppo per le lunghe, ma non credo sia stata inutile: è servita per poter mettere un punto fermo, dare sostanza a quanto sto per dire: Io penso, e almeno per quanto riguarda me stesso posso affermarlo con certezza, che questa felicità creativa, questa leggerezza, questa euforia, questa irresponsabilità, questa follia, tutte assolutamente ‘contemporanee’, e totalmente ‘radicate’ nella congerie ‘romana’, e italiana, di quegli anni, siano state le caratteristiche principali di quel movimento teatrale. Ma anche, al di là e volendo al di sopra di tutte le diatribe e le definizioni, che ci sia o si possa individuare un unico e vero spartiacque nei procedimenti e nella poetica di un artista, soprattutto di chi, dal dopoguerra in poi, ha dovuto fare i conti, entrare in conflitto e confrontarsi con il debordare inarrestabile, nel male e nel bene, del ‘mondo’ esterno. Lo spartiacque è questo: tra chi in linea di massima vuole assumere su di sé, Rappresentare, schopenauerianamente e dunque con estrema Volontà, il Mondo da (verso il) Dentro e chi vuole farlo, con altrettanta determinazione, da (verso il) Fuori. Le differenze non sono da poco. Nel primo caso il processo creativo risulta invisibile, o, bene che vada, poco, o punto, visibile. Prendiamo l’esempio di Grotowski: il suo teatro è per così dire intangibile, nel senso che non si può verificare, bensì percepire emotivamente, come un atto di fede. Dal punto di vista della ‘contemporaneità’ è ‘ininfluente’. Nel secondo caso invece la ‘visibilità’ può costituire quasi il fine del processo, e comunque è di gran lunga maggiore. Qui se l’opera non ‘manifesta’ almeno in parte il suo potenziale trasgressivo, aggressivo o semplicemente dichiarativo nei confronti del mondo o di quello spicchio di mondo che vuole decifrare o a cui vuole contrapporsi, fallisce il suo obiettivo. Ecco perché Carmelo Bene, il cui teatro è tutto lì, esposto sulla scena, non c’è altro da aggiungere o decifrare, mi pare sia uno dei grandissimi del ’900. Tutto ciò significa, e non a caso, che non è tanto la qualità e il valore assoluto di un’opera (o di un artista) che qui ci interessano: a prescindere dal fatto che non è affatto facile certificarli. Piuttosto ci può interessare il suo valore per così dire ‘relativo’, la sua quantità, la capacità ‘visibile’ di correre con − e ancor meglio precorrere, ‘anticipare’ − i tempi, di ri-descrivere teatralmente il mondo, usando magari una quantità e un insieme altrove normalmente inimmaginabili di elementi, siano essi pre-testi, sotto-testi, materiali, ‘accidenti’, contaminazioni le più disparate, citazioni ecc… (E succede un po’ come per certe statistiche dello sport. La qualità degli eventi si perde e sbiadisce nella memoria, restano i risultati, il numero dei gol, delle vittorie, delle sconfitte ecc… Nessuno 4 potrà mai smentirli; sono dati certi, sui quali oltretutto si possono preconizzare i futuri pronostici, in altre parole ‘anticipare’ il futuro). In questo senso, pur nella sua totale non progettualità, nella sua incontrollata pluralità, non esiterei a definire gli anni ’60 e ’70 come un grande “laboratorio del futuro”. (E in verità quasi tutto quello che è stato fatto dopo reca tracce così evidenti, visibilissime, di quella straordinaria temperie che si può senza alcuna remora affermare che il teatro successivo, tranne rare eccezioni, come la Raffaello Sanzio e pochi altri, sia un teatro di pura citazione: e ovviamente di autocitazione per i protagonisti di allora che continuano ad operare). E qui, in questo uso ludico ma per nulla superficiale del teatro come ‘sfida’, come volontà di rappresentazione del mondo da Fuori, si situa la mia esperienza, la mia ‘storia romana’: che − insieme a tante altre storie analoghe, s’intende − nel suo piccolo, si può considerare paradigma e specchio, se non fedele neppure deformante, di quella stagione; e di cui, per brevi flash, indico ora gli aspetti salienti. Uno di questi è stata la volontà, spesso necessitata, di aggregazione, senza pregiudizi ‘estetici’, vorace e aperta, ma anche rigorosa e selettiva, che ha permesso il coagularsi delle energie e degli apporti di un insieme estremamente eterogeneo di attori e artisti, creando più che un gruppo una sorta di ‘tribù’: magari pericolosamente composita, ma sempre sorretta da una forte tensione morale, estetica e ideologica. Agli inizi, per dare un’idea, fecero parte della ‘tribù’ Vinicio Diamanti, Alessandro Vagoni, Severino Saltarelli e Benedetto Simonelli. Per tenere unita la ‘tribù’, ma soprattutto perché il lavoro consisteva di fatto in ‘esperimenti’ di montaggio, smontaggio e rimontaggio continui, spesso dalla scena alla vita e viceversa, e quindi richiedeva tempi lunghi di prove, era necessario appoggiarsi a uno spazio, o averlo. Nessun artista o gruppo poteva farne a meno. Chi non ne aveva uno proprio, doveva avere in ogni caso un preciso spazio di riferimento. Questo fu il motivo principale per cui nacquero le cantine. (Ma bisogna dire che l’ ‘invasione’ della città andò ben oltre il chiuso delle cantine: si fece teatro sul greto del Tevere, in librerie, gallerie d’arte, musei, bar, ristoranti, alberghi, piscine, terrazze, appartamenti, spiagge, cinema dismessi, ex conventi occupati, tunnel, cavalcavia ecc…). Per questo, dopo aver passato qualche anno tra il teatro La Fede e il Beat 72, decidemmo di aprire il Meta-Teatro: la prima sede fu l’attuale Ridotto del Colosseo, poi ci trasferimmo nella sede ‘storica’ di via Sora (la più piccola, buia e umida delle cantine: tanto che Ripellino le chiamava tout court ‘metateatri’); successivamente in via Mameli e poi… in tutto ne abbiamo inventate, create dal nulla e cambiate, finora, cinque… e la storia continua… Da sempre ho concepito il mio teatro come ‘scrittura scenica’, ossia realizzato, costruito direttamente sulla scena, come ‘azione teatrale’ che germina non dalla cultura già data della scena, ma da una delle infinite suggestioni o autosuggestioni della ‘realtà’, di qualunque tipo di ‘realtà’. Nei primi spettacoli le suggestioni vennero dalla letteratura e non da testi teatrali. Ma nel linguaggio letterario non cercavo il racconto: piuttosto ‘estraevo’ grumi o blocchi di ‘parole’, accostandoli per osmosi agli altri elementi della scrittura scenica; e quei testi non erano ‘battute’, erano già ‘immagini compiute’, in grado di generare e inglobare gesti, suoni, musica, corpi; erano in sé, senza alcuna mediazione drammaturgica, linguaggio teatrale. Il Meta-Teatro nasceva non come generico TeatrOltre, bensì come ‘messa in scena’ dell’idea più radicale possibile, volta per volta, suggestione per suggestione, di teatro. Infatti il mio autore preferito, il mio primo, vero ‘Maestro di Ironia e di Lucidità’, fu Lautréamont, praticamente ignoto da noi nei primi anni ’70, e di cui presentai una memorabile edizione de I Canti di Maldoror. Successivamente mi allontanai dalla letteratura, tuttavia senza staccarmene veramente, e fui folgorato da ‘suggestioni’ provenienti dalle arti visive, in particolare da Duchamp, divenuto ben presto il mio secondo ‘maestro di Ironia e di Lucidità’. Sicché la dimensione ironica di Lautreamont, nera, sadica, artaudiana, contro Dio e contro il Tempo si travasava e si stemperava nell’ironia bianca di Duchamp, senza Dio e senza Tempo, concettuale, ma vitalistica, umanamente ‘euforica’: un’estetica dell’accanimento e della crudeltà si andava trasformando in un’estetica dell’euforia. Il credo di Duchamp non solo mi corrispondeva in pieno, ma era anche nell’atmosfera che respiravamo: “Ogni secondo, ogni respiro, può essere un’opera, 5 che non è scritta da nessuna parte, che non è né visuale né cerebrale; dunque, se si vuole, la mia arte è vita, è una sorta di euforia costante”. La pratica artistica fu immaginata e vissuta come un ‘osservatorio’ costante sul ‘mondo’ e su noi stessi: cioè sul mondo attraverso di noi. Fu così che si allargarono a dismisura i confini e gli steccati logistici, linguistici, tematici: non si escludeva nulla come possibile oggetto di teatro; qualunque cosa poteva entrare nel cortocircuito del nostro alambicco creativo, di gioiosa magia bianca. Al povero, artigianale strumento ‘teatro’, per questa strada, si annettevano possibilità ‘infinite’, esplorazioni senza limiti; e questo piccolo, antichissimo ‘medium’, divenuto metafora del mondo, finiva col trasformarsi nel nostro Aleph, nel luogo, mentale o fisico, che poteva contenere ogni ‘magia’ o esperimento o sfida… Così nei miei spettacoli, come in un caleidoscopio o in una sfera, poteva capitare di vedere cose mai viste… Farò qualche esempio, anche se non è facile darne un’idea con le parole… − automobili che camminavano da sole; esasperazione del movimento con uso di ogni tipo di mezzo di locomozione: moto, biciclette, cavalli, carri ecc…; concerti di decine di sveglie e metronomi all’unisono per cancellare, fare esplodere e tempo e suono; ‘cuori’ animali realmente cucinati, “coeur a gas”, e mangiati; corpi nudi di donna totalmente fotocopiati, pezzo per pezzo, e poi cuciti stesi a un filo come panni al sole; uno scontro tra pupi-paladini siciliani commentato dalla mitica radiocronaca di Valenti a Benvenuti-Griffith; ventidue radioline a transistor contrapposte in una scena-campo di calcio e tutte sintonizzate, nel buio più completo, in tempo reale, sulla medesima partita, mentre un pianista cieco suonava Cage e Jarrett: il mio personale black-out spettacolarizzato a preconizzare anni fa i black-out attuali; sequenze di centinaia di diapositive e video raffiguranti i potenti della terra e il popolo dei teledipendenti (puro blob ante-litteram con un decennio di anticipo) commentate dalla voce registrata (ultimo messaggio) del brigatista che avrebbe ‘giustiziato’ Moro; corse di biciclette per attori-ciclisti a un festival nazionale dell’Unità su un circuito chiuso e per un tempo bloccato (24 ore consecutive: l’unità di misura di un giorno) per affermare con una coazione a ripetere giri su giri la priorità impotente dell’arte rispetto alla politica; l’arte circense usata surrealisticamente e spazialmente, nella tenda di Spaziozero, come drammaturgia, coreografia e scenografia di una ironica odissea spaziale in Jura-Paris: Big Bang agency del 1980 (e ora… tempestivamente… nel 2003, si va affermando la moda del circo…); uso del cinema come segno teatrale: ‘schegge’ da Mucchio selvaggio, Target, Blade Runner, Entr’acte ecc…; teatrodanza per demenziali e iperdinamiche sfilate di moda; pornoteatro con amplessi tra ‘umani’ e bambole sexy; gli Admiral’s Men contro i Chamberlain’s Men del teatro elisabettiano che si sfidano in un match di rugby al Total Eclipse Stadium con il sottofondo della radiocronaca dell’assassinio di J.F. Kennedy; incontri di boxe, citati e messi in scena come metafora del teatro del mondo: oppure di biliardo, come guerra dei sessi; autoesposizioni come doppia volontà di vedere, conoscere, esplorare l’esterno, e di essere visti, conosciuti, dall’esterno verso l’interno e come denuncia ironica di una generale sovraesposizione (… esposto al volante di un’auto da corsa a sua volta esposta nella vetrina di una galleria d’arte; esposto in piazza, totalmente in vista, dentro una grande gabbiasputnik plastificata e puntata verso il cielo, ma vedendo in un monitor a circuito chiuso tutti gli altri spettacoli del festival di Formello; esposto come grande libro vivente a via Sabotino… e c’è ancora qualcuno che si autoespone, vedi recentemente il ‘mago’ inglese ‘ingabbiato’ sulla Tower Bridge) ecc… Come si vede, in questo ‘gioco’ ipercontaminatorio e ipercombinatorio di microriproduzione teatrale del Fuori, si apriva – per contagio, per malattia, per esaltazioni euforiche, per provocazioni, anche per ferite − una vertenza attrattivo-repulsiva ‘ecumenica’, a tutto campo. Non solo con il nostro Corpo Esposto, la nostra biografia − persino la nostra casa, con i meta-martedì − esibita, violata, ma anche e soprattutto con il ‘demone’ della Tecnologia, della Macchina; il Cinema visto come ‘ironico’ racconto melodrammatico della Modernità e Pozzo infinito dell’Immagine e dell’Immaginario; i Media come palcoscenico- simulacro della Realtà; la degenerazione ipertrofica dello Sport e dei discorsi sullo Sport; la Moda, passerella sul baratro asessuato del Nulla; la folle ‘poesia’ utopica del Terrorismo; la Filosofia e la Scienza, l’astronomia in particolare, più volte messa in spettacolo scenico, grazie a collaborazioni di matematici e astrofisici, nel biennio ’79-’80 6 (con tutto il rispetto per l’attuale Ronconi, l’abbinamento teatro-scienza era già stato esplorato…); e naturalmente le altre Arti, la Danza, la Musica, le Arti visive, la videoarte ecc… Questa folle giostra successivamente, in anni più recenti, al termine della sua traiettoria, avrebbe finito con il riportarci alla Letteratura e al Teatro stesso, ai suoi testi ecc… Il cerchio, come ogni cerchio, si sarebbe ancora una volta chiuso. Perché, in fin dei conti, non abbiamo fatto e facciamo altro che un viaggio dentro noi stessi. L’importante è che ogni volta la conclusione non sia mai un ritorno al passato, ma il compendio, la sintesi, la ‘maturazione’ di tutta l’esperienza precedente. Anche, faccio per dire, se la suggestione fosse Gozzano, ci sarebbero Lautréamont, Duchamp, l’euforia, la massima radicalità e tensione e tutto il resto. Ecco perché io dico spesso che ‘non ci si ferma e non ci si forma mai’… ma le tracce si lasciano sempre… specialmente per il pezzo di passato di cui qui ci stiamo occupando, le cui tracce non sono solo Memoria, ma soprattutto Laboratorio del e per il Futuro. Novembre 2003