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Trentacinque anni di Meta-Teatro
Quando eravamo ‘barbari’, ‘ignoranti’ e iper-creativi
Uno dei protagonisti della scena d’avanguardia italiana rievoca l’irripetibile
combustione artistica, politica e antropologica degli anni ’60-’70 e racconta il suo
personale, multiforme, onnivoro percorso espressivo, che tuttora prosegue nel solco
di una tensione laboratoriale dove ‘non ci si ferma e non ci si forma mai’
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di Pippo Di Marca
Dividerò il mio intervento in due parti: una premessa per inquadrare il contesto generale e una
parte dedicata in particolare alla mia ‘storia romana’, sebbene le due vicende siano complementari,
e forse persino esemplarmente simbiotiche.
E visto che parliamo di Storie romane, per prima cosa mi viene in mente la definizione ‘scuola
romana’ usata più o meno legittimamente per una parte del teatro di ricerca e di sperimentazione, o
d’avanguardia, degli anni ’60 e ’70. Ma già sento arricciare molti nasi… Dei molti che non
sopportano per principio le definizioni, e dissentirono e tuttora dissentono soprattutto da questa. Ma
non solo. Ancora di più ci si interrogò sulla questione, allora centrale, se fosse più corretto parlare
di ricerca, di sperimentazione o d’avanguardia; o addirittura, non del tutto arbitrariamente, di
nessuna delle tre accezioni , come Carmelo, per esempio, che aborriva questi termini e in particolare
avanguardia. Mentre un altro grande, Leo, ha sostenuto a più riprese che “il teatro, il vero teatro è
ricerca, o altrimenti non è”. Si parlò anche di ‘teatro immagine’; più genericamente di ‘teatro delle
cantine’ o ‘teatro off’, e successivamente, oltre la metà degli anni ’70, di post-avanguardia ecc…
ecc… Ma, polemiche a parte, è indubbio che queste formule sono in qualche modo riconducibili
alle grandi categorie critiche per eccellenza, alla triade attorno a cui ha ruotato la storia dell’arte nel
secolo appena trascorso: ossia la Tradizione, il Moderno e il Contemporaneo. Su queste, infatti, mi
soffermerò più diffusamente tra poco.
Per il momento preferisco togliermi da secche terminologico-teoriche magari fuorvianti e limitarmi
ad evidenziare alcuni punti su cui si può tranquillamente concordare:
a) si trattò certamente di un fenomeno, o movimento, ‘romano’ (ancorché, altrettanto certamente,
non di una ‘scuola’);
b) che si pose complessivamente in termini di più o meno aperto antagonismo rispetto alla
tradizione;
c) e che con ogni evidenza emerse nell’ambito delle cosiddette neo-avanguardie che in quegli anni
avevano preso d’assalto ‘tutti’ i settori della cultura e dell’arte italiane.
Sicchè tra la “romanità” e l’“avanguardia” − intese in senso molto lato − avvenne una sorta di riconoscimento, di unione di fatto. Anche se non fu proprio matrimonio… Roma fu pur sempre la
Sposa, “la Mariée mise a nu” − per parafrasare il Grande Vetro di Duchamp – “par ses celibataires”:
come dire dai suoi figli o amanti celibi… Una città allora straordinaria − che il cinema, con
Pasolini, Fellini, Flaiano, aveva già per primo visto e intuito − l’unica in Italia a suo modo
‘cosmopolita’ e insieme ‘iperprovinciale’, capace di attirare, far convivere e prosperare tutto,
divenuta nel dopoguerra il collettore delle più travagliate e avanzate esperienze urbane-umane, della
più feroce e massiccia immigrazione: il luogo ‘aperto’ in cui qualunque tipo di opera altrettanto
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‘aperta’ poteva allignare, radicarsi, il luogo dove in fondo l’alchimia e la contaminazione delle
forme, dei generi, delle energie più degradate ed eterodosse, ossia di tutto ciò che costituisce
l’oggetto del desiderio, della ‘fame’, di ogni ondata nuova di rinnovamento artistico, o avanguardia
che si voglia, erano lì a portata di mano, come in una materna, ruffiana, oscenamente
contraddittoria, disorganica Porta Portese (e non è un caso che “La Fede” sia nata proprio lì, quasi
tra i banchi del mercato) della cultura, della sottocultura e dell’anticultura. E aggiungerei
dell’antipolitica: non dimentichiamo che furono gli anni che precedettero e seguirono il ’68. Su
questa tavola imbandita di ‘rifiuti’, ma anche di raffinati piatti dal sapore antico, su questa
‘eternità’ insieme cinica, cialtrona e ricca di storia, planò e si specchiò, ritrovandosi e rinnovandosi,
un vero e proprio ‘esercito’ di ‘barbari’. Barbari e ‘ignoranti’, per la maggior parte provenienti dalle
periferie sud dell’ ‘impero’: napoletani, pugliesi, siciliani ecc… Io, che venivo da Catania, fui uno
di loro, probabilmente meno barbaro e ignorante di altri, ma forse proprio per questo a tutt’oggi tra i
più accaniti, convinti e consapevoli nella ‘rivendicazione di appartenenza’ a quel periodo storico.
Va da sé che da questo coacervo non potevano nascere esperienze uniformi, bensì esasperatamente
‘soggettive’: cioè letture personali − arbitrarie, esistenziali, ideologiche, venate di anarchia − di
tutto il patrimonio culturale in qualche modo ‘oggettivo’ elaborato e tramandato non solo dal teatro,
ma anche da tutte le altre arti e non ultimo dalla strada e dalla piazza, sentite sia in senso ‘politico’
che ‘antropologico’. Insisto un minimo sui concetti di ‘barbarie’ e di ‘ignoranza’ perché a mio
parere fotografano e illustrano meglio di tante parole ‘alte’, di tante teorie, la pratica concreta,
prevalentemente autodidatta e autoreferenziale, di un fare artistico che, scartando i modelli o
diffidando delle regole e dell’ortodossia, si affidava per forza di cose all’estro e alle intuizioni del
singolo più e prima che alla sua ‘cultura’, ed era tutto giocato su un’inventiva sfrenata e selvaggia di
cui appunto la ‘barbarie’ e soprattutto l’‘ignoranza’ costituivano la grande forza e il maggior
propellente.
E quanto alla ‘soggettività’, credo si possa dire dei ‘soggetti’ che agirono in quel periodo ciò che
più volte ho detto e scritto di me stesso: “Potrei definire il mio teatro come una specie di
autobiografia ‘trasfigurata’, come la manifestazione, per epifanie esterne, dei flussi e delle
esaltazioni interiori, degli interessi più nascosti, o al contrario dichiarati, di tutto quello che ha
attraversato e mosso segretamente o apertamente la mia vita”.
E non si può sottacere, a questo punto, che questo ribollire di gesti, idee, provocazioni, diciamo
pure questa ‘battaglia’, sarebbero impensabili senza la infinita ‘guerra’ che lungo tutto il Novecento
ha visto contrapporsi tradizione e avanguardia, una singolar tenzone degna de I duellanti,
continuamente agita e rimandata e rinnovata, e che in qualche modo tutt’ora continua. Con le
avanguardie (storiche) di volta in volta schierate per far saltare il linguaggio (il surrealismo), o la
concezione dello spazio (il costruttivismo ), o la scrittura drammaturgica (l’espressionismo), o
l’azione, il movimento (il futurismo), o la gabbia della razionalità (il dadaismo), o i fondamenti
stessi dell’interpretazione attoriale (Artaud, secondo cui “il teatro deve andare oltre la sua
soggezione al testo per ritrovare un linguaggio unico a metà strada tra gesto e pensiero”).
Mentre la tradizione resisteva, conscia di appartenere già alla Storia, talvolta un po’ adeguandosi,
aprendosi, più spesso invece chiudendosi in una difesa a oltranza. Ma, riconosciuto un filo rosso che
legava questi ‘ultimi fuochi’ alla grande stagione del Novecento, allora, in quegli anni, quando il
secolo volgeva alla fine, ormai in pieno post-moderno, che valore potevamo ancora attribuire a
questo perdurante conflitto ‘storico’ e alla terminologia che lo accompagnava? Potevamo quanto
era lecito misconsiderare il portato della storia delle idee e dei movimenti, quasi fosse ormai un
corpus sterile e indifferente, in via di consunzione? Sono grossi interrogativi, che non è qui il caso
di approfondire, ma che occorre almeno tenere presenti. Anche perché, alla fine, dopo aver accettato
che tutte le definizioni sono improprie e inadeguate, rimane il fatto, non possiamo non constatarlo,
che proprio il loro ‘insieme’ contraddittorio può far emergere, per quanto atomizzata, una qualche
verità.
In questa ottica, allora, non ci resta che tornare un po’ indietro e soffermarci sulla madre di tutte le
categorie, quella ‘triade’ cui già si è accennato composta da Tradizione, Moderno, Contemporaneo;
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e chiederci se, invece, la dialettica interna a questa trinità sia ancora viva e praticabile, cioè se possa
ancora parlarci. Secondo me (secondo molti di noi, allora) sì, purché fosse chiara una cosa – che era
già chiara peraltro a quelli del Bauhaus e ad Oskar Schlemmer in particolare – e cioè che il centro
del discorso doveva essere il presente, tutto doveva essere riportato all’oggi, al qui ed ora: perché,
come aveva sostenuto profeticamente proprio Schlemmer, “la Contemporaneità è il Moderno di
Domani”. Come dire che il moderno non ci può più dare risposte valide, rischia anzi di diventare
un esercizio sterile, se non letale, viste le continue ferite che i ‘duellanti’ continuano a infliggersi.
Come dire che lo spirito più ‘vitale’ che ha attraversato gli ultimi decenni del secolo scorso sta tutto
dentro la ‘contemporaneità’. Si può capire meglio quello che dico con un esempio. Il moderno si è
‘macerato’ in tutti i sensi sull’idea e sulla pratica dell’ ‘impossibilità della tragedia’: ebbene per il
contemporaneo questo problema semplicemente non esiste, viene programmaticamente cancellato.
Ecco: il moderno vive nella lotta edipica, nell’eterno conflitto padri-figli, è profondo, ma nello
stesso tempo è irrimediabilmente ‘vecchio’; il contemporaneo invece nasce orfano, o quasi, è
‘naturalmente’ felice e ignorante, meno profondo, ma più ‘aperto’, dissipatorio, disposto all’errore,
sostanzialmente utopistico, radicalmente attaccato al presente. Rimossa la tradizione, rifiutato il
rinnovamento del moderno, quello che conta e rimane è la bellezza bruciante, e disperata, del qui e
adesso, la felicità incosciente e piena dell’esserci, le sole cose che possono generare l’utopia dell’
‘immaginazione al potere’, le sole che possono far realizzare il sogno in nome del quale
Majakovskij forse ‘fu suicidato’: “Il nostro pianeta è poco attrezzato per la bellezza. Bisogna
strappare la gioia ai giorni futuri!”.
Faccio ammenda per questa premessa tirata un po’ troppo per le lunghe, ma non credo sia stata
inutile: è servita per poter mettere un punto fermo, dare sostanza a quanto sto per dire:
Io penso, e almeno per quanto riguarda me stesso posso affermarlo con certezza, che questa felicità
creativa, questa leggerezza, questa euforia, questa irresponsabilità, questa follia, tutte assolutamente
‘contemporanee’, e totalmente ‘radicate’ nella congerie ‘romana’, e italiana, di quegli anni, siano
state le caratteristiche principali di quel movimento teatrale. Ma anche, al di là e volendo al di sopra
di tutte le diatribe e le definizioni, che ci sia o si possa individuare un unico e vero spartiacque nei
procedimenti e nella poetica di un artista, soprattutto di chi, dal dopoguerra in poi, ha dovuto fare i
conti, entrare in conflitto e confrontarsi con il debordare inarrestabile, nel male e nel bene, del
‘mondo’ esterno. Lo spartiacque è questo: tra chi in linea di massima vuole assumere su di sé,
Rappresentare, schopenauerianamente e dunque con estrema Volontà, il Mondo da (verso il) Dentro
e chi vuole farlo, con altrettanta determinazione, da (verso il) Fuori.
Le differenze non sono da poco. Nel primo caso il processo creativo risulta invisibile, o, bene che
vada, poco, o punto, visibile. Prendiamo l’esempio di Grotowski: il suo teatro è per così dire
intangibile, nel senso che non si può verificare, bensì percepire emotivamente, come un atto di fede.
Dal punto di vista della ‘contemporaneità’ è ‘ininfluente’. Nel secondo caso invece la ‘visibilità’
può costituire quasi il fine del processo, e comunque è di gran lunga maggiore. Qui se l’opera non
‘manifesta’ almeno in parte il suo potenziale trasgressivo, aggressivo o semplicemente dichiarativo
nei confronti del mondo o di quello spicchio di mondo che vuole decifrare o a cui vuole
contrapporsi, fallisce il suo obiettivo. Ecco perché Carmelo Bene, il cui teatro è tutto lì, esposto
sulla scena, non c’è altro da aggiungere o decifrare, mi pare sia uno dei grandissimi del ’900.
Tutto ciò significa, e non a caso, che non è tanto la qualità e il valore assoluto di un’opera (o di un
artista) che qui ci interessano: a prescindere dal fatto che non è affatto facile certificarli. Piuttosto ci
può interessare il suo valore per così dire ‘relativo’, la sua quantità, la capacità ‘visibile’ di correre
con − e ancor meglio precorrere, ‘anticipare’ − i tempi, di ri-descrivere teatralmente il mondo,
usando magari una quantità e un insieme altrove normalmente inimmaginabili di elementi, siano
essi pre-testi, sotto-testi, materiali, ‘accidenti’, contaminazioni le più disparate, citazioni ecc… (E
succede un po’ come per certe statistiche dello sport. La qualità degli eventi si perde e sbiadisce
nella memoria, restano i risultati, il numero dei gol, delle vittorie, delle sconfitte ecc… Nessuno
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potrà mai smentirli; sono dati certi, sui quali oltretutto si possono preconizzare i futuri pronostici, in
altre parole ‘anticipare’ il futuro). In questo senso, pur nella sua totale non progettualità, nella sua
incontrollata pluralità, non esiterei a definire gli anni ’60 e ’70 come un grande “laboratorio del
futuro”. (E in verità quasi tutto quello che è stato fatto dopo reca tracce così evidenti, visibilissime,
di quella straordinaria temperie che si può senza alcuna remora affermare che il teatro successivo,
tranne rare eccezioni, come la Raffaello Sanzio e pochi altri, sia un teatro di pura citazione: e
ovviamente di autocitazione per i protagonisti di allora che continuano ad operare).
E qui, in questo uso ludico ma per nulla superficiale del teatro come ‘sfida’, come volontà di
rappresentazione del mondo da Fuori, si situa la mia esperienza, la mia ‘storia romana’: che −
insieme a tante altre storie analoghe, s’intende − nel suo piccolo, si può considerare paradigma e
specchio, se non fedele neppure deformante, di quella stagione; e di cui, per brevi flash, indico ora
gli aspetti salienti.
Uno di questi è stata la volontà, spesso necessitata, di aggregazione, senza pregiudizi ‘estetici’,
vorace e aperta, ma anche rigorosa e selettiva, che ha permesso il coagularsi delle energie e degli
apporti di un insieme estremamente eterogeneo di attori e artisti, creando più che un gruppo una
sorta di ‘tribù’: magari pericolosamente composita, ma sempre sorretta da una forte tensione
morale, estetica e ideologica. Agli inizi, per dare un’idea, fecero parte della ‘tribù’ Vinicio
Diamanti, Alessandro Vagoni, Severino Saltarelli e Benedetto Simonelli. Per tenere unita la ‘tribù’,
ma soprattutto perché il lavoro consisteva di fatto in ‘esperimenti’ di montaggio, smontaggio e
rimontaggio continui, spesso dalla scena alla vita e viceversa, e quindi richiedeva tempi lunghi di
prove, era necessario appoggiarsi a uno spazio, o averlo. Nessun artista o gruppo poteva farne a
meno. Chi non ne aveva uno proprio, doveva avere in ogni caso un preciso spazio di riferimento.
Questo fu il motivo principale per cui nacquero le cantine. (Ma bisogna dire che l’ ‘invasione’ della
città andò ben oltre il chiuso delle cantine: si fece teatro sul greto del Tevere, in librerie, gallerie
d’arte, musei, bar, ristoranti, alberghi, piscine, terrazze, appartamenti, spiagge, cinema dismessi, ex
conventi occupati, tunnel, cavalcavia ecc…). Per questo, dopo aver passato qualche anno tra il
teatro La Fede e il Beat 72, decidemmo di aprire il Meta-Teatro: la prima sede fu l’attuale Ridotto
del Colosseo, poi ci trasferimmo nella sede ‘storica’ di via Sora (la più piccola, buia e umida delle
cantine: tanto che Ripellino le chiamava tout court ‘metateatri’); successivamente in via Mameli e
poi… in tutto ne abbiamo inventate, create dal nulla e cambiate, finora, cinque… e la storia
continua…
Da sempre ho concepito il mio teatro come ‘scrittura scenica’, ossia realizzato, costruito
direttamente sulla scena, come ‘azione teatrale’ che germina non dalla cultura già data della scena,
ma da una delle infinite suggestioni o autosuggestioni della ‘realtà’, di qualunque tipo di ‘realtà’.
Nei primi spettacoli le suggestioni vennero dalla letteratura e non da testi teatrali. Ma nel linguaggio
letterario non cercavo il racconto: piuttosto ‘estraevo’ grumi o blocchi di ‘parole’, accostandoli per
osmosi agli altri elementi della scrittura scenica; e quei testi non erano ‘battute’, erano già
‘immagini compiute’, in grado di generare e inglobare gesti, suoni, musica, corpi; erano in sé, senza
alcuna mediazione drammaturgica, linguaggio teatrale. Il Meta-Teatro nasceva non come generico
TeatrOltre, bensì come ‘messa in scena’ dell’idea più radicale possibile, volta per volta, suggestione
per suggestione, di teatro. Infatti il mio autore preferito, il mio primo, vero ‘Maestro di Ironia e di
Lucidità’, fu Lautréamont, praticamente ignoto da noi nei primi anni ’70, e di cui presentai una
memorabile edizione de I Canti di Maldoror. Successivamente mi allontanai dalla letteratura,
tuttavia senza staccarmene veramente, e fui folgorato da ‘suggestioni’ provenienti dalle arti visive,
in particolare da Duchamp, divenuto ben presto il mio secondo ‘maestro di Ironia e di Lucidità’.
Sicché la dimensione ironica di Lautreamont, nera, sadica, artaudiana, contro Dio e contro il Tempo
si travasava e si stemperava nell’ironia bianca di Duchamp, senza Dio e senza Tempo, concettuale,
ma vitalistica, umanamente ‘euforica’: un’estetica dell’accanimento e della crudeltà si andava
trasformando in un’estetica dell’euforia. Il credo di Duchamp non solo mi corrispondeva in pieno,
ma era anche nell’atmosfera che respiravamo: “Ogni secondo, ogni respiro, può essere un’opera,
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che non è scritta da nessuna parte, che non è né visuale né cerebrale; dunque, se si vuole, la mia arte
è vita, è una sorta di euforia costante”. La pratica artistica fu immaginata e vissuta come un
‘osservatorio’ costante sul ‘mondo’ e su noi stessi: cioè sul mondo attraverso di noi. Fu così che si
allargarono a dismisura i confini e gli steccati logistici, linguistici, tematici: non si escludeva nulla
come possibile oggetto di teatro; qualunque cosa poteva entrare nel cortocircuito del nostro
alambicco creativo, di gioiosa magia bianca. Al povero, artigianale strumento ‘teatro’, per questa
strada, si annettevano possibilità ‘infinite’, esplorazioni senza limiti; e questo piccolo, antichissimo
‘medium’, divenuto metafora del mondo, finiva col trasformarsi nel nostro Aleph, nel luogo,
mentale o fisico, che poteva contenere ogni ‘magia’ o esperimento o sfida… Così nei miei
spettacoli, come in un caleidoscopio o in una sfera, poteva capitare di vedere cose mai viste… Farò
qualche esempio, anche se non è facile darne un’idea con le parole… − automobili che
camminavano da sole; esasperazione del movimento con uso di ogni tipo di mezzo di locomozione:
moto, biciclette, cavalli, carri ecc…; concerti di decine di sveglie e metronomi all’unisono per
cancellare, fare esplodere e tempo e suono; ‘cuori’ animali realmente cucinati, “coeur a gas”, e
mangiati; corpi nudi di donna totalmente fotocopiati, pezzo per pezzo, e poi cuciti stesi a un filo
come panni al sole; uno scontro tra pupi-paladini siciliani commentato dalla mitica radiocronaca di
Valenti a Benvenuti-Griffith; ventidue radioline a transistor contrapposte in una scena-campo di
calcio e tutte sintonizzate, nel buio più completo, in tempo reale, sulla medesima partita, mentre un
pianista cieco suonava Cage e Jarrett: il mio personale black-out spettacolarizzato a preconizzare
anni fa i black-out attuali; sequenze di centinaia di diapositive e video raffiguranti i potenti della
terra e il popolo dei teledipendenti (puro blob ante-litteram con un decennio di anticipo)
commentate dalla voce registrata (ultimo messaggio) del brigatista che avrebbe ‘giustiziato’ Moro;
corse di biciclette per attori-ciclisti a un festival nazionale dell’Unità su un circuito chiuso e per un
tempo bloccato (24 ore consecutive: l’unità di misura di un giorno) per affermare con una coazione
a ripetere giri su giri la priorità impotente dell’arte rispetto alla politica; l’arte circense usata
surrealisticamente e spazialmente, nella tenda di Spaziozero, come drammaturgia, coreografia e
scenografia di una ironica odissea spaziale in Jura-Paris: Big Bang agency del 1980 (e ora…
tempestivamente… nel 2003, si va affermando la moda del circo…); uso del cinema come segno
teatrale: ‘schegge’ da Mucchio selvaggio, Target, Blade Runner, Entr’acte ecc…; teatrodanza per
demenziali e iperdinamiche sfilate di moda; pornoteatro con amplessi tra ‘umani’ e bambole sexy;
gli Admiral’s Men contro i Chamberlain’s Men del teatro elisabettiano che si sfidano in un match di
rugby al Total Eclipse Stadium con il sottofondo della radiocronaca dell’assassinio di J.F. Kennedy;
incontri di boxe, citati e messi in scena come metafora del teatro del mondo: oppure di biliardo,
come guerra dei sessi; autoesposizioni come doppia volontà di vedere, conoscere, esplorare
l’esterno, e di essere visti, conosciuti, dall’esterno verso l’interno e come denuncia ironica di una
generale sovraesposizione (… esposto al volante di un’auto da corsa a sua volta esposta nella
vetrina di una galleria d’arte; esposto in piazza, totalmente in vista, dentro una grande gabbiasputnik plastificata e puntata verso il cielo, ma vedendo in un monitor a circuito chiuso tutti gli altri
spettacoli del festival di Formello; esposto come grande libro vivente a via Sabotino… e c’è ancora
qualcuno che si autoespone, vedi recentemente il ‘mago’ inglese ‘ingabbiato’ sulla Tower Bridge)
ecc… Come si vede, in questo ‘gioco’ ipercontaminatorio e ipercombinatorio di microriproduzione
teatrale del Fuori, si apriva – per contagio, per malattia, per esaltazioni euforiche, per provocazioni,
anche per ferite − una vertenza attrattivo-repulsiva ‘ecumenica’, a tutto campo. Non solo con il
nostro Corpo Esposto, la nostra biografia − persino la nostra casa, con i meta-martedì − esibita,
violata, ma anche e soprattutto con il ‘demone’ della Tecnologia, della Macchina; il Cinema visto
come ‘ironico’ racconto melodrammatico della Modernità e Pozzo infinito dell’Immagine e
dell’Immaginario; i Media come palcoscenico- simulacro della Realtà; la degenerazione ipertrofica
dello Sport e dei discorsi sullo Sport; la Moda, passerella sul baratro asessuato del Nulla; la folle
‘poesia’ utopica del Terrorismo; la Filosofia e la Scienza, l’astronomia in particolare, più volte
messa in spettacolo scenico, grazie a collaborazioni di matematici e astrofisici, nel biennio ’79-’80
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(con tutto il rispetto per l’attuale Ronconi, l’abbinamento teatro-scienza era già stato esplorato…); e
naturalmente le altre Arti, la Danza, la Musica, le Arti visive, la videoarte ecc…
Questa folle giostra successivamente, in anni più recenti, al termine della sua traiettoria, avrebbe
finito con il riportarci alla Letteratura e al Teatro stesso, ai suoi testi ecc… Il cerchio, come ogni
cerchio, si sarebbe ancora una volta chiuso. Perché, in fin dei conti, non abbiamo fatto e facciamo
altro che un viaggio dentro noi stessi. L’importante è che ogni volta la conclusione non sia mai un
ritorno al passato, ma il compendio, la sintesi, la ‘maturazione’ di tutta l’esperienza precedente.
Anche, faccio per dire, se la suggestione fosse Gozzano, ci sarebbero Lautréamont, Duchamp,
l’euforia, la massima radicalità e tensione e tutto il resto.
Ecco perché io dico spesso che ‘non ci si ferma e non ci si forma mai’… ma le tracce si lasciano
sempre… specialmente per il pezzo di passato di cui qui ci stiamo occupando, le cui tracce non
sono solo Memoria, ma soprattutto Laboratorio del e per il Futuro.
Novembre 2003