7339 Il TEATRO del `500 di Dario Fo Alla fine del

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Il TEATRO del ‘500
di Dario Fo
Alla fine del Quattrocento, quasi a cavallo del
Cinquecento, presso le corti dei principi italiani
nascono la moda e il piacere di mettere in scena
le commedie di Plauto e Terenzio recitate nella
lingua originale cioè il latino. Naturalmente si
tratta di spettacoli per soli eruditi, infatti una
buona parte di quel pubblico finge di capire e
giunge
perfino
ovviamente
falsa
a
farsi
e
qualche
fuori
tempo,
risata,
l’altra
onestamente si annoia e basta. A questo punto i
signori invitano i loro poeti di corte a tradurre in
volgare possibilmente toscaneggiante le farse
latine ed egualmente fanno altri letterati per
proprio piacere senza alcuna sollecitazione di
mecenati
e
padroni:
i
nuovi
ottengono un discreto successo.
allestimenti
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Ma con le commedie si traducono in lingua
parlata aulicheggiante anche le tragedie antiche:
le Metamorfosi di Ovidio, tradotte da anonimi,
l’Orfeo riscritto dal Poliziano, il Minotauro
messo in scena da Michelangelo, ecc.. Queste
ultime rappresentazioni ottengono un grande
successo, non tanto per i testi, invero piuttosto
scarsi,
quanto
allestimenti
prodotto
e
dalle
per
per
la
fantasmagoria
l’apparizione
macchine
degli
e
l’effetto
sceniche
davvero
portentose. È la scenografia, quindi, che dà
inizio al teatro del Rinascimento, acquisendo la
macchineria
dagli
spettacoli
sacri
che
si
montavano già dal Medioevo nelle grandi chiese
e cattedrali. Le capriate fungono da soffitta
scenica: di lassù con ruote, argani, travicelli si
calano veri e propri acrobati addobbati da angeli
e santi che si lanciano in voli degni di spettacoli
del circo. Qui vediamo la ricostruzione in scala
uno a cento del progetto di un allestimento
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teatrale nell’interno di una cattedrale fiorentina a
opera del Brunelleschi. I disegni a noi pervenuti
ci fanno immaginare gigantesche ruote che
girano su se stesse reggendo santi, arcangeli e
putti alati. Dal transetto proveniva un coro, di
certo possente, con intermezzi delicati eseguiti
da voci bianche.
Leonardo da Vinci allestì a Milano, più o meno
negli stessi anni per il duca Lodovico Il Moro e
la sua corte, uno spettacolo in chiave surreale
con
analoghe
macchinerie
a
dir
poco
stravolgenti: un cielo che rotea alto sul soffitto
del salone con astri che scorrono percorrendo
una
larga
parabola
e
bellissime
ragazze
rappresentanti divinità che vanno sospese nel
vuoto come intarsiate in una geometria stellare.
Alla fine la scena è invasa da luce, lampi e
fuoco. Entra un cavallo alato che spruzza
fiamme dalle narici, sul carro c’è un ragazzo
luminoso che sfonda le tenebre. Ma quello che
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desta maggior stupore è lo scoprire che il
cavallo è una macchina semovente mossa da
una meccanica tanto complessa ed efficiente
che fa gridare al miracolo.
Qualche
anno
prima
Michelangelo
aveva
allestito a Mantova la spettacolare tragedia del
Minotauro
quasi
alla
maniera
delle
rappresentazioni sacre. C’è un narratore che
commenta in rima le situazioni, presenta i
protagonisti e recita per loro le parti di ogni
intervento. I protagonisti, dal Minotauro, a
Teseo, ad Arianna si muovono mimando e
danzando la storia fino alla conclusione dove si
assiste al gesto di Teseo che mozza il capo al
mostro, gli cava il cuore e lo offre al Pontefice
che presenzia allo spettacolo.
Anche nelle commedie plautine tradotte, la
nuova
scenografia
prospettica,
i
costumi
sontuosi, gli effetti mirabolanti determinavano
un qualche successo che però non riusciva mai
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a far decollare l’opera in senso di divertimento
fantastico e comico.
Infatti come annota in un monologo polemico un
poeta di spirito nuovo, il Lasca:
“Come possiamo fingere così spudorati? Eccoci
qua, inzuppati di linfa classica, tutti compunti e
assorbiti dal rito di goder dell’antico, accettare
supini lo svolgersi di queste comedie appena
tolte dai sarcofagi. Plauto e Terenzio son autori
di genio e videro i tempi loro; ma i nostri giorni
sono d’un’altra maniera: abbiamo altri costumi,
altra religione e altro gusto e regola di vita, e
perciò bisogna far le comedie in altro modo; in
Firenze non si vive come si viveva già in Atene e
in Roma; non ci sono schiavi, non ci sono
figliuoli adottivi, non ci vengono i ruffiani a
vender le fanciulle, se abbiam quattrini ce le
vengono a offrire direttamente i padri e le madri
loro; né i soldati dal dì d’oggi nei sacchi delle
città o de’ castelli pigliano più le bambine in
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fascia e allevandole per lor figliuole, fanno loro
la dote, ma piuttosto attendono a rubare quanto
più possono e se per sorte capitasser loro nelle
mani, o fanciulle grandicelle, o donne maritate
(se già non pensassero cavarne buona taglia),
torrebbero loro la verginità e l’onore. Senza
contare che ai nostri padri romani era imposto
per legge che ogni trama o fatto raccontato sulla
scena si dovesse immaginare avvenuto in Atene
o Corintio. Questo per evitare che con caricatura
si giungesse a fare il verso ai senatori, ai
principi e ai cesari del tempo loro. Noi, per
fortuna, non abbiamo ancora leggi che ci
impongano di camuffare luoghi, fatti e persone
accioché le autorità non si debbano risentire dei
lazzi
e
della
satira
che
i
comici
vanno
inscenando. A noi è dato di dar la baia a chi ci
pare, fare il verso a qualsivoglia signore,
padrone,
banchiero,
senza
rischio
d’esser
carcerato, al massimo ci mozzeranno il capo!”
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Ed egualmente Ruzzante riprende gli stessi
argomenti nella presentazione della Vaccaria:
“Dovendosi questa sera recitare una comedia,
non vogliate biasmarla se essa non è latina, o in
verso, o di lingua tutta polita; perché, se l’autore
che l’ha pensata, che Plauto ha nome, fosse tra i
vivi al tempo d’oggi, state certi che non la
scriverebbe, non la metterebbe in scena in altra
maniera se non in questa medesima di cui
sarete fra poco spettatori.”
E il Gelli aggiunge “facendo comedia noi
abbiamo un impeto primo: quello di raccontare
cose che tutto il giorno accaggiono col viver
nostro”.
Cresce
così
il
bisogno
di
sentirsi
“contemporanei, anche nella scrittura, ai propri
avvenimenti”. Spuntano in ogni luogo autori di
commedie che si ispirano ancora alle chiavi
sceniche e alle situazioni dei classici ma
vestono i personaggi e gli eventi di carattere,
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tipi e cronache del tempo presente. Fra questi in
primo piano appaiono Machiavelli, Ariosto,
Bibbiena, Della Porta, Giordano Bruno, Annibal
Caro, Andrea Calmo e tanti altri ancora. Un
discorso particolare meritano il Folengo e il
Ruzzante che si rifanno a loro volta al teatro
antico, ma trasformandolo e vivendolo dentro la
tradizione popolare, a partire dal linguaggio.
Il valore propulsivo di tutto questo nuovo teatro
che
si
pone
quadriportici,
in
scena
saloni
di
in
tutte
le
corti,
aristocratici
e
confraternite di borghesi per tutta l’Italia da
Napoli fino a Venezia, Milano e Genova ha come
chiave di volta la situazione e il suo raddoppio.
Ma che significa teatro di situazione? E qual è la
differenza
rispetto
letterario?
Urge
al
un
teatro
esempio
cosiddetto
pratico.
Analizziamo un’opera famosa di Shakespeare:
Giulietta e Romeo. Qual è il turbine che muove
gli innamorati a tanta passione? Lo scoprire le
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reciproche casate: lei è una Capuleti, lui un
Montecchi cioè fan parte di due famiglie che da
sempre si odiano e combattono spietatamente.
Oscar Wilde con grande spirito osservava: “Se i
due giovani non si fossero trovati davanti a
quell’impedimento, di certo non si sarebbero
così fortemente innamorati, forse si sarebbero
addirittura ignorati”.
Ecco spiegata la magia della situazione. Ma per
essere più espliciti vi proponiamo un gioco.
Invitiamo
a
salire
sul
alla
volta
(Rivolgendosi
palco
tre
della
ragazzi.
platea)
Su,
coraggio, non importa se siete alle prime armi.
Ecco,
bravi…
voi
tre…
Su,
montate
sul
palcoscenico. Ora io faccio eseguire lo stesso
movimento
a
ognuno
di
voi.
Vi
indico
immediatamente di che si tratta, ma senza
svelarvi la situazione della storia. Ognuno di voi
mimerà alla cieca. Allora, immaginate… ve lo
eseguo io: uscite in atteggiamento disperato
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avanzando
dal
fondo
verso
il
proscenio.
Circospetti e tesi insieme. Vi guardate intorno,
ecco, qui c’è una parete, qui c’è una porta, voi
cercate
di
spingere
questa
e
di
aprirla.
(Immagina di afferrare la maniglia e di dare
spallate all’uscio) Ma è chiusa. Niente da fare.
Allora cercate di montare oltre la parete nella
speranza di poter scorgere qualche cosa che sta
di là, ma niente, il muro è troppo alto. Vi
allontanate e andate verso l’altra parte del
palcoscenico, così… (Esegue i vari passaggi
disegnando con evidenza ogni parete, oggetto o
spazio che incontra) … non si apre, anche di
qui, uno, due, niente. La porta è bloccata anche
di qua, non si apre. Quindi, angosciati, sempre
recitando una tensione drammatica, andate là in
fondo, andate a destra e a sinistra nella
speranza di scoprire qualcuno, qualcosa: “No,
non c’è niente!” Vi voltate. Finalmente: la
speranza! “Sì, là, in fondo alla platea c’è la
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salvezza!” Ma qualche cosa vi disturba, anzi vi
demolisce letteralmente, vi lasciate andare sulle
ginocchia, affranti… ecco, in questa posizione,
completamente accasciati. L’azione si chiude
qui. Adesso voi andate di là, nel retro del palco.
Non dovete assolutamente ascoltare quello che
racconterò al pubblico. Anzi, per favore, andate
a rinchiudervi laggiù, nei camerini. Sì, appena
pronto vi chiamo. Rientrerete a mio ordine e
ognuno di voi eseguirà la stessa pantomima. (I
ragazzi escono. Rivolto al pubblico) Adesso
svelo la situazione. Loro agiranno in chiave
fissa, senza sapere nulla del dramma che sta
dietro, cioè della situazione. Eccole: sono tre
situazioni diverse. Prima: c’è un uomo che ha
litigato in un bar e ha sferrato una coltellata a un
amico. Le coltellate si danno sempre agli amici.
Fugge, inseguito da tutti gli altri amici che
vogliono dargli una lezione. Scappa, cerca una
via d’uscita, trova tutte le porte chiuse, poi
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finalmente si volta, vede tutto libero: i campi!
Laggiù è la via d’uscita… niente, all’istante gli si
parano davanti gli amici. Gli hanno chiuso ogni
possibilità di scampo. Sono armati, li vede
venire avanti. È perduto. Non fa altro che
lasciarsi
andare
accasciato
e
accettare
il
castigo. Seconda situazione: è un rapporto
d’amore. C’è una donna che ha abbandonato
l’uomo in seguito a una lite furibonda. L’uomo,
demoralizzato, va cercando la sua donna, di cui
è ancora innamorato, vuol far la pace. Spinge
tutte le porte. Non la trova; finalmente gli
sembra di scorgerla laggiù… no, non è lei. Ecco,
sì, è proprio lei… è lei! Ma sta con un altro
uomo, e si sta buttando appassionatamente fra
le sue braccia. È come se gli avessero mollato
una gran mazzata: si lascia andare affranto… si
accascia. Terza situazione: è quella di un tale
assillato da esigenze corporali, impellenti. Sta
cercando disperato un luogo appartato dove
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liberarsi; cerca porte che diano su toilette, le
trova ma tutte chiuse. Il resto si capisce, non c’è
bisogno di dare altre dritte… a un certo punto,
corre… ma ormai non ce la fa, non ce la fa più, e
si lascia andare… accasciato… nella liberazione.
Ora chiamiamo i nostri mimi. (I tre ragazzi
tornano
sulla
scena).
Ci
siete?
Venite,
accomodatevi. Spero che non siate stati a
origliare. (Risate e brusii nel pubblico, i tre si
guardano
intorno
perplessi).
No,
non
c’è
nessuno scherzo. Stiamo facendo un lavoro, è
un gioco, ma serio. Allora via, comincia tu.
(Invita uno dei mimi a farsi avanti) Ribadisco i
tempi: prima la sequenza dello spingere la
porta… (al pubblico) Lui è il primo caso,
ricordate, la situazione nascosta è quella della
lite nel bar. Allora vai! (Azione del primo attore.
Risate e applausi del pubblico). Perfetto, ottimo
l’atteggiamento di smarrimento… l’ansia e la
prostrazione finale. Bravissimo. Tocca a te
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adesso. Tu. Vai. Vai. (Rivolto al pubblico, quasi a
parte) Lui recita la situazione dell’innamorato.
(Azione del secondo mimo). Perfetto. (Azione
del terzo attore. Rivolto al pubblico). Attenti, è
quella
dell’impellenza
tragica.
(Durante
l’esecuzione il pubblico esplode in grosse risate
e applausi. Quando il ragazzo sconsolato si
accascia
nella
defecare…
posizione,
scoppia
un
inconscia,
boato.
Rivolto
di
al
pubblico) Allora è chiaro che la situazione
determina il valore in assoluto dell’azione
mimica, cambia il significato dei gesti da patetici
a tragici, da sottilmente umoristici in grotteschi
e osceni. Tre esecuzioni identiche, tre risultati
teatrali
completamente
diversi.
Chiaro
il
discorso?
Ecco,
tornando
alle
commedie
del
Rinascimento, il gioco delle situazioni aveva
letteralmente preso la mano agli autori e agli
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allestitori; le situazioni si susseguivano una
dietro l’altra con ritmo sempre più incalzante:
scambi di persone, travestimenti, equivoci, colpi
di scena e via. Ma gli autori di talento e
professionalità riuscivano a inserire con misura
e giusto valore questi espedienti scenici. È
facile
risolvere
l’andamento
drammatico
o
comico caricando di effetti a volontà. Difficile è
togliere, asciugare; e autori come Machiavelli, il
Della Porta per non parlare di Ruzzante ce ne
danno
un
positivo
esempio.
Il
discorso
sull’economia valeva anche per le scene o
meglio
per
gli
allestimenti
scenografici.
I
bozzetti d’impianto scenografico di Leonardo,
Brunelleschi, Andrea Del Sarto, Bastiano da
Sangallo, Tiziano e non ultimo del maestro della
prospettiva, Piero della Francesca, sono di una
essenzialità impressionante eppure maestosi.
La scena doveva soprattutto alludere, non
incombere e quindi sollecitare e dar spazio
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all’immaginazione degli spettatori. Di questo
intento ci dà testimonianza il prologo de
L’Erofilomachia di Sforza Oddi, rappresentato a
Perugia nei primi del Cinquecento.
Entra in scena lo stesso autore che si rivolge al
pubblico.
“Questa città, dove andremo a presentarvi la
passione che due giovani pruovano entrambi
per la stessa figliola, è Firenze. Ma non vi
maravigliate se, per avventura, totalmente non la
riconoscerete e se qui non potrete vedere quei
bei palazzi, tutti quei tempii e quelle strade
magnifiche che vi sono, poiché vi accadrà che
questa poca scena appena allusa, all’istante
somiglierà
tanto
a Firenze
in
quella
piu’
ineguagliabile presenza dove ha albergo e nido
di si’ gentili e amorose donne. E quelle,
avanzando
verso
voi
e
affacciandosi
ai
sentimenti vostri… e versandovi la miglior parte
di fino splendore, vi daran modo di scorgere
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grandemente tutto quello che non vi sta dipinto
e fabbricato in sulla scena. Grazie a quella lente
magica che impresta la malia, chi volgerà gli
occhi in questo teatro dirà senza altra pittura
che non solamente assimiglia a Firenze, ma ne
mostra e rappresenta oggi il più prezioso di
quella bellissima patria. E se qualche curioso
volesse sapere (per sentir forse troppo caldo)
dove è Arno per attuffarvisi dentro, sappia che
per tutt’oggi sarà qua dietro, e se vorrà venir
meco, glielo mostrerò: ma che, se starà qui con
attenzione, lo vedrà oggi più volte apparire,
crescere e inondare negli occhi di questi giovani
e queste figliole che vanno discorrendo di lor
melancolie e giocondità. Innamorati, maschi e
femmine, che o per ben imitare la favola o per
essere, specie i primi, veramente afflitti e
tormentati
da queste graziosissime donne,
spargeranno un larghissimo fiume di correnti
lagrime dagli occhi loro, in maniera che se i bei
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campi e vaghi giardini che sono riposti nel
vostro viso e nel vostro seno, onoratissime
gentildonne, non saranno una pietra, ne sorgerà
forse anco per quello qualche piccolo e limpido
ruscello e tutto a voi intorno spunteranno àlbori
con frutti e profumati fiori. Vedrete e udrete
uccelli che fan gran cantare e voi medesimi vi
troverete a correre e danzare fra quelle fronde, e
ancora, spinti dall’immaginata storia che si va a
dipanare, scorgerete monti sui quali andrete
sanza fatica a rampecàre e quando al fin sarete
giunti lassù al colle, di sotto a voi v’apparirà,
largo e profondo, il mare.”
A
questo
punto
dopo
avere
trattato
abbondantemente delle situazioni e delle chiavi
sceniche, credo sia giunto il momento di
illustrarvi qualcuna delle più celebri commedie
di quel tempo. La prima di cui ci piacerebbe
esporre l’argomento e il suo svolgersi è la
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Mandragola. È da sottolineare il particolare che
Machiavelli, già segretario della Repubblica
fiorentina,
in
seguito
alla
caduta
del
gonfaloniere Pier Soderini col quale collaborava,
viene processato e condannato al confino nel
territorio della Repubblica, quindi nuovamente
arrestato e torturato per sospetta congiura
contro i Medici. Liberato dall’amnistia seguita
all’elezione di papa Leone X, si ritira a vivere
nelle colline di San Casciano, dove appunto, fra
tanti scritti stende il testo della Mandragola.
Machiavelli,
nella
presentazione
della
commedia, lui di persona è sulla scena e
accenna agli eventi che l’hanno posto in grande
ambascia e umiliazione. Se la prende con gli
ipocriti “sergeri” ovvero servitori, i politici e gli
intellettuali del suo tempo che si pongono
bellamente al servizio dei potenti vendendo
dignità e onore.
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“E se questa materia, una comedia, non è degna
giacché tratta con leggertà d’argomenti faceti da
parte d’un uom che si picca d’esser saggio e
grave (il Machiavelli qui allude evidentemente a
se stesso), scusatelo se ei s’ingegna con questi
ameni pensieri, tentando di fare il suo triste
tempo più suave perché altrove non have dove
voltare el viso: ché gli è stato interciso
(interdetto) di mostrar con altre imprese le sue
virtue, per non conceder premio alle fatiche
sue”.
Di qui l’ex segretario della Repubblica si getta
indignato a denunciare lo stato della condizione
sociale e politica dell’Italia a quei tempi. “Così
ché ognuno si sta da canto e ghigna, dicendo
mal di ciò che vede o sente. Di qui depende
sanza dubbio alcuno che per tutto traligna da
l’antica virtù el secol presente; così che la gente
non più s’affatica e spasma per far con mille
suoi disagi un’opra che il vento de la calunnia di
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certo farà guasto o la nebbia dell’oblio al fin
ricoprirà”.
E sfacciatamente a ‘sto punto ci siamo permessi
di concludere con un brano tratto da Il Principe.
“Or dal di sotto scorgheremo spontare qualcun
che solamente per fortuna e per danari e per
grazia
e
appoggio
interessato
diventa
da
privato, principe: con poca fatica diventa ma
con assai maneggi e ordinamenti novi poi si
manterrà.” Ci spiacerebbe assai che a ‘sto punto
qualcuno di voi malignamente scorgesse una
similitudine di questi avvenimenti antichi con
situazioni e personaggi del nostro tempo.
Toglietevelo dal cervello, è del resto risaputo
che la storia non si ripete mai salvo che in farsa.
E veniamo alla trama di questa Mandragola.
Il protagonista amoroso è Callimaco che a
Parigi, mentre s’occupa d’affari e frequenta
lettere all’università della Sorbona, sente un
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amico elogiare con gran passione le bellezze e
le virtù di una giovane donna fiorentina di nome
Lucrezia.
Rimane
così
preso
da
quella
descrizione da non potersela più togliere dal
cervello. Viene anche a sapere che quella
splendida donna è maritata con un ricco
mercante e giurista, un poco allocco, di nome
Nicia. Callimaco torna a Firenze, deciso a
incontrare Lucrezia, la cui immagine nella sua
fantasia è cresciuta a dismisura, e armeggia con
l’aiuto di Ligurio, un mezzano di gran talento,
per giungere a possedere la donna. Ecco la
prima importante situazione. Nel frattempo Nicia
è alquanto afflitto: desidera ardentemente un
erede ma finora tutte le prove che ha messo in
atto per impollinare quel delicato fiore sono
andate a vuoto. Siamo alla seconda situazione.
“Eppure son buon calabrone e vo’ sbattendo
l’ali con passione in quella corolla” – commenta
e si lamenta disperato - “ma Lucrezia mia non
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s’ingravida”. Qui giunge in campo Ligurio, il
maneggione che si è fatto amico di Nicia, lo
adula e lo sfrutta. Il giovane Callimaco riesce a
convincere il maneggione a porsi al suo
servizio. Insieme preparano la trappola che
permetterà di realizzare il sogno del giovane
innamorato: costui dovrà recitare il ruolo di
sapiente medico laureato a Parigi che, grazie al
suo genio, ha assunto nella corte del re gran
fama tanto che per soli pochi giorni Enrico III gli
ha concesso di tornare a Firenze. E qui
giungiamo alla terza situazione. È lo stesso
Nicia che confida al portentoso medico della sua
difficoltà di aver figlioli e di temere d’esser lui la
causa di quella mancata gravidanza. Il medico
esegue una velocissima visita di controllo:
naso, occhi, lingua, lo palpa qua e là, commenta
il tutto in un latino molto colorito, quasi un
grammelot,
quindi lo rassicura “No,
state
tranquillo, voi avete tutti gli attributi necessari,
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anzi in abbondanza, per ingravidare qualsiasi
femmina foss’anche vostra madre. Se ci sta un
difetto, io credo sia nella vostra donna. Ad ogni
modo io debbo assolutamente esaminare le sue
orine.” Nicia corre a casa, bisticcia con la
moglie che si rifiuta di versargli immediatamente
il liquido essenziale in un vaso, la costringe alla
mescita e trionfante, sorreggendo il sacro pitale,
s’avvia a incontrare il medico del re. Siamo alla
quarta
situazione.
Il
giovane
mistificatore
esegue una grottesca pantomima che fa il verso
alle analisi scientifiche esibite dai medici:
sproloqui in latino, osservazioni del liquido
dopo
averlo
sbattuto,
frullato,
annusato,
oscultato, fino ad alludere mimicamente ad
assaggiarlo e classificarlo come fosse un vino
d’annata.
Quindi
la
sentenza:
“Bisogna
propinarle la mandragola, o meglio un decotto
tratto da quella radice. Con quel farmaco vostra
moglie resterà gravida in una settimana!” Nicia,
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sempliciotto e boccalone, beve la fandonia con
eccitata convinzione d’aver trovato il gran
rimedio. Vien procurata la radice e preparato
l’intruglio che verrà fatto sorbire a Lucrezia. Qui
scatta, è proprio il caso di dire, il gran
machiavello: la situazione a ribaltone grazie alla
quale la storia riceve un abbrivio davvero
inaspettato. Di che si tratta? È lo stesso medico
del re, spalleggiato da Ligurio, a porlo sul piatto
della commedia. “Una volta sorbita la pozione,
voi, Nicia, potrete giocosamente congiungervi
alla vostra donna, ma c’è un pericolo: rischiate
di rimanerci secco sul colpo, pardon sul coito.”
“O Potta avvelenata!” sbotta il rintronato “e che
è ‘sta novità? Non potrò più giacermi con la mia
femmina?”
“Calma, c’è il sistema per evitare che voi ci
restiate secco al primo incontro.”
“E quale sarebbe?”
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“Basta che voi, invece che il primo, siate il
secondo.”
“Come?”
“Semplice: chi fa l’amore con la vostra sposa
mandralogata muore e vi lascia immune di
provar tutte le volte che poi vi piaccia.”
Il rintronato è sgomento, fa resistenza, non può
accettare l’idea che un altro possa godere della
sua
femmina
seppur
restandoci
appresso
fulminato. “E poi chi sarà il prescelto?” “Uno a
caso, lo acchiapperemo fra quegli scioperati
sbilenchi che vanno la notte accompagnandosi
col liuto a cantar nei vicoli e nelle piazzuole.”
“No, io non vo’ far la mia donna mala femmina
nel letto mio per piacer d’altri e in più esser
costretto ad assistere coglioncione e becco!” A
‘sto punto il dottore finge un’arrabbiatura
magistrale: “Sicché voi vi rifiutate di fare quel
che, pur di guadagnar l’erede, fece il re di
Francia?”
Nominato
l’augusto
francese,
il
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rintronato cede. “Io son d’accordo, ma… come
convincere Lucrezia? Certo con quella donna
piena di pudori e santi pregiudizi sarà più
tosto.” A ‘sto punto la vicenda si muove rapida.
Entra in scena Fra’ Timoteo, una volpe con la
tiara, che con subdoli argomenti convince la
sposa a giacersi con un sostituto del marito
quindi si assiste alla cattura della vittima
sacrificale che, quinta situazione, sarà il finto
medico travestito da scioperato notturno. Qui
immaginiamo
l’incontro
fra
il
giovane
innamorato travestito e Lucrezia nella sua
camera, l’indignazione della donna che scopre
tutta la trappola e alla fine la commozione
quando si rende conto di quanta passione ha
spinto il giovane a inventar tutta quella folle
commedia pur di riuscire ad amarla, almeno per
una notte. La donna si scioglie in lacrime, e poi
seguono baci e abbracciamenti in una danza
come pesci che vanno scivolando un sull’altro
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per impazzimento. All’alba, poco prima di
lasciarsi, i due si promettono altri incontri e
Lucrezia
sentenzia
“Giacché,
grazie
alla
stoltaggine del mio sposo tu sei giunto in
questa casa e teneri ci siamo avvolti in queste
linzuola, quel che è accaduto, or io son certa,
che venga da una celeste disposizione. Perciò
questa grazia fortunata io me la tengo cara e
non sono sufficiente a ricusare quello che il
cielo vuole che io accetti. E tu voglio che sia
ogni mio bene; e quel che mio marito ha voluto
che mi accadesse per una notte, io voglio che
m’accada sempre.”
Verso la prima metà del ’500 per tutta l’Italia
cresce il numero degli autori di commedie,
soprattutto sorgono compagnie di dilettanti che
le inscenano con gran successo. La compagnia
che rappresenta a Venezia la Mandragola è
costretta a replicare per giorni e giorni, causa
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l’enorme richiesta del pubblico, finché la decima
rappresentazione viene sospesa per la gran folla
che si va accalcando nel salone, a rischio di far
crollare le arcate di sostegno al pavimento.
La prima compagnia di attori professionisti
nasce a Padova grazie ad Angelo Beolco detto il
Ruzzante.
Ruzzante è senz’altro il più importante uomo di
teatro non solo dell’Italia ma di tutti i tempi a
livello di Shakespeare, Molière e Calderon de la
Barca.
Certo un autore non molto conosciuto: a scuola
lo si glissa bellamente, a cominciare dalle nostre
università. La ragione principale è che la lingua,
il volgare usato nelle commedie, è come dice
Zorzi (uno dei più grandi studiosi del Ruzzante)
una lingua morta, ormai incomprensibile. Io
stesso, che l’ho recitato e studiato per anni, ho
spesso difficoltà a individuare il significato di
certe battute.
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Tempo fa ho voluto fare una verifica: sono
andato a Dolo e a Malo, due paesini della zona
presso Padova dove è nato Ruzzante. Lì parlano
ancora un dialetto arcaico, e ho cominciato a
dialogare con dei contadini in una specie di
tiritera
ruzzantiana
che
avevo
imparato
a
memoria. (Esegue una specie di grammelot) Mi
hanno
guardato
attoniti:
“Scusi,
ma
non
parliamo tedesco!” Non avevano afferrato una
parola.
Vedremo in seguito come Ruzzante non solo ha
ispirato i comici della Commedia dell’Arte, ma
attraverso
loro
anche
grandi
autori
come
Shakespeare. C’è una famosa sentenza del
matto nel Re Lear dove questi, rivolgendosi al
monarca,
dice:
“Troppo
in
fretta
ti
sei
invecchiato, non hai fatto in tempo a diventare
saggio”. Bellissima frase. Ebbene sentiamo
cosa
dice
settant’anni
in
un
prima
suo
commento,
Ruzzante:
circa
“Inveng’
io
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asdrùsseo me sòo, e no’ ho fait témp de
slunzondàrme
dell’embolzité
lezìra
de
la
zointezza” “Troppo in fretta mi son invecchiato,
non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera
imbecillità della giovinezza!”. Quale delle due
versioni è la migliore?… Fate voi!
C’è un’altra frase molto importante del Beolco,
però prima occorre che faccia una breve
introduzione.
Ruzzante è figlio di un medico di Padova. Nasce
da un rapporto casuale con una servetta che
lavora nella casa del dottore. La ragazza resta
gravida e, come è uso in quel tempo, viene
portata in un paese del circondario a gestire e
partorire. Il neonato, grazie all’intervento della
madre del dottor Beolco, viene allevato nella
casa patronale, ma non verrà mai riconosciuto
come figlio legittimo dal padre, se non in parte.
Eppure il piccolo Beolco dimostra intelligenza e
notevoli doti di apprendimento, ma pur essendo
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suo
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padre
magnifico
rettore
dell’ateneo
padovano, a lui non sarà mai concesso di
frequentare l’università. Si sa, nel ‘500 ai
bastardi era proibito entrarci.
Ciò nonostante mantiene sempre verso il padre
un sentimento di tenerezza, come ci testimonia
il brano seguente:
“Oh, vedrèssi entro mea mare stare descargolò
in ‘sa panza, e pì a retro ancora in vodrìssi es
dissòlto in me pare, in seme so’, e con quel, pì
retro ancor, retrouvàrme infricó in di soi
cojómbari… così che de contìnuo i podré
esfrigàrgheli quando io vo’!” “Oh vorrei poter
tornare accoccolato dentro la pancia di mia
madre, e ancora più indietro vorrei ritrovarmi
sciolto nel seme di mio padre e con quello più
indietro ancora ritrovarmi fioccato nei suoi
corbezzoli
così
che
di
continuo
potrei
romperglieli come mi pare!” Questo si chiama
“amore figliale”!
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Quando ha soltanto diciotto anni, Ruzzante
incontra il suo mecenate, si tratta di Alvise
Cornaro, letterato e architetto, famoso per aver
risolto il problema dell’interramento della laguna
deviando due fiumi fra cui il Brenta e un’ansa
del Po. È lui che, scoperte le straordinarie doti di
attore e di autore del Beolco, gli offre i mezzi per
poter
organizzare
una
compagnia
di
commedianti. A questo punto dovremo decidere
quale pezzo recitare fra i due che proponiamo:
l’orazione al cardinal Marco Cornaro o la
battaglia di Chiara D’Adda tratta dal Parlamento
del Ruzzante che venìa dal campo.
Parlamento de Ruzzante che iera vegnù de
campo: è il racconto di ciò che era accaduto nel
campo di battaglia fra le armate tedesca,
francese, milanese e dei Savoia più le truppe del
Papa contro l’armata dei Veneziani. Fra i soldati
della Serenissima erano stati ingaggiati qualche
migliaia di contadini padovani e delle valli
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friulane. Questi uomini avevano dimostrato
grande coraggio nella recente guerra che oggi
chiameremmo
partigiana,
nella
quale
gli
austriaci furono battuti e costretti a darsi alla
fuga. Gli scontri che avvengono fra i due eserciti
schierati
raccontati
lungo
dal
le
rive
Ruzzante
dell’Adda
con
un
vengono
realismo
sconcertante: una guerra orrenda e imbecille
come tutte le guerre.
Il soldato contadino vive i preamboli dello
scontro con gli ordini urlati dai capitani dei due
schieramenti. L’incitare alla lotta, i cannoni
caricati pronti a seminare morte e poi lo scontro,
i feriti, i cadaveri, la fuga, fino al momento in cui
Ruzzante si aggrappa alla cinta di un cavallo
con cavaliere che per poco non lo travolge, si
lascia
trascinare
senza
mollare
la
presa
sballonzolato fra le gambe del cavallo che va
all’impazzata, ma a un certo punto lui, Ruzzante,
si rende conto che sta mulinando le proprie
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gambe più veloci di quelle del cavallo e si è
caricato sulle spalle la bestia compreso il
cavaliere portando entrambi in salvo.
Per le continue guerre che vedevano tutti gli
eserciti
d’Europa
italiano,
il
scontrarsi
nostro
paese
sul
territorio
era
stato
soprannominato “il cimitero del Mediterraneo”.
Come Ruzzante, altri intellettuali del tempo si
gettarono con forte indignazione contro questo
ignobile gioco del massacro, a cominciare dal
Machiavelli
che
con spietata
ironia
aveva
stigmatizzato l’idea della guerra come logica
continuazione di quella che oggi chiamiamo “il
far politica con altri mezzi”. In più di uno scritto
indica come unica soluzione a questo folle
scempio la crescita collettiva nella democrazia,
la sola arma efficace soprattutto contro la
tirannia degli uomini di potere che stoltamente
si fanno convinti che ad essi sia tutto concesso
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e dovuto. Nei consigli al principe in un gioco a
ribaltone dove, fingendo di parlare al signore in
verità si rivolge ai sudditi, il Machiavelli dice:
“Quando a te, signore, capitasse di conquistare
uno territorio e il popolo che lo abita, bada bene
di conoscere avanti el modo di agire e di porsi
sotto governo che questo popolo ha in sua
tradizione e se scuoprirai che essa gente è usa
restare sotto dominio di uno tiranno supino e
condiscente senza accennar a lamentazione,
bada bene di non far regalìa di leggi che lo
faccino sortire da quella condizione. Ché esso
non
capirebbe
la
ragione
di
tanta
tua
magnanimità, e ti giudicherebbe uno principe
sconsiderato. Se al contrario quel popolo è uso
governarsi da sé solo con proprie leggi che si
dona appresso aver dibattuto con senno infra
tutte le corporazioni e anco a gestire con armati
propri da essi ordinati, ti consiglio, principe, di
non dimorare un’ora sola in quelle terre, lascia
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quello popolo imantinente al suo destino che
gimai tu averesti possibilità di governare tale
gente. Perennemente questi, usi come sono a
porre anzitutto i lor diritti, si gettirebbero in ogni
momento contro di te, che pensi cassare le
regole loro. E se proprio ti sei posto un orgoglio
di volerli forzatamente governare, ben sappi che
tu debbi imprigionare e occidere ogni uomo di
quella città e campagna e pur anco le femine
loro, compresi i figli che ancora hanno in
grembo, poiché essi per nutrimento sollato della
madre nasceranno già pregni del bisogno di
libertà.”
Non solo contro le guerre e la gestione del
potere si gettavano a far denuncia e satira gli
autori più “impegnati” del Rinascimento: uno
dei temi affrontati in palcoscenico era quello
delle false moralità e del mercato a vantaggio
della roba e dello scambio. In quella società
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spesso opulenta tutto aveva un prezzo, un
valore in moneta, anche la roba viva, uomini,
femmine e figlioli. Questo è l’argomento della
Venesiana di autore anonimo, incentrata sul
dialogo
fra
due
mercanti
cinquantenni
di
Venezia ancor carichi di energia.
Essi, amici da sempre, si incontrano su un
ponte fra le calli. Si abbracciano e giacché è un
po’ di tempo che non si vedono, hanno
parecchie cose da raccontarsi l’un l’altro.
Gli affari van bene, le navi e le merci viaggiano
tranquille, la salute è ottima, salvo qualche
acciacco di stagione. Ma per entrambi c’è
qualcosa che non va, anzi è una tragedia.
Indugiano a svelare ognuno il proprio cruccio.
Alla fine si confidano. comincia il mercante di
spezie.
NANE La cagion s’è la mia puta, me fiola.
BEPI
Cosa la g’ha combinà? L’è malada de
qualche morbo?
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NANE No, sana come un pesse… un pesse in
fregola!
BEPI Ah, un pesse in calor?
NANE Già, la s’è enamorada.
BEPI Bèn, manco male, l’è la soa stagiòn!
NANE No, fermate, no è un fiol de qua.
BEPI Foresto?
NANE Sì.
BEPI Nol sarà un turco?
NANE No, ma averìa preferso, piutosto che quel
malnato…
BEPI Perché malnato? L’è un giudìo?
NANE A sarìa anca contento… l’è un cherego
che steva in seminario e el s’è spretat.
BEPI
Ohi, che so’ i pegiori, quei! Trufloni,
bosiardi, leccapìe e ciape e in più introcadori de
femine.
NANE Ecco, e lo me g’ha capità a la mia fiola!
BEPI Te la g’ha già impastonada, quel?
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NANE No, ma se no me sbrigo de prescia me la
retroverò tüta petenada a spassole.
BEPI Oh… te comprendo bèn!
NANE No che no ti me pol capir, se no ti se
retrovi incastonà derentro a ‘na tragedia de ‘sta
fatta.
BEPI Eh apposta che mi me getrovo impastonà
compagn de tì: inciodàt su la crose.
NANE Anca ti per via de la toa fiola?
BEPI Sì, anco ela la s’è infricada d’amor per un
malnato.
NANE Un altro cherego spretà?
BEPI No, pegior: ‘sto fiol d’un can l’è un soldat!
NANE No…!?
BEPI
Sì… un serzent de cavaleria… senza
nemanco el caval.
NANE Oh, no ti sta proprio bèn nemanco tì…
BEPI
E sa to cosa è la maledision che me
anderà a copare?
NANE Dime…?
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BEPI Che anderan, la mia fiola e ‘sto can senza
caval, in gondoja a la ultima note de Carneval…
NANE Loro doi soli?
BEPI No, le la se metüd de acordo de retrovarse
con una sua amisa, una che se ciama Fiorina…
NANE
Fiorina…? Ma l’è la mia fiola! Eh, ho
savut anco mi che la anderà de gondoja venerdì
de grasso con una soa comarella che g’ha nome
Premavera.
BEPI Ecco, Premavera l’è appunto la fiola de mì.
NANE
Demose la man, semo doi cojon col
fiocco.
BEPI Oh, mì vago fora de zervello… con tüta la
fatiga ch’ho fatto pe’ levarla, cresserla, e j
sgrìsoj de paura, de patimento, de quando la
sera amalada de polmon, che tì lo sabi bèn: me
toccò de lassare Venessia e andar dislogarme
fin su in le montagne del Carso, per farghe
respirar l’aria bona, e g’ho dovudo cambiar
mester che del trafecar in telame de coton e seta
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me so’ arrangià a tratar de legname in tronchi
d’albero e debio bèn dir che S. Marco me g’ha
premiò per el sacrifizio che g’avea fatt per amor
de la mia fiola. E El ha fatt de manera che i
Turchi j g’ha attaccà a Zante mandandoghe a
pico una armada intera così ché ol valor del
legname s’è treplicà.
NANE Anco mì, a g’ho penà per la mia fiola. Me
so indebetà coi usurari per mandala a scola,
comprarle vestimenti che la fasessero apparir
de so’ ceto e po’ pagar maestri de danza perché
la emparasse a moverse come un anzelo.
BEPI
E mì, alora? Che g’ho dovüt scambiar
casa perché no’ la sfigurasse in le feste e
comprarghe gondoja longa col so’ gondojer e
procuparme de che nisciuno la ghe mancasse
de respecto e farghe regalìa sdolzinasse. El
sangue g’ho zittat!
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NANE
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E mì g’ho spüdà l’anema per fala
contenta. E adesso? Arriveno ‘sti doj malnati e
ghe le stropieno in festa.
I due mercanti scoppiano quasi in lacrime.
Commentano che quelle due figliole sono il loro
capitale, fanno parte della “robba” loro e non le
possono buttare in pasto ai primi due cialtroni
che le hanno accalappiate. Alla fine, quasi
all’unisono, hanno un’idea: quel loro possesso
non può essere goduto da chicchessia salvo
loro.
NANE (scandalizzato) Pensi a un incesto?
BEPI
No, approfittando del Carnevale, io mi
vado ad addobbare con lo stesso costume del
ganzo di tua figlia e tu indosserai il medesimo
costume dello spretato.
NANE
Pagheremo
due
bravacci
perché
catturino i due spasimanti e li rinchiudano in
qualche posto per tutta la notte. Noi salteremo
sulla gondola io abbracciato alla tua figliola, tu
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alla mia, e la robba sarà consumata… ma in
casa.
Non c’è bisogno d’altro commento per intendere
la spietata forza satirica di questa commedia.
Arriviamo alla nascita della commedia dell’arte.
“Arte” nel Cinquecento significava “mestiere”
quindi la commedia degli attori di mestiere cioè
professionisti. Come abbiamo già accennato fu
il Beolco detto Ruzzante a organizzare per primo
una compagnia che legava i commedianti con
tanto di contratto e statuto, regole e penali. La
grande
fortuna
determinata
di
queste
senz’altro
compagnie
avanti
tutto
fu
dalla
professionalità e dall’invenzione di una struttura
di
palcoscenico
nuova
che
vedeva
una
macchina scenografica complessa e di alta
tecnologia. Ancora, ciò che distingueva un
attore
occasionale
o
dilettante
dal
professionista della commedia dell’arte era l’uso
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che questi ultimi sapevano fare del proprio
corpo.
Si
dimostravano
mimi
eccellenti
e
straordinari acrobati, usavano con sapienza la
voce tanto nel recitare che nel canto, spesso si
accompagnavano
formando
una
con
vera
strumenti
e
propria
musicali
orchestra.
Rapidamente si formarono decine di compagnie
regolari e di teatranti professionisti a Napoli
come in Sicilia, a Roma e in tutto il resto d’Italia.
Il Veneto con a capo Venezia vide il formarsi di
gruppi teatrali la cui fama raggiunse ben presto
tutta
l’Europa.
Spesso
capocomici
e
protagonisti erano anche autori dei testi, vedi
l’Andreini e Tristano Martinelli, il creatore di
Arlecchino; testi che, proprio perché realizzati
dentro una struttura scenografica di grande
agilità, potevano approfittare di interni, esterni,
giardini con cambi di scena rapidissimi. Altro
fatto completamente nuovo era la creazione
delle maschere che non allude solo al calco di
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cuoio da applicare sul viso ma ai diversi
caratteri: lo Zanni, il dottore, il Magnifico, la
signora, l’amorosa. Qui la grande novità sta
proprio nel particolare che a recitare i ruoli
femminili non erano più dei ragazzi travestiti da
femmine
(i
famosi
“mariuoli”,
termine
proveniente dalle rappresentazioni sacre dove
giovani attori recitavano i ruoli delle “Marie”,
compresa la Madonna) bensì donne vere e
proprie con doti di attrici spesso straordinarie.
Così ecco che a differenza delle commedie di
sapore plautino dell’inizio del Cinquecento dove
i ruoli femminili erano limitati a poche entrate
piuttosto
semplificate
qui
nella
commedia
dell’arte le “parti” delle “signore”, delle amorose
e delle lenone assumono dimensioni davvero
importanti: è così che nasce il ruolo della prima
donna.
Ancora,
commedia
degli
altro
fatto
attori:
nuovo,
nella
tutto
viene
rappresentato. Se rileggete un testo di Bibbiena,
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Machiavelli, Della Porta, vi renderete conto che
gran parte delle situazioni sono raccontate dagli
attori come fatti già avvenuti; al contrario nella
commedia dell’arte ogni azione viene per intiero
recitata e mimata in tempo reale dagli interpreti.
Esempio della Mandragola dove è il giovane
protagonista che riferisce le parole di chiusura
della commedia dette da Lucrezia “Giacché,
grazie alla stoltaggine del mio sposo tu sei
giunto in questa casa e teneri ci siamo avvolti in
queste linzuola, quel che è accaduto, or io son
certa, che venga da una celeste disposizione.
Per cui questo dono di te io me lo conservo.
(...)”
Dunque,
dicevamo,
nella
Mandragola
Lucrezia non appare ma parla per voce del suo
innamorato. Al contrario in una riedizione di
quest’opera, di cui esiste un canovaccio, messa
in
scena
dalla
compagnia
dei
Rintronati,
Lucrezia dice in prima persona quella frase
mentre, sdraiata sul letto, abbraccia e bacia il
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suo innamorato. Ancora, il dialogo fra i due è
più
esteso
e
corredato
da
gestualità
e
contrappunto di lenzuola che si sollevano a
danza alludendo a un appassionato rapporto
amoroso.
Dicendo del grande successo della commedia
dell’arte,
specie
nella
seconda
metà
del
Cinquecento, si può dire che ogni grande o
piccolo principe d’Italia sovvenzionava una sua
compagnia
mentre
le
più
prestigiose
si
gestivano autonomamente. Si erano anche
formati gruppi di attori che giravano per i centri
minori, per borghi e paesi, portandosi appresso
palchi e scene montate su ruote. La gente di
città e di campagna, dagli artigiani ai borghesi,
si accalcava nei saloni e nelle piazze dove si
davano le commedie. La Chiesa cominciò a
studiare questo fenomeno; preti e vescovi
iniziarono a commentare nei loro sermoni, chi
benevolmente
chi
con
preoccupazione,
il
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crescere incontrollabile di questo nuovo rito che
rischiava di incidere fortemente nella placida
cultura dei fedeli. Su questo argomento ci è
pervenuta qualche lettera scritta dal Cardinale
Borromeo. Ve ne proponiamo una in particolare,
rivolta ai sacerdoti e ai vescovi della sua vasta
Curia.
“Sia chiaro che il teatro è di gran lunga più
efficace nell’incidere sul pensiero della gente di
quanto non lo siano le lettere. In primo, poiché
gli scritti possono essere letti da pochi mentre
sempre più numerosi sono i parrocchiani (fedeli)
che partecipano entusiasti agli spettacoli dei
commedianti. E ancora possiamo ben dire che le
lettere sono ormai cosa spenta, morta quanto al
contrario il teatro è vivo. E questo poiché quei
comici parlano non solo alle menti degli
spettatori ma anche e soprattutto ai loro occhi e
alle loro orecchie attraverso i loro corpi, i gesti,
le danze, i canti e i suoni degli strumenti che
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producono musica. E poi aggiungete le trame e
le storie delle commedie e dei drammi presentati
con chiarezza e semplicità… per cui si ha una
giovane, sorretta da servi intriganti e spassosi,
che riesce a gabbare il padre che voleva offrirla
ad
un
altro
pretendente.
E
di
tanto
rovesciamento della consuetudine il pubblico
ride e applaude. Si incitano queste anime
spesso semplici e prive di discernimento ad
abbattere convenzioni, norme e precetti e farsi
beffa d’ogni ordinamento a cominciare da quello
che vive e regola la famiglia per poi salire in
alto, sempre più in alto a eludere e scardinare
ogni regola e autorità.”
E
in
un’altra
lettera,
un
suo
vescovo
collaboratore aggiunge una larga postilla che,
senza che se ne renda conto, esprime il più
grande elogio che si possa pensare al teatro:
“Essi comici non ripetono a memoria le frasi
scritte come sono soliti i bambini e gli attori
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recitanti
per
diletto.
Questi
ultimi,
immancabilmente, danno l’impressione di non
conoscere il significato di ciò che vanno
ripetendo e per questa ragione adoperano in
tutte le rappresentazioni le stesse parole della
nuova
comedia,
si
inventano
ogni
volta,
apprendendo prima la sostanza, come per brevi
capi
e
punti
ristretti,
recitano
poi
improvvisamente così addestrandosi ad un
modo libero, naturale e grazioso. L’effetto che
ne
ottengono
coinvolgimento,
sul
quel
pubblico
è
modo
così
di
molto
naturale
accende passioni, commozioni, che son di grave
pericolo per il plauso che si fa della festa
amorale dei sensi e della lascivia, del rifiuto
delle buone norme, della ribellione alle sante
regole della società, creando gran confusione
presso le semplici persone.”
Ma l’invenzione più magistrale dei comici
dell’arte fu senz’altro il grammelot. Il termine è
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di
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origine
lombardo-veneta
(gramlotto)
e
significa articolar parole e suoni inventati: un
papocchio di termini astrusi che riescono
egualmente a evocare il senso del discorso.
“Grammelot” è un gioco onomatopeico di una
ciancia
che,
coadiuvata
da
gesti,
ritmi
e
modulazioni è in grado di trasmettere un intero
discorso compiuto. Il grammelot può essere
applicato a tutte le lingue, naturalmente per
giungere a impararne la tecnica, oltre a una
certa dote, bisogna esercitarsi lungamente. Di
certo le prime maschere della commedia ai quali
fu applicato il grammelot, furono senz’altro gli
Zanni. Chi sono gli Zanni? Non si tratta di
maschere ma personaggi che si rifanno alla
realtà. Zanni era il soprannome che si dava ai
contadini delle valli a nord del Po.