29-Nodari (145-151) - Giornale Italiano di Cardiologia

INSUFFICIENZA CARDIACA
Terapia farmacologica dello scompenso cardiaco cronico:
realtà e prospettive
Savina Nodari, Marco Triggiani, Alessandra Manerba, Laura Lupi, Livio Dei Cas
Sezione di Malattie Cardiovascolari, Dipartimento di Medicina Sperimentale ed Applicata, Università degli Studi e Spedali Civili, Brescia
Despite significant advances in pharmacological and non-pharmacological therapy, epidemiological data from
European and US hospitals show that the prevalence of heart failure (HF) hospitalization, especially for patients >65 years, continues to rise. Hospitalization for worsening HF is one of the most important predictors
of short- and long-term outcomes in patients with chronic HF. There is therefore a clear need for new therapies that can work synergistically with standard medications to reverse the progression of the disease and improve myocardial efficiency. In the last years, researches in chronic HF focused on drugs that can exert a greater
attenuation of neurohormonal activation and that can improve cardiac energy and substrate utilization.
Key words. Heart failure; Hospitalization; Metabolism; Pharmacological therapy.
G Ital Cardiol 2012;13(10 Suppl 2):145S-151S
INTRODUZIONE
Nel corso degli anni, a causa del progressivo invecchiamento
della popolazione e dei miglioramenti del trattamento della fase acuta, lo scompenso cardiaco (SC) ha assunto una dimensione epidemiologica sempre più rilevante ed attualmente è la
patologia cardiovascolare a maggiore prevalenza (oltre 100 casi per 1000 soggetti di età >65 anni) ed incidenza (1-5 nuovi casi per 1000 soggetti/anno)1. Gli obiettivi della terapia dello SC
sono il miglioramento dei sintomi e della capacità funzionale,
il prolungamento dell’aspettativa di vita e la riduzione delle
ospedalizzazioni. Per il raggiungimento di tali obiettivi, le possibilità terapeutiche sono molteplici e comprendono misure di
ordine generale (consigli di educazione sanitaria, consigli dietologici ed esercizio fisico), trattamenti farmacologici, non farmacologici e chirurgici2. Nonostante il miglioramento in termini prognostici ottenuto negli ultimi anni grazie all’utilizzo di farmaci in grado di antagonizzare l’iperattivazione neurormonale
e, successivamente, dei dispositivi di resincronizzazione ventricolare e dei defibrillatori, il numero di ospedalizzazioni per SC
è in costante aumento3. Lo SC resta infatti la causa più comune di ospedalizzazione nei pazienti di età >65 anni, e negli Stati Uniti si calcola che più di un milione di pazienti venga ricoverato ogni anno a causa del peggioramento del compenso
emodinamico, con aumento esponenziale della spesa sanitaria4,5. In Europa, i costi per lo SC rappresentano circa il 2% della spesa sanitaria nazionale, con il 70% determinato dai costi
delle ospedalizzazioni6. I dati che derivano dagli studi clinici e
dai registri internazionali illustrano l’importante impatto prognostico delle ospedalizzazioni nei pazienti affetti da SC mostrando tassi di mortalità e riospedalizzazione a 90 giorni dalla
© 2012 Il Pensiero Scientifico Editore
Gli autori dichiarano nessun conflitto di interessi.
Per la corrispondenza:
Prof.ssa Savina Nodari Sezione di Malattie Cardiovascolari,
Dipartimento di Medicina Sperimentale ed Applicata, Università degli
Studi e Spedali Civili, Piazzale Spedali Civili 1, 25123 Brescia
e-mail: [email protected]
dimissione che possono raggiungere il 30%, con una conseguente ulteriore lievitazione della spesa sanitaria7,8. È diventato quindi imperativo focalizzare l’attenzione su nuove possibili
terapie, in grado di migliorare ulteriormente la prognosi del paziente con SC9. L’attenzione del mondo scientifico si è quindi
focalizzata sullo sviluppo di molecole in grado di esercitare una
maggiore modulazione dell’attivazione neuroendocrina e un
maggior controllo della frequenza cardiaca (FC) e sull’utilizzo
di terapie non farmacologiche che, insieme al trattamento convenzionale, potrebbero contribuire a migliorare il metabolismo
del miocita e quindi a rallentare la progressione della malattia.
L’INIBIZIONE DIRETTA DELLA RENINA: ALISKIREN
Tra i farmaci dotati della capacità di agire in senso favorevole sul
quadro clinico e sulla prognosi dello SC vanno certamente annoverati quelli in grado di interferire con l’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone (SRAA), i quali in virtù del loro
meccanismo d’azione e delle interazioni che esistono tra tale sistema e la progressione della disfunzione ventricolare, hanno significativamente modificato la storia naturale della malattia10.
Benché l’introduzione e l’utilizzo di inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) e sartani rappresenti un punto fermo nel trattamento dello SC, esistono alcuni limiti all’utilizzo di questi farmaci e le difficoltà nel garantire una inibizione completa del SRAA ha stimolato la ricerca all’identificazione di nuovi farmaci in grado di garantire un blocco più efficace di tale sistema11. Aliskiren è un potente inibitore competitivo della renina che, impedendo la conversione dell’angiotensinogeno in angiotensina I, garantisce un blocco del SRAA all’origine. La possibilità di ottenere mediante aliskiren un’inibizione diretta della renina permette un vantaggio teorico rappresentato dalla riduzione dell’attività reninica plasmatica12.
Nello studio Val-HeFT (Valsartan Heart Failure Trial), condotto
in pazienti affetti da SC ed in terapia con ACE-inibitore e sartano o ACE-inibitore e placebo, l’attività reninica plasmatica si
era dimostrata un fattore prognostico negativo indipendente13.
In un recente studio randomizzato e placebo-controllato, conG ITAL CARDIOL | VOL 13 | SUPPL 2 AL N 10 2012
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S NODARI ET AL
dotto in pazienti affetti da SC in classe funzionale NYHA II-IV,
l’aggiunta di aliskiren (al dosaggio di 150 mg/die) alla terapia
medica ottimizzata con ACE-inibitore o sartano e betabloccante ha dimostrato effetti neurormonali favorevoli. Dopo 90 giorni nel gruppo in trattamento veniva osservata una significativa
riduzione dei valori di NT-pro-peptide natriuretico cerebrale
(BNP) (p=0.0106), di BNP (p=0.01) e di aldosterone urinario
(p=0.01). Il farmaco risultava nel complesso molto ben tollerato con una incidenza di effetti collaterali non significativa14.
L’entusiasmo per questa molecola è stato però recentemente
smorzato dai risultati di un recente trial condotto in pazienti
diabetici ad alto rischio di eventi cardiovascolari e renali, dove
aliskiren veniva somministrato alla dose di 300 mg/die in aggiunta alla terapia standard, che comprendeva un ACE-inibitore o un sartano. In questa popolazione è stata infatti osservata
una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari, complicanze
renali, iperkaliemia ed ipotensione, per cui lo studio è stato interrotto prematuramente15-17. Una maggiore comprensione dei
potenziali effetti positivi, anche in termini prognostici, di aliskiren nello SC cronico potrà essere fornita dai risultati dello studio ATMOSPHERE (Aliskiren Trial to Mediate Outcome Prevention in Heart failuRE), tutt’ora in corso18. Uno degli obiettivi di
questo trial multicentrico, che sta arruolando pazienti con disfunzione ventricolare sinistra (frazione di eiezione [FE] <35%)
ed elevati livelli plasmatici di BNP (>100 pg/ml) nonostante terapia medica ottimizzata, è quello di valutare se la terapia di
associazione aliskiren + enalapril possa essere superiore alla monoterapia con ACE-inibitore nel ritardare la morte cardiovascolare o le ospedalizzazioni per SC. Il secondo obiettivo è quello
di valutare la superiorità (o almeno la non inferiorità) della monoterapia con aliskiren rispetto alla monoterapia con enalapril
sugli endpoint mortalità e ospedalizzazioni cardiovascolari.
FARMACI ANTIALDOSTERONICI NELLO SCOMPENSO
CARDIACO IN CLASSE FUNZIONALE NYHA II
I benefici degli antialdosteronici in termini di riduzione della
mortalità totale e della morte cardiaca improvvisa nello SC sono stati dimostrati dai trial RALES (Randomized Aldactone Evaluation Study; spironolattone vs placebo)19 ed EPHESUS (Eplerenone Post-Acute Myocardial Infarction Heart Failure Efficacy
and Survival Study; eplerenone vs placebo)20 che hanno arruolato pazienti con SC in classe funzionale NYHA III-IV e pazienti
con disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale, rispettivamente. Alla luce dei risultati di questi trial, le linee guida europee per il trattamento dello SC del 2008 indicavano l’uso degli
antialdosteronici nei pazienti con disfunzione sistolica ventricolare sinistra (FE ≤35%), in presenza di sintomi moderato-severi
(NYHA III-IV) ed in corso di terapia ottimizzata con ACE-inibitori e betabloccanti21. Tuttavia bisogna tenere in considerazione
che questi studi risalgono a diversi anni fa e che i pazienti arruolati spesso non erano in terapia medica ottimizzata (ad es.
solo il 10% dei pazienti nello studio RALES era in trattamento
con un betabloccante). Inoltre, in considerazione dei presupposti fisiopatologici favorevoli alla riduzione dei livelli di aldosterone nei pazienti con SC22, è nata la necessità di verificare il
possibile beneficio degli antialdosteronici in pazienti in classe
funzionale meno avanzata. In questo contesto si inserisce lo studio EMPHASIS-HF (Eplerenone in Mild Patients Hospitalization
and Survival Study in Heart Failure)23, che ha arruolato soggetti affetti da SC lieve-moderato (classe NYHA II) con FE ≤35% e
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li ha randomizzati a ricevere eplerenone (alla dose di 50 mg/die)
o placebo. Più dell’85% dei pazienti arruolati era in terapia con
betabloccanti e quasi tutti (93%) assumevano un ACE-inibitore o un sartano. Dopo un follow-up di 21 mesi, nel gruppo trattamento si è osservata una riduzione dell’endpoint combinato
ospedalizzazione per SC e mortalità cardiovascolare pari al 37%
(hazard rario [HR] 0.63; intervallo di confidenza [IC] 95% 0.540.74; p<0.001) e una riduzione del 24% della mortalità per tutte le cause (HR 0.76; IC 95% 0.62-0.93; p=0.008). La terapia
con eplerenone si è inoltre dimostrata efficace anche in termini di sicurezza e tollerabilità23. I risultati positivi dello studio EMPHASIS-HF hanno fornito importanti elementi di prova per il recente ampliamento dell’indicazione all’uso dei farmaci antialdosteronici anche in pazienti con SC lieve-moderato (classe
NYHA II) nonostante il trattamento ottimizzato con ACE-inibitori o sartani e betabloccanti2 (Figure 1 e 2).
MAGGIOR CONTROLLO DELLA FREQUENZA
CARDIACA: IVABRADINA
La tachicardia si associa alla progressione stessa della malattia,
costituendo inizialmente un meccanismo di compenso e successivamente un fattore aggravante lo SC stesso24. La riduzione
della FC può spiegare, almeno in parte, gli effetti favorevoli ottenuti con la terapia betabloccante sulla funzione cardiaca e sulla prognosi nei pazienti affetti da SC25. In una analisi dello studio CIBIS II (Cardiac Insufficiency Bisoprolol Study-II)26 la variazione della FC rispetto al valore basale, registrata a 1 anno di follow-up, è risultata un fattore di rischio indipendente per mortalità e riospedalizzazioni per SC. Risultati analoghi sono emersi anche dalle rianalisi degli studi COMET (Carvedilol or Metoprolol European Trial)27 e MERIT-HF (Metoprolol Controlled Release/Extended Release Randomized Intervention Trial in Chronic Heart Failure)28. Il raggiungimento di valori di una FC compresa tra 60 e 70 b/min rappresenta pertanto uno degli obiettivi della terapia betabloccante nel paziente con SC. Questi farmaci, tuttavia, a causa dell’eterogeneità delle risposte individuali, dei loro effetti collaterali e della loro relativa scarsa tollerabilità, non vengono utilizzati a pieno dosaggio nella maggior
parte dei casi e almeno la metà dei pazienti trattati ha una FC
che resta >70 b/min. Inoltre i betabloccanti sono controindicati nel 10-20% dei pazienti a causa della presenza di importanti
comorbilità, quali la broncopneumopatia cronica ostruttiva (soprattutto se con componente asmatica) e l’arteriopatia periferica29. Nel corso degli anni si è reso pertanto necessario avere a
disposizione farmaci con effetto bradicardizzante da utilizzare in
associazione o in alternativa ai betabloccanti. L’ivabradina è il
capostipite di una nuova categoria di farmaci ad azione bradicardizzante in grado di inibire in modo selettivo e dose-dipendente la corrente “funny” (If) a livello delle cellule pacemaker
del nodo seno-atriale30. Questa molecola non influenza l’attività di altri canali nel sistema cardiocircolatorio e, contrariamente ai betabloccanti, non modifica la contrattilità del miocardio e
la conduzione intracardiaca, anche nei pazienti con funzione sistolica compromessa31. Studi sperimentali suggeriscono che la
riduzione della FC ottenuta con la somministrazione di ivabradina riduca l’aterogenesi, lo stress ossidativo, la disfunzione endoteliale e la densità del collagene miocardico, modificazioni
che favoriscono il rimodellamento ventricolare sinistro32. Il beneficio in termini di mortalità e morbilità ottenibile con l’impiego di ivabradina nello SC è stato valutato nel trial SHIFT (Systo-
NUOVE TERAPIE PER LO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO
SC sintomatico + ridotta FE
Diuretico + ACEI (o sartano)
Titolare fino alla stabilità clinica
Betabloccante
Sì
Persistono segni e sintomi?
NYHA III-IV
Aggiungere antialdosteronico
o sartano
QRS >120 ms?
Sì
No
FE <35%?
No
Persistono
i sintomi?
Sì
No
Sì
No
Considerare
CRT
Considerare digossina,
idralazina, LVAD, trapianto
Considerare
ICD
Non altri
trattamenti
Figura 1. Algoritmo per il trattamento dello scompenso cardiaco.
ACEI, inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina; CRT, terapia di resincronizzazione cardiaca; FE, frazione di eiezione; ICD, defibrillatore impiantabile; LVAD, dispositivo di assistenza ventricolare sinistra; SC, scompenso cardiaco.
Adattata da Dickstein et al.21.
SC sintomatico + ridotta FE
Diuretico + ACEI (o sartano)
Titolare fino alla stabilità clinica
Betabloccante
Sì
Persistono segni e sintomi?
NYHA II-IV
No
Aggiungere antialdosteronico
Persistono segni e sintomi? NYHA II-IV
FE ≤35% e FC ≥70 b/min in ritmo sinusale?
No
Sì
Aggiungere ivabradina
Persistono segni e sintomi?
NYHA II-IV e FE ≤35%
No
Sì
Considerare CRT/ICD o ICD
Non altri trattamenti
Figura 2. Algoritmo diagnostico per il trattamento dello scompenso cardiaco sintomatico.
ACEI, inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina; CRT, terapia di resincronizzazione cardiaca; FC, frequenza cardiaca; FE, frazione di eiezione; ICD, defibrillatore impiantabile; SC, scompenso cardiaco.
Adattata da McMurray et al.2.
lic Heart failure treatment with the If inhibitor ivabradine Trial)33.
In questo studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco,
controllato verso placebo sono stati arruolati 6505 pazienti con
SC cronico sintomatico (classe NYHA III-IV), con disfunzione sistolica ventricolare sinistra (FE <35%), tutti in ritmo sinusale (FC
≥70 b/min), ed in trattamento medico ottimizzato da almeno 4
settimane. I risultati dello studio hanno mostrato una riduzione
del 18% (HR 0.82; IC 95% 0.75-0.90; p<0.0001) dell’endpoint
combinato, mortalità cardiovascolare e riospedalizzazioni per
SC, nel gruppo in trattamento. All’analisi dei singoli endpoint
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S NODARI ET AL
non si è osservato un effetto statisticamente significativo su
mortalità cardiovascolare e mortalità totale. Pertanto il miglioramento dell’endpoint primario era da attribuirsi all’effetto dell’ivabradina sulla riduzione delle riospedalizzazioni per SC, risultata del 26% (HR 0.74; IC 95% 0.66-0.83; p<0.0001). Il 5%
dei pazienti trattati con ivabradina ha manifestato bradicardia
sintomatica rispetto all’1% dei pazienti trattati con placebo
(p<0.0001). Il contributo principale dello studio SHIFT consiste
nell’aver dimostrato che nei pazienti con SC la FC è un importante fattore di rischio indipendente per eventi avversi e, sulla
base dei risultati ottenuti da questo trial, le ultime linee guida
europee per la diagnosi e il trattamento dello SC2 pongono una
nuova indicazione all’utilizzo di ivabradina come terapia aggiuntiva per i pazienti che rimangono sintomatici con una FE ridotta e FC ≥70 b/min (Figure 1 e 2).
micronutrienti, sia in modelli animali43, sia in pazienti con SC42,44
hanno fornito maggiori evidenze a favore di un miglioramento
della struttura e funzione dell’apparato contrattile, nonché una
riduzione del rimodellamento miocardico e un miglioramento
della FE. In particolare, nello studio randomizzato controllato
con placebo di Witte et al.44, condotto in pazienti anziani (età
>75 anni) con disfunzione sistolica ventricolare sinistra (FE
<35%), è stato osservato, dopo un periodo di 9 mesi di supplementazione combinata di vitamine, minerali e coenzima
Q10, un significativo miglioramento della FE e dei volumi ventricolari (valutati mediante risonanza magnetica) rispetto al placebo. Tuttavia, le sperimentazioni attualmente eseguite sono
poche, relative a casistiche troppo esigue e follow-up troppo
breve per considerare conclusivi questi promettenti risultati.
Trial di più grandi dimensioni saranno necessari per confermare questi risultati e per andare ad indagare anche i possibili effetti sulla prognosi.
TERAPIE NON CONVENZIONALI
Macro e micronutrienti
Il miocardio ha bisogno di un continuo apporto di substrati
energetici e di aminoacidi per mantenere la propria funzione.
Le alterazioni delle richieste metaboliche che caratterizzano il
miocardio insufficiente e che contribuiscono al processo di deterioramento della funzione contrattile, portano a uno stato di
iponutrizione anche in condizioni di normale apporto dietetico34. Queste carenze compromettono a livello del miocita la sintesi proteica, il metabolismo energetico, l’omeostasi del calcio
e aumentano lo stress ossidativo35. Nei pazienti affetti da SC è
stata infatti ampiamente documentata la presenza di una carenza di specifici macro e micronutrienti come la carnitina (che
svolge un ruolo critico nel trasporto degli acidi grassi a lunga catena per la beta-ossidazione all’interno dei mitocondri e nel
mantenimento di un adeguato metabolismo ossidativo del glucosio), il coenzima Q10 (importante per i processi di fosforilazione ossidativa a livello dei mitocondri e come antiossidante
endogeno), la creatina (importante riserva di fosfati ad alta
energia), la tiamina (importante per il metabolismo dei carboidrati) e la taurina (importante per il mantenimento dell’omeostasi del calcio intracellulare attraverso una modulazione dei canali ionici e degli scambiatori a livello del sarcolemma e del reticolo sarcoplasmatico, oltre ad essere un importante antiossidante endogeno)36,37. Inoltre, alcuni farmaci largamente utilizzati nei pazienti con SC (diuretici, statine) possono contribuire
ad un’ulteriore deplezione di alcuni di questi importanti cofattori (tiamina, coenzima Q10). La carenza di micronutrienti può
pertanto svolgere un importante ruolo nella patogenesi e nella progressione della disfunzione miocardica e condizionare negativamente la prognosi dei pazienti con SC38. Piccoli studi eseguiti per valutare gli effetti della supplementazione di alcuni di
questi micronutrienti in pazienti affetti da SC cronico, hanno
suggerito un potenziale beneficio in termini di miglioramento
dei parametri funzionali, strutturali ed emodinamici39-41. Tuttavia nessuno di questi studi è risultato conclusivo e spesso i risultati sono stati contrastanti tra loro. Al di là dei limiti metodologici (dose, limitata numerosità del campione, parametri valutati, breve follow-up, ecc.), il punto critico di queste sperimentazioni è rappresentato dal fatto che è impensabile che il
ripristino di uno solo di tali costituenti nutrizionali, di cui il miocardio insufficiente è carente, possa correggere una cascata di
alterazioni metaboliche fra loro interconnesse42. Al contrario,
recenti sperimentazioni con supplementazione combinata di
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Supplemento marziale
Il ferro svolge un ruolo molo importante nel metabolismo ossidativo, essendo non solo un elemento fondamentale dell’emoglobina, ma anche il protagonista dei meccanismi energetici a livello muscolare45. L’anemia secondaria a carenza di
ferro è frequente nei pazienti con SC ed è causa di alterazioni
della capacità di trasporto dell’ossigeno e dell’ossidazione tessutale, con conseguente diminuzione del consumo d’ossigeno
e della resistenza allo sforzo46. Anche in assenza di anemia, la
carenza di ferro può ridurre le prestazioni fisiche45. In un recente studio multicentrico, randomizzato in doppio cieco, controllato con placebo che ha arruolato 461 pazienti affetti da SC
con livelli plasmatici di ferritina sierica <10 mg/dl e valori di
emoglobina compresi tra 9.5 e 13.5 g/dl, è stato dimostrato
che la supplementazione endovenosa di 200 mg/die di ferro ha
migliorato la capacità funzionale e la tolleranza all’esercizio47.
Con tutti i limiti dello studio (eccesso di dropout, endpoint primari basati su rilievi soggettivi e non obiettivi, numero limitato
di pazienti in classe NYHA II reclutati per avere delle risposte
veramente significative in questo sottogruppo), questi risultati
suggeriscono che esistono le basi fisiopatologiche per ritenere
appropriato il supplemento marziale nei pazienti con SC cronico, e il beneficio osservato anche nei pazienti non anemici dimostrerebbe come l’effetto non sia imputabile al solo aumento dei livelli di emoglobina48. Resta tuttavia ancora da indagare se la terapia marziale possa essere utile anche nei pazienti
con SC lieve o avanzato, se il trattamento orale possa essere
altrettanto efficace a costi inferiori e se il suo beneficio possa
estendersi in termini di ridotta ospedalizzazione e miglioramento della sopravvivenza.
Acidi grassi polinsaturi omega-3
L’assunzione di acidi grassi polinsaturi omega-3 (PUFA n-3) con
la dieta comporta un aumento delle concentrazioni di acido eicosapentaenoico (EPA) e docosaesaenoico (DHA) nel doppio
strato fosfolipidico di tutte le membrane cellulari inclusi i miociti, le cellule ematiche circolanti (eritrociti, piastrine, neutrofili, monociti), gli epatociti, ecc. Questo comporta un cambiamento nella struttura e funzione delle membrane, con un aumento della loro fluidità e permeabilità e una serie di effetti
biologici estremamente favorevoli. Per esempio, attraverso una
via di ossidazione enzimatica e una via di ossidazione “non enzimatica”, il metabolismo dei PUFA n-3 causa il rilascio di numerosi mediatori bioattivi con minore effetto pro-aggregante,
NUOVE TERAPIE PER LO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO
vasocostrittore e pro-infiammatorio49,50. Gli omega-3 sono anche in grado di modulare direttamente i canali ionici di membrana e indirettamente la trasduzione intracellulare dei segnali e dell’espressione genica attraverso la regolazione di numerosi fattori di trascrizione nucleare51. Gli effetti sopraelencati
concorrono, in diversa misura, agli effetti emodinamici, metabolici (metabolismo energetico e funzione mitocondriale), antinfiammatori e antiaritmici che potrebbero sottendere l’effetto benefico osservato nello SC52. I risultati positivi di alcuni studi osservazionali e clinici, ma soprattutto la pubblicazione dei risultati del GISSI-HF, che ha randomizzato più di 7000 pazienti
affetti da SC a 1 g/die di PUFA n-3 o placebo53, hanno portato
a considerare il possibile ruolo della supplementazione con
PUFA n-3 nel trattamento dello SC, in aggiunta alla terapia tradizionale2. Infatti questo trial ha fornito un’importante evidenza relativa al miglioramento della prognosi nei pazienti trattati
con omega-3: riduzione della mortalità totale del 9% e della
mortalità totale od ospedalizzazioni per malattie cardiovascolari
dell’8% rispetto al placebo. Rimangono tuttavia ancora da definire alcuni importanti aspetti relativi al ruolo di questo trattamento nei pazienti con SC, in particolare quale tipologia di pazienti possa beneficiare maggiormente del trattamento con
omega-3 e quale possa essere la dose ottimale da utilizzare.
Recentemente sono stati pubblicati alcuni lavori relativi al ruolo dei PUFA n-3 in pazienti con SC non ischemico. In particolare, nel nostro studio clinico randomizzato e controllato con placebo abbiamo analizzato gli effetti della supplementazione di
2 g/die di PUFA n-3 sul rimodellamento ventricolare e sulla capacità funzionale in 133 pazienti in condizioni cliniche stabili e
in terapia medica ottimizzata da almeno 6 mesi54. I risultati hanno mostrato che i PUFA n-3 possono agire favorevolmente sulla funzione ventricolare, sia sistolica sia diastolica, nonché sul rimodellamento ventricolare sinistro, sulla capacità funzionale e
sui livelli plasmatici delle citochine infiammatorie, con conseguente minore incidenza di ospedalizzazioni cardiovascolari e
per SC. Altri due studi hanno confermato gli effetti benefici
della supplementazione di PUFA n-3 sul rimodellamento ventricolare sinistro. Il primo è uno studio dose-risposta in cui Moertl et al.55 hanno arruolato 43 pazienti affetti da severa cardiomiopatia dilatativa ad eziologia non ischemica (FE <35%), in
classe NYHA III-IV, e li hanno randomizzati a terapia con placebo e 1 g/die o 4 g/die di PUFA n-3. Nel gruppo trattato con
PUFA n-3 al dosaggio più elevato è stato osservato un più significativo miglioramento della FE e della funzione endoteliale
ed una maggiore riduzione dei livelli plasmatici di citochine infiammatorie rispetto agli altri due gruppi. Questi dati non solo
hanno confermato i positivi effetti degli omega-3 sul rimodellamento ventricolare sinistro, ma suggeriscono che questo beneficio possa essere dose-dipendente55. Rupp et al.56 hanno dimostrato, in una popolazione di pazienti affetti da cardiomiopatia dilatativa ad eziologia non ischemica con caratteristiche
cliniche simili a quelle della popolazione inclusa nel nostro studio, che i livelli plasmatici di acidi grassi polinsaturi, in particolare del DHA, erano inversamente correlati al grado di disfunzione e rimodellamento ventricolare sinistro. Gli stessi autori
hanno evidenziato come nei pazienti affetti da SC sia presente
un deficit del pool di acidi grassi polinsaturi e un aumento di
quelli saturi, legato a una ridotta attività dell’enzima delta-5
desaturasi, enzima deputato alla creazione di doppi legami, ovvero alla creazione di molecole progressivamente più “insature”. Sulla base di queste evidenze si potrebbe supporre che tale tipologia di pazienti con disfunzione sistolica ventricolare necessiti di dosi maggiori di omega-3 per ottenere un maggiore
beneficio. Ulteriori studi saranno necessari per stabilire se, nell’ambito di una terapia “tailored” per ciascun paziente, la determinazione dei livelli plasmatici di acidi grassi possa essere
utile per stabilire un dosaggio ottimale individualizzato.
CONCLUSIONI
Negli scorsi decenni sono stati fatti enormi progressi nel miglioramento degli outcome nei pazienti affetti da SC cronico,
dapprima grazie all’introduzione degli antagonisti neurormonali e, in seguito, all’utilizzo dei dispositivi di resincronizzazione e dei defibrillatori. Tuttavia la prognosi di questi pazienti rimane gravata da un elevato numero di eventi soprattutto dopo un’ospedalizzazione per peggioramento del compenso
emodinamico. Accanto a una più completa inibizione dei sistemi neuroendrocrini, altri nuovi possibili target terapeutici sono stati oggetto di studio. Alcune nuove molecole hanno fornito importanti evidenze sugli outcome e sono state pertanto
introdotte nelle nuove linee guida europee dello SC. Per altri
nuovi trattamenti, invece, i promettenti risultati osservati su endpoint surrogati dovranno trovare conferma in studi clinici volti
a valutare il loro impatto su mortalità e ospedalizzazioni.
RIASSUNTO
Il trattamento medico ottimale dello scompenso cardiaco comprende farmaci in grado di migliorare i sintomi legati al sovraccarico emodinamico (diuretici) e di antagonizzare l’iperattivazione neurormonale (inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina,
sartani, betabloccanti e antagonisti recettoriali dell’aldosterone),
oltre all’impianto di dispositivi nei pazienti ad elevato rischio di morte improvvisa (defibrillatore) o con importante desincronizzazione
cardiaca (terapia di resincronizzazione cardiaca). Tuttavia, nonostante il significativo miglioramento prognostico ottenuto con i
trattamenti attualmente raccomandati dalle linee guida internazionali, il numero di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco acuto è in costante incremento con un conseguente impegno crescente in termini di risorse umane ed economiche. È diventato imperativo pertanto cercare di individuare altri possibili target terapeutici in fattori implicati nella patogenesi e progressione della disfunzione miocardica. Questo ha portato negli ultimi anni alla realizzazione di studi clinici volti a testare gli effetti sugli outcome mortalità e ospedalizzazioni non solo di farmaci in grado di garantire
una maggiore e più completa inibizione dell’attivazione neurormonale, ma anche di molecole agenti sulla frequenza cardiaca e
sul metabolismo del miocita.
Parole chiave. Insufficienza cardiaca; Metabolismo; Ospedalizzazioni; Terapia farmacologica.
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